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L’arco

DICEMBRE 2011

Speciale 150° anniversario Unità d’Italia

ANNO XXIV n. 4

PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE CULTURALE “L’ARCO” - MAZARA DEL VALLO - Reg. Trib. Marsala n. 86-5/89 del 2/3/1989 - Distribuzione gratuita

Editoriale

“NON FARE AGLI ALTRI QUELLO CHE NON VORRESTI VENISSE FATTO A TE!” di Giuseppe Fabrizi L'individuo, sul piano biologico, é un organismo vivente, che cammina, parla, si nutre, lavora, studia, dorme, prega, ecc.! Egli però è sul piano umano una persona, cioè un essere pensante con i propri convincimenti, le proprie ansie, le proprie emozioni, le proprie conoscenze, la propria educazione. E sì, l'educazione appunto, quella che rende diverse a volte le persone di pari rango sociale e di pari grado o condizione culturale, anche se è sempre l'animo umano che però rende dissimili le persone le une dalle altre! L'umanità che promana da ogni essere è diversa a seconda del grado di sensibilità, che è innato in ciascuno di noi perché congenito, cioè presente già alla nascita. Una società che rispetta le forme sarebbe naturalmente auspicabile ma a volte noi facciamo agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi! Ad una questione non sostanziale, ma puramente formale, ma per questo non ineccepibile, sono stato recentemente richiamato da un illustre concittadino, che fa del “servizio alla polis” il proprio mestiere! A causa della mia professione mi sono sempre adoperato a favore dei più deboli e dei più bisognosi e naturalmente senza chieder conto del loro credo politico, ammesso pure che l'avessero, né della loro confessione religiosa. Tenendo sempre ben presente il giuramento di Ippocrate mi sono sempre comportato secondo scienza e coscienza, perché dietro l'apparenza di una malattia della pelle c'è sempre una persona, con la sua dignità di uomo, con le sue emozioni, con le sue ansie e con le sue, più o meno giustificate, preoccupazioni. Nella mia vita anch'io ho sempre preteso rispetto, ma prima di tutto ho sempre dato rispetto! Ho anche sbagliato, perché a volte la fragilità dell'essere, anche senza volerlo, può condurre a ciò l'animo umano, ma le sofferenze vissute restano nell'intimo e a volte costituiscono una giusta espiazione per gli errori commessi, errori però sempre fatti in assoluta buona fede e mai con il proposito di ferire volontariamente un'altra persona. Questi principi di vita ho mantenuto anche durante il mio percorso accademico, insegnando all'Università Cattolica di Roma prima e all'Università degli Studi del Molise dopo, e ho cercato sempre di trasferirli agli studenti, ai giovani medici e agli specializzandi, dai quali ho sempre ricevuto in cambio attestazioni di stima, di ammirazione e di rispetto! Dunque prima di esigere rispetto bisogna dare rispetto, così come prima di irrigidirsi nelle forme bisogna rispettare le forme stesse, anche se a volte è meglio guardare direttamente alla sostanza delle cose, ma questo spesso non è da tutti condivisibile. Questo illustre concittadino ordunque , così attento alle forme e così esigente nel rispetto della propria persona, poi però non ha dimostrato con i fatti di essere altrettanto rispettoso della forma e dei protocolli, che una vita pubblica naturalmente impone e che certamente non sono a senso unico! Sarebbe a questo punto più opportuno che Egli, che è al servizio di tutti i cittadini, guardasse più alla sostanza delle cose che alle apparenze, vista poi la difficoltà, forse innata, di portare rispetto alle altrui persone. E naturalmente sarebbe auspicabile anche il riconoscimento dei propri errori, che certamente costituirebbero una possibilità, sia pure tardiva, di redenzione comportamentale o, per usare un termine più consono, “formale”! E questo per non dover amaramente concludere che se l'uomo è quello che è e non quello che appare, anche Mazara, la nostra amata Mazara è quello che è, e non quello che appare, o peggio, quello che non può essere!

UNA FACCIATA COI BAFFI

Progetto, nullaosta, fondi per il palazzaccio: tutto già pronto, polemiche comprese. di Gabriele Mulè

Diciamolo chiaramente: da quando il palazzaccio è stato completato, tutti noi mazaresi sull'argomento siamo diventati ipersensibili. Di più, di una questione di facciata abbiamo deciso di farne una questione di principio. Perché ritrovarsi quell'affare piazzato (il verbo calza) nel cuore della più bella e rappresentativa piazza della città è stato uno shock da cui non ci siamo ancora del tutto ripresi e di cui è difficilissimo venire a capo. L'effetto è paragonabile al ritrovarsi un maiale seduto in salotto. Un edificio non solo privo di armonia, equilibrio, qualità estetiche. Non semplicemente brutto. Ma un edifico addirittura ripugnante perché realizzato nel più disinvolto disprezzo delle più comuni regole del buon amministrare, della coscienza collettiva, dell'identità e della storia comune, dei cittadini: frutto di una decisione unilaterale. Un edificio pertanto totalmente inespressivo di qualunque valore condiviso dalla nostra comunità, estraneo al ruolo simbolico e rappresentativo del comune che dovrebbe invece interpretare, perfino offensivo nel contesto in cui è inserito. Erano altri tempi, e i cittadini, che se ne accorsero a cose fatte, feriti ed irritati, si fecero più attenti. Questa ipersensibilità, certamente, influì sulla vicenda della facciata proposta da Consagra. Parte della città nicchiò perplessa, la Soprintendenza iniziò a soprintendere, soprintese e bocciò, e la proposta finì in un cassetto per essere rispolverata di tanto in tanto. Così tra tira e molla gli anni sono trascorsi fino ad oggi, Natale dell'anno del Signore 2011. Quando, sotto l'albero, l'amministrazione comunale ci lascia un pacco dono infiocchettato in nullaosta e finanziamenti già predisposti con stupefacente velocità: un restyling del palazzaccio nato da una tesi di laurea a firma di una giovane mazarese neo-architetto. Un laconico comunicato stampa lo accompagna: “la soluzione che i mazaresi attendevano da anni è giunta”. Un progetto comunicato, per l'appunto, non presentato: perché quanto a contenuti, spiegazioni ed illustrazioni del progetto, non vi è traccia. Non una conferenza stampa, non una brochure informativa, niente di niente. Così, ora come allora, all'epoca della realizzazione del palazzaccio, si saltano a piè pari professionisti, critici, consiglio comunale e cittadini, camminando senza neanche bagnarsi un piede sui fiumi di inchiostro che in questi anni sono stati versati sulla necessità di una soluzione condivisa: un concorso di idee, per riscattare quello sfregio. Invece solo lo sforzo di un comunicato. Dunque non è il caso di parlare del progetto presentato, per due motivi: in primo luogo perché possiamo registrare solo il vago comunicato “così si farà ed amen”; in secondo luogo perché entrare nel merito del progetto equivale a legittimare la condotta dell'amministrazione, qualificabile sul piano normativo, inqualificabile su quello della sostanza. Spiace che questo squalifichi una proposta che, concedendo un'apertura di credito, sarebbe stato interessante valutare, capire, apprezzare: ma non ci sono le condizioni. Viste le premesse, infatti, il restyling proposto dall'amministrazione non ha più niente a che vedere con la qualità progettuale: ha a che vedere con una questione di principio che ci riguarda tutti. Siamo disposti a subire, un'altra volta ancora, un'imposizione che disprezza le più comuni regole del buon amministrare, del senso della collettività, dell'identità comune, del desiderio di partecipazione, dei cittadini? A leggere su internet le reazioni di associazioni culturali e cittadini la risposta sembra: no. Anzi, la partecipazione alla discussione, accesa e vibrante, anche da parte di mazaresi dalla Spagna e dalla Germania (dal Manzanarre al Reno verrebbe da dire), esprime la vitalità di una coscienza civica nuova, dotata di una maturità diversa che spinge ad informarsi, riflettere, esporsi, celebrare o bocciare. Una maturità con cui, ormai, la classe politica dovrebbe capire che deve fare i conti. Nella volontà di apporre la firma ad un intervento epocale,

PENSIERO NATALIZIO…

su un tema così partecipato e sentito, che colpisce la sensibilità di tutti ed il cui valore simbolico è tutt'uno con il valore progettuale che meriterebbe, l'amministrazione comunale sceglie la scorciatoia anacronistica di un atto d'imperio da notte della prima repubblica, con la certezza di essere nel giusto, di avere la soluzione più adatta e, pertanto, di non aver bisogno di confronti. E invece di offrire l'opportunità di chiudere i conti con il passato e pacificare una tensione latente si offre il pretesto per scatenare una nuova discussione, per alimentare un'atmosfera di conflitto, per rinnovare le tensioni. Certo, lo scetticismo è uno sport diffuso: ma è scetticismo chiedersi se la soluzione progettuale del comune sia davvero la migliore e la sola per un tema di tale spessore? Il tema che Piazza della Repubblica impone alle capacità progettuali è di severa disciplina, di sintesi delle componenti numerose e diverse che vi convergono, che una tesi di laurea, benché di valore, non può avere esaurito. Un tema squisitamente ed eminentemente collettivo: perché Piazza della Repubblica, cuore della città, rappresenta noi tutti. E se questa peculiarità, questa indefettibile caratteristica, questo inossidabile e manifesto valore a qualcuno è passato inosservato, beh, tanto peggio per lui. Non è solo una questione di punti di fuga, di materiali, di proporzioni e di volumi: è molto di più. Le forme, in questo caso, non servono solo allo scopo di riequilibrare un'armonia turbata, di rimediare ad uno strappo: servono a ricucire insieme anche la nostra coscienza e la nostra memoria. Cosa che questa amministrazione con questa condotta non sta facendo, contribuendo invece ad una nuova dolorosa lacerazione e discontinuità tra tessuto sociale e tessuto urbano. In questo caso, infatti, “il potere della forma è tale da sovrastare i contenuti fino a modificarne l'apparenza: e cioè, in termini espressivi tutto”. Un problema di forma e sostanza, di corpo e di anima. Senza partigianeria, senza strumentalismi, solo con buon senso da parte di tutti, c'è sempre tempo per fare un passo indietro e ricominciare da un concorso di idee. Buon Natale.

dalla Redazione

A Natale ci sentiamo tutti più buoni, l'amore e l'amicizia si moltiplicano. Come sarebbe bello che tutto questo fosse così per tutto l'anno! Fermiamoci e riflettiamo se stiamo vivendo una vita nella giusta direzione; nella direzione che Gesù ci ha indicato: l'amore verso gli altri. L'augurio semplice che vogliamo fare a tutti è di ritrovare quello che stiamo perdendo: l'amore, l'amicizia, la solidarietà; e di saper gioire anche delle cose più piccole che ci circondano. Buon Natale a tutti! La Redazione dell'Arco


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I SEPOLCRI A MAZARA NEL CORSO DEI SECOLI di Enzo Gancittano Un mare di fiori sui sepolcri. Anche sulle lapidi più remote emerge un fiore. Folle in silenzio, preghiere sussurrate, lacrime contenute e sporadiche, saluti accennati, scale metalliche a sostituire l'ormai lontano grido dei fanciulli, a cù avà cchiantà, a cù avà scippà, nei primi due giorni di novembre di ogni anno. Diceva il Foscolo: "All'ombra de cipressi e dentro l'urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro ?” Il Foscolo non considerava che l'anima potesse avere un futuro. Riteneva, infatti, che il destino dell'uomo fosse il nulla eterno. Ma per gli abitanti del Mazaro, con la fede cristiana fortemente radicata, il culto della memoria dei morti e dei sepolcri è una tradizione decisamente sentita poiché conferisce una pietosa illusione di mantenimento di un legame d'affetto tra vivo e defunto. I vivi parlano ai morti, dialogano con i defunti in un doloroso soliloquio e il silenzio sono le parole di risposta degli estinti. Un'antica gloria musulmana di questa landa mazarese, Ibn Rasiq, s'interroga diversamente dal Foscolo: “Ho chiesto alla terra perché era un luogo di preghiera e perché era per noi un luogo che rende puri e buoni. Rispose senza parlare, perché ho accolto per ognuno una persona cara”. Le prime tombe riscontrabili nel nostro territorio si riferiscono all'età del rame.(3° millennio a.C.). A Roccazzo, poco distante dal centro abitato, è ancora visibile una necropoli. Ma qui pervade solo il silenzio come pace e senso di abbandono Le tombe sono del tipo a grotticella, cioè scavate nella roccia e chiuse da un blocco monolitico. Ognuna di esse conteneva uno o due inumati in posizione anatomica e con un corredo funerario di due, tre vasi e strumenti litici. Sempre a Roccazzo sono stati trovati altri sepolcri, meno rudimentali, con dromos d'accesso con antecella e all'interno un locale con letto funebre. E' verosimile che queste ultime sepolture, più elaborate, appartenessero ai Sicani. Ma le necropoli preistoriche, note ed ignote, sono numerose nel nostro territorio: Granatelli (necropoli greca), Fiumara, San Cusumano, Roccolino Soprano, Spataro, Gattolo, Malopasso, Archi, Castelluzzo sul Mazaro, etc. Anche qui, silenzio come distacco, defezione, rinuncia. E' il culto dell' abbandono il nuovo credo dei Mazaresi. Del periodo romano esistono quattro sarcofagi conservati nella Cattedrale. Erano destinati ad accogliere, in genere, i corpi di due coniugi. Il sarcofago con la raffigurazione del mito di Endimione era il più richiesto in quanto simboleggiava l'amore eterno. Il mito, rappresentato in più versioni, riporta la vicenda del bellissimo pastore Endimione, del quale s'innamora Selene, la dea della Luna, dopo averlo visto addormentato sul monte Latmo, in Asia Minore. Per potere godere di questa visione ogni notte, Selene gli elargisce sonno e giovinezza eterni. E l'unione e l'amore persistono eterni nell'indelebile pensiero degli abitanti del Mazaro, il fiume definito spiritato dai Musulmani. I quattro sarcofagi romani, tre collocati ai due ingressi della cattedrale, raffiguranti “La guerra delle Amazzoni”, “Il ratto di Kore” e “”Meleagro alla caccia del cinghiale, il quarto rinvenuto sul lato destro della Cappella dell'Immacolata, stanno ad indicare la presenza di una popolazione piuttosto benestante a Mazara. Gli abitanti di questa contrada hanno sempre avuto con i defunti un rapporto d'affetto continuativo, pur nel silenzio dell'estinto. Acquisito ormai che i sarcofagi sono di origine mazarese, si va facendo sempre più strada l'ipotesi che essi erano collocati in origine nell'estesa necropoli in contrada Porticato, cioè a sud-ovest dell'insediamento urbano. Nel medioevo i defunti potevano essere seppelliti all'interno della città. Ma, quando i Normanni costruirono le mura di Mazara, restarono esclusi dal centro abitato il cimitero degli Ebrei, collocato nella parte nordoccidentale della città, precisamente nell'attuale Piazza Dante Fiorentino e il cimitero dei Musulmani nella parte orientale, più

esattamente, nel lungomare San Vito, nella Via Valeria, denominata un tempo la campagnedda e nella quale fino a qualche decennio fa non era raro il rinvenimento di ossa umane. Ma anche nell'attuale Corso Armando Diaz sono stati ritrovati resti umani attribuibili ai Musulmani. Due lapidi funerarie arabe sono state recuperate a Mazara. La prima presenta l'iscrizione: “Nel nome di Dio pietoso e benigno, benedica Iddio al nostro signore Maometto e alla sua stirpe e dia lor pace. Dì: cotesto è annunzio grave dal quale voi rifuggite. Questa è la sepoltura del cadì della capitale Abu abd Allah Muhammad di Costantina, il quale è morto, che Iddio abbia misericordia di lui, il giorno di venerdì, del mese di…. dell'anno 894. Dov'è la mia terra.(?) ahimè”. Si ricorda che la città rimase sotto la dominazione araba dall'827 al 1072. La seconda lapide funeraria mostra l'iscrizione: “In nome di Dio pietoso e benigno. Benedica Iddio al profeta Maometto e alla sua stirpe e lor dia pace. Ogni anima dovrà assaporare la morte. Voi non conseguirete i guiderdoni che il dì della resurrezione. Allora chi sarà tratto lungi dal fuoco e introdotto nel paradiso, ei fia salvo. La vita di quaggiù non è che merce d'inganno. Questo è il sepolcro di Sidad al Ahl, figliola di Abd al Azir, il cambiatore del popolo di Mazara, la quale è morta di venerdì, nel mese di rebì primo, dell'anno 474”. Cioè dal 9 agosto al 7 settembre 1081, quando la città era già da nove anni nelle mani dei Normanni. La Cattedrale mazarese accoglie non pochi sepolcri di vescovi, alcuni dei quali la tradizione li reputa in odore di santità. Dopo la morte del vescovo Marco La Cava nel 1626, infatti, era invalsa fra i cittadini, affetti da cefalea, la consuetudine di recarsi presso la tomba del vescovo e di ottenere la guarigione dopo avere posto la fronte sul santo sepolcro. Altro sepolcro prodigioso della Cattedrale era quello del vescovo Carlo Riggio. “L'ombra della morte oscurò il sole infulato dall'Oreto l'illustrissimo e reverendissimo don Carlo Riggio palermitano, vescovo mazarese, consigliere del re cattolico e già prefetto dei sacri palazzi…La sua morte vollero eternare le stelle della gentilizia nobiltà, ma per il dolore vollero irrigidire in questo marmo, mentre piangono lo scomparso all'età di anni 42 nell'anno 1684 dal parto della Vergine”. Ogni giorno una lunga fila di povera gente ammalata sostava davanti al sarcofago applicando la parte sofferente sul

sepolcro o adagiandovi la polvere del sepolcro marmoreo. Ed ottenevano la guarigione. Erano frutti del puro caso, della potenza della fede, o effettivi prodigi ? Ma questa è una citta ricca di miracoli dimenticati nella Chiesa Madonna della Porta o delle Grazie, nella Casa degli esercizi spirituali la cui immagine della Madonna è stata distaccata nell'attuale Chiesa Madonna del Paradiso. Altro sepolcro in Cattedrale quello del vescovo Bernard Gasch, l'artefice della costruzione dell'attuale palazzo vescovile e del rilievo marmoreo raffigurante il conte Ruggero a cavallo che sovrasta il saraceno a terra. Rilievo che adesso è collocato sul prospetto principale della Cattedrale, ma in origine era posto sul campanile-minareto nel Piano Maggiore, sulle rovine del quale è stata eretta l'attuale statua di San Vito. Opere musulmane e cristiane si fondono a celebrare il Dio unico. Il sepolcro riporta l'iscrizione funebre in latino, la cui traduzione è la seguente: “Chiunque tu sia viandante che ti avvicini a questo sepolcro (che contiene), colui al quale Dio aveva concesso doni sublimi, fermati, leggi attentamente. Toledo lo generò, la Catalogna meritò di averlo come primo inquisitore, da lì la Sicilia. Selinunte (Mazara) felice per sette anni lo ebbe come pastore, gradito a tutti quanti, ma soprattutto ai poveri. Bernard Gasch è stato chiuso infine in questa tomba. Le stelle conservano l'anima e i resti mortali copre (questa) lapide. Morì il 14 agosto nell'anno del Signore 1586”. Il cimitero attuale, luogo del riposo eterno, fu costruito nei primi anni del Novecento per volere del sindaco Vito Favara. Le lapidi più antiche, infatti, risalgono ai primi anni del '900, ma negli ultimi anni, a causa della carenza di loculi, le tombe che hanno superato i cento anni vengono evacuate e destinate a nuove sepolture. Precedentemente il luogo di sepoltura dei cadaveri era localizzato dietro la chiesa Madonna del Paradiso. Sepolture avvenivano anche nelle chiese Santa Maria di Gesù, San Martino (Cappuccini), San Francesco, etc. Qualche secolo fa, secondo quanto ci riferisce il decano Pietro Safina, nella chiesa Santa Maria Raccomandata, quasi di fronte al sacro tempio di Santa Caterina, venivano seppelliti gli schiavi. Tutte le chiese erano autorizzate alla sepoltura dei religiosi e in alcuni casi, dietro consenso dell'episcopo mazarese, anche dei nobili e degli appartenenti alle confraternite. Sepolture nella nuda terra, invece, si eseguivano a nord della Xitta, cioè nella parte nord-orientale della città, dietro le mura, come la Via G.B. Adami, per la gente non benestante o semplicemente povera. Niente di nuovo sotto il sole. Ma per quest'ultimi è sempre stata vera la consolazione, come oblio della disperazione, dell'esistenza terrena come vita di passaggio. Come nella lapide musulmana: La vita di quaggiù non è che merce d'inganno.


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PROVINCIA DI TRAPANI, BANANA REPUBLIC:

NESSUNO PARLA INGLESE E METTONO GIÙ IL TELEFONO A RYANAIR Cettina Spataro, assessore al turismo: "Venuto a conoscenza del disguido, il Presidente si è precipitato a Dublino ” Pare che la domanda “Ha telefonato qualcuno?” da un anno a questa parte anticipi puntualmente il rituale “buongiorno” di mister Turano, Presidente della Provincia di Trapani. E che, ad ogni schiarita di gola emessa a telefono da ignari italianissimi interlocutori, i centralinisti della Provincia sussultino sospettando si tratti di improbabili investitori degli Emirati Arabi. Il motivo? Incredibile ma vero: la compagnia aerea Ryanair, pilastro dei numeri da capogiro dell'aeroporto di Trapani, è stata “rimbalzata” a telefono perché nessuno capiva l'inglese, tanto da indurla sull'orlo di una costosissima rinuncia. Ecco i fatti. Ottobre 2010: si tiene a Trapani un open forum sul turismo. Un gruppo di tour operators, albergatori, operatori di settore, si riunisce per fare il punto sull'effervescente turismo trapanese. Nell'era di internet gli interventi all'open forum sono, come si dice in gergo, “postati” in tempo reale. Così quando Cettina Spataro, assessore al Turismo della provincia di Trapani, prende la parola, si ritrova nell'occhio del Grande Fratello digitale. Ed il Grande Fratello cosa fa? Mette nero su bianco (in internet) un raptus di lucida sincerità dell'assessore: "Abbiamo rischiato di perdere Ryanair, perché ogni volta che chiamavano in

Provincia non c'era nessuno che parlasse in inglese, e finivano per chiudere la telefonata". Immagino che il suono della dichiarazione abbia prodotto un curioso effetto “fermo immagine” nella sala gremita di operatori che investono denaro, sgobbano come matti per far quadrare conti, giocano sul filo dei numeri il destino delle loro attività e dei loro dipendenti: e che a ragion veduta avrebbero perfino potuto slogarsi la mascella per lo sbigottimento. Nel silenzio interstellare che avrà riempito la bolla temporale e le bocche spalancate nello sbalordimento, l'assessore prosegue: “Non appena venuto a conoscenza del disguido, il Presidente Turano si è precipitato a Dublino per confermare l'interesse della Provincia". Se c'è una cosa che mi piace di questa dichiarazione è la leggerezza, la disinvoltura con cui, in coerente Banana style di fiera Banana Republic, si minimizza il pasticcio, sdoganandolo come “un disguido”. Ricapitoliamo. Abbiamo sbattuto il telefono in faccia con l'aggravante dei futili motivi (“riattacca, non capisco che vuole”) alla compagnia aerea che come un tubo ad ossigeno mantiene in vita artificiale il nostro fragile sistema turistico; il presidente Turano si è dovuto “precipitare” da

penitente a Dublino alla corte di Ryanair, (cosparso di cenere e vestito di un lacero sacco di tela?) spergiurando che avrebbe imposto insieme all'inglese perfino il gaelico come lingua di studio nelle scuole; in queste condizioni di manifesta inferiorità il p r e s i d e n t e Tu r a n o s i è affrettato a confermare “l'interesse della Provincia” ai voli Ryanair, ovvero davanti all'avvoltoio low cost ha dovuto mostrare una chiara debolezza istituzionale, dando segnale della totale dipendenza del nostro sistema turisticoeconomico dalla compagnia aerea. Traduco il messaggio che abbiamo trasmesso in quest'occasione: senza di voi siamo alla canna del gas, siamo come bambini cui non solo potete rubare le caramelle ma perfino tanto fessi da dirvi dove le nascondiamo. In poche parole: in Provincia si sono “sbracati” in sole tre mosse, riassumendo il complesso degli stereotipi che ogni realtà provinciale vorrebbe togliersi di dosso. Abbiamo racimolato una magra, magrissima figura, con una compagnia aerea capace di adottare pratiche di

SUL CENTRO STORICO DI MAZARA SVENTOLA BANDIERA BIANCA

di Gabriele Mulè

“contrattazione” molto aggressive: ad esempio, da quando l'aeroporto di Alicante ha deciso di ammodernarsi con l'uso delle passerelle d'imbarco, Ryanair ha tagliato oltre 400 voli (per oltre 2,5 milioni di passeggeri)per imporre la volontà di non utilizzarle. Nessuno è padrone a casa propria! Se non fosse che le attività chiudono, gli hotel sono semivuoti, i servizi turistici sono inesistenti, i giovani emigrano, immaginare i tempi, i modi e le frasi che hanno portato a svelare il “disguido” trapanese potrebbe riuscire perfino spassoso, quasi spunto per una favola: Alla corte di Banana king. Bye bye!

di Gabriele Mulè

Chiese che chiudono, comunità emarginate, valorizzazione da McDonald: ecco la città che muore Nel centro storico di Mazara del Vallo si chiude un'altra porta. È la porta di una chiesa. E questa volta, se bussate, ci sono buone probabilità che non vi sia aperto. San Francesco, storica chiesa dallo splendido apparato decorativo, significativa per la posizione al confine tra urbanistica di matrice islamica città tardo ottocentesca, è aperta a rate: non a causa di un rilassamento spirituale quanto piuttosto per una effettiva assenza fisica. Non è più affidata alle cure costanti di un parroco, ma alle visite di un rettore: “perchè la comunità è assente”. Così San Francesco, in posizione strategica per essere luogo di contatto tra tunisini e mazaresi, non sarà l'ideale avamposto della ri-animazione della comunità cristiana del centro storico, del dialogo,della partecipazione, dell'integrazione nel rispetto e nell'affermazione dell'identità cristiana. Piuttosto, vista questa decisione a dispetto delle rimostranze della comunità “assente” (ma evidentemente “presente”, se trova la forza e la voglia di protestare), potrebbe diventare chiesa in partibus infidelium (Dalle parti degli infedeli, come il titolo del libro di Sciascia) o aperta al culto di qualche sparuto gruppo di turisti o studiosi. Aumenta dunque il lungo elenco delle chiese e dei monumenti del centro storico dalle porte serrate. Ma se la Chiesa si ritira avrà le sue ragioni. Registriamo, però, con malinconia questo dato di fatto, emblematico di un delicato processo in atto nel nostro centro storico: il progressivo smantellamento del suo tessuto sociale, del dissiparsi lento e costante del vissuto del quotidiano. A danno non solo della comunità di tunisini “vastissima, che si è integrata o almeno tenta di farlo... sfidando pregiudizi e accuse spesso ingiuste” (come scrisse Giuseppe Pirrello, indimenticato giornalista nel 1987 su L'Arco). Oggi al suono delle trombe dei nuovi conquistadores del centro storico, guidati dal folklore più che dalla storia e dalla progettualità, sembrano in atto silenziosi preparativi di allontanamento (qualcuno scriverebbe “espulsione”) dal centro storico

di tutti i suoi abitanti: tanto tunisini, quanto mazaresi. Un disegno di “valorizzazione” che, se non sembrasse più uno scarabocchio tanta la disarmonia che lo contraddistingue, parrebbe perfino essere machiavellico. Il meccanismo? Semplice: ecco lo scacco matto in tre mosse. Primo: strategia della paura. Si agitano gli spettri del centro storico abbandonato, cittadella fuorilegge del degrado, del malaffare, Bronx mazarese nel quale ci si avventura a rischio della borsa e della vita: i n d i r e t t a m e n t e criminalizzando chi nel centro storico è rimasto, e fornendo alibi a chi invece se ne è andato; additando l'emarginazione come c o m p l i c i t à , l a rassegnazione come connivenza, la diffidenza come intimidazione; assolvendo chi è andato via perché le difficili condizioni ambientali, senza diritto né legge, senza servizi né sicurezza, sono ai margini della vita civile. Così all'ombra grigia del “non dire” si alimenta un desiderio di rivendicazione evocando la recente memoria collettiva, sfruttando più il folklore che la storia, più l'ebbrezza alcolica dei pub che la sobrietà progettuale, più una recente passione che una tradizione storica (la ceramica). Secondo: generare contrasti. Legittimata la necessità di misure drastiche per sanare l'incontrollata emergenza, si può operare: “La musica è cambiata” è il messaggio che anche i più restii devono afferrare. Talvolta in senso letterale e perfino rumorosamente amplificato, come dimostra l'insonne disperazione dei residenti che abitano vicino ai nuovi locali notturni. Il processo di riappropriazione degli spazi del centro

storico non è, come si dice nella modernità contemporanea, concertato, condiviso, aperto: è settario, parziale, chiuso. Diremmo meglio: esclusivo (nel senso che ne ha escluso e ne esclude la maggior parte della cittadinanza). Il processo di “imbellettamento” ceramico poteva (poteva) essere coinvolgente: non lo è stato, ed è stato invece strombazzato come opera di riqualificazione, stroncato a ragione come inqualificabile. L'invito al recupero del centro storico avviene nel

segno del contrasto, immettendo nel tessuto storico interventi ed attività in un contesto immaturo, impreparato ad accoglierle: ovviamente, ciò aggrava gli squilibri e moltiplica le tensioni. Infatti il minestrone di Bed & Breakfast, di movida notturna, dei cosiddetti “contenitori culturali” (pieni di contenuto solo nelle intenzioni) non può avere successo senza un progetto organico: e deve fare drammaticamente i conti con la necessità di servizi per i cittadini, della manutenzione ordinaria, della vera valorizzazione a scopo culturale e turistico, dell'incanalamento degli attriti sociali

nell'ottica dell'integrazione. Bisognerebbe essere capaci di armonizzare la presenza di attività artigiane, commerciali, culturali, nel rispetto dei residenti (ed anzi incentivando il recupero fisico del centro storico ad opera di nuovi residenti che non pretendano l'espulsione dei “vecchi”) senza alcuna prevaricazione. Altrimenti (come adesso) B&B, movida notturna, contenitori sono e rimangono un minestrone indigesto. Nel segno di una finta globalizzazione ci sono imposte soluzioni pret a porter , da McDonald della valorizzazione, vendute come buone per tutte le stagioni e per tutti i centri storici: non è così. Si può copiare un modello, ma ciò che può essere fatto a Calatafimi non può essere fatto a Mazara del Vallo, e viceversa: se non per una questione di inventiva, almeno per una questione di rispetto dell'identità. Terzo: ricostruire dopo la demolizione. Costringendo in un angolo i dissidenti del centro storico, ovvero gli abitanti, si può precedere con un profondo rinnovamento del tessuto sociale del, ovvero una radicale sostituzione di quello ormai sedimentato costituito da nordafricani e italiani “resistenti”. Un centro storico servito su un piatto d'argento, ormai spoglio della sua ricchezza umana, pronto ad essere venduto casa per casa ed accogliere nuovi investimenti ed investitori, celebrato nel suo patrimonio artistico ma ormai svuotato, senz'anima, aperto solo al culto dei turisti e privo delle dinamiche del quotidiano della sua comunità. In pratica: chi ci vivrà, chi animerà le strade ed i negozi? Chi comprerà il pane, il giornale, si intratterrà con i vicini? Nessuno: un centro storico spettrale, pieno di fantasmi del passato: senza la funzione dell'abitare il centro storico diventa un ambiente finto, posticcio, una Disneyland di cartapesta. Tutto è in atto, tutto sta accadendo, la chiesa di San Francesco, ormai in partibus infidelium, resta chiusa. Ma confidiamo, non per sempre. Inshallah.


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MENTRE ECHEGGIANO LE NOTE DI “FRATELLI D'ITALIA”, SUL PENNONE SVENTOLA IL TRICOLORE ! Nel clima dei 150 anni dell'Unità d'Italia mi pare opportuno accennare brevemente ai due principali simboli della nostra Patria: il Tricolore Italiano e l'Inno Nazionale. Di essi tratteremo semplicemente alcune curiosità ed alcune notizie storiche. IL TRICOLORE ITALIANO Recita l'art. 12 della Costituzione della Repubblica Italiana (27/12/1947 G.U. n.298): ”La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di uguali dimensioni”. In verità il tricolore è stato ideato da due studenti universitari dell'Ateneo di Bologna, Giovan Battista De Rolandis, astigiano e Luigi Zamboni, bolognese,che nel 1794 unirono al bianco ed al rosso delle loro due città il verde come speranza per l'unità d'Italia. Ambedue morirono dopo essere stati imprigionati dalla polizia pontificia,uno suicida nella sua cella, l'altro mediante impiccagione, senza aver potuto vedere ufficializzata la loro iniziativa. Infatti il Senato Bolognese mise per iscritto, con decreto del 18/10/1796, quali fossero i colori della bandiera italiana , e successivamente, tutto ciò venne ratificato dopo a Reggio Emilia il 7 Gennaio 1797. E' altresì vero che esiste un documento che comprova la nascita ufficiale del tricolore italiano in data 13 maggio 1796, in occasione dell'armistizio di Cherasco tra Napoleone e la coalizione AustroPiemontese: “…. si è elevato uno stendardo formato da tre tele di diverso colore, cioè Rosso, Bianco e Verde…”. Per quanto riguarda il significato dei tre colori quale miglior definizione di quella del Carducci che in un discorso , tenuto il 7 gennaio 1897 a Reggio Emilia in occasione del centenario della nascita del tricolore, così ebbe a dire: “Sii benedetta! Benedetta nell'immacolata origine, benedetta nella via di prove e di sventure per cui immacolata ancora procedesti, benedetta nella battaglia e nella vittoria, ora e sempre nei secoli. Non rampare di aquile e leoni, non sormontare di belve rapaci, nel nostro vessillo; ma i colori della nostra primavera e del nostro paese, dal Cenisio all'Etna; le Nevi delle Alpi, l'Aprile delle valli, le Fiamme dei vulcani. E subito quei colori parlarono alle anime generose e gentili,con le ispirazioni e gli effetti delle virtù onde la Patria sta e si augusta : il bianco , la fede serena alle idee che fanno divina l'anima nella costanza dei savi ; il verde , la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene nella gioventù dè poeti ; il rosso , la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi. E subito il popolo cantò alla sua bandiera ch'ella era la più bella di tutte e che sempre voleva lei e con lei la libertà”. E' anche appena il caso di sottolineare che i tre colori della nostra bandiera sono anche i simboli delle tre virtù teologali cristiane: Bianco equivale a Fede, Verde è la Speranza e Rosso è la Carità!

Diverse canzoni sono state scritte sul nostro tricolore. Ne cito solo alcune: E la bandiera di tre colori Sempre è stata la più bella: vogliam sempre quella, noi vogliam la libertà! E la bandiera gialla e nera Quì ha finito di regnare, la bandiera giallo e nera quì ha finito di regnare. Tutti uniti in un sol patto, stretti intorno alla bandiera, griderem mattina e sera: viva,viva i tre color. di Ongaro - Cordigliani

Se una rosa vermiglio o un gelsomino O una foglia d'allor metti vicino I tre colori avrai più cari e belli. A noi che in quei ci conosciam fratelli

Tre colori, tre colori, l'Italian cantando va; e cantando i tre colori il fucile impugnerà. Foco, foco, foco, foco! S'ha da vincere o morir. Foco, foco,foco, foco! Ma il tedesco ha da morir. di Luigi Mercantini

I tre colori avrai che fremer fanno Chi ancor s'ostina ad esser tiranno. di Domenico Carbone

Andando inoltre molto più a ritroso nel tempo e volendo osare una ipotesi suggestiva, che resta però solo tale, anche se suggerita da alcuni Autori tra cui anche il Benigni, si potrebbe cogliere una sorta di “preludio”al nostro tricolore in alcuni versi della Divina Commedia, canto XXX del Purgatorio, quando Beatrice appare a Dante, e che il Sommo Poeta così descrive: …”sovra candido vel cinta d'uliva donna m'apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva”…

L'attuale bandiera italiana

La prima bandiera italiana

di Tonino Salvo

Infine , per concludere, ecco alcune curiosità: - nella prima stesura dell'inno al posto di fratelli d'Italia vi erano le parole: ”evviva l'Italia”; così come era anche scritto “stringiamci”e non stringiamoci. - coorte: la coorte è la decima parte della legione romana. - chioma: nell'antica Roma c'era l'usanza di tagliare i capelli alle schiave, che così venivano distinte dalle donne “libere” che invece potevano portare la chioma lunga. - perché siam divisi: concetto ripreso dal Manzoni che poi ebbe a scrivere :”..Liberi non sarem se non siamo uni”. - Legnano: il 1176 è l'anno in cui alcuni comuni italiani sconfissero il Barbarossa. Ferruccio: Francesco Ferrucci nel 1530, a capo delle truppe della repubblica fiorentina aveva sconfitto le truppe di Carlo V, prima di essere preso prigioniero ed ucciso da Maramaldo. E molti ricorderanno certamente la famosa frase a lui attribuita : ”Vile, tu uccidi un uomo morto”. - squilla: vuole significare la Campana, riferendosi ai Vespri Siciliani del 1282, quando le campane di Palermo chiamarono a raccolta il popolo siciliano nell'insurrezione contro i francesi. - balilla : è soltanto il nome del ragazzo genovese, in dialetto appunto balilla, che nel 1746 diede inizio alla rivolta contro i piemontesi. Le seguenti riproduzioni riguardano a sinistra il manoscritto originale, custodito presso il Museo del Risorgimento a Roma e, a destra, lo spartito ufficiale dell'Inno di Mameli, revisionato dal Benedetti a cura della Presidenza della Repubblica.

L'INNO NAZIONALE Il “Canto degli Italiani”, così come era intitolato agli inizi l'attuale nostro Inno Nazionale, fu scritto nel 1847 da Goffredo Mameli e musicato da Michele Novaro. Goffredo Mameli Goffredo Mameli nacque a Genova il 5 settembre del 1827. Studente, patriota di sentimenti liberali e repubblicani, poeta, cultore della letteratura classica, combatté con il grado di capitano dei Bersaglieri contro gli austriaci, prima di aderire alla Repubblica Romana combattendo assieme a Garibaldi contro i francesi. Morì in difesa di Roma il 6 luglio del 1849 e le sue spoglie riposano nel MausoleoOssario del Gianicolo. Michele Novaro (Genova 23/10/1818-Genova 21/10/1885) Anche Michele Novaro era di Genova, città dove nacque il 23 ottobre del 1818 e dove morì il 21 di ottobre del 1885. Egli fu maestro dei Cori del Teatro Regio e di Carignano,e di fede liberale musicò diversi canti patriottici. Non trasse alcun guadagno dal suo inno più famoso. Fondò la Scuola Corale Popolare. Michele Novaro morì in povertà ed i suoi allievi e collaboratori più stretti gli fecero erigere un monumento funebre nel cimitero di Staglieno, accanto alla tomba di Giuseppe Mazzini. La melodia piena di impeto e la particolare immediatezza dei versi fecero sì che il nostro inno fosse ben accolto sin dall'inizio dagli italiani specialmente quando Giuseppe Verdi , nel suo Inno alle Nazioni nel 1862 affidò proprio al “Canto degli Italiani”, ormai comunemente più conosciuto come “Fratelli d'Italia” il privilegio di rappresentare la nostra Patria insieme al “Dio salvi la Regina”per l'Inghilterra ed alla “Marsigliese” per la Francia. Dopo alcuni decenni della nostra storia in cui l'Inno Nazionale fu la Marcia Reale di Gambetti, e dal 1943 al 1946 il Canto del Piave, di E.A.Mario, a partire dal 12 ottobre del 1946 l'inno di Mameli , come viene comunemente chiamato, facendo così torto a Novaro che lo musicò, divenne l'inno della Repubblica Italiana. Oggi in ogni occasione ufficiale viene eseguita la prima strofa ed il ritornello, ripetuto due volte, e termina con un “Si” aggiunto postumo a “chiusura decisa”! Manoscritto Fratelli d'Italia L'Italia s'è desta, dell'elmo di Scipio s'è cinta la testa. Stringiamoci a coorte siam pronti alla morte siam pronti alla morte L'Italia chiamò.

Dov'è la vittoria? Le porga la chioma Che schiava di Roma Iddio la creò. Stringiamoci a coorte siam pronti alla morte siam pronti alla morte l'Italia chiamò. Si!

Fin qui la parte” ufficiale. Ma l'inno, composto nel 1847, continua con i seguenti versi: Noi fummo nei secoli calpesti,derisi Perché non siam popolo, perché siam divisi. Raccolgaci un'unica bandiera, una speme: di fonderci insieme già l'ora suonò.

Uniamoci,amiamoci, l'unione e l'amore rivelano ai popoli le vie del Signore. Giuriamo far libero il suolo natio: uniti, per Dio, chi vincer ci può?

D'Alpi a Sicilia dovunque è Legnano. Ogn'uom di Ferruccio ha il core, ha la mano. I bimbi d'Italia si chiaman Balilla. Il suon d'ogni squilla i Vespri suonò.

Son giunchi che piegano le spade vendute: già l'Aquila d'Austria le penne ha perdute. Il sangue d'Italia , il sangue polacco bevé col cosacco ma il cor le bruciò. Spartito


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“Buon Natale al Burkina Faso e al Niger” attanagliati da una spaventosa carestia! Proprio mentre stiamo andando in stampa una importante emergenza umanitaria si sta purtroppo abbattendo sui paesi della fascia del Sahel africano, e cioè sul Burkina Faso, sul Niger e sul Mali! I rispettivi Capi di Stato, fortemente preoccupati, hanno lanciato forte un grido di allarme alla comunità internazionale per far fronte a questa carestia epocale, che costituisce per gli abitanti di questi Paesi un vero e proprio stato di calamità naturale! Infatti i mutamenti climatici, che interessano tutto il globo terrestre, non hanno risparmiato quest'anno nemmeno questa sfortunata regione africana dove la siccità,

conseguente alla scarsa quantità ed intensità delle pioggie, durante il periodo di questo fenomeno naturale, ha condotto ad un notevole abbassamento della quantità dei cereali prodotti ( riso, mais e miglio ), indispensabili per la sussistenza di queste popolazioni, producendo quindi una grave crisi alimentare per la gran parte delle popolazioni colpite dalla carestia! A causa di ciò tutto il Comitato di Redazione dell'Arco lancia una sottoscrizione proprio sotto il periodo natalizio a favore di questi poveri che hanno solo il torto di essere lontano da noi e di essere i più poveri del mondo e fa il suddetto appello: Cari mazaresi, ci permettiamo di evidenziare il significato della parola solidarietà: dal latino "in solidum", formula giuridica che significa: obbligato con gli altri per l'intero, e che con il passare del tempo ha assunto anche il significato di consenso, di partecipazione, di aiuto reciproco. Solidarietà però che non dovrebbe limitarsi solo a creare associazioni varie che comunque hanno il merito quanto meno di

sopperire, spesso in modo quasi artigianale, a quello che viene egregiamente organizzato dalle varie organizzazioni nazionali ed internazionali. Bisogna , anche e principalmente, educare le nuove generazioni ad una cultura, diversa da quella odierna, e che in fin dei conti ha radici antiche, fatta di carità, di legalità, di etica pubblica e privata. In effetti quello che oggi si cerca di fare sporadicamente e in determinate occasioni, come ciò che stiamo suggerendo per il Natale, dovrebbe diventare presenza continua ogni giorno, ogni mese, ogni anno. Pur riconoscendo, come è assolutamente innegabile, che tutto il mondo stia attraversando un periodo di crisi profonda, bisogna, ad onor del vero, prendere atto che c'è sempre qualcuno che sta peggio di noi. Premesso quanto sopra vorremmo sensibilizzare tutti i mazaresi affinché, in occasione del prossimo Natale si tenesse ben presente la situazione di estrema indigenza in cui versano, insieme purtroppo ad altre genti, le popolazioni del Burkina Faso e del Niger. Ci permettiamo pertanto di suggerire a noi stessi ed a tutti voi che state leggendo di riflettere su queste poche righe , facendo anche da "passa parola"con amici e parenti, rinunciando magari durante le festività

natalizie a qualche dolce di troppo oppure a qualche regalino superfluo e contribuendo così a far trascorrere un pò meglio il Santo Natale a questi sfortunati fratelli africani ed a rendere più vivibile e umanamente più sopportabile la loro quotidianità. A tal proposito, se volete, potrete fare un versamento sul c/c postale n.98952625 intestato a : ARCO-baleno onlus con la causale : Natale 2011, Burkina Faso e Niger, oppure potete effettuare un bonifico bancario sul conto corrente codice IBAN IT71X0200805314000400540498, intestato ad ARCO-baleno onlus, sempre esplicitando la stessa causale. Ci scusiamo per questa intrusione nel vostro animo e se ci siamo permessi di indirizzare “il vostro pensiero” verso la solidarietà, che a volte è quasi in letargo, ma che certamente è comunque viva ed alberga sempre in ciascuno di noi. Grazie, Buon Natale e Felice 2012 a tutti! Il Comitato di Redazione

ARCO-baleno onlus lancia un ponte di solidarietà tra la Sicilia e l'Africa! Venerdì 28 ottobre di quest'anno, organizzato da ARCO-baleno onlus, di fronte ad una platea attenta di persone emotivamente partecipi, si è svolto nell'Aula Consiliare del Comune di Mazara del Vallo, il Convegno avente come tema: “Nell'anno del volontariato costruiamo un ponte di solidarietà tra la Sicilia ed il Burkina Faso”. La data del convegno coincide con la ricorrenza di un evento storico per la città di Mazara del Vallo. Infatti il 28 ottobre di quattro anni fa un figlio diletto di questa città, S.E.R. Mons. Vito Rallo, è stato elevato al soglio episcopale nella Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo nel corso di una solenne celebrazione presieduta da S. Em. il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di Sua Santità, Benedetto XVI. In precedenza con bolla papale Mons. Vito Rallo era stato nominato Arcivescovo titolare di Alba di Numidia e primo Nunzio Apostolico residente in Burkina Faso e in Niger. Quattro anni fa tutta la città di Mazara si era stretta con grande gioia e commozione attorno a questo figlio; adesso, dopo un lungo ed attivo periodo di missione diplomatica e di apostolato cristiano tra la gente più povera del mondo, ARCO-baleno onlus ha voluto proporre questo convegno per far conoscere ai concittadini quanto è stato fatto con il prezioso ed instancabile sostegno della Nunziatura Apostolica in Ouagadougou e quanti progetti ci sono “in fieri“, cioè da realizzare, in questo paese, il Burkina Faso, detto “il Paese degli uomini integri“, abituato com'è non solo alla povertà ma anche ad una stabilità civile, sociale e politica. Relatore d'eccezione è stato naturalmente il Nunzio Apostolico S.E.R. Mons. Vito Rallo che ha trattato della Chiesa e del significato della Nunziatura Apostolica sia nelle attività diplomatiche sia in quelle di carità cristiana che la stessa svolge in queste terre africane, ponendo in risalto il fatto che la Chiesa, attraverso la Nunziatura Apostolica, viene vista da questi popoli, anche se non di fede cristiana, come l'unica Entità che si occupa concretamente dei bisogni, non solo spirituali della gente, ma che si prende cura

anche della loro salute, e che provvede alla scolarizzazione lungo tutto il percorso che va dagli asili per i bambini fino a realtà importanti come l'Università Cattolica “San Tommaso d'Aquino”, che con le sue Facoltà di Giurisprudenza, di Scienze economiche e sociali, di Lettere e soprattutto di Medicina e Chirurgia proietta la società burkinabè verso un terzo millennio migliore dal punto di vista economico e sociale! Il lettore interessato troverà in questo numero dell'Arco il testo integrale del discorso pronunciato da S.E.R. Mons. Vito Rallo in tale circostanza, sotto forma di intervista rilasciata al Fondatore del Giornale. Nella direzione della salute e dell'istruzione si inseriscono i progetti del movimento Shalom onlus, fondato da Mons. Andrea Cristiani. Egli ci ha parlato, con la consueta trascinante oratoria dell'impegno che tutti i soci di Shalom mettono nella realizzazione di progetti umanitari in molti paesi poveri del mondo, e naturalmente tra essi non potevano mancare il Burkina Faso ed il Niger, cioè quei paesi situati nella fascia desertica sub-sahariana, privi di acqua e quindi anche di coltivazioni! Don Andrea Cristiani ha ricordato le direttive su cui si muove Shalom: l'acqua, con la costruzione di pozzi, le coltivazioni sperimentali, come i fagiolini, con sistemi di irrigazione in terreni aridi, la sanità, con la creazione di dispensari medici, le scuole per ridurre il tasso ancora elevato di analfabetizzazione, il micro credito per venire incontro soprattutto alle donne più disagiate e povere e così via! E quale testimonianza migliore e toccante può esserci stata di quella di fratel Vincenzo Luise, sacerdote camilliano e missionario in Africa da circa 40 anni? Nelle sue parole semplici, ma che vanno dritte al cuore, nei suoi gesti caritatevoli, spinti da vero amore incondizionato verso gli ammalati, gli infelici, verso i più poveri della terra, che Egli quotidianamente abbraccia e che chiama i miei Signori e Padroni, c'è il sentimento mistico della grande fede in Dio. Queste parole, questi gesti e la vita stessa di fratel Vincenzo costituiscono l'essenza vera della carità cristiana, testimoniando nel contempo

di Giuseppe Fabrizi

la grandezza della Chiesa universale. Dall'altra parte del mondo, sempre nella nostra Sicilia, da dove è partito S.E.R. Mons. Vito Rallo, un altro figlio della terra di Sicilia, Padre Luigi Ferlauto, nella zona più depressa della S i c i l i a , a Tr o i n a , s u l cocuzzolo di una montagna, a 1200 metri di altitudine, in silenzio (“perché in silenzio si lavora meglio!” come ha ricordato l'oratore) e con grande tenacia e fede, ha dedicato tutta la sua vita ai bambini affetti da handicap mentale, costruendo pian piano per loro delle strutture d'avanguardia e in parte avveniristiche, allo scopo di offrir loro una migliore qualità di vita. E' così sorta l'Oasi Maria Santissima, poi il Villaggio Redentore e poi infine le strutture sanitarie, che ospitano circa 450 pazienti affetti da ritardo mentale e da malattie genetiche rare, che hanno fatto di questo Centro prima un Istituto di ricerca e cura a carattere scientifico ( IRCSS ), unico nel suo genere perché rivolto all'handicap, e poi “l'Oasi città aperta”, il sogno da realizzare e già in parte realizzato, dove uomini e donne, sani e diversamente abili, vivono serenamente insieme, aiutandosi l'uno con l'altro, nello spirito che “ognuno è qualcuno da amare!” Per tutti questi motivi ARCO-baleno onlus diventa un ponte, diventa un arcobaleno ideale che unisce la Sicilia al Burkina Faso e al Niger, illuminandoli con i propri progetti umanitari e stimolando a collaborazioni una volta impensabili, ma oggi e domani assolutamente necessari ed indispensabili. E in questo arcobaleno di colori e di amore è da leggere la testimonianza emozionante e toccante dell'avv. Pino Deroma, grande propulsore di questi progetti, che si inserisce nel Convegno con la sua disarmante umanità, facendo riflettere sulla caducità delle cose terrene, che si possono perdere da un giorno all'altro, mentre le cose che

toccano lo spirito costituiscono invece il vero motore della vita e della pace interiore. Alla globalizzazione, cui va inesorabilmente incontro la società moderna, si allaccia infine la relazione del Dr. Angelo Scaduto, medico, mazarese di nascita ma toscano d'adozione, che a Santa Croce sull'Arno vive quotidianamente tutti i problemi della multietnicità, avendo a che fare, anche come presidente della locale Pro-loco, con persone appartenenti a 55 etnie diverse! Ed ecco pertanto che il nostro arcobaleno, partendo da Mazara del Vallo e giungendo ad Ouagadougou, si collega, strada facendo, con il Movimento Shalom a Fucecchio, per ritornare poi in Africa e poi di nuovo in Sicilia, a Troina, e terminare infine a Santa Croce sull'Arno in un abbraccio ideale e cosmico che mette insieme tutte le persone di buona volontà! Nell'anno europeo del volontariato la nostra ARCObaleno onlus ha inteso così contribuire alla realizzazione di un ponte unico dove le persone di buona volontà percorrono un cammino comune fatto di bene, di fratellanza, di sussidiarietà e di solidarietà cristiana. Alla fine del Convegno sono stati distribuiti gli Atti della Ordinazione Episcopale di S.E.R. Mons. Vito Rallo e la somma raccolta, grazie a spontanee donazioni, è stata consegnata a fratel Vincenzo per alleviare i numerosi bisogni degli ammalati di lebbra!


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LA MISSIONE DELLA NUNZIATURA APOSTOLICA IN BURKINA FASO E IN NIGER Intervista a S.E. Mons. Vito Rallo Arcivescovo titolare di Alba Nunzio Apostolico in Burkina Faso e in Niger di Giuseppe Fabrizi Domanda ( abbrev.: D. ).: Eccellenza, ci aiuti a comprendere il termine di "Nunzio Apostolico." S.E. Mons. Vito Rallo, Nunzio Apostolico ( poi solo: Nunzio Apostolico) : Il Nunzio Apostolico rappresenta il Romano Pontefice in modo stabile presso le chiese particolari e presso il Governo e le Autorità del Paese là dove è inviato e accreditato. Per quanto riguarda la chiesa locale, il Nunzio Apostolico è il segno di unità tra la Santa Sede e i vescovi delle chiese particolari. In quanto Rappresentante del Santo Padre, la sua missione è di rendere stretti, solidi ed efficaci i legami tra la Sede Apostolica e le Chiese locali. Deve promuovere questa unità e deve aiutare i vescovi nei loro bisogni. Nei limiti della sua missione, appartiene dunque al Legato Pontificio: a) informare la Sede Apostolica della situazione delle Chiese particolari e di tutto ciò che tocca la vita della chiesa e il bene delle anime; b) aiutare i vescovi con la sua azione e i suoi consigli; c) intrattenere relazioni frequenti con la Conferenza Episcopale, e porgere ogni aiuto possibile; d) per quanto riguarda la nomina dei vescovi, è compito del Nunzio Apostolico trasmettere e proporre alla Sede Apostolica la terna di candidati, come anche l'inchiesta concernente le persone da promuovere, secondo le regole date dalla Sede Apostolica. D.: Può spiegarci meglio in che cosa consiste la sua missione? Nunzio Apostolico : Il Nunzio Apostolico è l'interprete della sollecitudine del Romano Pontefice per il bene del Paese nel quale esercita la sua missione. Deve interessarsi con zelo ai problemi della pace e in particolare alle questioni relative al progresso e alla collaborazione tra i popoli, orientando la sua azione in modo coerente col fine di realizzare il progresso spirituale, morale e materiale dell'intera famiglia umana. Al Rappresentante Pontificio tocca anche il dovere di vegliare, nel territorio dove esercita il suo servizio, alla missione della Chiesa e della Santa Sede. Nella sua qualità di inviato del Pastore Supremo, il Rappresentante Pontificio promuoverà, in armonia con le istruzioni che riceve dei dicasteri competenti della Santa Sede e in accordo coi vescovi del luogo, contatti opportuni tra la Chiesa Cattolica e le altre comunità cristiane e favorirà rapporti cordiali con le religioni non cristiane. Ha anche la missione di difendere presso i Capi di stato, in azione concertata coi vescovi, ogni questione che coinvolge la missione della Chiesa e della Sede Apostolica; infine, ha l'incarico di esercitare le facoltà nonché di compiere gli incarichi che gli sono affidati dalla Sede Apostolica. Il Legato Pontificio, accreditato presso uno Stato secondo le regole del diritto internazionale, ha inoltre l'incarico particolare: a) di promuovere e di intrattenere i rapporti tra la Sede Apostolica e le Autorità dello Stato; b) di trattare le questioni concernenti le relazioni tra la Chiesa e lo Stato e, in particolare, c) di lavorare per l'elaborazione e l'applicazione di concordati ed altre convenzioni dello stesso genere. D.: Comprendiamo che la missione e le funzioni del "Nunzio Apostolico" sono diversi e più estesi rispetto a quelli di un capo di rappresentanza diplomatica. Perché altrimenti non si chiama semplicemente ambasciatore come gli altri diplomatici accreditati? Nunzio Apostolico: I Legati Pontifici esercitano la loro rappresentanza in due ambiti precipui, ovvero presso le Chiese locali e presso gli Stati e i governi. Quando la loro rappresentanza viene esercitata esclusivamente presso le Chiese locali, prendono il nome di Delegati Apostolici. Quando tale rappresentanza, a carattere religioso ed ecclesiale, viene affiancata dalla rappresentanza diplomatica presso gli Stati e i governi, ricevono il titolo di Nunzi. Il titolo

"Nunzio" è un termine antico che viene del latino "Nuntius" e significa "messaggero". La Santa Sede continua ad utilizzare tale titolo nel designare i suoi ambasciatori. Non dobbiamo dimenticare che la diplomazia della Santa Sede è la più antica nel mondo occidentale. Già nel IV secolo i Papi inviavano i loro rappresentanti presso la corte degli Imperatori romani di Oriente a Costantinopoli, e più tardi come Legati Apostolici presso i re medievali. In seguito, a partire dal XV secolo, quando si formarono gli Stati nazionali in Occidente i Legati Pontifici assunsero il titolo di Nunzi Apostolici residenti. Pertanto la Convenzione di Vienna sulle Relazioni Diplomatiche (1961) all'art. 16,3 recita: “Il presente articolo non tocca gli usi accolti o che saranno accolti dallo Stato accreditatario per quanto concerne la precedenza del Rappresentante della Santa Sede”. In altri termini ciò significa che nelle Nazioni di tradizione cattolica il Nunzio Apostolico, in quanto Rappresentante del Papa, è “ipso iure” Decano del Corpo Diplomatico accreditato presso quella Nazione. D.: Che cosa è una Nunziatura Apostolica? Nunzio Apostolico: La Nunziatura Apostolica è l'Ambasciata della Santa Sede dove risiedono e lavorano il Nunzio Apostolico, il Segretario della nunziatura apostolica ed i collaboratori locali. D.: Concretamente, come si svolge il lavoro quotidiano del Nunzio Apostolico? Quali attività vengono effettuate dalla Nunziatura Apostolica a Ouagadougou? Nunzio Apostolico: Dedico la prima parte della mattinata, dalle ore 07.00 alle ore 08.30, anzitutto alla preghiera, alla meditazione e alla celebrazione della Santa Messa. Dalle ore 09.00 alle 13.00 e dalle 15.30 alle 19 mi trattengo in ufficio ove mi occupo di tutto il lavoro ordinario della Nunziatura. Coordino il lavoro del segretario diplomatico e dei collaboratori locali. Ricevo vescovi, ambasciatori, autorità burkinabè, preti, religiosi, religiose, laici cattolici ed anche protestanti e musulmani che chiedono d'incontrarmi. Si risponde alle lettere, alle e-mail, alle telefonate, si partecipa alle riunioni del Corpo diplomatico e alle convocazioni del Governo. Leggo i

rapporti e la corrispondenza che arrivano dalle diocesi e dagli istituti religiosi. Leggo i giornali per informarmi della situazione sociale del paese. Ricevo i documenti dalla Santa Sede che devono essere trasmessi alle diocesi. Esamino le domande di sussidi economici che i vescovi inviano alla Nunziatura affinché vengano trasmesse alle Pontificie Opere Missionarie. Si rilascia la Nota verbale a preti, religiosi e religiose che devono recarsi a Roma per motivi di studio, al fine di ottenere il visto d'ingresso presso l'Ambasciata d'Italia. Preparo le omelie e i discorsi che dovrò pronunciare in occasione di Sante Messe o di incontri nelle diocesi o nelle parrocchie. Si preparano i rapporti che la Nunziatura Apostolica trasmette alla Santa Sede per informare sulla vita della Chiesa o sulla situazione sociale, religiosa e politica del Paese. In Burkina Faso ho visitato numerose città tra le quali Koubri, Koupèla, Kaya, Ouahigouya, BoboDioulasso, Manga ecc. nonché quasi tutte le parrocchie dell'arcidiocesi di Ouagadougou, dove ho presieduto numerose celebrazioni: la S. Messa della notte di Natale, la Settimana Santa, la festa del Santi Apostoli Pietro e Paolo e molte altre celebrazioni della chiesa-famiglia in Burkina. Ogni anno, celebro anche la S. Messa nella prigione di Ouagadougou (MACO). Nel 2008, dopo avere benedetto il pranzo per 1.400 detenuti, ho visitato i differenti edifici di quella prigione. Ogni anno visito le comunità dei lebbrosi e delle cosiddette “streghe” di Delwendé (Dio ti accoglie). Ho preso parte alla grande celebrazione del pellegrinaggio nazionale a Yagma e ho presieduto le celebrazioni della settimana santa in alcune parrocchie di Ouagadougou. Ho presieduto anche la presa di possesso dei nuovi arcivescovi di Ouagadougou e di BoboDioulasso, la consacrazione episcopale del nuovo vescovo di Manga, l'ordinazione di più di 40 diaconi al Seminario Maggiore di Saint Jean-Baptiste a Ouagadougou e di 47 diaconi al Seminario Maggiore di Saint Pierre Claver a Koumi. Ho avuto modo di visitare il Niger tre volte. Inoltre, come ambasciatore, ho preso parte a parecchi incontri col Presidente della Repubblica del Burkina Faso, con diversi ministri ed alcuni ambasciatori. Il Papa, secondo Sant'Ignazio d'Antiochia, è colui che presiede nella carità. Facendomi interprete di questa sollecitudine che il Papa

ha verso le chiese locali che si trovano nel bisogno e non potendo rimanere insensibile di fronte alla mille necessità del popolo burkinabè, ho pensato di dare alla mia missione diplomatico-pastorale un'attenzione preferenziale verso le esigenze dei più poveri. La Nunziatura Apostolica, grazie alla generosità di parecchi amici di Italia, Spagna, Messico, Irlanda e Corea del Sud, segue personalmente diversi programmi di carità e di promozione della persona umana. Così abbiamo già consentito l'adozione a distanza di 58 bambini (circa 14.500 euro), parimenti abbiamo sostenuto la realizzazione di 23 pozzi in favore di più di 50.000 persone, per un valore di circa 183.000 euro. Tra questi pozzi, 7 sono stati costruiti a Dori, nel Sahel, grazie ad una richiesta di ARCO-baleno onlus interamente finanziata dalla Fondazione BNL del gruppo BNP Paribas, mentre un pozzo e un quarto nella diocesi di Kaya, utilizzando i fondi del 5 x mille donato dai contribuenti alla medesima associazione. Nel Sahel, in totale, sono stati realizzati 12 pozzi in un territorio la cui popolazione al 99% professa la religione islamica e un'altro a Niamey. Nel 2012 è prevista la realizzazione di almeno altri 8 pozzi in Burkina Faso: 1 sarà realizzato grazie al 5 x mille donato ad ARCO-baleno onlus, 1 sarà finanziato da Acquedotto Pugliese, 1 dalla Diocesi di Cheju in Corea del Sud, 1 dalla Regione Molise ed infine 5 da alcune famiglie e sacerdoti di Madrid. La Nunziatura Apostolica ha seguito anche la promozione di alcune opere di carità e di solidarietà: grazie alla Diocesi di Cheju in Corea del Sud, attraverso l'OCADES-CARITAS-Burkina, è stata finanziata la distribuzione di cereali a 500 famiglie indigenti e di attrezzi agricoli e semi migliorati ad oltre 2.100 agricoltori (per un valore di circa 67.719 euro), nonché la costruzione di 30 case per famiglie di persone colpite dalla lebbra (45.000 euro). Grazie ad ARCO-baleno onlus e all'avv. Pino Deroma è stato costruito e arredato un padiglione di pediatria ed una sala di attesa presso il Centro Medico Paolo VI ad Ouagadougou (circa 50.000 euro), che nel 2010-2011 ha curato 12.000 bambini e ne ha ricoverati 3.100. La Nunziatura ha finanziato, grazie alla munificenza della diocesi di Cheju in Corea del Sud, un Centro medico e sociale a Nouna (80.000 euro). Tramite il programma PRO.ME.SSO di ARCO-baleno onlus, sono state raccolte donazioni che hanno permesso la concessione di 22 borse di studio per gli studenti universitari dell'Università Cattolica San Tommaso d'Aquino (11.000 euro). La Nunziatura Apostolica ha fatto pervenire generi alimentari a parecchie centinaia di famiglie cattoliche, musulmane e animiste. Inoltre sovvenzioniamo regolarmente le comunità fondate da Fratel Vincenzo Luise attraverso aiuti economici per comprare medicine e cereali per i lebbrosi, gli ammalati di AIDS e le cosiddette streghe (circa 42.225 euro). Si tratta di una goccia di acqua nel mare dei grandi bisogni dei Burkinabè, ma, come diceva Madre Teresa di Calcutta, senza questa goccia l'oceano non avrebbe lo stesso sapore. In tre anni e mezzo la Divina Provvidenza, grazie al generoso contributo di molti amici e benefattori, ha consentito di realizzare opere di carità per 657.229€. Del suddetto totale, circa 116.029 € (quasi il 18% del totale) sono stati donati da famiglie di: Mazara del Vallo (93.579 €), Marsala (13.000 €), Castelvetrano (2.200 €), Trapani (1.000 €) e Palermo (3.250 €). Il Comune di Mazara del Vallo, nel 2010, ha donato la somma di 3.000 € destinata alla costruzione di due casette per due famiglie di lebbrosi. D. : Il Nunzio Apostolico deve necessariamente essere un vescovo oppure il Papa può affidare questo alto e delicato incarico ai laici? Nunzio Apostolico: Coloro che rappresentano la Santa Sede si chiamano


L’arco DICEMBRE 2011 Rappresentanti Pontifici, designando con tale denominazione i chierici che, in modo ordinario, assumono la dignità episcopale e ricevono del Romano Pontefice l'incarico di rappresentarLo, in modo stabile, presso le diverse nazioni o regioni del mondo. Un laico può rappresentare ufficialmente il Santo Padre in una conferenza internazionale, come occorso a Pechino dove una donna ha rappresentato la Santa Sede nei lavori della Conferenza internazionale sulle donne. Prima del mio arrivo, il Nunzio che si occupava del Burkina risiedeva ad Abidjan, in Costa d'Avorio. Adesso, risiede ad Ouagadougou. Perché questo cambiamento? La Chiesa del Burkina è molto attiva ed unita. I vescovi e il governo hanno chiesto alla Santa Sede che il Nunzio Apostolico potesse risiedere ad Ouagadougou. Il Santo Padre, volendo essere rappresentato in modo stabile in Burkina Faso, ha accolto tale richiesta decidendo d'inviare un Nunzio Apostolico residente. D.: In quanto Rappresentante del Papa, nell'immaginario popolare, le persone credono che Lei sia il responsabile dei vescovi del Burkina Faso e del Niger e, in ogni caso, quello cui rendere conto. Che cosa c'è di vero? Nunzio Apostolico: Il Motu Proprio di Paolo VI ed il Codice di Diritto Canonico delineano la missione del Nunzio Apostolico. Alla luce di questi due documenti, si può dire che «Egli non è un osservatore passivo e neppure soltanto un ambasciatore impegnato ad eseguire un disegno impostogli dall'esterno: è invece il protagonista attivo, l'artefice operoso di una rappresentanza che diremmo totale, in quanto la sua missione deve adeguarsi ed anzi immedesimarsi con quella del Papa, nel giusto ordinarsi dell'ufficio dei pastori delle Chiese particolari con quello del Pastore della Chiesa universale». Tre sono i principi che ispirano e giustificano la missione del Rappresentante Pontificio: 1. Il carisma di Pietro, ossia l'ufficio del Papa, come centro e garanzia dell'unità della Chiesa, con la sua dimensione missionaria ed ecumenica: «Il vescovo di Roma, in virtù del suo ufficio, ha su tutta la Chiesa una potestà piena, suprema ed universale, che può sempre esercitare liberamente» (LG 22); essendo essa ordinaria ed immediata, egli inoltre, come successore di Pietro è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità sia dei Vescovi, sia della moltitudine dei fedeli (LG 23), e pertanto ha come funzione precipua nella Chiesa di tenere unito ed indiviso il collegio episcopale (LG 18). Con l'affidare al suo Vicario la potestà delle chiavi e con il costituirlo pietra e fondamento della sua Chiesa, il Pastore eterno gli attribuì pure il mandato di confermare i propri fratelli (cf Lc 22, 32): ciò si avvera non solo col guidarli e tenerli uniti nel suo Nome, ma anche col sostenerli e confortarli, certamente con la sua parola, ma in qualche modo anche con la sua

presenza». 2. Il secondo principio è quello della comunione viva all'interno della Chiesa, resa più consapevole dall'esercizio della collegialità, in un movimento ininterrotto di scambio verso il centro e il cuore e che dal centro si diffonde alla periferia e porta a tutte e singole le Chiese locali, a tutti e singoli i pastori ed i fedeli la presenza e la testimonianza di quel tesoro di verità e di grazia di cui Cristo ha reso il suo vicario partecipe, depositario e dispensatore. Nella prima direzione operano il Sinodo dei Vescovi con la sua segreteria permanente a Roma, i Vescovi, i sacerdoti ed i laici provenienti da ogni parte del mondo che prestano il loro consiglio e la loro opera nella Curia Romana, i pastori delle diocesi con le loro corrispondenze e le visite ad limina, le Conferenze Episcopali con le loro relazioni e la comunicazione dei loro atti. Nel movimento verso la periferia di questo flusso vitale s'iscrivono primariamente i viaggi del Santo Padre, che producono notevoli cambiamenti nell'esercizio pratico del suo ministero apostolico e che favoriscono una più intensa circolazione di carità nella Chiesa ed una maggiore evidenza della sua unità e della sua cattolicità. La missione dei Rappresentanti Pontifici è modellata sulla stessa missione del Papa. Leggiamo ancora nel Motu Proprio: «L'attività del Rappresentante Pontificio reca innanzitutto un prezioso servizio ai

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vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi e a tutti i cattolici del luogo, i quali trovano in lui sostegno e tutela, in quanto egli rappresenta un'autorità superiore, che è a vantaggio di tutti. La sua missione non si sovrappone all'esercizio del potere dei vescovi, né lo sostituisce o intralcia, ma lo rispetta e, anzi, lo favorisce e sostiene col fraterno e discreto consiglio. La Santa Sede, infatti, ha sempre considerato norma valida di governo nella Chiesa quella che il nostro predecessore, san Gregorio Magno, enunciò con le seguenti parole: «Se non è rispettata la giurisdizione di ciascun Vescovo, viene creata confusione proprio da noi, che dobbiamo custodire l'ordine nella Chiesa» (Registrum Epistolarum II, 285) 3. Il terzo principio è quello di meglio servire al rapporto permanente e benefico con le comunità civili autonomamente organizzate nelle quali è radicata o presente la Chiesa cattolica. E questo non solo in virtù del diritto di legazione attiva e passiva che appartiene costituzionalmente e storicamente al suo Capo e della responsabilità che ne consegue, ma anche in armonia con la costituzione pastorale del Vaticano II Gaudium et spes e col principio annunziato nel messaggio finale del Concilio ai governanti: «Nella vostra città terrestre e temporale, il Cristo costruisce la sua città spirituale ed eterna, la sua Chiesa»: nessuna dicotomia, quindi, né personale né sociale. Lo aveva già espresso con molta concretezza Pio XII nel radiomessaggio natalizio del 1951: «La Chiesa non è una società politica, ma religiosa; ciò però non le impedisce di essere con gli Stati in rapporti non solo esterni, ma anche interni e vitali. La Chiesa infatti è stata fondata da Cristo come società visibile e, come tale, s'incontra con gli stati sullo stesso territorio, abbraccia nella sua sollecitudine gli stessi uomini e in molteplici forme e sotto vari aspetti usa i medesimi beni e le medesime istituzioni». D.: Qual è il processo di nomina di un vescovo, di un arcivescovo, di un cardinale e di un papa? Nunzio Apostolico : Nella Chiesa Cattolica non ci sono misteri specialmente per quanto riguarda le nomine della gerarchia. Il codice di diritto canonico prevede tutto nel minimo dettaglio. "Ogni volta che un vescovo diocesano o un vescovo coadiutore devono essere nominati, è compito del Legato Pontificio proporre tre nomi alla Sede Apostolica, di informarsi su ciascuno e di comunicare alla Sede Apostolica col suo proprio parere, le opinioni del metropolita e dei vescovi

suffraganei della provincia dove si trova la diocesi da provvedere, come anche del presidente della conferenza dei vescovi; inoltre, il Legato Pontificio sentirà i membri del Collegio dei consultori e del capitolo cattedrale, e, se lo giudica opportuno, chiederà segretamente e separatamente il parere di alcuni membri del clero diocesano e religioso e di laici riconosciuti per la loro saggezza (Can.377,3). Can 364,4. Per quanto riguarda la nomina dei vescovi, è il Nunzio Apostolico che deve trasmettere alla Sede Apostolica o proporre i nomi dei candidati, come anche l'inchiesta concernente i sacerdoti da promuovere, secondo le regole date dalla Sede Apostolica. Poi, dopo un esame da parte di una Commissione di Cardinali membri della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli che darà il suo parere sui tre nomi dei candidati proposti dalla Nunziatura Apostolica, il dossier sarà presentato al Santo Padre che, secondo il Can. 377 - § 1, elegge liberamente i vescovi, o conferma colui che è stato eletto legittimamente. Il Nunzio Apostolico in tre anni e mezzo di presenza al Burkina Faso ha presentato al Santo Padre, le terne di candidati per la nomina dell'Arcivescovo di Ouagadougou, il Vescovo di Ouahigouya, l'Arcivescovo di Bobo-Dioulasso ed il nuovo Vescovo di Manga e Koudougou. Attualmente sono state trasmesse alla Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli la terna per la nomina dei Vescovi di Gaoua, Tenkodogo (due nuove diocesi) e del Vescovo di Fada N'Gourma. Nel 2012 saranno presentate altre terne per qualche diocesi ove sia necessario provvedere. In Burkina Faso pertanto ci saranno 15 diocesi ed in Niger due diocesi. D.: Che tipo di cooperazione è auspicabile si instauri tra la Santa Sede e il Burkina Faso quando si sa che, spesso, i Paesi di alcuni Rappresentanti diplomatici finanziano dei progetti. È possibile sperare che altrettanto possa essere realizzato dalla Santa Sede? Nunzio Apostolico: La cooperazione della Santa Sede e della Chiesa Cattolica non è, anzitutto, una cooperazione tecnica e finanziaria come quella che parecchie ambasciate presenti ad Ouagadougou offrono allo Stato burkinabè. La nostra cooperazione è di ordine spirituale e materiale, allo stesso tempo. In altre parole, annunciamo il vangelo e siamo impegnati per la promozione di valori morali e spirituali per ogni uomo ed ogni donna. Al contempo, realizziamo progetti per la promozione integrale e lo sviluppo dei burkinabè.


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Peraltro, se s'intende per cooperazione il finanziamento di alcuni progetti, posso dirvi che la cooperazione tra la Santa Sede e il Burkina Faso avviene attraverso parecchi canali e direttamente tramite ogni diocesi e comunità presente nel variegato e vasto mondo cattolico. Con tutto il rispetto dovuto alle ONG e alle Organizzazioni Internazionali per il grande lavoro che compiono in favore dei più sfortunati, occorre affermare che la Santa Sede e la Chiesa Cattolica non sono una ONG o una Organizzazione Internazionale. La Santa Sede e la Chiesa Cattolica non fanno della filantropia o della "carità" al mero scopo di fare del proselitismo. La missione della Chiesa è ben altra e si compie nella manifestazione, attraverso la carità vissuta, dell'amore che è il nome e l'essenza di Dio in sé. Papa Benedetto XVI, nella sua prima enciclica "Deus caritas est", ha voluto riaffermare il carattere centrale della testimonianza della carità per la Chiesa nel nostro tempo. Attraverso questa testimonianza, resa visibile nella vita quotidiana dei suoi membri, la Chiesa raggiunge milioni di uomini e di donne e rende loro possibile di riconoscere e di percepire l'amore di Dio che è sempre vicino a tutti, e a coloro che si trovano nel bisogno. Per noi cristiani, Dio è la sorgente della carità, e la carità è sentita non solamente come un'onda filantropica, ma come dono di se stesso fino al sacrificio della sua propria vita in favore degli altri, ad imitazione dell'esempio di Gesù Cristo. La Chiesa prolunga nel tempo e nello spazio la missione salvifica di Cristo: vuole raggiungere ogni essere umano, mossa dal desiderio che ogni individuo riesca a conoscere che niente può separarci dall'amore di Cristo (cfr Rm 8, 35, (Discorso di Papa Benedetto XVI ai partecipanti all'Assemblea generale della Caritas Internationalis in occasione del 60 anniversario della sua fondazione, Roma 27 maggio 2011). Prima di continuare su questo tema, vorrei fare un chiarimento: il Vaticano non è la Santa Sede. La Santa Sede è un soggetto di diritto internazionale ed intrattiene relazioni diplomatiche con 179 Nazioni e 20 organizzazioni internazionali ; soltanto 16 Nazioni non hanno relazioni diplomatiche con la Santa Sede, tra le quali la Cina, la Corea del Nord, l'Arabia Saudita ed alcune Nazioni a maggioranza islamica che si trovano in Asia, Africa e nella Penisola Arabica. Di contro il Vaticano non ha relazioni diplomatiche con alcun Stato. La Santa Sede non persegue obiettivi politici o economici ma svolge un'attività diplomatica singolare, spoglia di minacce, pressioni, intenzioni segrete o rivalità, al servizio

esclusivo di interessi non contrastanti ma convergenti, nell'ambito di un dialogo aperto e costruttivo. «Quali sono i temi di questo dialogo - diceva Paolo VI parlando al Corpo Diplomatico accreditato in Vaticano il 9 gennaio 1971 - oltre ai problemi relativi alla situazione della Chiesa nei vari Stati ed i fini della sua propria missione e del suo servizio presso i diversi popoli, se non le questioni più importanti e i maggiori interessi dell'umanità? Per esempio: i diritti della libertà religiosa, che sono quelli di Dio e della coscienza; i diritti dell'uomo; la coscienza dell'ordine e del progresso internazionale; la giustizia e specialmente la pace. Occorre dirlo: le ragioni profonde degli interventi della Santa Sede sfuggono talvolta allo sguardo degli osservatori superficiali perché nascono da motivazioni spirituali e morali e perché non si confondono con alcuna azione di ordine temporale. Ed è per questo che tali interventi sconcertano coloro che vorrebbero interpretarli in funzione di una politica o semplicemente giudicarli alla stregua dei soli interessi nazionali». Ritornando alla domanda, posso dire che molti progetti di sviluppo, di solidarietà, di educazione e di salute, sono finanziati direttamente o indirettamente dalla Santa Sede. Per esempio, la Santa Sede, attraverso le Pontificie Opere Missionarie, finanzia molte opere destinate all'educazione e all'evangelizzazione per un importo di circa 3 milioni e mezzo di euro. La Santa Sede, attraverso la Fondazione Jean-

Paul II per il Sahel, che ha celebrato il suo venticinquesimo anniversario, finanzia molte opere di sviluppo nei paesi del Sahel, di cui il Burkina Faso fa parte, per quasi un milione e mezzo di euro. La Santa Sede indirettamente, attraverso l'OCADES-Caritas-Burkina, sovvenziona molte opere di sviluppo, di educazione e di salute in tutto il Paese con oltre 10 milioni di euro. Ricordiamo anche il lodevole e generoso lavoro compiuto dal "Catholic Relief Service" degli Stati Uniti d'America, grazie alla carità dei cattolici e all'appoggio finanziario dello stato americano (circa 10 milioni di euro). Si tratta di opere che tutti i Burkinabè conoscono. Inoltre, molti aiuti provengono da Shalom (1 milione di euro), dal Movimento missionario dei Gesuiti (MAGIS) (750.000 euro), da molte parrocchie e da diocesi francesi, italiane, spagnole, americane, coreane e tedesche… Infine ricordo che la Chiesa Cattolica è stata la prima Chiesa ad arrivare in Burkina Faso all'inizio del 1900 e, da allora, ha promosso l'evangelizzazione e la promozione integrale dell'uomo e della donna. Peraltro, amerei ricordare ciò che la Chiesa Cattolica e la Santa Sede offrono come contributo alla promozione umana di questo paese e di tutto il Continente. Il quotidiano della Santa Sede "L'Osservatore Romano" ha pubblicato, nell'edizione italiana del 27 gennaio 2010, un articolo di Alexander Douglas, in cui il ministro britannico per lo Sviluppo Internazionale afferma che: "Un

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quarto di tutta l'assistenza sanitaria nell'Africa sub-sahariana è offerto dalla chiesa cattolica e che le scuole cattoliche forniscono pressappoco dodici milioni di posti, dando così a molti, delle opportunità in questo continente". Inoltre il 27% di tutta l'assistenza agli ammalati di AIDS è offerta dalla Chiesa Cattolica. In Burkina Faso, ci sono il Centro dei Padri Camilliani ed il CANDAF, Centro di accoglienza Nostra Signora di Fatima. Sul piano dell'insegnamento, secondo le statistiche del 2008-2009, la partecipazione della Chiesa Cattolica allo sviluppo del Burkina Faso si valuta in 236 istituti scolastici, dal prescolare al superiore, per un totale di 52.120 alunni, dei quali il 51,8% sono ragazze. Al riguardo delle strutture mediche, sempre in Burkina, vi sono 104 dispensari ed ospedali, dislocati in 11 diocesi dove lavorano 107 religiosi e religiose e 908 medici e infermieri e dove ogni anno vengono curati in media 643.176 pazienti. Tutte queste strutture beneficiano del sostegno di diversi organismi ecclesiali ed anche dell'apporto non trascurabile degno di lode delle comunità locali. Si può pertanto affermare che la Santa Sede e la Chiesa Cattolica aiutano tutti e tutte i Burkinabè con un apporto che varia dai 25 ai 30 milioni di euro all'anno. Questi fondi sono il frutto della carità dei cattolici che vivono negli altri paesi del mondo e desiderano condividere con i fratelli e le sorelle burkinabè ciò che hanno, che è anche frutto del loro amore concreto per i più poveri. Gli aiuti della Chiesa Cattolica e della Santa Sede sono utilizzati nel campo della salute, educazione, pozzi d'acqua, micro-credito, adozioni a distanza di bambini, borse di studio e per la costruzione di chiese. Bisogna sottolineare che gli aiuti che arrivano direttamente o indirettamente dalla Santa Sede, non vengono utilizzati solamente in favore dei cattolici, ma sono donati a favore di tutti i Burkinabè, senza distinzione di religione, perché tutti gli uomini sono figli dello stesso Dio. Oggi si avverte un grande bisogno di pace, e la pace è frutto della giustizia, del rispetto, del dialogo e della fraternità. La Santa Sede e la Chiesa Cattolica lavorano per la difesa e la promozione dei diritti e della libertà degli uomini. L'impegno della Chiesa in questo campo corrisponde alla sua missione religiosa e morale. La Chiesa difende con vigore i diritti dell'uomo perché li considera come necessari al riconoscimento che deve essere data alla dignità della persona umana, creata ad immagine di Dio e riscattata da Cristo". (cfr. Giovanni Paolo II, 8 ottobre 1988, Strasburgo, palazzo dei Diritti dell'uomo). La fede cristiana non si impone, ma si propone con la forza della testimonianza e dell'amore verso i più poveri, perché ogni essere umano è stato creato a immagine e somiglianza di Dio che è Amore.


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PERCHÉ L'ITALIA NON È UNA NAZIONE, MA UN INSIEME DI NAZIONI di Onorato Bucci Con questo numero licenziamo l'ultima uscita dell'Arco dedicata al 150°anno dell'Unità d'Italia! Abbiamo chiesto, come corpo redazionale, al nostro Direttore di compiere una riflessione di come siamo arrivati ai 150 anni dell'Unità d'Italia e del perché siamo un insieme di Nazioni (che va inteso come nostra ricchezza) e non una Nazione (che indebolirebbe la ricchezza del popolo italiano). Il Prof. Bucci ha compiuto uno studio di cui ora pubblichiamo soltanto uno stralcio! Giuseppe Fabrizi 1. L ' a n n o c e l e b r a t i v o d e i Centocinquant'anni dell'Unità d'Italia sta per includersi, e chi scrive ha tanto riflettuto su questo problema da fare oggetto, ad anno concluso, e per l'anno accademico 20112012, del Corso di Diritto Romano nell'Università degli Studi del Molise. Le dispense sono tutte lì, sul mio tavolo, il frutto di anni di lavoro, come lo è stato il mio Gesù Legislatore che Giuseppe Fabrizi fondatore di questa testata ha benevolmente recensito su queste pagine. Quelle dispense hanno come titolo “Per la storia del diritto delle genti d'Italia” e hanno l'intenzione di dimostrare perché l'Italia non è una Nazione ma è un insieme di Nazioni. E questo giustifica anche il titolo dato al Corso: l'Italia ha certamente un suo diritto, ma questo diritto dovrebbe essere il risultato di una miriade di tradizioni storico – giuridici formatesi dalla Trinacria alla Rezia planate nelle valli pedemontane difese dalle Alpi, sviluppatesi lungo il crinale appenninico che parte da Ravenna e prosegue verso la piana e i monti della Lucania. Di qui la domanda: ma questo diritto italiano che vige ora nella Penisola e davvero il risultato delle miriadi di tradizioni giuridiche delle genti della Penisola o è il risultato di una volontà istituzionale estranea alla sua storia e alla sua memoria? E il secondo interrogativo: lo Stato che è nato nel 1861, e poi quello che si è sviluppato nei centocinquant'anni della sua storia è stata la sintesi delle tradizioni giuridiche delle sue genti (che vuol dire poi degli Stati che quelle genti avevano formato: sette al tempo dell'Unità) oppure, come noi riteniamo, è stato un corpo estraneo alla memoria di queste genti? Le risposte date a questi due interrogativi servono anche per capire il dramma storico del presente che viviamo, uno dei momenti più gravi della storia del nostro Paese che ci porterebbe, se non lo supereremo al rischio, di dar vita ad un baratro in cui sprofonderanno tutti, ma soprattutto la gente (le genti) meno abbienti, con danni incalcolabili alla nostra stessa esistenza di Stato. Di qui il programma dato al Corso che sto sviluppando nell'Università degli Studi del Molise che di seguito espongo a conoscenza dei lettori dell'Arco (che, come direttore di questa testata, posso garantire che si sono decuplicati), partendo dal chiederci cosa intendiamo per Nazione, riandando poi ai gruppi storici che formarono la classe dirigente del Risorgimento italiano per sottolineare come le masse contadine (portatori delle tradizioni giuridiche più originali della nostra Penisola) furono escluse dalla formazione del nuovo Stato che si veniva a formare. Il risultato è stato quello di aver dato vita ad uno Stato fuori dalla storia e dalla memoria delle sue genti,

che ha portato ai tempi drammatici che stiamo vivendo. 1. Cos'è una Nazione (a sentire la tradizione storiografica) Cosa intendiamo per Nazione? La dottrina ancora dominante, anche se datata [P. BISCARETTI DI RUFFIA, Nazione, in Nov.Dig.It., XI, 1965, rist. 1982, pp. 183-185] la intende come una comunità di individui avente stirpe, lingua e religione, storia e tradizioni comuni con la consapevolezza di costituire una unità etico – sociale fondata su questi caratteri distintivi. A questi dati Renan aggiungeva due ulteriori dati che egli riteneva fondamentali per poter parlare di Nazione [in Quest – qu'ne Nation Confessione et discours, in Oeuvres, vol. VII, Paris, 1882, p. 273]: a) una grande solidarietà costituita dal sentimento dei sacrifici che si sono fatti e di quelli che si sono disposti a fare; b) il consenso, il desiderio, chiaramente espresso, di continuare la vita comune. I dati compresi nelle prime definizione insieme a quelli vergati dal Renan portano al concetto di popolo che Vezio Crisafulli fece proprio intendendo con questo nome l'insieme delle genti che hanno un passato comune, comuni tradizioni che muovono le azioni del presente e che tendono a lavorare per un comune destino futuro. Quando nel Risorgimento si diede vita all'Unità della Penisola si era consapevoli che non esisteva una Nazione italiana di siffatto dimensione culturale e politica? Certo che si era consapevoli, e la famosa considerazione, una volta unificata la Penisola, che si era fatta l'Italia ma che bisognava creare gli Italiani, lo stava a dimostrare. 2. La genesi del Risorgimento Italiano sorto fra scelta elitaria interna alla Penisola e interessi culturali e politici internazionali. E' una constatazione difficilmente contestabile: il Risorgimento Italiano e l'Unità d'Italia che ne seguì furono il frutto di vari movimenti e tensioni politiche e ideali di fatto convergenti nella realizzazione dello Stato Nuovo che si veniva a creare ma lontanissimi l'uno dall'altro per spirito e formazione culturale. Non c'è dubbio che in prima fila c'erano i patrioti, da Ciro Menotti a Carlo Pisacane e Silvio Pellico (solo per fare qualche esempio, e non fra i maggiori), tutti con una grande formazione culturale certamente aristocratico ed esterna alla cultura popolare (basterebbe citare il nugolo di patrioti che a Reggio Emilia discussero per giorni se chiamare la nuova entità statale Enotria o Ausonia anziché Italia), che fissava le tappe di questa unità dal primo progetto augusteo della divisione della Penisola in regiones ai mutamenti di Diocleziano fino ai progetti del circolo culturale sorto all'alba del secondo millennio intorno ad Arduino d'Ivrea. Fu la cultura di questi patrioti a delegittimare l'italianità della Chiesa, confondendola in uno con lo Stato Pontificio, ritenendo quest'ultimo, sorto al centro della Penisola, il maggior responsabile della mancata Unità nel Paese. Di fronte a questa convinzione, tuttora imperante nella storiografia, a nulla vale ricordare le migliaia di sacerdoti e Vescovi che diedero anima e cuore, e spesso la vita, per la realizzazione dell'Unità Nazionale; c'erano poi le forze internazionali, Francia e Inghilterra in prima linea, con tutto il loro bagaglio culturale (Carboneria e Massoneria dai toni e risvolti anticlericali e antipontifici) e militare (il

contendersi da secoli la primazialità nel Mediterraneo) che mal sopportava i Borboni di Napoli e di Sicilia come poi non sopporteranno gli Zar di Russia e che volevano sbarazzarsi di un regno meridionale, quello delle Due Sicilie, che ritenevano fuori dai loro destini politici e storico – culturali forti com'erano delle elaborazioni dottrinarie fissate nel Settecento razionalistico con lo sbocco illuministico e positivista. E c'era poi il regno di Savoja destinato, fra mille contraddizioni dalla Francia e dall'Inghilterra (dalla seconda, soprattutto, e poi accettato, obtorto collo, dalla prima) ad essere l'agnello sacrificale intorno a cui dovevano coagularsi tutte le forze militari e socio – politiche per l'attuale disegno di unificazione. La Casa Savoja, del resto, non aveva mai pensato di dar vita ad uno Stato Unitario Nuovo della Penisola, paga di essere pedemontana e francofona con appendici marittime che da Genova la portava alle coste della Corsica e della Sardegna, e ciò spiega anche, fino in fondo, i numerosi contraddittori atteggiamenti dei suoi appartenenti nel corso della storia dello Stato Unitario poco inclini ai destini delle genti d'Italia fino alla proclamazione della Repubblica Italiana del 1948. Basterebbe citare un dato che caratterizza in tal senso la storia intera della Monarchia dei Savoia influenzata dalla cultura delle Valli Alpine: quando si proclamò l'Unità italiana fu chiesto a Vittorio Emanuele di mutare il titolo di II° dato al nome di Vittorio Emanuele e di fare in modo, comunque, di dare un segno che scandisce con certezza l'inizio del casato di Re d'Italia. Il nuovo sovrano dell'Italia Unita rispose sdegnosamente che la sua Casa Reale, il suo Casato, era quello dei Savoja e non quello di uno Stato che iniziava ora la sua storia. E così confermò, se mai ce ne fosse stato bisogno ancora (andando cioè ben oltre i mille rivoli degli atteggiamenti contraddittori che avevano portato il Casato savoiardo all'unificazione della Penisola), che quest'ultima era avvenuta per annessione (al vecchio regno di Sardegna) e non per fusione (non fosse altro perché, in quest'ultimo caso, sarebbero stati i vecchi domini della Penisola, attraverso i loro Sovrani e attraverso le loro assemblee costituenti legittimate a farlo, a sciogliersi per fondersi in una nuova organizzazione che giuridicamente sarebbe sorta successivamente). Tutto questo dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che l'Unità del Paese fu opera delle elites e delle avanguardie politiche e culturali di cui prima si è fatto cenno e da cui erano state escluse le masse popolari. 3.Il punto di partenza della diversità delle Nazioni sulla Penisola: i popoli preromani e la riforma augustea. Quelle masse popolari, tuttavia, escluse dalla formazione dell'Unità nazionale ottenuta ad opere di elites culturali [che marxisticamente, anzi leninisticamente, possono identificarsi con le cosiddette avanguardie culturali: qui il positivismo giuridico si presenta sempre più elitario e compatto in qualunque espressione esso si manifesti, tendendo sempre più a dominare sia nelle manifestazioni localistiche che in quelle a raggio più ampio] avevano proprie tradizioni culturali, linguistiche, giuridiche che conservavano intatte pur attraverso le miriadi di immissioni di momenti normativi e apparati legislativi che venivano imposte loro dalle classi dominanti [leggi: elites culturali o avanguardie culturali]. Quelle masse popolari erano il punto di arrivo di almeno ottanta gruppi antropologici, linguistici e giuridici liberamente viventi fino all'unificazione augustea della Penisola italiana e che d'appresso indichiamo. Questi popoli della penisola italiana e delle grandi sue isole possono così elencarsi prima che Roma avesse il dominio nella Penisola: 1. Aurunci, Musoni, Arcadi (della Messenia – Taranto), Achei d'Italia, Apuani, Acarnani, Appuli;

2. Boi, Beoti d'Italia, Bruzii; 3. Celti d'Italia (Celti Liguri), Cenomani, Capidanesi, Calabri, Caraceni, Caudini, Corsi, Campani (Sanniti e genti precedenti all'insediamento di questi ultimi), Coni, Camuni; 4. Dauni; 5. Etruschi (Tirreni), Enotri, Equi, Esperi, Euganei, Elimi (di Sicilia); 6. Falisci, Frentani; 7. Greci (della Magna Grecia, sparsi nella 2 e 3 regione augustea, sia lungo le coste tirreniche che in quelle adriatiche fino a Padova: la loro individuazione è nient'affatto sicura come non sicuro è il legame che li ha individuati con la ðüëåéò della madre patria di cui hanno conservato usi, tradizioni e consuetudini, soprattutto in Sicilia); 8. Hernici; 9. Insubri, Irpini, Ioni, Itali (o Vituli), Iliensi, Iapigi, Italioti (di varia denominazione); 10. Liguri (Celti), Lucani, Latini, Locresi, Lingoni; 11. Marsi, Messapi, Morgeti, Marrucini (Sanniti), Mamertini, Magni; 12. Opunzi, Opici, Osci; 13. Piceni, Pelasgi, Peligni, Peucezi, Pretutii, Pentri (Sanniti); 14. Rezii; 15. Sallentini, Siculi, Sicani, Sanniti (nelle varie denominazioni, spesso un tutt'uno con la denominazione di Genti Italiche), Sabini, Sabelli, Safini (dizioni diversificate nel tempo delle genti sannitiche), Safini (di incerta attribuzione), Spartani d'Italia (Tarantini/Lo cresi), Sardi, Sidicensi, Senoni; 16. Tirreni (Etruschi di varia denominazione sparsi nella Tuscia / Toscana, fra Cerveteri e Livorno a nord e nel Golfo di Napoli, fra Campani e terra di Pompei a sud), Taurini, Tarantini (i già Spartani d'Italia); 17. Umbri (non sempre identificati con gli Osci, di varia denominazione e coincidenti o meno con il nome generico di Italioti e Sanniti); 18. Veneti, Volsci, Vestini, Venosti, Vinelli (di Gallia), Venetulani (prelatini). Tutti questi popoli di incerta denominazione, talvolta identitaria di genti diversificatissime, talvolta confusa con altri similari, hanno lasciato tracce non sempre valutabili con qualche certezza storica dalle regioni alpine a quelle appenniniche nell'ossatura ravennate – lucana. Essi comunque formano il nodo della storia giuridica e antropologica dell'Italia peninsulare (che va dunque ben al di là dall'Italia appenninica) sottolineando che secondo Antioco di Siracusa, Dionigi di Alicarnasso 1, 35, il nome Italia – Itali deriverebbe da Italo, della stirpe enotrica, intendendo il territorio abitato da questa stirpe (gli Enotri) – quello che va da Metaponto allo stretto di Messina. Su questa tradizione concorda Strabone, Erodoto, Tucidite, Aristotele, Ellanico che rimanda, quest'ultimo, a Îýôáëßáí, confermato da Gellio, da Vitalìa, Vituli, Vitello, comprendendo la terra di Taranto e di Metaponto. Nel secondo secolo d.C. ad ogni modo, il nome comprende le genti fino ad Arezzo. Questa incredibile varietà, etnica e linguistica, che è anche storico-giuridica,


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Pag. 10 spiega da un lato perché Roma sia giunta alla creazione delle 11 (undici) regiones augustee diventate poi 12 (dodici) distretti con Diocleziano, e risultate poi 17 (diciassette) nel V° secolo, e dall'altra giustifica le ipotesi del Besta che nel XX secolo cercò di capire la storia politica italiana attraverso le consuetudini giuridiche dei popoli italici. Se diamo ascolto a Theodor Mommsen prima dell'Italia preaugustea c'era una unità di otto regioni che comprendeva tutto il territorio appenninico (escludendo quindi, già da allora le tre isole, Sicilia, Sardinia e Corsica). Prendendo atto di questa omogeneità appenninica (a dire di Mommsen) che univa le otto partizioni preaugustee [Campania e Lazio, Apulia e

Calabria, Bruzzio e Lucania, Sannio, Piceno, Umbria, Etruria] Augusto vi unì la Gallia che venne divisa in tre regioni [Liguria, Venezia e Istria, Gallia Transpadana] portando in tal modo le regioni a undici. Questa divisione del territorio della Penisola in undici regioni compiuta da Augusto non aveva alcuna funzione amministrativa tanto è vero che l'Imperatore fu inesorabile nello sciogliere ogni vincolo federale fra le diverse stirpi italiche ma nel contempo rispettò pienamente l'autonomia dei centri urbani della Penisola preromana controllata peraltro dai numerosi municipi e colonie che a mano a mano vi furono insediati. Fu Adriano a dar vita a quattro distretti giudiziari affidandoli a quattro magistrati con il titolo di Consulares ma non conosciamo quali fossero i loro compiti né quali, con precisione, fossero i territori uniti nella giurisdizione attribuita nelle singole partizioni. Antonino Pio soppresse i quattro Consulares ma tra il 161 e il 169 Marco Aurelio li reintegrò creando una diocesis urbica (Lazio, Campania e Sannio) con una piena autonomia amministrativa soggetta ai pretori urbani chiamando la funzione dei magistrati con il nome di juridica e i titolari di questa funzione juridici. Non c'è dubbio che questo fu il primo tentativo di dare una organizzazione giuridico – amministrativa alla penisola facendo del territorio centrale dell'Italia l'asse di controllo giurisdizionale, e quindi politica, di quelle che Augusto aveva chiamato (su uno statu-quo precedente, a sentire Mommsen) regiones. Fu Diocleziano a dar vita alla divisione della penisola in dodici distretti [Venetia et Histria, Aemilia et Liguria, Alpes Cottiae, Flaminia et Picenum, Tuscia et Umbria, Campania et Samnium, Apulia et Calabria, Lucania et Brutium, Corsica, Sardinia, Sicilia, Raetia]. A capo di questi distretti c'erano dei Correctores. Tutti dipendevano da un Vicarius Italiae mentre l'Urbe era governata da un

Vicarius Urbis Romae. Tutta la Penisola e le tre isole (Sicilia, Sardinia e Corsica) insieme all'Urbe formavano la Diocesis italiana, una delle 12 diocesi in cui era stato diviso l'Impero sottolineando così che la penisola italiana formava un'entità amministrativa distinta da tutte le altre regioni dell'Impero, ed è opportuno sottolineare che per la prima volta le tre isole formavano un tutt'uno con la Penisola e con l'organismo amministrativo chiamato Italia. E bisogna anche sottolineare che il Vicarius Italiae soggiornava a Mediolanum. Nel V° secolo le Regiones furono portate a 17: Venetia et Histria, Aemilia, Liguria, Flaminia et Picenum annonarum, Alpes Cottiae, Raetia prima, Raetia secunda, Tuscia et Umbria, Campania, Samnium, Apulia et Calabria, Lucania et Brutii, Picenum suburbicarium, Valeria, Sardinia, Corsica, Sicilia. Può apparire un paradosso ma dal secolo V ad oggi la divisione amministrativa della penisola non è affatto mutata nella distinzione delle regiones che nell'autonomia dei singoli territori persero progressivamente ogni potere autodecisionale restando tuttavia intatte nella loro denominazione in una storiografia ricchissima con delimitazioni confinarie variabili e incerte che arriva fino a Flavio Biondo e quindi, a partire dai secoli XV e XVI, all'opera Italia di Alfio Pozzi del 1870 che si fonda sulle lingue parlate distinte in otto regioni continentali [regione pedemontana, riviera ligure, media transpadana dal Ticino al Mincio, media cispadana, Alto Adige, Adriatico alpino e Transguilie con Istria], sette regioni peninsulari [Toscana, Tiberina, Campania, Appennnino calabrese, pugliese, abruzzese, marchigiano] e quattro insulari [Sicilia, Sardegna, Corsica e Malta]. La base di queste parlate resta la presenza di antichissima data, delle ottanta popolazioni preromane che non solo la

IL VICARIO E LA STREGA - Stria Discese lentamente i pochi gradini, tra i due ministri del sacro Officio, preceduti dagli armigeri del Vescovo, impacciata, timorosa, con il passo lento, quasi trascinato, per quel piede già leso, regalo della sua nascita, e si sorprese a guardare nella chiesa, a lei sconosciuta, illuminata, neanche tanto, dalle torce a muro, quella scala a pioli, disposta come una tavola su due cavalletti, alla sua sinistra, e, avanti l'altare grande, le figure, dentro i loro sai francescani, ai lati dell'uomo, seduto al centro, più in alto, sulla grande sedia, Ioanni Binipersi, il Vicario, a rappresentare il vescovo de la citati. Il vicario. Guardò dimessa, con il capo basso, gli

occhi intristiti, il crocifisso sospeso sulla pertica, a lato dell'uomo dal grande mantello e cominciò a temere Ioanna Xaca la Turda … Sussurrava tra sé, come a darsi coraggio, la cantilena dei suoi ricordi, per tenere lontano i suoi timori, le sue paure… “Stria, stria, tria, firìa, mirrìa …” cantilenava Ioana la Turda. Parole dei suoi ricordi lontani. E queste strane parole udì frate Serafino, confrate dei frati di Francesco, transitando per le strade de la Giudeca, quel meriggio di ottobre del 1491, anno Domini. E quella donna vide Fra Serafino, nel cortile di quella casa alla Giudeca, mentre batteva con la mano sinistra su una zucca … E questo riferì il francescano a lo Officio curiale de lo Episcopo, fidili a Signuri Diu Onnipotenti nostru… “Stria, tria..” cantilenava Ioana la turda, stringendo in una mano un gomitolo di stoppa legato con un canapo. “Sortilegam et magicam artem episcopi omnibus modis eliminare studeant…” declamava l'Officiale. Non uno sguardo di pietà da quegli uomini, non un gesto di compassione, per quel volto inquieto, confuso, per quella figura esile, quando i sergenti del vescovo la posero a cavalcioni sulla scala, e le legarono un polso

ad un piolo in avanti e l'altro ad un piolo indietro… Si lamentò della postura, del dolore all'anca, alla gamba lesa, si dolse per quel trattamento. Non uno sguardo benevolo. E poi un ministro le chiese il suo nome ed un altro se sapesse leggere o scrivere. Ed ella rispose dolendosi e lamentandosi e per pietà di toglierla da quella posizione. La zittirono. E un ministro le chiese il significato di quelle strane parole, del gomitolo di stoppa legato al filo, e il tamburellare sulla zucca e poi le gridò di confessare la sua vergogna, traino del peccato, fidando nella misericordia di Dio, prima dell'avvento dell'ira del Signore. Ma ella non rispose. Rimase con le sue paure a sussurrare la nenia dei suoi ricordi, dimessa, dondolando la testa, guardando l'uomo dal grande mantello, assiso al centro, sulla grande sedia. E guardò le figure dentro i sai, e frate Serafino, che si agitava indicandola con il dito e le falde delle sue vesti, e la sua gamba storpia. E frate Serafino il suo viso indicò, e la chiamò strega, mentre alzava le braccia e ne chiedeva meritata punizione … Una smorfia e il brusio dei ministri… E poi Ioanna la Turda gridò, e il suo gridò fu il lamento dell'innocenza, nel giorno del dolore, sotto il giogo di iniquità ed ella gridò, e gridò forte, e gemette la sua disperazione, il suo tormento, la prepotenza dei potenti, il mendicare pietà… E tentarono di zittirla e un ministro del sacro Officio si mosse a tormentarla e frate Serafino ricominciò a strillare. E poi la voce

L’arco

violenta politica romana non riuscì a distruggere ma che è rimasta incredibilmente viva, attraverso i sostrato linguistici e i calchi semantici ereditati dalle epoche precedenti nei parlari locali. Attraverso tre millenni di storia della Penisola se vogliamo dare ascolto alla Scuola dell'Ascoli che influenzò non poco il Besta che per primo affermerà, documentando siffatta affermazione, che c'è uno zoccolo duro nel patrimonio giuridico delle genti d'Italia, e questo è formato dall'identità fra patrimonio linguistico e patrimonio consuetudinario – giuridico delle genti precedenti alla conquista romana dei territori peninsulari e delle tre isole maggiori di ciò che veniva progressivamente formandosi sotto il nome di Italia.

di Nino Gancitano

forte dell'uomo dal grande mantello. Silenzio. E il Vicario si eresse dalla sua sedia e alzò le mani al cielo. E poi parlò, con compassione, quasi con amarezza, “Giusto è il Signore, provocato all'ira, dall'iniqua ingiustizia” lamentò. Definì demente, Ioanna Xaca dicta la Turda di anni … La chiamò demente, Ioanni Binipersi. E ordinò ai ministri che la liberassero senza farri patiri punitioni e pena.


L’arco DICEMBRE 2011

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CENTO ANNI FA... NASCEVA GIUSEPPE LA LOGGIA di Giuseppe Fabrizi

Da sinistra: Marilena ed Enrico La Loggia, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il Presidente della Camera Gianfranco Fini, e il Presidente del Senato Renato Schifani. (Foto di Paolo Giandotti)

Il 1° maggio del 1911 nasceva ad Agrigento Giuseppe La Loggia, avvocato e docente universitario, figlio di Enrico, già Sottosegretario alle Finanze nel 1921. L' On. Giuseppe La Loggia è stato esponente di spicco della Dc e tra i padri fondatori dello Statuto siciliano, nonché Presidente della Regione tra gli anni '50 e '60. Della intensa carriera politica se ne fa cenno, più compiutamente, nella scheda biografica redatta, con la solita puntualità dal Prof. Onorato Bucci, direttore della nostra testata. Chi scrive ha avuto il privilegio di essere invitato direttamente dal figlio, l'on. Enrico La Loggia, con cui è legato ormai da una antica amicizia e frequentazione, in quanto “dermatologo” di suo padre nel periodo che va dagli anni '75 sino agli anni '90. La cerimonia di commemorazione, coordinata dal Presidente della Camera on. Gianfranco Fini, si è svolta nella Sala della Lupa del Palazzo Montecitorio, alla presenza del Presidente della Repubblica, On. Giorgio Napolitano, e con l'intervento diretto del Presidente del Senato, Sen. Schifani, e di quello della Camera, On. Fini, che nei loro interventi hanno tratteggiato la figura e l'opera politica dell'on. Giuseppe La Loggia. Erano presenti tutti i familiari, i figli Enrico, Nuccia, moglie del compianto On. Attilio Ruffini, e le altre due sorelle, Elvira e Margherita; erano inoltre presenti i nipoti tutti e molti amici e personaggi del mondo della politica e della cultura. Le appassionate parole dell'on. Franco Bassanini, socialista di sinistra, che ha tenuto il discorso commemorativo, cominciano nel ricordo di quando giovane deputato, passò dai banchi della Commissione affari costituzionali a quelli della Commissione bilancio, di cui per anni l'on. La Loggia fu, per l'appunto, il presidente. Egli già parlamentare esperto (cinque legislature nell'assemblea siciliana, quattro alla Camera dei deputati), mentre il prof. Bassanini era parlamentare, ancora alle prime armi. Dalla trattazione emerge un Bassanini attratto, fino all'ammirazione, dal

Presidente nel corso dei lunghi anni di militanza comune in commissione! Egli dice che rimase colpito con ammirazione soprattutto “dal senso delle istituzioni, dalla sua saggezza, dal suo rigore etico e politico, dalla sua competenza, dalla sua imparzialità e dal suo rispetto per i diritti di tutti, compresi quelli di una minoranza intransigente e fastidiosa, come eravamo noi della Sinistra indipendente”. Egli passa inoltre a trattare la fase siciliana dell'autonomia, di cui l'on. La Loggia è stato uno dei fautori principali, sino ad attraversare il periodo del progetto politico “industrialista” della Sicilia , che fondava principalmente su due pilastri: da una parte, le notevoli risorse finanziarie trasferite dallo Stato alla Regione e dall'altra una serie di misure normative e di strumenti amministrativi di nuova concezione che dovevano creare le condizioni favorevoli per attirare ingenti capitali privati provenienti e dall'estero e dalle Regioni del centro-nord dell'Italia, atti a finanziare importanti iniziative industriali in Sicilia. All'uopo ricordiamo la legge regionale n. 51 del 1957 recante Provvedimenti straordinari per lo sviluppo industriale e la legge sulla istituzione della Società per il Finanziamento dello sviluppo in Sicilia (SoFIS). L'on. Bassanini conclude la sua commemorazione affermando:” penso che di Giuseppe La Loggia non dobbiamo oggi solo ricordare l'esemplare figura di un grande, rigoroso, uomo delle istituzione, e di uno statista saggio, competente e lungimirante. Ma dobbiamo ricordare anche una ricca messe di insegnamenti preziosi e ancor oggi attuali. Trarne ispirazione per le scelte difficili che il Paese deve oggi affrontare è l'omaggio migliore che possiamo rendere a questo grande italiano” Dopo un breve ricordo del Sen. Schifani, Presidente del Senato, che ha ricordato di quando Egli, giovane praticante di discipline giuridiche faceva esperienza preziosa nello studio La Loggia di Palermo, l'on. Enrico La Loggia ha preso la parola, anche se non prevista dal protocollo, sia per un doveroso ringraziamento al Capo dello Stato, sia per un breve ricordo personale, politico e strettamente privato, di suo padre, con delle connotazioni strettamente personali. Ed alla fine dell'intervento ha concluso affermando con composta commozione : “poi per tutto il resto, per me, per la mia famiglia, per le mie sorelle, è soltanto il ricordo di un grande papà!”.

SCHEDE BIOGRAFICHE di Onorato Bucci

GIUSEPPE LA LOGGIA (1911 - 1994) Nasce ad Agrigento il 1 maggio 1911 e muore a Roma il 2 marzo 1994. Avvocato e docente universitario di Diritto del lavoro all'Università di Palermo. Figlio di Enrico, Sottosegretario alle Finanze nel 1921, uno dei fautori dello Statuto siciliano. Convinto autonomista, prima di entrare in politica ebbe modo di maturare una robusta qualificazione professionale come avvocato nello studio del padre Enrico e come docente di diritto del lavoro presso l'Università di Palermo. Durante l'apprendistato, sui libri e nelle aule giudiziarie e universitarie, maturò una sua personale visione tecnocratica della politica che, tuttavia, coniugava con una grande attenzione ai bisogni della gente, al tema della solidarietà, a quello della giustizia sociale. Proprio questa visione lo condusse verso la nuova formazione politica democristiana nella quale individuava il soggetto politico necessario a riaggregare, nel difficile periodo del dopoguerra, una realtà nazionale profondamente lacerata nel suo tessuto organico. Il suo riferimento iniziale fu, Luigi Sturzo con il quale avviò una cordiale frequentazione e del quale comprese, meglio di molti altri, la modernità del linguaggio. Giuseppe La Loggia si avvia dunque alla politica giovanissimo, alla scuola del padre Enrico, antifascista, demolaburista, autore di un fortunato libretto, “Ricostruire”, dove si teorizza il “riparazionismo”, e che diventa “il manifesto degli autonomisti unitari”. Subito dopo l'armistizio firma la dichiarazione antiseparatista del 24 ottobre 1943 del Fronte unico siciliano redatta da Enrico La Loggia, dove si riafferma, “nel sicuro auspicio della più rapida e totale liberazione della Patria”, la volontà della Sicilia “che sia mantenuta intatta l'unità d'Italia”.. Fu eletto deputato all' Assemblea Regionale Siciliana nel 1947, e lo resta fino al 1967 per la Democrazia Cristiana. Divenne subito Assessore all'agricoltura e foreste sotto il primo e secondo governo Giuseppe Alessi (dal 30 maggio 1947 all'8 marzo 1948 e dal 9 marzo 1948 all'11 gennaio 1949) e in seguito Assessore alle finanze sotto il primo e il secondo governo Restivo (dal 12 gennaio 1949 fino alla fine della legislatura e dal 20 luglio 1951 fino alla fine della legislatura). Dal 1955 al 1956 ricoprì il ruolo di Presidente dell'Ars. Nel 1956 venne eletto Presidente della Regione Siciliana. Fin dall'avvio della sua attività di governo Giuseppe La loggia manifestò uno stile anomalo rispetto a quello praticato dai governanti isolani: niente verbosità spagnolesca, puntuale riferimento ai dati concreti, ripudio dell'improvvisazione. La sua idea-guida era infatti che ogni progetto di sviluppo dovesse avere dei forti e stabili ancoraggi, cioè delle certezze per non creare false illusioni. La sua presidenza della Regione Siciliana segna un passaggio decisivo nella storia dell'Autonomia, cioè il tentativo di creare le condizioni per fare compiere alla Sicilia quel salto di qualità che avrebbe potuto avviare un meccanismo di sviluppo, fondato su una rapida industrializzazione, in grado di colmare il gap storico che la divideva dalle regioni più sviluppate del Paese. La Loggia tentò, infatti, di creare l'habitat necessario ad attirare i capitali necessari per avviare il meccanismo di sviluppo e di spingere il tessuto economico siciliano a misurarsi con le sfide che il nuovo modello avrebbe comportato. Purtroppo per la Sicilia, il suo progetto non fu compreso e contro di esso si levarono le tradizionali forze della conservazione, rappresentate anche dall'Associazione industriali siciliani, che si sono sempre mimetizzate all'interno del sempre presente ribellismo siciliano. La Vandea dei tradizionalisti, sul cui carro presero posto le opposizioni di sinistra e di destra, diede corso all'operazione Milazzo. Nell'ottobre del 1958, Giuseppe La Loggia, attaccato con veemenza anche da molti suoi compagni di partito, dovette gettare la spugna dimettendosi da presidente della Regione mentre trionfava il pressapochismo, il populismo e la tanto deprecata superficialità. La sconfitta di La Loggia, col senno del poi, deve essere considerata l'ennesima sconfitta della Sicilia. Quella crisi politica diede il via al cosiddetto milazzismo. Così uscì di scena dalla politica siciliana, l'ultimo della “triade” dei padri dell'autonomia: dopo di lui all'Assemblea regionale – scrisse Montanelli – “c'era il vuoto, e poi il vuoto e quindi gli altri 87 deputati”. Fu poi assessore regionale al Turismo dal 1963 al 1964 e anche sindaco di Cattolica Eraclea dal 1962 al 1965. Prima di essere eletto alla Camera dei Deputati, fu nominato presidente dell' Espi, l'ente siciliano per la promozione industriale, carica che ricoprì dal 1967 al 1968. Da allora l'attività politica di La Loggia, che ebbe sempre un occhio di riguardo verso i problemi del Mezzogiorno e della Regione Siciliana, si svolse nell'aula di Montecitorio, dove fu eletto Deputato nel 1968, e per quattro legislature, fino al 1983. A Roma, ragioni di equilibrio, spesso dettate dal tanto deprecato manuale Cencelli, gli impedirono di far parte, come ne avrebbe avuto diritto, del governo. Fu Presidente, autorevole e stimato, dapprima della VI^ Commissione Finanze dal 1972 al 1976 e, dal 1976 al 1983, della V^ Commissione Bilancio. Fu padre della prima legge finanziaria che, purtroppo, fu stravolta rispetto ai contenuti che lo stesso La Loggia aveva indicato. In quegli anni nei quali il sistema sembrava impazzito, si distinse come uno di coloro che più si batterono per dare un'energica sterzata per rimettere a posto i conti pubblici. In questa veste, inoltre, egli partecipò al dibattito sul divorzio alla luce del disposto costituzionale. Ma non furono meno importanti i suoi interventi sulla riforma tributaria, sull'ordinamento universitario, sulla questione radio-televisiva. Nel 1983 non fu rieletto. Fu nominato giudice al Consiglio di Stato e, in seguito, Presidente dell'istituto poligrafico dello Stato. Morì a Roma il 2 Marzo 1994.


DICEMBRE 2011

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L’arco

ENRICO LA LOGGIA

GAETANO LA LOGGIA

(1872-1960)

(1808-1889)

Nasce a Cattolica Eraclea il 22 febbraio 1872 e muore a Palermo il 7 febbraio 1960. Il padre Giuseppe era stato garibaldino e lo zio Gaetano, grande studioso di psichiatria e fondatore degli ospedali psichiatrici di Roma e di Palermo, era stato ministro con Garibaldi e luogotenente dello stesso in Sicilia. Fu presidente regionale Federazione regionale delle cooperative. Si laureò in Giurisprudenza a Palermo nel 1891 col massimo dei voti e la lode, discutendo una tesi sulla "Teoria della popolazione" che ebbe gli elogi dell'economista Maffeo Pantaleoni. Fu infatti la tesi rimessa a quest'ultimo che la fece pubblicare nel Giornale degli Economisti e ristampare poi a Bologna (Ed. Fava e Garagnani). Agli inizi del 1900 fu assunto come redattore capo in un quotidiano di Palermo, "Il Siciliano", dove iniziò la sua attività pubblicistica. Continuò in questa, collaborando anche con "Il Giornale degli Economisti" e con la "Rivista di Politica e Scienze Sociali", diretta da Napoleone Colajanni, dove scrisse articoli critici sul sistema dottrinario socialista totalitario che molto appassionarono Luigi Pirandello. Enrico La Loggia, nei suoi scritti, elaborava l'idea di un socialismo liberale ed individualista, da concretizzarsi in istituti giuridicosociali quali la cooperazione assistita pubblicisticamente, la piccola proprietà contadina, l'industrialismo artigianale, i borghi rurali autosufficienti e, soprattutto, un solido ordinamento democratico. Temi estremamente delicati che lo porranno all'attenzione dell'opinione pubblica regionale e che tuttavia non lo distolsero da quell'attività scientifica e professionale. Nel 1913, candidato alla Camera dei deputati nel collegio di Licata per il Movimento cooperativo, non riuscì ad essere eletto per pochi voti. Leader del Partito socialista riformista, La Loggia si schierò nel 1914 a favore dell'intervento bellico di quello che sarà il primo conflitto mondiale a fianco dei paesi dell'Intesa contro gli imperi centrali, giudicando che la guerra con la sconfitta dell'AustriaUngheria avrebbe completato l'architettura risorgimentale. Cambiate le regole elettorali, con l'introduzione del sistema proporzionale, Enrico La Loggia venne eletto nel 1919 deputato alla Camera della circoscrizione di Agrigento. La sua presenza in Parlamento, fu molto vivace. Non solo diviene relatore d'importanti proposte di legge quale fu la riforma del codice civile, ma è anche animatore di progetti che concretizza in proposte di legge come la riforma agraria o l'importante testo sulla regionalizzazione delle opere pubbliche in Sicilia dando un primo tentativo di un sistema di autonomia per la Sicilia. Nel 1921, dopo lo scioglimento della Camera dei deputati, è rieletto deputato e nel governo Facta come sottosegretario di Stato alle Finanze. È di questo periodo la presentazione di una proposta di legge, con l'adesione di 36 deputati siciliani, dove si chiedeva l'istituzione di un Commissariato per le Opere Pubbliche in Sicilia.

Quattro anni dopo la stessa proposta fu rispolverata dal governo Mussolini, che aveva però mutato la dizione di Commissariato in Provveditorato e abolito l'intangibilità dei fondi, facendone così un puro organo burocratico. Strenuo oppositore del regime fascista, nonostante le "violenze inaudite e… i brogli", così denuncia La Loggia, nel 1924 viene rieletto ancora una volta alla Camera. Nel 1925, ritenutosi ingiuriato, in quanto aveva difeso pubblicamente la memoria di Giacomo Matteotti, trucidato dai fascisti, da alcune frasi di Achille Starace, lo sfida a duello. Il giovane Starace tuttavia non si presenta all'appuntamento e gli manda a dire, tramite i propri avvocati, che non intendeva toccare l'onorabilità di La Loggia «ma il suo contegno nei riguardi del regime». «Se la fece sotto», concludeva La Loggia ogni volta che raccontava quella storia. In seguito a questo episodio, nello stesso anno, viene dichiarato decaduto, per ordine di Starace, che così consumò la sua vendetta personale. Fu sorvegliato speciale durante tutta la durata del regime, periodo in cui tornò alla professione di avvocato. Il fascismo, infatti, gli mise alle calcagna due agenti in borghese per circa venti anni. Si racconta che, quando La Loggia entrava in un bar, non ordinava mai un caffè ma tre. «Pagati - spiegava - per due signori che verranno dopo».Gli anni che vanno dal 1925 fino allo sbarco degli Alleati in Sicilia, vedono La Loggia chiudersi nel proprio studio agrigentino, con brevi puntate a Palermo, esercitando la professione di avvocato e dedicandosi agli studi giuridici. Poi, nel 1943 si stabilisce definitivamente a Palermo. Nonostante i pressanti inviti non volle, però, far parte del Cln siciliano; voleva dare il suo contributo da studioso e da politico esperiente. Fece poi parte della Consulta regionale siciliana, nata nel dicembre 1944, e della Commissione per l'elaborazione dello Statuto, istituita il 1º settembre 1945 in seno alla Consulta. Fautore dell'Autonomia speciale, egli è uno dei protagonisti della stesura dello Statuto speciale della Sicilia che porta la sua impronta personale soprattutto nella redazione del famoso articolo 38 – quello che impegna lo Stato a versare una somma alla Regione a titolo di solidarietà nazionale – e che dà, alla carta fondamentale siciliana, una funzione riparatoria nei confronti dello Stato unitario.Gli ultimi anni lo videro impegnato come vice presidente della Cassa Centrale di Risparmio Vittorio Emanuele. Sino alla fine seppe tenere banco, temuto e rispettato com'era, seduto dietro la scrivania dell'ufficio studi della Cassa di Risparmio. Lì lo incontrò nel 1958 Indro Montanelli, che concluse il suo “Incontro” con queste parole: «Lo guardo di nuovo: è proprio un gran vecchio. Lo dicono duro, parziale, incapace di compromessi, passionale, ingiusto, violento. Ma un gran vecchio. Uno degli ultimi grandi vecchi che sanno volere quello che vogliono e vivere, a quell'età, come se non dovessero morire mai».

Primogenito di Gioacchino e di Provvidenza Buttafuoco, nasce a Palermo il 23 dicembre 1808. Superati i primi studi, si arruola volontario nell'esercito borbonico, per poi uscirne subito dopo per darsi allo studio della Medicina. Consegue la laurea giovanissimo e sale sulla cattedra che era stata di M. Foderà in fisiologia presso l'Università di Palermo cui poi aggiunge gli insegnamenti di anatomia e patologia generale, che tiene fino al 1848. Contemporaneamente diventa medico nell'Ospedale Generale di Palermo e nella Real Casa dei Matti e viene cooptato come Magistrato della Salute dopo essere diventato Medico Comunale. Si iscrive alla Giovane Italia e di questa associazione diventa propagandista in Sicilia e insieme ai fratelli Lo Monaco Ciaccio prepara e dirige il movimento rivoluzionario nell'isola nel 1848 che fallisce miseramente. In questo movimento insurrezionale egli organizza l'Ospedale Militare diventando capo medico dell'Armata rivoluzionaria e Ispettore di tutti gli Ospedali della Sicilia. Deve fuggire e riparare a Genova dove si tiene in contatto con R. Pilo, S. Castiglia, i fratelli Orlando, M. ed E. Amari passando poi a Torino nel 1855. Non dimentica mai l'Accademia e la professione di medico e insegna biologia nell'Università di Genova e in quella di Torino. Nell'epidemia di colera di Genova del 1854, durante la quale morirono ben 2.936 persone, Gaetano La Loggia è un vero apostolo fra i malati. Egli inoltre pubblica Catechismo e istruzioni popolari sul colera asiatico e su quello di Genova nel 1855. Tornato nel 1858 in Sicilia riprende la sua attività rivoluzionaria, votato completamente alla causa risorgimentale ed è questa attività ad anticipare poi la campagna militare di Garibaldi in Sicilia dallo sbarco di Marsala alla battaglia di Calatafimi. È lui che accoglie per primo Garibaldi a Palermo il 27 maggio 1860 con una stretta di mano nella storica piazza della Rivoluzione. Diventa magistrato di salute pubblica e incaricato dell'ispezione generale di tutti i servizi sanitari, civili e militari, della Sicilia. Sostituisce Crispi come Segretario di Stato per l'Interno e assume gli Uffici di Segretario di Stato per la Pubblica Istruzione, i Lavori pubblici e gli Esteri, venendo contemporaneamente eletto Vice Presidente del ricostituito Consiglio civico di Palermo. È sempre lui a recarsi a Napoli dove presenta a Vittorio Emanuele II, i risultati del plebiscito della Sicilia al nuovo Stato italiano. Nel 1880 è nominato Senatore del Regno. Nel 1862, intanto, ha l'insegnamento di patologia medica nell'Università di Palermo, senza mai arrivare alla nomina di professore ordinario, per gli ovvi contrasti dell'Accademia nei suoi confronti, che però non poterono proibirgli la Direzione del manicomio di Palermo con l'annesso insegnamento universitario della psichiatria. Ed è lui a creare la nuova sede del manicomio palermitano nella sede della Vignicella, destinato ad accogliere i malati di mente di Palermo e Catania. Scrive apprezzatissimi lavori scientifici dal 1841 fino al 1880 e il suo trattato di Corso di Patologia e terapeutica generale, Palermo, 1863, è stato un classico per decenni nell'arte sanitaria, come l'altro fondamentale suo lavoro sulla nevrosi in generale, Trattato fisio-patologico, s.l., 1875. Morì l'8 novembre 1889. Bibliografia: Necrologio, in Sicilia Medica, I, 1889, pp. 972-978; C. Finocchiaro Aprile, Gaetano La Loggia, Commemorazione, Palermo, 1890; M. Aliverti, in DBI, 63, 2004, pp. 98-100.


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