Pineroloindialogo novembre2014

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Anno 5,Novembre 2014

INDIALOGO

Supple m e n t o d i I n d i a l o g o . i t , a u t o r i z z . N . 2 d e l 16.6.2010 del Tribunale di Pinerolo

A Pinerolo c’è resilienza ? Docenti universitari del Pinerolese /19. Intervista a Paolo Cozzo

Maurizio Trombotto, il pinerolotorinese consigliere comunale di Torino, presidente di Italia Nostra Pinerolo


Buone News A cura di Gabriella Bruzzone

nel 2019

Matera, capitale Europea della cultura È ufficiale: nel 2019 Matera sarà Capitale Europa della Cultura. I Sassi e la loro storia – diventati patrimonio dell’Unesco nel 1993 – ce l’hanno fatta e tra cinque anni saranno un modello culturale per l’Europa e per il mondo intero. Il percorso è iniziato nel 2012, con la candidatura e la costituzione del Comitato Matera 2019. Poi, poco meno di un anno per scrivere un progetto, valutato e selezionato da una commissione, composta dal Governo Italiano e da altre sette istituzioni europee, che si è occupata di pubblicare una short list preliminare. Trascorso quindi un altro anno, le città candidate presentano i progetti culturali nella loro completezza. Arriviamo dunque agli ultimi mesi del 2014 quando la Giuria preposta nomina ufficialmente la città prescelta. Dopo Firenze, Bologna e Genova, ecco che il testimone passa a Matera. In questi due anni però la città lucana non si è limitata a progettare e a riempire scartoffie burocratiche. Ha proposto iniziative culturali, ma soprattutto, come sostiene Joseph Grima direttore artistico di Matera 2019, non ha puntato solo sulla bellezza dei luoghi ma ha dimostrato di essere visionaria e innovativa. Probabilmente è questo che ha fatto ricadere la scelta proprio sulla

Basilicata: la città è legata all’arte dalla sua natura ma al contempo vive al massimo il territorio in cui è situata, riuscendo a valorizzare e coniugare l’alimentare, la storia, la tecnologia. Ed è proprio questo uno dei punti forti del suo progetto: far rinascere ciò che già c’è, come il teatro mobile realizzato vent’anni fa da Renzo Piano per la Biennale di Venezia e che il Comitato Matera 2019 vuole riportare a nuova vita. Matera si trasformerà lei stessa in un anfiteatro, in cui si alterneranno momenti culturali di vario genere. Pochi, avvisano i curatori, ma mirati. La cultura non sarà solamente protagonista, ma parte integrante. Sarà tutt’uno con la città, la sua economia e i suoi abitanti. Sarà partecipativa, in grado di coinvolgere italiani e stranieri con la stessa energia. Ancora, sarà sostenibile, a misura d’uomo e attenta all’ambiente. Ma sarà soprattutto una buona occasione per dimostrare che l’Italia, anche se con i suoi tempi, se la cava ancora bene con la cultura e non ha paura di lanciarsi in nuovi progetti. L’impatto sarà sicuramente determinante per delineare nuovi modelli culturali non solo in Europa ma a livello mondiale.

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wwwwAw Informazione e cultura locale per un dialogo tra generazioni

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|A Pinerolo c’è resilienza? Lo spunto per questo mini editoriale me lo ha dato una redattrice di questo giornale, che ha parlato di “100 città resilienti”, ma anche la conferenza di premiazione dei partecipanti al concorso Lyda Turck, dove c’era la resilienza alla base di alcuni elaborati, e pure il dialogo occasionale con l’assessore Boni, per la quale un po’ di resilienza nelle politiche sociali non sarebbe male. Da qui la domanda: Pinerolo è diventata improvvisamente una città resiliente? Mah... La definizione più semplice di resilienza l’ho trovata in Stefano Carnazzi, direttore di Lifegate, per il quale resilienza “è la capacità di resistere e riprendersi in modo accettabile da uno stress. È cambiamento adattativo, non è condizione statica, e può essere allenata e migliorata”. Il termine ha avuto origine nella tecnologia dei materiali, poi è passato nella psicologia come “capacità di far fronte agli eventi traumatici”, in biologia come “capacità di un organismo di autoripararsi”, in informatica come capacità adattativa di un sistema. Da ultimo è approdato al mondo ecologico ambientale come “capacità di un ecosistema, di una comunità vitale di resistere ai colpi, di attutirne gli effetti devastanti, di ritornare al suo stato iniziale, dopo una perturbazione che l’ha allontanata da questo stato” (S.Carnazzi). Ritornando alla nostra Pinerolo: È una città resiliente? Cioè è una città capace di assorbire i colpi che le sono stati inferti in questi ultimi anni: la perdita da ultimo del Tribunale e a breve dell’Agenzia delle Entrate, forse della Diocesi, oltre agli altri presidi di cui si è più volte parlato? E soprattutto capace di reagire, di rigenerarsi, di imboccare strade nuove? I dubbi sono tanti. Un autorevole cittadino, che abita a Prarostino, mi ha detto di recente che ai pinerolesi, pure agli amministratori, “a va bin parei”. Antonio Denanni PINEROLO INDIALOGO Direttore Responsabile Antonio Denanni Hanno collaborato: Emanuele Sacchetto, Valentina Voglino, Alessia Moroni, Elisa Campra, Gabriella Bruzzone, Maurizio Allasia, Andrea Obiso, Stella Rivolo, Andrea Bruno, Chiara Gallo, Cristiano Roasio, Nadia Fenoglio, Giulia Pussetto, Francesca Costarelli, Michele F.Barale, Chiara Perrone, Marianna Bertolino, Federico Gennaro, Isidoro Concas, Sara Nosenzo Con la partecipazione di Elvio Fassone photo Francesca De Marco, Giacomo Denanni Pinerolo Indialogo, supplemento di Indialogo.it Autorizzazione del Tribunale di Pinerolo, n. 2 del 16/06/2010 Associazione Culturale Onda d’Urto Onlus redazione Tel. 0121397226 - Fax 1782285085 E-mail: redazione@pineroloindialogo.it

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Buone News

matera, capitale europea della cultura

Politica giovane young

intervista a maurizio trombotto

Incontri

gli its: intervista a danilo chiabrando!

Primo piano

docenti del pinerolese/19: paolo cozzo

Giovani & Storia

il palazzo degli acaja

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pinerolo città della convivenza

Teatro

il jazz di fresu, martinale e tracanna

Serate di Laurea

enrico comba e valeria rolih

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gli orti sociali di baudenasca

Urbanistica & Architettura Uomini del Pinerolese

beppe pavan e gli uomini in cammino

16 Lettera a... l’imperialismo sanitario 17 Il Passalibro

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f.geda - se la vita che salvi è la tua

Per Mostre e Musei

l’arte di mirko carena

Visibili & Invisibili

la pace attraverso il diritto all’istruzione nuuovi dispositivi da polso

Vita internazionale

valentina paradiso a edimburgo

Musica emergente

majus

Cose dell’altro mondo

fondazione dell’onu e marcia su roma

Appunti di viaggio

quando il pellegrinaggio è il viaggio

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Amici di Pinerolo Indialogo

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Politica giovane young di Emanuele Sacchetto

Intervista al pinerolotorinese Maurizio Trombotto

«Pinerolo credo sia una delle più belle città del Piemonte» «Nel mio ruolo cerco di lavorare per l’unione di risorse tra Torino e Pinerolo»

Maurizio Trombotto, Presidente di Italia Nostra Pinerolo, è anche consigliere del Comune di Torino in conto Sel. Gli abbiamo chiesto come svolge il suo ruolo di “ponte” tra città e pinerolese. Per cominciare, da quanto tempo vive a Pinerolo e a che cosa è dovuta la sua scelta di risiedervi? Abito a Pinerolo dal 2010, dunque non da moltissimo tempo. Tuttavia, essendo la mia famiglia originaria del pinerolese, sono sempre stato innamorato della città di Pinerolo in particolare. Ecco allora che, in seguito a mutamenti famigliari, ho scelto di trasferirmi in questa bella città. In che modo il suo doppio incarico di presidente di Italia Nostra Pinerolo e consigliere comunale del Comune di Torino può essere una risorsa per il pinerolese? L’unione di risorse che si può ottenere da una sinergia tra Torino e Pinerolo è evidente e io cerco col mio ruolo di lavorare in questa direzione. Mi sono fatto promotore di alcuni tentativi di coinvolgimento del pinerolese e di Pinerolo in iniziative del Comune di Torino. Ad esempio, nell’ambito del progetto iniziato dal Sindaco Fassino di dedicare il 2016 al periodo medievale di Torino, sto cercando di farne un’iniziativa connessa con Pinerolo, il quale vanta peraltro un

patrimonio medievalistico storicamente più rilevante. Un altro esempio è la volontà di creare una stretta collaborazione tra il Teatro Stabile di Torino e il Teatro di Pinerolo, nell’ambito della produzione del Teatro Stabile stesso. Per restare poi in ambito più strettamente pinerolese, in merito al progetto dell’amministrazione del Polo culturale nella caserma Bochard, cerchiamo di portare a Pinerolo l’esperienza delle “case della cultura” di Torino. Come vede questa nostra città un pinerolese di importazione? Pinerolo credo sia una delle più belle città del Piemonte. La qualità della vita è di molto superiore a quella di Torino. Tuttavia, in questo momento è in declino, depauperata. Ha bisogno di essere rivalutata, esaltandone le qualità e bellezza. Da questo punto di vista, il fatto che Pinerolo sia rappresentata nella città metropolitana è un fattore positivo e spero ne permetterà la riqualificazione dell’identità. Parlando proprio di città metropolitana, pensa che possa essere un’innovazione positiva per il nostro territorio? Come dobbiamo prepararci al cambiamento? Proprio il 30 ottobre c’è stato il primo

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«A Pinerolo la qualità della vita è di molto superiore a quella di Torino»

incontro preparatorio che dovrà poi portare all’approvazione dello Statuto per il funzionamento della città metropolitana. Io guardo a questa innovazione come ad una sfida positiva. Bisogna viverla ed interpretarla per darne un giudizio. Certo il rischio che diventi una riproduzione delle vecchie Province con pressoché le stesse competenze c’è. Sarà compito di questi mesi di transizione individuare bene le competenze di questa nuova realtà, che potranno e si auspica andranno al di là di quelle delle vecchie province. L’aspetto positivo è che essa permetterà di gestire in modo più razionale ed efficiente il territorio, recuperando anche il rapporto con la cittadinanza. Ad esempio, tra le varie funzioni fondamentali di questa nuova entità vi è quella di “sviluppo strategico, economico e sociale del territorio metropolitano”. E’ evidente che questa, se ben realizzata, porterà grandi vantaggi per il territorio. Italia Nostra si occupa in questo momento principalmente di Palazzo degli Acaia e Turck. Quali sono le sue posizioni in qualità di Presidente? Il nostro ruolo è quello di stimolo, di pungolo nei confronti dell’amministrazione. In particolare, per il Palazzo degli Acaia stiamo portando avanti un progetto per evitarne il deterioramento. Questa iniziativa, a cui la soprintendenza ha già accordato parere favorevole, sarà finanziata dalla Compagnia di San Paolo, senza la necessaria partecipazione del Comune. In merito al Turck, stiamo portando avanti

un tavolo di discussione con il Comune e i proprietari dello stabile. C’è stato un concorso di idee per valutare la fattibilità di progetti diversi da quello di mero abbattimento per far posto a un’unica area residenziale con annessa un’area di verde pubblico e privato (proposta che aggrada maggiormente ai proprietari). L’idea di Italia Nostra è quella di valorizzare l’impronta di identità del luogo, come legame tra città e campagna. Molte idee sono emerse, tutte molto interessanti. Il nostro obiettivo è quello di far rientrare il progetto Turck nella “variante ponte”, cosa attualmente inspiegabilmente non prevista, vista l’importanza rivestita dalla zona. Parlare di recupero di aree urbane porta direttamente a uno dei problemi principali di Pinerolo: il centro storico. Come valorizzarlo? E’ necessario un ragionamento che permetta di renderlo più vivibile. Per realizzare questo ci sono più politiche da attuare: dalla pedonalizzazione, alle aree 30, alla centralizzazione delle attività commerciali e dei servizi (evitando la diaspora verso l’esterno della città). E’ necessario attrarre le attività ed elementi di vivacità (che non significa solo movida) e non solo farne una zona residenziale. Ci dà un giudizio sulla giunta Buttiero? E’ un problema di uomini o di idee? L’unica critica costruttiva che posso muovere è il difetto di essere, a mio avviso, eccessivamente provinciali. E’ necessario non concentrarsi solo su di sé. E da questo punto di vista, credo che l’avvento della città metropolitana potrebbe portare interessanti impulsi.

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Primo Piano

6 di Stella Rivolo

Intervista a Danilo Chiabrando, preside del Buniva

Gli ITS per «formare figure professionali altamente specializzate» «L’idea di fondo è di mettere inrelazione l’altaformazione tecnica della manodopera con le esigenze delle imprese» Se tutto andrà per il meglio gli ITS (Istituti Tecnici Superiori) arriveranno a Pinerolo a partire dal prossimo anno scolastico. Il Dirigente dell’Istituto Buniva, Danilo Chiabrando, ci ha creduto fin da subito e si è attivato per portare in porto il progetto. Lo incontriamo per approfondire il significato che questi nuovi corsi di formazione avranno per il Pinerolese.

Ci descrive che cosa sono gli ITS e a chi si rivolgono? Sono Istituti Tecnici Superiori che hanno l’obiettivo di formare figure professionali altamente specializzate: si tratta di corsi biennali rivolti ai diplomati, che rientrano in un progetto di istruzione che sta avendo un grande sviluppo in Italia. L’idea fondamentale è di mettere in relazione l’alta formazione tecnica della manodopera con le esigenze delle imprese del territorio; è auspicabile che da questo processo

possano svilupparsi anche le basi per una nuova capacità imprenditoriale, necessaria al nostro Paese per innescare la ripresa. In Piemonte a questo scopo sono già stati istituiti ITS specializzati in tre discipline. L’istituto Buniva è capofila della partnership che ha vinto il nuovo bando regionale, che apriva alla creazione di altri ITS in quattro settori: energetico, agroalimentare, turismo e biotecnologie. L’istituzione degli ITS prevede la formazione di una Fondazione in forma di partecipazione. Ci può spiegare di che cosa si tratta? E’ previsto che gli ITS si costituiscano in forma di Fondazione poiché questo modello organizzativo rappresenta una forma di tutela, anche a fronte dei finanziamenti ministeriali e regionali che vengono erogati per i progetti. La Fondazione deve infatti strutturarsi con un proprio statuto, per garantire la dovuta stabilità ai progetti e agli accordi tra le parti interessate e per diventare un polo attrattore sul territorio di nuovi stimoli e risorse, efficiente a livello organizzativo e sempre più autonomo sul piano finanziario. Come è nata l’iniziativa e chi sono i protagonisti coinvolti nel processo di istituzione dell’ITS a Pinerolo? L’idea è nata nel Pinerolese ed è entrata in sinergia con altri due progetti, uno dell’Astigiano, l’altro del Canavese. I soggetti dialoganti con i quali si è instaurata una prima intesa già nel 2013 sono stati il CFIQ, Pracatinat, il Comune di Pinerolo, l’En.A.I.P. Piemonte e l’ACEA. Queste risposte positive riscontrate sul territorio hanno dimostrato che esiste una forte volontà di


«I corsi interagiranno con il territorio per creare competenze professionali adatte alle esigenze imprenditoriali»

collaborare quando si tratta di operare secondo logiche “di sistema”. La Regione poi, pubblicati i risultati della graduatoria, ci invita come vincitori del Bando ad entrare in dialogo con altri progetti di istituti concorrenti nello stesso ambito disciplinare. Quali corsi saranno attivati? Il progetto che abbiamo presentato interessa il settore del risparmio energetico. Chiusa la partita degli accordi, i due corsi previsti per questo indirizzo dovranno formare le figure di Tecnico Superiore per il risparmio energetico nell’edilizia sostenibile e di Tecnico Superiore per l’approvvigionamento energetico e la costruzione di impianti. L’offerta formativa dell’ITS potrà poi essere ulteriormente articolata ed ampliata in fasi successive, in funzione delle necessità del territorio e delle disponibilità della Fondazione. Gli ITS sono scuole modellate sulla necessità del territorio, bisogno formativo dei ragazzi ed esigenze di manodopera qualificata delle aziende. Nel Pinerolese come interagiranno questi aspetti nei settori dei corsi attivati? I corsi interagiranno con il territorio per creare competenze professionali adatte alle attuali esigenze imprenditoriali. Rispetto a Pinerolo le figure di questi tecnici specializzati potranno tradursi in nuove opportunità per i diplomati negli indirizzi dell’Istituto Buniva e dell’I.T.I.S.. L’alta specializzazione è poi un requisito sempre più richiesto negli interventi di riqualificazione. Questa necessità è particolarmente sentita nell’edilizia, da sempre settore trainante dell’economia, che oggi deve ricercare nuove prospettive di azione per un possibile rilancio. Avete già qualche dato numerico sui potenziali iscritti e su aziende del territorio interessate ad investire in questo tipo di progetto formativo? Gli iscritti potranno essere al massimo venticinque per corso. Oltre agli accordi già stipulati, diversi studi professionali del Pinerolese di esperienza consolidata hanno manifestato interesse a diventare parte attiva in questo progetto. È vero che il titolo biennale che viene rilasciato alla fine del percorso di studi ha valenza europea? È vero. Questo aspetto rappresenta un elemento di grande novità. La Fondazione ITS ha sì carattere regionale, ma il titolo rilasciato ha validità in tutti i Paesi dell’Unione Europea.

Il modello di questi corsi è quello tedesco, lezioni e lavoro, con tirocini lavorativi retribuiti. È così o ci sono delle differenze? In linea di principio è così. Ma le due realtà vanno calate in modelli scolastici diversi. In Germania il sistema è “duale”: la formazione specialistica di tipo tecnico-professionale esclude la possibilità di accedere all’università. In Italia non è così e nel nostro modello di istruzione le sinergie attuabili per mettere in dialogo mondo del lavoro e didattica seguono percorsi differenti. In quest’ottica il progetto per l’ITS è coerente con una strategia più ampia adottata dall’Istituto Buniva, per la quale si sta costituendo un Comitato Tecnico Scientifico Consultivo composto da docenti, imprese e istituzioni. Anche alla luce dei corsi universitari ancora presenti a Pinerolo, esiste un’interazione tra ITS e mondo accademico o i percorsi sono alternativi? I due percorsi possono essere alternativi o paralleli. I dati sui corsi degli ITS già attivati indicano alti livelli di occupazione al termine dei percorsi formativi. Pensa che questi corsi di alto profilo professionale possano essere d’aiuto per invertire la crisi economica e occupazionale sul territorio e contestualmente fronteggiare il fenomeno della cosiddetta “fuga dei cervelli”? In un contesto di crisi gli ITS possono coadiuvare lo sviluppo dell’occupazione e reinventare l’imprenditorialità stessa. Rispetto al fenomeno della “fuga dei cervelli” si può dire che nei settori tecnici oggi è più che mai necessario un recupero di quei “cervelli”, intesi come competenze, che in momenti critici hanno storicamente saputo ricostruire il Paese. Gli ITS possono allora diventare uno strumento importante per far rientrare una cultura del lavoro di questo tipo nella scuola.

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Città & Università /19

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Intervista a Paolo Cozzo

Per rilanciare un territorio ricco di potenzialità bisogna andare oltre la memoria “Sono stato sindaco di San Secondo per 10 anni (dal 2004 allo scorso mese di maggio) e prima (dal 1995 al 2004) assessore: in tutto 19 anni” Ci racconti di sè, del suo lavoro e delle sue competenze in ambito universitario. Quando, nel 1991, dopo la maturità classica mi iscrissi alla Facoltà di Scienze Politiche, più di una persona mi disse che stavo sprecando il mio tempo. Quella facoltà, poco specializzante, non godeva di buona fama e a molti sembrava una sorta di ripiego. A me invece piaceva l’idea di un percorso universitario aperto, non troppo settoriale. Così, dopo il primo anno, assecondando la mia passione per la storia, scelsi l’indirizzo storicopolitico. Nel dicembre 1995 mi laureai e, pochi mesi dopo, vinsi una borsa della Facoltà per neolaureati. Da quell’esperienza ne vennero altre, per me sempre più importanti: una borsa al CNR, un’altra all’Istituto storico italo-germanico di Trento, poi il dottorato, l’assegno di ricerca e infine, nel 2007, il posto da ricercatore in Storia del Cristianesimo e delle Chiese, disciplina che attualmente insegno nel Corso di Laurea in Scienze Politiche e Sociali. Insieme alla docenza proseguo naturalmente l’attività di ricerca: data la mia formazione, mi interessa indagare soprattutto il rapporto fra religione e politica, chiese e società, fede e cultura in età moderna e contemporanea. Lei ha pubblicato di recente il libro “Andate in pace”. Ce lo riassume? È un libro di sintesi che cerca di ricostruire

la figura del parroco nella storia italiana dal Cinquecento ad oggi. Avendo a disposizione meno di 250 pagine ho dovuto privilegiare alcuni temi: fra questi, quello che mi sembrava più adatto a descrivere il parroco era il suo ruolo sociale, il suo essere (o meglio, divenire) nel corso dei secoli punto di riferimento delle comunità locali. Poche figure come quella del parroco hanno saputo imporsi come guide di coscienze umane e di corpi sociali, protagoniste nella vita spirituale e in quella pubblica del paese. Il parroco è l’esempio forse più concreto di un clero che, sia pur con molte difficoltà e fra mille contraddizioni, ha cercato di adattarsi alle trasformazioni imposte dalla storia, di interagire con un popolo, di entrare in simbiosi con esso, di essere insomma - per usare parole di papa Francesco - pastore «con l’odore delle pecore» Come storico del cristianesimo si è occupato solo del mondo cattolico o si è spinto in studi anche del mondo protestante, specie di quello valdese? Vivere nel Pinerolese consente di entrare in contatto diretto con la realtà valdese: ciò ha rappresentato per me un importante stimolo, non solo culturale ma anche scientifico. Ho dedicato diversi studi al tema del confronto fra cultura cattolica e cultura valdese, specialmente in età moderna e contemporanea: dall’uso


“Poche figure come quella del parroco hanno saputo imporsi come guide di coscienze umane e di corpi sociali” “antiereticale” di alcuni culti alla polemica antiprotestante sui giornali dell’Ottocento, dalla laicizzazione degli spazi pubblici all’apertura del tempio valdese di Torino nel 1853. Lei nel Pinerolese più che come docente universitario è conosciuto come sindaco di SanSecondo. Ci racconta di questa esperienza? Sono stato sindaco per 10 anni (dal 2004 allo scorso mese di maggio), e prima (dal 1995 al 2004) assessore: in tutto 19 anni. È stata un’esperienza bella e faticosa, densa di responsabilità e di soddisfazioni, che ha coinciso con le fasi più importanti (sia su piano personale che professionale) della mia vita. Non vorrei cadere nella retorica, ma credo che oggi quella del sindaco (specie di un piccolo paese, dove il valore delle relazioni umane è più forte dell’appartenenza politica) sia la figura che meglio rappresenta l’impegno pubblico, la coesione sociale, il rapporto fra le istituzioni e la comunità. In questo senso, fra il sindaco e il parroco vi sono molte analogie… E del resto, c’è una frase di un grande intellettuale del Novecento (don Pirmo Mazzolari) che, pure essendo stata scritta pensando ai parroci, funziona benissimo anche per i sindaci di piccole realtà come le nostre: «la giornata di chi serve un’idea senza legarvi un proprio tornaconto non finisce mai». Come amministratore quali sono state le maggiori difficoltà riscontrate? Quelle che tutti i sindaci lamentano: scarsità di risorse ed eccesso di burocrazia. San Secondo vuol dire anche Fondazione Cosso. Cosa significa questa presenza per il territorio? Significa molto, e non solo per San Secondo. Ricordo quando, all’inizio del mio mandato, il castello versava in pessime condizioni e sembrava non avere futuro. Poi, quasi provvidenzialmente, è arrivata la Fondazione Cosso con un progetto culturale serio e ambizioso, espressione di un mecenatismo ormai rarissimo. Il mio impegno, allora, fu quello di trovare un riferimento istituzionale adeguato: lo trovai nella Provincia di Torino, che si mostrò entusiasta nell’accompagnare quell’esperienza nascente. Oggi la Fondazione è una straordinaria opportunità per l’intero pinerolese, una preziosa risorsa del nostro territorio. Ci dà un giudizio sull’attuale situazione del Pinerolese? Può ancora trovare alcune sue specificità o è destinato a un ulteriore degrado lento e inesorabile?

Forse la crisi del Pinerolese parte da molto lontano, addirittura dal 1859 quando, perdendo la provincia (accorpata a quella di Torino) si trovò sprovvista di una forte struttura istituzionale. Eppure il secondo Ottocento e il primo Novecento hanno rappresentato, complessivamente, epoche di prosperità economica, di fermento culturale, persino di orgoglio identitario: in fondo è in quegli anni che si è formata una certa immagine della città (la città della cavalleria, del Galup, del Proton, dei “Pesi e Misure” ecc.) che ci portiamo ancora dietro e di cui ancora oggi coltiviamo la memoria. Il problema è che la memoria, da sola, non basta per rilanciare un territorio ricco di potenzialità ma impoverito sul piano produttivo, manifatturiero, imprenditoriale. E di questa situazione non penso si possa ritenere responsabile solo la politica, come spesso si sente dire. Veniamo anche all’ingombrante vicino, Pinerolo: qual è il rapporto tra i due Comuni? Oggi, come cittadino sansecondese, non ho molte osservazioni da fare; ieri, come sindaco, oltre a confermare rapporti di buon vicinato, avrei espresso il mio auspicio che Pinerolo diventi realmente capofila di un territorio non troppo omogeneo, che scelte a mio avviso poco oculate (ad esempio, la rottura dell’unità territoriale rappresentata dalla Comunità Montana) non hanno fatto che indebolire. In questa prospettiva, è chiaro che il banco di prova sarà la rappresentanza nel Consiglio della città metropolitana. La città metropolitana. Lei vive a cavallo tra la città e la provincia. Vede all’orizzonte una facile collaborazione oppure si è ancora troppo chiusi nel proprio provincialismo? Premetto che la riforma che ha portato allo svuotamento delle Province e, nel caso nostro, alla costituzione della Città metropolitana non mi ha convinto, anzi, mi è sembrata un’operazione dettata più dalla demagogia che dalla razionalità amministrativa. Detto questo, la collaborazione ci dovrà per forza essere; il problema sta nel capire come si tradurrà questo sforzo. Credo che per prima cosa andrebbe posta la questione delle infrastrutture, e in particolare il raddoppio della ferrovia. Ridurre i tempi di percorrenza significa avvicinare fisicamente Pinerolo a Torino: e questa è la premessa indispensabile – mi piace concludere con un po’ di ironia - per far uscire Torino dal suo provincialismo.

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Città

Giovani&Storia

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di Nadia Fenoglio

La riqualificazione del centro storico

Palazzo degli Acaja: la storia di un abbandono Uno dei cavalli di battaglia di Pinerolo Indialogo è sempre stato la valorizzazione del centro storico. E, come “principe” delle trascurate vestigia medievali della nostra città, il Palazzo degli Acaja meriterebbe certamente di più dell’attuale noncuranza di cui è oggetto. Una targa apposta sulla facciata di Via al Castello, l’antica Via dei Doreri zeppa di botteghe artigiane e asse di collegamento principale tra il Piano e il Borgo, ma nulla di più. Chiuso, non visitabile. Eppure si tratta del simbolo dello splendore medievale di Pinerolo, pervenuto fortunatamente fino a noi (pensiamo invece alla Cittadella distrutta, prigione della celebrata Maschera di Ferro). Insomma, un appiglio identitario forte che una città a rischio d’anonimato come la nostra non dovrebbe dimenticare. Ma andiamo con ordine: due cenni sulla storia. Il Palazzo dei Principi d’Acaja è con ogni probabilità l’unica ala sopravvissuta del ben più vasto Castello Nuovo, fatto erigere da Filippo I d’Acaja a partire dal 1318 come parlatoio o sala di udienza. Il salone al piano rialzato, con un bel loggiato nel cortile, conserva tracce di affreschi monocromi del XV secolo, di un certo interesse storico-artistico. Sono raffigurati episodi della vita di Amedeo IX il Beato,

vissuto in epoca rinascimentale, che pare vi abbia soggiornato; imprese dei Cavalieri di Rodi, soldati sabaudi impegnati nelle crociate contro i Saraceni; l’entrata vittoriosa del duca Carlo I in Saluzzo; il leggendario eroe romano Marco Curzio di fronte al crepaccio ardente. Un piccolo patrimonio locale che richiederebbe un intervento di restauro immediato. Ma il Palazzo era anche sede della corte, “vetrina” sul mondo. Durante il Medioevo queste mura ospitarono personaggi di notevole importanza, anche su scala europea. Le cronache conservano memoria dei cortei di imperatori, re e nobili di ogni rango che furono ricevuti alla corte degli Acaja. Tra di essi, è da ricordare, per fastosità, quello dell’imperatore di Bisanzio Andronico III Paleologo nel 1325, che qui soggiornò per prendere in sposa Giovanna di Savoia. Il Palazzo ospitò, inoltre, nel 1332 Giovanni I di Lussemburgo, re di Boemia; nel 1403 Teodoro II Paleologo; nel 1417 Lodovico, Conte palatino ed Elettore di Baviera. Per noi sono solo nomi, forse. Ma per l’epoca doveva trattarsi di personalità di grande rilievo (come se la Merkel soggiornasse a Pinerolo!). Durante la prima dominazione francese, dal 1536 al 1574, il Palazzo fu incamerato dal Demanio, ma sembra che i principi d’Acaja siano potuti tornare a soggiornarvi durante le occasionali visite a Pinerolo, dopo il recupero dei propri domini a partire dal 1577. Passò poi in proprietà alla famiglia Borsieri, ma venne presto acquistato, poco prima del 1683, dal Capitolo di San Donato per ospitarvi l’Ospedale nuovo, detto di San Giacomo. Nel 1801 l’Ospedale fu però trasferito nell’ex Collegio dei Gesuiti, contiguo all’odierna Chiesa di San Giuseppe. Infine, il Palazzo ospitò ancora l’Ospizio dei catecumeni valdesi fino al 1894, quando venne chiuso per mancanza di fondi. È oggi di proprietà del Comune di Pinerolo. Sembra di leggere, tra le mura del Palazzo degli Acaja, la storia di un progressivo abbandono. Lanciamo quindi dal nostro giornale un nuovo appello: quanti giovani laureati in Tecnologie per la Conservazione e il Restauro o in Beni Culturali o in Storia dell’Arte vi potrebbero lavorare?


PINEROLO

Lettere al giornale di Elvio Fassone

Pinerolo città della convivenza

Le decapitazioni sanguinose, il terrorista della porta accanto, l’assedio infinito di Kobane, la minaccia di portare la guerra in ogni angolo del mondo: si avverte la necessità di fare qualcosa per fermare quella che è stata definita la terza guerra mondiale combattuta a pezzi sparsi; qualcosa che non siano i soliti bombardamenti e altri morti. Ma che cosa? Per quelle associazioni di pensieri, che sono strambe ma talora fruttuose, l’idea incrocia la nostra città. Pinerolo, come è noto, è diventata proprietaria degli edifici già militari noti come caserma Bochard, ed è iniziato il carosello sulla funzione da assegnare agli immobili. Ferve la discussione se convenga destinare due lati del quadrilatero a edilizia residenziale, passaggio ritenuto inevitabile per ottenere le risorse necessarie a ristrutturare gli altri due. Il sacrificio è forse pesante ma è necessario, sostengono gli uni; è forse necessario ma sicuramente orrendo, replicano gli altri. Allora perché non capovolgere il dilemma? Se occorre cedere 2 pezzi della scacchiera su 4, e fare ben poca cosa con i 2 che residuano, perché non trattenere tutti e 4 i pezzi e impiegarli per un progetto di ampio respiro, cercando altrove i quattrini? Facile l’obiezione: i quattrini dove li prendiamo, se non si monetizza una parte del suolo? Anche la replica non è peregrina: ci sono fondi che servono proprio a questo, a sostenere dei progetti che abbiano nerbo e sostanza. Ci sono fior di professionisti che sanno come si fa e dove si trovano le risorse, l’Europa, i dicasteri interessati, le fondazioni e il resto. Ma già si affaccia la seconda obiezione: questa è la tipica fuga in avanti, il rinvio alla pianta degli zecchini d’oro, da scuotere con le belle parole. Può darsi. Ma può essere anche il contrario. Si potrebbe pensare, ad esempio, che il declamato “polo culturale” continui bensì ad assemblare i vari pezzi sparsi della città, che è cosa senz’altro utile, ma diventi anche il “luogo” di un’iniziativa che non c’è da altre parti, il focus di un progetto inter-

culturale nello spirito di cui si è detto in premessa: questo sì, potrebbe essere il perno capace di smuovere i guardiani dei quattrini necessari. Proviamo a pensare a un dialogo permanente tra le religioni e le culture diverse oggi presenti in Italia: una sorta di Firenze-La Pira più modesta ma non meno dinamica, giusto per non vedere da una parte solo i taglia-gole e dall’altra solo i respingimenti. Pensiamo ad una compresenza stabile delle diverse culture, giusto per dare un aiuto a quell’Islam moderato che è l’unica risorsa vera contro i fanatismi e i terrorismi casalinghi; giusto per utilizzare l’esperienza che abbiamo in casa, di un ecumenismo collaudato, di un confronto fra culture che non pretendono di scannarsi, ma di arricchirsi l’una con l’altra. E poi, sullo slancio, proviamo a pensare di raccogliere documenti di buone pratiche di convivenza in tutta Italia; a organizzare incontri periodici di reciproca informazione e conoscenza; a stilare una Carta dei diritti e dei doveri reciproci: come l’impegnarsi a pagare le giuste mercedi ai lavoratori immigrati, e a rovescio diffondere la cultura della legalità, della parità tra uomo e donna, della tolleranza e della laicità delle istituzioni. E poi, magari, nel quadrilatero mettere anche i corsi di alfabetizzazione primaria per gli immigrati (e per le donne immigrate, soprattutto) che non conoscono la lingua, e ancor meno i fondamentali delle istituzioni. E raccontarsi reciprocamente la propria letteratura, la propria arte, la propria musica, la propria storia. Lo so che si fa già, qua e là, dove uomini e donne di buona volontà si sforzano di abbattere steccati. Qui da noi si tratterebbe di farlo in modo stabile, istituzionale, con quell’intreccio di pubblico e privato che quando funziona è autentica vitamina sociale, e quella promozione che può fare della nostra città una piccola capitale. Pinerolo città del cavallo è una buona cosa. Città della convivenza può essere persino meglio.

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arte& olo spettac

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Teatro di Sara Nosenzo

un successo l’inizio di stagione del sociale

Il jazz di Fresu, Martinale e Tracanna

La locandina di Jazz Visions, gli strumenti musicali, l’installazione artistica sullo sfondo sono le prime immagini che si assaporavano entrando nel Teatro Sociale di Pinerolo sabato 25 ottobre. Le luci sono accese e le persone prendono posto scambiandosi saluti e sorrisi. Nella platea si sente un sentimento di rilassatezza e desiderio di immergersi completamente nella musica. Si spengono le luci e dopo una concisa introduzione i musicisti prendono posto, si scambiano uno sguardo d’intesa e la magia del jazz comincia… Una musica nostalgica quanto calda e appagante avvolge la platea. Il jazz ha lo stesso calore di una coperta in una serata di dicembre: ti avvolge, ti conforta, ti lascia viaggiare con la mente, tenendo il corpo fermo sulla sedia e le gambe, come impazzite, muoversi a tempo. Le persone, in rigoroso silenzio, vengono rapite dalla musica e persino i fotografi, sparsi per il teatro, si soffermano a tratti per ascoltare i pezzi proposti dal leader del Trio Luigi Martinale. Per la serata, oltre al talentuoso trio, composto da Paolo Franciscone, Mauro Battisti e Luigi Martinale, vi erano due ospiti d’eccezione: Tino Tracanna ai sassofoni e Paolo Fresu alla tromba e flicorno, che hanno reso i brani più ricchi e dotati di un forte sapore jazz, profondo e sincero. Aprire una stagione teatrale con un concerto spumeggiante come questo non è semplicemente un’ottima scelta, ma piuttosto un messaggio molto importante: dove c’è

duro lavoro e un gruppo solido, c’è successo. Ho prestato molta attenzione non solo alla musica in sé, ma al modo in cui veniva eseguita: in ogni brano un artista trovava il suo spazio, il suo assolo, per esprimersi al meglio e questa non è stata una scelta di cortesia, ma di stima e rispetto palpabili, da artista ad artista. La musica, di brano in brano, accentuava un sentimento, un sapore per così dire che gli artisti volevano trasmettere. Il concerto è stato un forte atto di comunicazione, un dialogo sincero con una forma d’arte che non ammette bugie. Lo spettacolo, gradito dal pubblico che riempiva interamente il teatro, non si è concluso con i brani in scaletta: sono stati richiesti ben due bis agli artisti, che si sono prestati di buon grado ai desiderata del pubblico. Un ulteriore applauso è stato attribuito all’artista e scenografo Michelangelo Tallone, che con le sue forme “saettanti” e i cerchi riflettenti portavano lo spettatore ad immergersi nello show ancora prima che la musica cominciasse effettivamente. Oltre alla musica, le sue forme donavano un’altra dimensione alla melodia, quella del colore, visibile e palpabile. Il concerto jazz di apertura della stagione teatrale 2014/15 è stato come una carezza in tarda serata, un bicchiere con cui brindare, un ricordo di un passato lontano. È stato la scelta migliore per questo primo spettacolo e si spera che gli altri siano allo stesso livello, e vedendo il programma sembra essere proprio così.

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società

Serate di Laurea a cura di Gabriella Bruzzone

Nuove Tecnologie dell’arte e Biotecnologie mediche con Enrico Comba e Valeria Rolih

Il fotogiornalismo di guerra

Test su un vaccino anti-tumorale Venerdì 24 ottobre abbiamo inaugurato la quinta stagione di Serate di Laurea, presentando la tesi di Enrico Comba, laureato all’Accademia Albertina di Belle Arti in Nuove tecnologie dell’arte, e il lavoro di Valeria Rolih, laureata magistrale in Biotecnologie Mediche. Enrico ha introdotto il suo elaborato, dal titolo Il fotogiornalismo di guerra. Da Robert Capa al m o n d o digitale, illustrando il sito realizzato Enrico Comba s u i fotoreporter di guerra. Diviso in tre sezioni, ognuna dedicata a un periodo storico differente, il sito offre sia una parte biografica sia una parte fotografica. Tra i lavori scelti, le fotografie di Robert Capa, Henri CartierBresson, Tony Vaccaro, realizzate durante la guerra civile spagnola, la seconda guerra mondiale e la guerra in Indocina. Arrivando ai giorni nostri, invece, notevole è il lavoro svolto da due fotoreporter italiani e giovanissimi, Bucciarelli e Di Lauro, impegnati a documentare il difficile momento vissuto dal Medioriente. Con la diffusione del web, anche la figura del fotogiornalista cambia e si adatta alle

nuove tecnologie. La macchina fotografica digitale ha sicuramente avuto effetto sul lavoro del reporter, migliorandolo e velocizzandolo. Valeria Rolih ha invece illustrato il suo lavoro durato due anni, svolto in collaborazione con l’Università di Parma. Test preclinici di un vaccino b a s a t o sull’herpes b o v i n o di tipo 4 utilizzato per la cura del tumore alla mammella E r b B 2 + riguarda lo studio condotto sull’herpesvirus bovino 4, proposto Valeria Rolih come vettore per la vaccinazione anti-tumorale, data la sua ridotta patogenicità e assenza di oncogenicità dimostrata. Il vaccino è stato testato a due differenti stadi tumorali. I risultati ottenuti sono buoni, tanto da poter consentire lo sviluppo futuro di nuovi protocolli immunoterapeutici, eventualmente applicabili alla realtà clinica. Requisito fondamentale per la formulazione del vaccino è una produzione semplice, vasta ma economica. La prossima Serata di Laurea sarà venerdì 28 novembre, alle ore 18

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Arte&Architettura

Anche a Pinerolo

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di Riccardo Rudiero

Gli “orti sociali” di Baudenasca “Un supporto per l’autosostentamento, ma soprattutto una didattica di recupero sociale” Quello degli orti urbani è un fenomeno che sta prendendo piede con grande velocità in tutto il mondo: secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, più di 800 milioni di persone nel globo praticano questo tipo di agricoltura, contribuendo dal 15 al 20 % della produzione mondiale di cibo. Tale fenomeno ha naturalmente coinvolto anche l’Italia, e Pinerolo non ne è certo esente, con la nascita da ultimo di alcuni orti in frazione Baudenasca. In generale, molto spesso la coltivazione di un orto urbano può considerarsi una tendenza modaiola, non più di un hobby (a volte non proprio alla portata di tutte le tasche) che ha però l’indubbio vantaggio di portare sulle tavole verdura fresca di stagione e di riavvicinare alla terra. L’iniziativa pinerolese è retta da motivazioni e su meccanismi profondamente differenti. Anzitutto, non si parla di “orti urbani”, ma di “orti sociali” (identificati dalla sigla di “Agritorino Onlus”, che racchiude diverse realtà socioassistenziali della provincia), nei quali l’elemento relazione ha il ruolo preminente. In seconda battuta, gli orti sorti a Baudenasca nascono per dare soluzioni concrete a un’esigenza primaria – la necessità di cibo – per la sussistenza di diverse famiglie in difficoltà. Sussistenza, una parola che il mondo consumista in cui viviamo legge attraverso una sfumatura antimoderna e retrograda, mentre invece è l’autoproduzione che dà dignità e può essere al contempo una risposta ai problemi economici di molti. A Baudenasca l’iniziativa si è concretizzata utilizzando un grande campo che versava da anni in condizioni di abbandono e che è stato ceduto in uso gratuito da Suor Edvige all’associazione Il Buon Samaritano. È stato suddiviso in vari comparti dotati di tutto quanto necessario, dalle cisterne per l’acqua agli attrezzi per la lavorazione del terreno. Inizialmente, ciascun appezzamento era stato

assegnato a persone in difficoltà economiche, che provvedevano alla sua conduzione; la sperimentazione non ha però avuto il successo sperato – anche per oggettive difficoltà quali il raggiungimento della frazione – e l’organizzazione è quindi stata rimodulata basandosi sul lavoro dei volontari dell’associazione “Il Buon Samaritano”, che provvedono alla coltivazione e poi alla distribuzione dei prodotti ricavati nel territorio del pinerolese. «Con questa iniziativa degli orti si vuole uscire dalla logica dell’assistenzialismo - sottolinea Rinaldo Canalis del Sermig, tra i fautori dell’iniziativa - per puntare all’autosostentamento e alla dignità attraverso la valorizzazione del lavoro». Perché coltivare un orto non è solo un fatto di fatica, ma anche e soprattutto di cultura. A parte le conoscenze tecniche, insegna anche a rispettare i cicli della natura e la stagionalità, aumentando i non secondari benefici di una alimentazione varia e sana. «In questi orti continua Canalis - vi è una vera e propria didattica del sociale oltre a un riavvicinamento alla terra». I corsi organizzati dal Sermig, a Torino come a Cumiana e Piossasco sull’apicoltura e l’orticoltura, raggiungono cifre sempre più importanti (che si aggirano sulle centinaia di persone in città e sulla cinquantina fuori). «Ma la cosa più importante non è fornire dei saperi, ma creare relazioni, creare rete», afferma ancora Canalis. Un orto sociale, quindi, ancora più di uno urbano, ha il triplice vantaggio di rispondere a esigenze concrete, far aumentare la solidarietà e i rapporti interpersonali e, non ultimo, recuperare aree marginalizzate che tornano così ad avere un ruolo nello scacchiere cittadino. Quest’ultima funzione può diventare anche una sfida per l’amministrazione comunale, che si dichiara attenta all’argomento: perché non dare un maggior peso agli orti urbani e sociali, anche nella futura revisione del PRG?


Società

Uomini del Pinerolese di Sara Nosenzo

Intervista a Beppe Pavan

“Uomini in cammino” Per bilanciare la rubrica “Donne del Pinerolese” ne abbiamo confezionata anche una al maschile che si alternerà con quella sulle donne. Non potevamo non cominciare con Beppe Pavan, che ha fondato un’associazione di soli uomini, “Uomini in Cammino”

Ci racconta qualcosa di sé? Il mio è stato un percorso molto vario nella vita perché ho iniziato con l’idea molto radicata di fare il prete, per undici anni sono stato in seminario anche con l’obiettivo di andare in missione. Nel ’68, non convinto che quella fosse la mia strada, ho chiesto di poter fare un’esperienza di fabbrica e infatti non sono più tornato in seminario. Ho iniziato a far parte dei gruppi di quartiere e sono entrato nel sindacato. Nel ’73 ho iniziato a lavorare per la Cisl di Pinerolo, che ho poi lasciato per la Coap, finendo poi i miei ultimi anni di lavoro in un asilo per persone anziane a Torre Pellice. Ci può raccontare qualcosa dell’esperienza pinerolese del ‘68? Il ’68 io l’ho vissuto abbastanza di straforo perché quando sono entrato in fabbrica venivo dal seminario quindi un ambiente in cui si sapeva e si leggeva poco su quello che succedeva fuori. Ho partecipato al Movimento Studenti Cattolici che c’era a Pinerolo cercando di capire, anche perché Pinerolo, secondo me, ha avuto una mobilitazione di tante associazioni e gruppi degna di nota. La mia formazione da seminario, però, mi spingeva a essere più un ascoltatore e quindi la mia difficoltà era davvero sentirmi uno come tutti. Veniamo agli “Uomini in Cammino”. Che cos’è questa associazione e come è nata? Mia moglie, dopo qualche anno che eravamo sposati, mi ha chiesto di cambiare le mie abitudini. I cambiamenti non sono stati eclatanti anche perché sapevo che da solo non potevo cambiare gli orari del sindacato così da poter stare più tempo a casa, ma ci sono stati comunque dei miglioramenti. Ho iniziato a pensare che dovesse esserci un cambiamento

di tutti gli uomini, del genere maschile, così da poter supportare le donne ed essere mariti e padri al meglio delle nostre possibilità. Bisognava quindi creare un gruppo di uomini che nel ’93, tramite la Comunità di base, inizialmente solo amici, ha iniziato a parlare di argomenti che normalmente gli uomini non affrontano perché educati ad essere senza paure e debolezze. Le esperienze di vita, i problemi profondi e le emozioni in questa maniera vengono affrontati partendo dalla condivisone di ognuno sulla base di ciò che si è vissuto. Si è imparato così non solo ad ascoltare, ma anche a parlare quando viene il proprio turno. Il gruppo inoltre è aperto a chiunque: in questi ventuno anni sono passati più di cento uomini di tutte le età, con gli ultimi tempi sono arrivati anche dei giovani. Lei fa ancora parte della Comunità di Base, ci ragguagli sull’oggi… Di recente abbiamo avuto due problemi: la sede della Comunità di base è cambiata spostandosi negli spazi del FAT (n.d.r. famigliari e amici di tossicodipendenti) dove si riunisce anche il Gruppo Uomini; il secondo è stato una separazione all’interno della Comunità: una parte ha seguito don Franco, mentre altri membri hanno dato vita ad un’altra Comunità di Base sempre a Pinerolo. Si è interessato anche all’alimentazione naturale… Inizialmente era un’esperienza diretta di lavoro con la Coap, che poi si è trasformata in uno stile di vita: casa nostra era diventato un ritrovo per gustare questi sapori di differenti regioni quali vino, frutta e carne perché il camion scaricava nel mio cortile la merce e le persone che l’avevano acquistata venivano a prendersela alla sera. Questa esperienza è poi proseguita nel Gas (Gruppo di acquisto solidale). Un pensiero su questa città? A partire da un episodio tragico vevamo proposto al Comune un progetto invitando le istituzioni a riflettere sulle relazioni che ogni persona di una comunità intrattiene. Sul territorio dovrebbero esserci dei punti di appoggio per aiutare le persone con i loro sentimenti e relazioni. Non c’è stato alcun seguito.

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Lettera a...

dal tempo

di Cristiano Roasio

Lettera a...

L’imperialismo sanitario Premessa: questo scritto di seguito si basa esclusivamente su considerazioni personali, pertanto in questa paginetta il contenuto non può essere letto con pretesa scientifica, in quanto gli argomenti trattati esulano dal mio campo di ricerca (ebbene sì mi piace pensare che ricerco pure io qualcosa, i finanziamenti sono privati, ovvio, facciamo pure i nomi di questi enti ai quali devo molto: E.G.O. S.n.c. risparmi personali s.p.a. e mammaepapà associati) né tanto meno rappresenta il punto finale e didattico di problematiche nelle quali mi sono impegnato nel corso dell’esistenza... ma non sarà che se ci hai li spicci di ebola ci guarisci? Ebola: che paura, il solo nome già evoca bolle (che non ci sono), brulicare (non brulica il virus manco lo si vede) e Tom Clancy. La prima volta che mi sono imbattuto nella tremenda malattia è stato in un libro, tredicenne alla ricerca di emozioni forti in fanta-thriller politici, dove terroristi (russi o islamici... oibò) spandevano dagli impianti di areazione proprio il famigerato virus, modificato in modo da diffondersi per via aerea (prima verità assodata: non è così), seccando un bel numero di sporchi occidentali. Ed ora eccolo li, siamo quasi a diecimila morti. Praticamente tutti in Africa. In Europa pare che ci si possa curare (seconda verità assodata, per ora: ci si può curare). E siamo da capo. Non è ancora questa la scrollata definitiva del pelo di Madre Natura. Certo il vaccino non è previsto prima del 2016 (terza verità assodata: ogni malattia ha la sua cura. Non è detto che questo sia sempre un bene) ma vuoi la sicurezza ai confini, vuoi la disponibilità occidentale di mezzi, medici e ricerca, vuoi la casualità, vuoi semplicemente che il giornalismo usa i virus come i cineasti

gli zombie, non mi sembra di essere di fronte alla pandemia. Attenzione potrei sbagliarmi (quarta verità assodata: tutto quanto detto non è dimostrabile, quanto detto da tutti, non solo da me), ma l’impressione, forse ancor più tragica perché non ci accomuna ma ci differenza ulteriormente, è che questa tremenda malattia sia la classica facies hippocratica (quinta verità assodata: usare il latino fa figo), e cioè la faccia morente di un divario materialista che va sotto il nome di imperialismo, quel vecchio lubrico che non muore mai e si rinnova sempre, una sorta di vaiolo per gli indiani d’America. Certo non sto dicendo, come certi invasati che sicuramente stanno meglio di me perché almeno vedono il caos del complotto e non solo il complotto del caos, che l’ebola TM sia un copyright sulle coperte USA per rallentare l’avanzata islamica, ma che anche nel modo di contrarre le malattie e, soprattutto curarle, ci siano delle differenze macroscopiche determinate dal denaro. Marxismo sanitario: può essere. Ovvietà: sicuro. Eppure mi premeva dirlo perché leggo di psicosi, madri che ritirano bimbi dall’asilo, politici che rinforzano le loro idee contro l’immigrazione, imbecilli che riflettono se la mano che hanno toccato è di un altro colore (sesta verità assodata: non sono immune al virus della stupidità) e così via. Insomma mi pare proprio che così come il sottoscritto ha molte più possibilità di morire per il cancro o il colesterolo, un africano ha molte più possibilità di morire di fame e malattie contagiose. La differenza è che io posso scegliere, lui no (settima verità assodata).

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Il Passalibro

Società

di Valentina Scaringella

Fabio Geda e la fuga

“Se la vita che salvi è la tua” Siete soddisfatti della vostra vita? Dove vi ha portato la strada che avete intrapreso? E lungo il percorso, vi siete mai persi? Per capirlo vi può aiutare il trentasettenne Andrea Luna, il professore precario di arte protagonista dell’ultimo romanzo di Fabio Geda, Se la vita che salvi è la tua edito da Einaudi. A volte, per lasciare tutto e tutti e partire, si aspetta soltanto il giusto pretesto. Da addurre in primis a se stessi. Così Andrea, in crisi con la moglie, si dice che il suo a New York non sarà nulla di più di un breve soggiorno finalizzato alla visione di una mostra, ma finisce poi col perdersi – o col ritrovarsi – dentro un quadro del Met.

In cerca del personaggio in cui identificarsi, stringe nuovi legami. In un continuo passaggio da quella che è la prospettiva dei figli a quella che è la prospettiva dei padri. Perché questa è anche la storia di una genitorialità mancata e di una generazione a cui chi l’ha preceduta ha raccontato la bella favola di un indiscutibile futuro di prosperità e benessere. Quando Andrea sembra aver infine raggiunto la sua meta, entra però di nuovo in gioco la vera protagonista di questo romanzo: l’inquietudine. Lo ritroviamo così in Italia, dove scopre che il mondo che

aveva lasciato non era rimasto lì inerte ad aspettarlo. Qui – come sempre altrove – gli viene tesa una mano. I personaggi di Geda ci appaiono infatti soli, ma di fatto non sono mai tali. Anche se per salvare la propria vita rischiano di spezzarne altre, per usare un’espressione di Renzo Sicco. Andrea riesce così a rimettersi in viaggio, verso la sua vera casa. Quel soggiorno a New York, divenuto da breve lunghissimo, lo aveva però trasformato in un clandestino. Condizione che ne rendeva impossibile un secondo. Per questo motivo lo seguiamo tra i polleros messicani, i trafficanti d’uomini in azione lungo la frontiera tra Messico e Stati Uniti. Vi pare strano? Sappiate allora che gli italiani clandestini all’estero sono più di 500 mila! L’autore si è pertanto ispirato a una triste realtà. E Andrea riuscirà a sopravviverle? Troverà, questa volta, lì ad attenderlo ciò che aveva lasciato? A voi scoprirlo. Come il piacere dato dalla scorrevolezza del racconto e dal riuscire a reperire le tracce dei modelli letterari del romanzo: da quelle lasciate da Flannery O’Connor e da Luis Alberto Urrea a quelle impresse da Pirandello e da Omero, volontarie o involontarie che siano. Io credo d’aver scovato quelle di un diverso Vitangelo Moscarda. Non è infatti l’esser centomila anziché uno a far sentire il protagonista nessuno, ma è l’esser uno e uno soltanto a metterlo in crisi. Andrea è uno in cerca dei tanti sé, del centomila! E la sua inquietudine è quella di chi cerca strade e identità altre. È quella di chi anela al mutamento. È quella che, almeno una volta, avrete forse provato anche voi. Se è così, che cosa aspettate a riviverla? E se non è così, perché non sperimentarla ora con Andrea Luna?

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Per Mostre e Musei

società

di Chiara Gallo

Mirko carena

“La mia arte rappresenta il mio modo di agire” Mirko Carena ha 22 anni, studia all’Università di Torino, ma nasconde una grande passione per l’arte. Lo scorso settembre la sua prima personale presso l’Associazione 3A di Pinerolo, un piccolo successo più che meritato. Abbiamo quindi cercato di sapere qualcosa in più riguardo a questo giovane artista che sta ora sviluppando il proprio stile. Parlaci un po’ di te. Come hai cominciato il tuo percorso artistico? Ho iniziato nel 2011 dipingendo delle lamine di metallo, il mio primo lavoro è stata la figura di un signore con cappello. Ho aspettato il 2013 per realizzare la mia prima tela, si tratta del piccolo dipinto “Genesi (1-4)” In che modo la tua arte ti rappresenta? La mia arte rappresenta il mio modo di agire, molto impulsivo, vivo, gettando fuori da me sentimenti, parole e pensieri. I colori sono “lanciati” sulla tela: talvolta per creare una tela impiego pochissimo tempo. Sono una persona vivace, amo i colori, talvolta i forti contrasti di colore che si vengono a creare in natura cerco di riportarli sui dipinti. Penso che la mia arte rappresenti appieno il mio modo di vivere la vita e di pensare. Descrivi con tre aggettivi una tua opera Potrei utilizzare come esempio la tela “Notte d’Estate”. Vivace perché il dipinto è ricco di colori, è vivo e sembra che le macchie siano in continuo movimento con piccoli schizzi che diventano via via più visibili avvicinandosi alla tela; armoniosa, in quanto sembra che, nonostante la caoticità del tratto, non vi sia alcuna macchia “fuori posto”; infine densa, non

tanto per la pastosità dei colori in sé ma per il significato intrinseco che posso dare allo stesso Ci sono artisti del passato o del presente che ammiri in modo particolare e a cui ispiri la tua arte? Artisti del passato che ammiro sono senz’altro Gustav Klimt e Jackson Pollock. Direi che in un certo senso la mia arte si ispiri a quest’ultimo per l’utilizzo dell’azione di action painting. Pochi conoscono Louise Dear, pittrice londinese che ammiro molto e che ho scoperto casualmente sul web. Inoltre sono a stretto contatto con un’artista araba, Sara “Safsho”, che realizza lavori simili ai miei, con la quale è nata una forte amicizia. La tua prima esposizione è stata presentata alla fiera dell’artigianato presso l’associazione 3A. Di che cosa si tratta? Com’è andata? La mostra trattava la nascita e il proseguimento fino ad oggi di tutta la mia arte. Erano presenti sia i miei primi lavori su lamine di metallo, sia gli ultimi dipinti realizzati pochi giorni prima della mostra. Direi che è andata molto bene, ho avuto una discreta affluenza, merito sicuramente della fiera dell’artigianato e della visibilità che gode lo studio d’architettura Associazione 3A che ovviamente ringrazio per l’opportunità data. Progetti artistici per l’imminente futuro? Attualmente sono in un periodo di pausa, devo cercare di conciliare gli studi universitari con la mia passione artistica. Attualmente diciamo che sono alla ricerca di nuove ispirazioni per l’anno che verrà.

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diritti umani

Visibili & Invisibili

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gruppo giovani amnesty international

La pace attraverso il diritto all’istruzione Come ogni anno il mese di ottobre ha visto l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace. Amnesty International ha accolto con gioia la vittoria di Kailash Satyarthi e della giovane Malala Yousafzai, impegnati nella lotta per i diritti di bambini e giovani. In particolare la

dedizione con cui la diciassettenne Malala si è battuta a favore del diritto all’istruzione ha destato l’ammirazione di organizzazioni e attivisti di tutto il mondo. Nata e cresciuta nel distretto dello Swat in Pakistan, Malala è divenuta famosa grazie al blog che scriveva sotto pseudonimo. Mentre

il regime talebano avanzava nell’occupazione della regione, l’undicenne raccontava le conseguenze degli editti discriminatori che venivano emanati: alle bambine e alle ragazze era vietato andare a scuola, e Malala temeva il giorno in cui le avrebbero impedito di ricevere un’istruzione. Nel 2012, dopo che il suo nome fu reso noto, venne aggredita e gravemente ferita alla testa mentre saliva sullo scuolabus. L’attentato venne rivendicato dai talebani e la ragazza fu trasferita in Inghilterra, dove una volta guarita poté riprendere gli studi e la sua attività di sensibilizzazione. Nei numerosi discorsi che Malala ha tenuto da allora l’educazione figura sempre come diritto fondamentale, base per uno sviluppo pacifico di individui e nazioni. Amnesty International le ha conferito il Premio di Ambasciatore di Coscienza 2013, il maggior riconoscimento per chi, come lei, ha reso più forte la causa dei diritti umani.

Giovani,Tecnologia@Innovazioni

Nuovi dispositivi da polso Nello sport le buone intenzioni non bastano. Per sentirsi spronati e controllare il proprio allenamento sono nati tre dispositivi che permetteranno a chiunque di praticare l’attività sportiva in tutta tranquillità. Charge, Charge HR e Surge sono i loro nomi, legati a quello della società Fitbit, leader nel mercato degli accessori elettronici. Questi tre modelli, in uscita tra il 2014 e il 2015, hanno le fattezze di un orologio da polso, ma sono ben di più. Partiamo dal primo apparecchio: Charge è il modello base e possiede uno schermo OLED (con dimensioni ovviamente “da polso”) per il controllo dei dati utili nell’attività praticata, come i passi fatti durante una camminata in montagna, oppure per ricevere messaggi e chiamate. La batteria ha un’autonomia di sette giorni e il costo si aggira attorno ai 129 dollari. Il secondo modello si chiama Charge HR ed ha la

di Greta Gontero

stessa base del precedente apparecchio ma con qualcosa in più: la presenza di un rilevatore del battito cardiaco attraverso una luce LED, ciò permette la visione su schermo, in tempo reale, della frequenza cardiaca durante l’attività sportiva. Per questo secondo dispositivo il costo è di 149 dollari e uscirà nel 2015. Infine parliamo del Surge, dotato di touchscreen, grazie al quale è possibile utilizzare il congegno come se fosse un cellulare, quindi si potranno ricevere telefonate e ascoltare la musica, tutto grazie ad una connettività GPS. Il prezzo arriva ai 249 dollari e l’uscita è fissata per il 2015. Quindi, niente più scuse… chi aspetta una chiamata urgente potrà riceverla sul suo nuovo dispositivo da polso e rispondere mentre, magari, si sta facendo una bella corsa nel parco.


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ondo così per il m

Vita internazionale

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di Alessia Moroni

Intervista a Valentina Paradiso

Politics and Sociology ad Edimburgo Valentina Paradiso, neodiplomata al Liceo Classico “G.F Porporato”, studia a tempo pieno“Politcs and Sociology”(Scienze Politiche e Sociologia) presso l’Università di Edimburgo. È stata una scelta molto impegnativa, ma la sua determinazione e le sue capacità le hanno permesso di meritarsi un posto nella prestigiosa università scozzese. Ci racconta che ha sempre avuto la passione per l’inglese: «Uno dei miei sogni era quello di andare a studiare all’estero ed ho trascorso l’estate 2013 ad Edimburgo lavorando in un ristorante. Tornata in Italia mi sono informata sull’Università: cercavo un corso di studi di Politcs con l’aggiunta di Relazioni Internazionali».

Dopo aver mandato il modulo di iscrizione in cinque università del Regno Unito, è stata accettata in più di una, ma Edimburgo è stata la sua prima scelta. Si è dunque trasferita lo scorso 5 Settembre, per partecipare alla settimana di benvenuto per gli studenti del primo anno. «L’organizzazione studentesca è eccezionale: al mattino c’erano le presentazioni dei corsi e riunioni, mentre al pomeriggio diversi tipi di eventi. Inoltre l’università ha circa 120 società, cioè gruppi di studenti che si riuniscono per proporre idee che vanno dal volontariato e all’assistenza sociale allo swing e a tutti i tipi di ballo». Il sistema scolastico

è differente da quello italiano, sia per quanto riguarda i metodi di insegnamento, che per la struttura del corso di Laurea. «Per conseguire la Laurea Magistrale il corso è di quattro anni, divisi in due più due: si hanno due materie principali per tutti gli anni, io per esempio ho Politics e Sociology. Inoltre solo per i primi due anni, ogni semestre ha una materia a scelta di qualsiasi corso di Laurea, tranne Medicina: per questo semestre ho scelto Sviluppo Sostenibile e ne sono innamorata». Le lezioni sono costituite da 2 o 3 lectures (lezioni frontali) a settimana e ogni corso ha un corrispondente tutorial: la classe viene divisa in gruppi di circa dieci persone seguite da un dottorando, e dopo aver lavorato su testi accademici, fa una revisione degli argomenti della settimana precedente; «si fanno ricerche, lavori di gruppo e dibattiti formali. È un metodo molto interattivo». L’ambiente è più che internazionale: ci sono studenti da tutto il mondo e sicuramente non ci si sente per niente degli stranieri, nemmeno dal punto di vista della lingua. «Ogni volta che parlo devo pensare costantemente alla correttezza di quello che dico, ma il tempo è miracoloso. In due settimane capivo già tutte le lectures e la socializzazione con gli altri studenti è fondamentale per migliorare l’aspetto parlato, non ci si sente mai giudicati». Oltre agli impegni scolastici Valentina lavora nel weekend in un ristorante e cerca di sfruttare al meglio ogni minuto del suo tempo libero, frequentando le società di studenti e studiando anche il Francese e lo Spagnolo. Gli studenti vengono incoraggiati a fare esperienze all’estero e molto probabilmente Valentina farà richiesta per l’Erasmus, un’opportunità unica come questa esperienza che le ha cambiato la vita. «Quando viaggi come studente, quindi vieni a contatto con una società con diverse mentalità, abitudini e strutture sociali, ti rendi conto che casa tua non è il mondo, ma una piccola fetta di vita che non corrisponde alla totalità. Ti rendi conto di quante cose ci siano da scoprire, da fare tue, ed è una ricchezza che nessuno ti può togliere».


musica

Officine del suono

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di Isidoro Concas

M usica emergente

Majus

Marius Gabriel, 21 anni, è un dj/producer e rapper di Pinerolo, attivo da anni nella zona sotto lo pseudonimo di Majus e con già diverse collaborazioni con artisti del bacino torinese. Hip-hop, R’n’B, Breaks e House sono alcuni tra i generi su cui ti muovi: in che modo pensi che la poliedricità arricchisca il lavoro di un produttore? In che modo decidi, di volta in volta, a quale genere dedicarti? Un produttore è allo stesso tempo un artista. Un artista con tanta cultura, una persona che non si limita ad un solo genere. Una persona incuriosita da vari generi musicali. Non ha limiti, o almeno, non dovrebbe. Non c’è un modo fisso grazie al quale decido quale genere produrre… dipende dallo stato d’animo, dipende dagli avvenimenti dei giorni prima, dipende dalle varie influenze epigenetiche con cui mi sono scontrato. A volte desidero suonare la tastiera con un’armonia di piano e spesso sviluppo nuove idee. Le nuove idee incontrano altre nuove idee e cosi nasce una traccia strumentale. Molti dei tuoi beat sono stati utilizzati da rapper della zona: in che modo siete entrati in contatto? Qual è la tua opinione riguardo la vendita di produzioni all’interno della musica underground? E’ difficile per me rinunciare ad un beat a favore di un artista. A volte concedo l’occasione agli artisti di utilizzare la base perchè dimostrano di averne le competenze musicali, a volte perchè a loro piace immensamente qualche beat, a volte perchè ne acquistano i diritti. Vendere le strumentali solo per i soldi, è sbagliato. Alcuni artisti non sono “arti”-sti, non sono competenti. Altri non hanno la tonalità, il flow, la metrica giusta o le liriche adatte alla strumentale. Per un produttore è una decisione difficile decidere a chi dare o vendere una strumentale. In che modo nascono i pezzi dove canti? Nasce prima il testo o la strumentale? In che maniera, essendo sia rapper che producer, pensi che le parole e la musica si leghino? I pezzi dove canto sono realizzati grazie ad un’enorme emozione che mi avvolge mentre

compongo e metto insieme pezzo per pezzo per arrivare al beat concreto. Sono strumentali dove sento che l’unico adatto e capace a riempire tutti gli spazi “vuoti” della base sono io. Le parole e la musica si legano come l’amore reciproco. Un artista dovrebbe essere un maestro sia nelle parole sia nella musica, sono due concetti fondamentali con cui illuminarsi d’immenso. Tu sei anche un MC, e oltretutto vai in freestyle in più lingue, dall’italiano al rumeno all’inglese: come pensi che si possa promuovere la cultura del freestyle in una realtà come Pinerolo, anche come mezzo per mescolare culture differenti? Si, sono un MC. Per me la musica non si ferma alle basi, ai testi, alle sinfonie, agli strumenti. La vera musica si fa live, muovendo la bocca ed emettendo suoni piacevoli, cantando, rappando, improvvisando, è musica, è suono, è un bellissimo rumore, è un esercizio per la mente e per il corpo allo stesso tempo. Il freestyle in più lingue è un concentrato di cultura internazionale e musica messi insieme. E’ un’evoluzione! La cultura del freestyle si diffonde appena gli spettatori sentono gli MC improvvisare. Alcuni provano, altri ne parlano, altri iniziano a partecipare, anche solo come spettatori. Culture diverse creano altre culture ancora più diverse, non c’è mai un’unica cultura, e questa è una cosa bellissima. Ogni tuo lavoro viene prodotto in maniera tutto sommato casalinga: hai qualche consiglio da dare a chi vorrebbe provare a fare altrettanto? Ogni mio lavoro viene prodotto nel “MajusStudio”, a casa mia. Tempo fa ho provato a chiedere asilo a uno studio di Torino, ho provato a propormi come “know how” in vari studi, ma la risposta è sempre stata la stessa: una giustificazione non valida per varie cause che non sto a replicare. Il mio consiglio è di seguire la mia legge di vita: ognuno fa quello che vuole se davvero vuole farlo. E inoltre, mai porsi limiti. La cultura non ha limiti, non bisogna mai limitarsi.


Cosedell’altromondo

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di Massimiliano Malvicini

Ottobre 1947 – Ottobre 2014: la fondazione dell’Onu Da una settimana i cittadini e le cittadine di tutta Italia guardano con curiosità le sedi delle istituzioni comunali, regionali e nazionali e si chiedono perché c’è una bandiera in più laddove fino a ieri vi erano quella italiana, quella regionale ed il vessillo dell’Unione Europea. Alle tinte regionali si è infatti sostituito un vessillo molto particolare, azzurro e bianco, è la bandiera dell’ONU: l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Il governo italiano ha infatti deciso di celebrare, come in molti altri Stati del mondo, il sessantasettesimo di vita di questa organizzazione internazionale che ha, in alcune finestre temporali, determinato importanti passaggi della storia politica mondiale. L’Onu, del quale l’Italia fa parte dagli anni Cinquanta, ha assunto un ruolo ormai di primo piano in molte materie un tempo appannaggio assoluto degli stati come il diritto dei conflitti armati, le emergenze umanitarie e ovviamente la cooperazione internazionale.

Quella bandiera simboleggia ovviamente il tentativo che si fece a partire dal 1947 di riunire tutti i Paesi in un’organizzazione davvero mondiale, superando l’esperimento della cosiddetta “Società delle Nazioni”, che potesse garantire un lungo periodo di pace oltre che di sviluppo economico in tutto il mondo. Nonostante i buoni intenti sono state numerose le crisi che hanno attraversato l’istituzione, il cui organo esecutivo, il Consiglio di Sicurezza, è stato spesso oggetto dei ricatti interstatali scaturiti nell’esercizio del potere di veto in numerose situazioni (anche correlate alla Guerra Fredda ed alle sue dinamiche). In questa cornice, la bandiera dell’Onu simboleggia l’affetto per la pace e l’intento dei costituenti oltre che della rinnovata classe dirigente nel secondo dopoguerra di rifiutare quell’impostazione realista delle relazioni internazionali che era propria di una concorrenza bellica e politica autodistruttrice.

Ottobre 1922 - La marcia su Roma L’Italia ha attraversato molte cesure epocali eppure la più storicamente vicina a noi è forse quella simboleggiata dalla Marcia su Roma ovvero la manifestazione condotta dai militanti del Partito Nazionale fascista nel 1922 per simboleggiare il sostegno alla possibilità di fare ottenere, dal re Vittorio Emanuele III, l’incarico di formare un nuovo governo al loro leader Benito Mussolini. Ciò che accadde in seguito è sintetizzato in ogni manuale di storia, dalle scuole elementari in avanti. A questa testimonianza dei libri molto spesso non corrisponde però una piena consapevolezza delle spaventose conseguenze che quell’evento assieme ad altri, provocò sul destino dell’Italia una serie di spaventose conseguenze, tra le quali anche l’approvazione delle Leggi fascistissime e delle Leggi razziali.

Osservando la Storia passata, è certo che oggi vi è necessità di un rinvigorimento della cultura della Memoria: essa è infatti importante per educare le nuove generazioni e chi non ha avuto la possibilità di vivere determinate esperienze. La possibilità di ricordare determinati avvenimenti non deve essere interpretata come pedanteria d’accademia, deve piuttosto essere un riferimento sempre costante per le donne e gli uomini che hanno lottato per un ideale e che hanno cercato di lasciarci un futuro migliore del loro presente. Ricordare assume valore non solo in quanto ricchezza personale ma soprattutto come insieme di tradizioni e ricordi comuni che devono in qualche modo servire da guida in un contesto dove i riferimenti storici sono in via di estinzione.


Andare al cinema

società

di Andrea Obiso

il cinema

1 milione di modi per morire nel West

Regia: Seth McFarlane Attori principali: Seth Mcfarlane, Charlize Theron, Liam Neeson, Amanda Seyfield, Neil Patrick Harris 1882, Stati Uniti d’America, selvaggio West. Albert Stark (Seth McFarlane) è un giovane allevatore di pecore non in possesso delle capacità necessarie per vivere appieno il suo tempo. Nulla di nuovo direte voi, ma non trattandosi di un romanzo esistenzialista possiamo riassumere efficacemente il concetto dicendo che il giovane Albert si fa atterrire dall’infinità di modi con cui si può, facilmente, morire nell’Ovest degli Stati Uniti. Come conseguenza della sua pacifica e codarda indole, Albert rifiuta di prendere parte ad un regolare duello nel suo paese natìo, perdendo così in un colpo solo la dignità, un’ingente quantità di denaro e l’avvenente fidanzata (Amanda Seyfield). Purtroppo per Albert però, ci sono ancora 999.999 modi per morire nel West….. Classe 1973, nativo del Connecticut e creatore di una delle più grandi serie animate di cult degli anni 2000, Seth McFarlane potrebbe essere riassunto anche solo in questa breve frase, ma la sua vita professionale offre molto di più. Rimanendo in campo cinematografico

ricordiamo Ted - di cui sarà a breve pronto un sequel - simpatico quanto sboccato pupazzo di peluche animato che ha letteralmente sbancato i botteghini di mezzo mondo e impressionato la critica. Un milione di modi per morire nel West richiama il primo lavoro di McFarlane: situazioni e personaggi paradossali, un’accentuata propensione alla volgarità e una sincera devozione alla demenzialità, utilizzata come espediente per criticare in modo raffinato il mondo intero (pare che gli unici a non essere stati presi di mira siano i messicani). Questo film deve molto a Ted come lo stesso pupazzo doveva molto ai Griffin, McFarlane non cambia registro rispetto al lavoro passato, ma gli va dato il gran merito di sapersi sempre migliorare ed innovare, cambiando mezzi di comunicazione, budget, collaboratori, periodi storici e cast. Un milione di modi per morire nel west è un film ben girato, ben scritto e ben recitato, superiore alla media delle commedie americane, senza la pretesa di esserlo. Certo, se amate il “politically correct”, avete sbagliato sala….

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società

Appunti di viaggio A cura di Angelica Pons

a roma per la via francigena

Quando il pellegrinaggio è il viaggio

Chi lo fa per moda si stanca presto; chi intraprende l’esperienza per sport inizia il cammino con i piedi ed infine arriva al cuore. Dopo S. Andrea (Amalfi), S. Giacomo (Santiago), mio marito Mauro si è avviato lungo la Via Francigena verso il sepolcro di S. Pietro (Roma). Nel cammino si incontrano Amici, di qui e Oltre. Le giovani catalane Andrea e Maria: «no conocimos algun, pero se encuentra aqui una nueva familia». Da solitario che era, ora condivide la strada: 2 francesi, le inglesi in calesse, l’austriaco turco da un anno e mezzo, pellegrino col suo cagnolino; infine l’anziano Joseph partito da Bruxelles l’8/8: chapeau! 40 giorni per arrivare a Roma a piedi, dai nostri monti - Montgenèvre - mentre con “Italo”bastano 4 ore. Non c’è paragone. Lo raggiungo in un tiepido week-end di ritardi e corse soppresse per la recente alluvione. Lucca trasuda storia: si sale sulla torre del Giunigi, un tale che qui signoreggiò a lungo; dipinti raccontano le rivalità tra Comuni, di come “fu morto”l’armigero e “fu dechollato il ghonfaloniere”. Dalla sommità alberata ecco le mura, i campanili, le viuzze, e poi si scende a S. Franceschino, con complesso abbaziale, mostra giottesca, e giornale odierno sull’antica rivalità con Pisa: “ebola colpisce i macachi … della razza dé pisani”. Il duomo di S. Martino, eretto nel VI sec. da S. Frediano, ricostruito dopo il Mille, ha la

facciata asimmetrica, con bassorilievi curiosi, la scultura col Santo che divide il mantello con il povero, il labirinto come a Chartres, mesi e storie bibliche; all’interno un’Ultima cena di Tintoretto, in un’edicola il Volto santo, scolpito da Nicodemo in estasi, di cui parlò Dante (Inferno, 21° canto); nella sacrestia giace Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia. Per S. Frediano c’è un’altra chiesa, il frontone col Cristo benedicente in mosaico; dalla piazzola antistante si accede all’anfiteatro; 5 battesimi in S. Michele in foro, che, sormontata dal poderoso arcangelo, reca sul fronte, a fasce marmoree bianco e grigio, colonnati ciechi come d’uso, ogni colonna unica, con testa-capitello di un personaggio, da S. Caterina da Siena a Camillo Benso di Cavour! Noi si alloggia lì dappresso, all’arciconfraternita della Misericordia, dietro “il Salvatore”, la sede lucchese del 118. Laura, la volontaria che ci registra, è di una gentilezza squisita. E pure i dolcetti delle fiere, i brigidini, o Cialde di Lamporecchio all’anice, uova, zucchero e farina. Una bella dose di energia eppoi: «si va veloci come le pine». Martedì 13/1/15, h 17,30, Libreria Mondadori, p.za Barbieri, Pinerolo: videoproiezione su La Via Francigena di Mauro Beccaria.

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Sono amici di Pinerolo InDialogo e di Onda d’Urto 25


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