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L’arco Novembre 2009

ANNO XXII n. 3

PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE CULTURALE “L’ARCO” - MAZARA DEL VALLO - Reg. Trib. Marsala n. 86-5/89 del 2/3/1989 - Distribuzione gratuita

Editoriale

UNA CITTA’ MULTICULTURALE

IMMIGRAZIONE, COOPERAZIONE E SOLIDARIETÀ NELLA SOCIETÀ DI OGGI

On. Nicolò Cristaldi Sindaco di Mazara del Vallo

di Giuseppe Fabrizi Mazara del Vallo, città di frontiera e cerniera tra le due sponde del Mediterraneo, già da diversi decenni ha subito il fenomeno dell’immigrazione massiva, la più elevata dopo l’invasione e la colonizzazione araba del 627 d.C. Migliaia e migliaia di arabi infatti, in prevalenza tunisini, hanno occupato, insediandovisi, l’antico quartiere arabo accanto e dietro il porto, trovando occupazione nella marina, e quindi sui motopescherecci, e nelle campagne, sino a costituire pian piano piccoli esercizi commerciali (edicole, negozi di generi alimentari, di abbigliamento e vari), diventando così una vera e propria comunità di circa 7000-8000 persone e conseguentemente una vera città araba, con le proprie abitudini civili e con le proprie pratiche religiose, in un clima fatto più di tolleranza che di vera e propria integrazione! To l l e r a n z a e , q u a l c h e v o l t a indifferenza, costituiscono però sentimenti che nulla hanno in comune con la solidarietà e la cooperazione: questi ultimi sono certamente indispensabili per una crescita civile comune, dove le due comunità mantengano però intatte le proprie identità storiche, culturali e religiose. La Chiesa mazarese in tutti questi anni è stata molto vicina a questi fratelli arabi, cercando gli itinerari giusti della carità e della solidarietà cristiana e portando aiuto, spesso in modo concreto, a famiglie bisognose, mediante l’incessante attività di sacerdoti e parroci, impegnati ad attuare i principi cristiani della fratellanza, pur fra etnie religiose diverse. La società civile invece, di fatto, ha tollerato la presenza della comunità islamica, pur non compenetrandosi sempre nei bisogni di essa e senza che ci sia stata una vera e propria integrazione, ma soltanto una semplice, pacifica e tollerante convivenza. La storia mazarese passata ci insegna che la nostra città, sotto la dominazione araba aveva conosciuto splendori culturali mai raggiunti dopo; fatte le debite proporzioni e tenendo conto delle diversità storiche, economiche e culturali, è auspicabile quindi che Mazara del Vallo, per la sua posizione geografica, e grazie alla presenza di questa importante comunità araba, possa veramente diventare un ponte che unisca le due sponde del Mediterraneo, sia dal punto di vista socio-economico che culturale.

Una città orgogliosa della propria storia, delle proprie tradizioni e del proprio patrimonio architettonico ed ambientale. E' la linea che ci siamo dati per dare a Mazara del Vallo uno sbocco strategico per i prossimi anni, perché si viva meglio e perché l'ottimismo torni tra le gente. Mazara del Vallo ha la possibilità di diventare una piccola grande capitale nel Mediterraneo ed il traguardo sarà raggiunto se tutti insieme, forze politiche e sociali,

usciremo dal provincialismo, dalla sufficienza e dalla litigiosità che hanno caratterizzato la nostra Città negli ultimi anni. Abbiamo cominciato a lavorare con impegno ed i segnali sono indubbiamente positivi. La gente comprende i grandi progetti e comincia a toccar con mano la soluzione delle piccole cose che avvicinano l'Amministrazione ai propri abitanti. Per decenni Mazara è stata pesca ed agricoltura ma i due polmoni da soli non ce la fanno ad assicurare un futuro migliore soprattutto alle nuove generazioni. Pesca ed agricoltura sono rimasti fermi, imprigionati dalle regole restrittive comunitarie e dall'invasione di prodotti importati da Paesi dove il costo del lavoro e le garanzie sociali sono molto più basse che da noi. Pesca ed agricoltura sono due settori che vanno difesi ma è compito di una classe dirigente illuminata trovare nuove frontiere e nuovi progetti su cui scommettere. Inventare un nuovo settore economico con la logica dell'industria nobile, fatta di cultura e di grandi ambizioni, perché sono le grandi ambizioni che fanno grandi le piccole realtà economiche e sociali. Ripeto da anni che si può essere industriali anche senza fabbricare automobili, si può essere titolari di industria utilizzando la nostra materia prima fatta di secoli di storia, di grandi tradizioni e di straordinarie risorse ambientali. E' appena partito il rilancio del centro storico,

con interventi che porteranno al recupero di vicoli e di cortili e che serviranno a migliorare la qualità della vita per i residenti fornendo stimoli per nuove attività oltre ad assicurare ai visitatori un interesse ad uscire dal Museo del Satiro per addentrarsi nelle viuzze della nostra Città. Il recupero della città antica è lo spazio materiale e spirituale in cui artisti ed artigiani si misureranno perché valga la pena di spostarsi dalla periferia verso la parte abbandonata da decenni dagli stessi Mazaresi. E' compito di ognuno di noi imparare a leggere ciò che i nostri padri hanno costruito, con le mani e col sudore, senza grandi mezzi meccanici ma con la passione del lavoro e del sacrificio. C'è un pericolo in questo tipo di operazioni che comincia ad emergere ed è la speculazione di chi dopo avere tenuto per decenni abbandonati i propri edifici adesso si scatena nel cosiddetto mercato immobiliare e decuplica i prezzi di vendita degli immobili. Ma questo è nelle cose legate alle regole di oggi e vanno tenute in considerazione in guisa tale che siano le parti più degradate quelle che devono avere priorità negli interventi. Il recupero del centro storico aprirà un nuovo terreno su cui misurarsi ed è quello sociale e multiculturale. Proprio nel centro storico vivono gli immigrati provenienti da paesi rivieraschi e da lontani continenti. Questa condizione ha portato disagio tra la popolazione ma anche importanti risorse non solo legate alla sopravvivenza di pesca ed agricoltura. Basta Continua a pag. 8

LETTERA AI MAZARESI di S.E. Mons. Domenico Mogavero

Sono vescovo della Diocesi di Mazara del Vallo da due anni e mezzo e ritengo di essermi inserito abbastanza in questa che considero la mia città di adozione, avendo scelto di trasferire qui la mia residenza. In ragione di ciò mi permetto rivolgervi qualche considerazione sul ruolo della nostra Città e su alcune prospettive alle quali dovremmo aprirci. Per prima cosa, sarebbe auspicabile che tutti riscoprissero il vanto di essere mazaresi; un vanto motivato dalla storia singolare e prestigiosa della Città. E questo non per una malinconica e nostalgica fuga nel passato, ma per dare nuovo slancio a una vocazione e a una progettualità, che Mazara del Vallo ha avuto nel corso della sua storia, pur con caratteristiche di volta in volta differenziate. Nel sec. XI la rifondazione della Città e la collocazione in essa della prima sede di Chiesa normanna, con l'edificazione della cattedrale dedicata al SS. Salvatore (1093), conferirono agli abitanti del tempo un ruolo di rilancio del messaggio cristiano e di riorganizzazione della comunità ecclesiale, provata da due secoli di dominazione araba. I nostri predecessori dovettero guardare bene la realtà circostante per tornare a dire il Vangelo, dopo due secoli di silenzio, con categorie nuove e per ripristinare una tradizione liturgica, culturale, religiosa che fosse comprensibile e adatta alle aspettative dei contemporanei. Con gli opportuni adattamenti, il nostro tempo ha tante analogie con quegli inizi, in quanto le mutate condizioni sociali, culturali, religiose ed economiche richiedono un ripensamento dei modelli di sviluppo e delle relazioni tra i popoli. La crisi economica, aggravata dalle sue dimensioni globali, pur strisciante negli ultimi anni, è deflagrata in modo clamoroso

negli ultimi mesi e non si intravede ancora con chiarezza la sua soluzione. L'ondata immigratoria verso l'Europa, pur consistente, ha subìto un incremento considerevole, trovando impreparati diversi Paesi, che si son dovuti confrontare con sistemi normativi inadeguati, trovando talora soluzioni innovative incapaci di affrontare e risolvere dignitosamente il grave e delicato problema. In questo contesto la nostra Città e la nostra Chiesa hanno ruoli e collocazione alquanto impegnativi e stimolanti, a motivo della loro particolarissima posizione geografica, nonché della singola esperienza rappresentata dalla presenza molto consistente di cittadini immigrati. Di conseguenza, come ponte lanciato sul Mediterraneo, siamo chiamati a farci promotori di progetti che consentano al Mare nostrum di essere mare che unisce sponde e non che divide popoli. A tal fine, Mazara del Vallo è chiamata a consolidare in se stessa il modello della pacifica convivenza tra popoli diversi - che peraltro è ormai parte integrante della nostra cultura - nel rispetto delle specifiche identità, culture, religiosità. Inoltre, deve assumere e farsi riconoscere il ruolo di terminale dell'Europa, quasi finestra aperta sui paesi rivieraschi; e, sull'altro versante, deve farsi carico di una funzione di mediazione sociopolitica e culturale per favorire gli scambi con l'Unione europea, il cui allargamento a 27 paesi non ha prodotto un effettivo sentire europeo comune e diffuso. Se, oggi, si torna a parlare di una nuova centralità del Mediterraneo, le vie del dialogo tra le due

sponde hanno un passaggio obbligato e privilegiato proprio nella nostra Città. Ma, in questo quadro d'insieme non si può eludere un interrogativo: la nostra comunità mazarese è in condizione di esercitare questo ruolo e, soprattutto, è pronta ad accettare le sfide che saranno lanciate dall'introduzione dell'area di libero scambio nel Mediterraneo? Questo è un punto nodale che ci deve far riflettere e che deve vedere sinergicamente all'opera tutti, istituzioni e singoli, per non lasciarci sfuggire un'occasione storica di mediazione e di sviluppo. In concreto, occorre uscire da un certo fatalismo rassegnato che ci portiamo dentro

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NOVEMBRE 2009

L’arco

LA JURECA DI MAZARA

Appunti di storia della comunità giudaica mazarese di Enzo Gancitano Quando, tra il 1171 e il 1173 , l'ebreo Benjamin da Tudela, cittadina della Navarra, nella Spagna nordorientale, visitò, durante il suo viaggio per l'Europa e l'Asia, la popolosa comunità giudaica di Mazara, la città, sotto la dominazione normanna, godeva di uno splendore economico straordinario, alla cui realizzazione non erano stati estranei i cittadini ebrei. Il libro di viaggio di Benjamin rappresenta, pertanto, il primo attestato dell'esistenza del raggruppamento ebraico, ma la prima documentazione storica proviene dall'inchiesta ordinata dal re Carlo d'Angiò il 2 novembre 1272, per l'accertamento delle decime dovute alla Chiesa di Mazara, anche da parte della comunità ebraica della città del Mazaro. Gli Ebrei, oltre i tributi dovuti per le attività artigianali e commerciali come cives mazarienses, erano obbligati a sottostare ad una serie di ulteriori imposte deliberate esclusivamente a carico della loro comunità: 1. G a b e l l a V i n e a e I u d e o r u m . Quest'esazione colpiva unicamente i vigneti di proprietà ebraica, come Giudeo Soprano, Giudeo Sottano, Maimuni, Maimunello, Girardino, Xaulo (Ciavolo), etc. 2. Gabella Gisiae Iudeorum Civium et Iudeorum Garbi. La gisiah era un tributo musulmano imposto ai Cristiani e agli Ebrei, che i Normanni mantennero su quest'ultimi. L'esazione colpiva non solo gli Ebrei residenti, ma anche quelli provenienti dalla penisola iberica e dal Marocco. 3. Gabella Ioculariae. Tributo applicato agli Ebrei per l'utilizzazione di suonatori di chitarre o di trombe in occasione di matrimonio e di nascita. L'entità del tributo, nel caso di nascita, variava con il sesso, più gravosa per quello maschile.

Inoltre la comunità giudaica era costretta, in occasione delle festività di Pasqua, Natale e del Santo Salvatore al pagamento di due rotoli di pepe al vescovo della Chiesa di Mazara. Queste gabelle, facenti parte dei Vetera iura e risalenti alla concessione del conte Ruggero alla Diocesi mazarese, costituiscono ulteriore conferma dell'esistenza della comunità giudaica nel XII secolo. Stabilire, però, con precisione storica il periodo d'insediamento degli Ebrei a Mazara è, allo stato attuale, estremamente difficoltoso per l'assenza di documenti validi. Tuttavia notizie degli Ebrei in Sicilia si possono riscontrare nelle lettere di San Gregorio Magno già nel VI secolo, con le quali il pontefice invitava alcuni vescovi isolani a porre fine ai soprusi e alle ingiustizie operati contro gli Ebrei, le loro sinagoghe e gli edifici occupati ad uso cristiano . La floridezza economica, subentrata

qualche anno dopo la dominazione musulmana, attrasse gli Ebrei dell'antistante costa africana, che, tramite il giornaliero collegamento navale Mazara Tunisi, incrementarono la colonia esistente. La popolazione ebraica mazarese si può desumere dal censimento eseguito dalle autorità spagnole nel 1489 per il calcolo delle imposte dovute dalle masonate (fuochi, gruppi familiari) e cioè un tarì circa, per ogni masonata. A Mazara furono attribuite 130 masonate e poiché ogni gruppo familiare veniva considerato in media di 5,88 elementi, l'ammontare degli Ebrei era di settecentosessantacinque, che costituiva il 9,1% dell'intera popolazione. Le vicine città di Marsala e Trapani presentavano rispettivamente 465 e 567 masonate con una percentuale per la prima che sfiorava il 50%, cioè 46,9, per la seconda il 27%. Le masonate di Alcamo e Salemi erano 50 e 30 con una percentuale rispettivamente di 8,3 e 3,3. Nel XV secolo le autorità fissavano l'ammontare delle esazioni fiscali per tutta la Sicilia, indi si divideva il carico fiscale per tutte le comunità ed infine la singola comunità stabiliva la quota per ogni masonata. Questo non significava che i più poveri dovessero pagare un tributo uguale ai benestanti, poiché il rappresentante della comunità poteva ripartire il tributo secondo la capacita contributiva di ogni gruppo familiare. Il capitolo di re Alfonso del 14 maggio 1451 recitava : ”Omnes iudei taxentur etiam absentes pro quantitate et qualitate patrimonii pro rata eos contingente”. La giudecca ebraica mazarese era dislocata, nei secoli XIV e XV, nella fascia nord est e nord ovest della città, e si estendeva dal quartiere Carminello, l'attuale Via S. Antoninello, fino al quartiere Torre di Marte, l'attuale Piazza F. Modica, fino alla Via Bagno comprendendo anche alcune case del quartiere della Pilazza e della Piazza Regina. Nella Giudecca erano incluse, pertanto, le vie Goti, Del Turco, Rua della Giudecca, Sant'Agostino, Ospedale Vecchio, Vicolo Coppola, Piazza San Michele, Origliano, Dell'Acqua, Giattino, Vicolo degli Aragonesi e tutte le anguste vie che con esse si intersecavano. Gli edifici abitativi, nella maggior parte, erano dimessi con tetti bassi, ricoperti da tegole d'argilla a protezione dalle intemperie climatiche, ingressi piccoli, pochi vani di modeste dimensioni consistenti nell'alcova, cucina, stalla e pagliera per un nucleo familiare non inferiore a cinque persone. Le abitazioni erano dislocate in strade anguste e disagevoli, in vicoli bui o in cortili con pozzo e lavatoio. Non mancavano, comunque, nello stesso quartiere dimostrazioni concrete di ricchezza con i palazzi di Zanni Lalagna, di Andrea Boy, con il palazoctum di Bracha de Benedicto, l'apotheca nova palaciata dei fratelli Giuseppe e Busacca di Tripoli, etc. Il centro della Giudecca era rappresentato dalla Piazza S.Michele e dal Curtigghiu ranni, il cortile grande. La Via Goti, allora Via della Giudecca, anche se ristretta, rappresentava la strada principale che si immetteva direttamente nella piazza Regina attraverso un'apertura nella piazzetta F. Modica, di fronte alla Via Goti. Pur non mancando i contrasti, la convivenza tra Ebrei e Cristiani era piuttosto pacifica. Il movimento antiebraico, infatti, che interessò quasi tutti i paesi della Sicilia e che si

manifestò con uccisioni, atti di violenza e sassaiole nella seconda metà del XV secolo, risparmiò la città di Mazara ma non alcuni membri della sua comunità giudaica. Nel 1483, difatti, un gruppo di Ebrei mazaresi si recò a Marsala in cerca di lavoro presso una masseria nella quale furono sferzati a sangue. Il vicerè Gaspare de Spes istruì un processo per tale episodio di violenza: “Simo stati informati per lu capitaniu di la terra di Marsala per una sua lictera comu lu dì di Sanctu Joanni essendo certi homini di Mazara in quilla terra fichiro intrari certi iudei in la pusara loro cum coluri di volirili mandari a serviciu; et di poy serravano li porti di la dicta pusara, et fachiano livari a cavallo li dicti iudei et poi li davano firlati chiagannuli”. Nonostante questo isolato episodio, numerosi gruppi familiari cristiani risiedevano e vivevano in armonia nel quartiere della Giudecca, come non pochi Ebrei dimoravano nei quartieri cristiani di Santa Venera e di Piazza Regina. Inoltre, all'interno della Giudecca erano dislocate le chiese cristiane di San Michele, S. Egidio il Vecchio, S.Maria Maddalena, S. Maria della Neve. Ulteriore significativa dimostrazione di convivenza e tolleranza religiosa era la collocazione della sinagoga a pochi metri dalla chiesa cristiana di S. Michele. La Giudecca era da considerarsi, pertanto, come un risultato naturale di aggregazione etnica piuttosto che il prodotto di norme legislative. Il mondo ebraico mazarese rivelava una cultura dischiusa al dialogo, alle influenze esterne, all'ambiente circostante con il quale poteva entrare anche in simbiosi, ma mai si congiungeva totalmente con esso fino a dimenticare la propria origine e la propria religione, almeno la parte preponderante di esso, in definitiva, “una civiltà sempre fedele a se stessa” (Braudel). Come per i Musulmani la muschita, così anche per gli Ebrei la sinagoga fungeva, oltre che da luogo di preghiera, anche da sede d'istruzione e di riunione. Tuttavia, successivamente, poterono usufruire di una scuola pubblica al centro della Giudecca che, dopo l'espulsione degli Ebrei, fu venduta, come risulta negli atti del notaio A. Polito: “aliam domum in simul coniunctam dictis domibus que fuit Sadie de Lu Presti, que erat scola seu confratria iudaica dicte Civitatis…” Il tempio del culto ebraico fu affidato ai Padri Agostiniani che l'adattarono a chiesa e convento, mantenendone, però, la struttura originaria fino al 1750, quando venne trasformata dai Confrati della Buona Morte nell'attuale chiesa di S.Agostino. Gli Ebrei partecipavano a riunione congiunta con i Cristiani nella Cattedrale soltanto quando gli interessi erano comuni, ad esempio, il riscatto della città dalla signoria dei Peralta, dei Cabrera, dei Cardona, etc. A tale affrancamento della città natia, peraltro, partecipavano con entusiasmo e generosità . La primitiva dislocazione della Jureca è da ricondursi al quartiere nordoccidentale della città, appena fuori le mura, denominato lu scurciaturi, poiché vi si scuoiavano gli animali morti. Nei primi anni della dominazione normanna ( 1 0 7 2 - 11 9 4 ) , l a p r i m a preoccupazione del nuovo conquistatore, di numero esiguo, fu la fortificazione del territorio. Nacque la città murata che escluse due comunità, quella musulmana nel quartiere nord orientale e quella ebraica nel versante

nordoccidentale, così come avvenne per la città di Sciacca, forse per il probabile intento del conte Ruggero di impedire che le due comunità vivessero assieme ai Cristiani. In realtà nei quartieri di San Giovanni e San Francesco, nella parte sudoccidentale della città murata, risiedevano i Musulmani di rango più elevato. D'altronde i trentamila abitanti del periodo musulmano non potevano essere contenuti integralmente nel nuovo centro urbano. In questa primitiva Jureca gli Ebrei usufruivano del bagno per la purificazione delle donne, della sinagoga, dell'ospedale e del cimitero. Soltanto in un secondo tempo, in atto non è dato sapere in che epoca, gli Ebrei costituirono la nuova Giudecca all'interno della città con la sinagoga, l'ospedale, la scuola, mentre il bagno (ancora per poco) e il cimitero conservavano la loro ubicazione originaria. Alcuni avanzi dei monumenti di tale giudecca furono trasportati ed utilizzati nella cattedrale. Intorno alla metà del XV secolo la comunità giudaica chiese ed ottenne dall'Universitas Mazariensis che il

lavatoio fosse trasferito nel centro della città e, precisamente, nella piazzetta Bagno. Non mancò il malcontento dei Mazaresi che inviarono invano, nel 1445, una protesta al re Ferdinando chiedendone la chiusura, poiché lo ritenevano causa di epidemie, lebbra e malattie oftalmiche: “…Imperanti li Judei ab antiquo tempore soliano andare a lavare in un loro lavatoio fora la ditta cità per li loro mestrui et altre loro usanze, ora de poco per le loro subornacioni et donativi a li officiali passati si hanno fatto lo ditto loro lavatoio et bagno intra la ditta cità et quasi intra lo mezzo di ditta cità. Et la cità preditta et cussì li acqui di li puzzi vanno da uno a l'altro per li vini sutta terra et cussì tutte quelle loro bruttizzi de li loro mestrui si vanno con li acqui l'uno e l'altro unde la opinioni di multi valenti et intelligenti persuni che per quista causa e quisto bagno multa genti di lepra e di occhi malati et altri morbi patino. Per tanto la ditta università supplica humilmente per evitari questi pessimi infirmitati tollere ogni suspecioni che li ditti donne iudee et homini si vaiano a lavare a lo loro antico lavatoio unde prima costumavano fora la ditta cità”. Una seconda supplica fu inviata al re Ferdinando nel 1468 per il lavatoio degli Ebrei senza alcun esito. Il cimitero, rimase sempre, fino alla loro espulsione, nel quartiere dello scurciaturi. La Giudecca mazarese, universitas civium iudeorum, usufruiva della piena autonomia patrimoniale, amministrativa e d'indipendenza giudiziaria rispetto alla universitas civium christianorum in quanto considerata come comunità di Servi Regiae Camerae e, pertanto, difesa e protetta dalla giurisdizione regia. L'amministrazione era affidata, annualmente, ad uno, due, talora tre, Proti (etimo greco-bizantino con il significato di consiglio dei giurati cittadini) assistiti da quattro eletti. Ma di fatto i maggiorenti, cioè l'oligarchia giudaica, non poche volte avocavano a se il potere per cui i dissidi all'interno della giudecca mazarese, dall'istituzione del protato, risalente al XII secolo, non erano


L’arco NOVEMBRE 2009 infrequenti. L'ebreo Brachono Balbo, ad esempio, aspirante alla carica di proto, si rivolgeva al re Martino per porre a tacere le ingiuste pretese del proto Marcello di tenere la carica perpetuamente. Come era giusto attendersi, il sovrano approvò la richiesta e la carica annuale. Al vescovo di Mazara competeva la giurisdizione “pleno iure” secondo le disposizioni del re, emesse nel 1392, non solo sui Cristiani ma anche sugli Ebrei dell'intera Diocesi limitando, di fatto, l'autonomia della Jureca. L'episcopo mazarese era autorizzato alla nomina del sommo sacerdote degli Ebrei, conservava il diritto di punire i reati di adulterio e di diffamazione del matrimonio commessi sia dai Cristiani che dagli Ebrei:”Item et diffamationem matrimonii, item quod possit et debeat cognoscere et punire Judeum et Judeam, Christianum et Christianam qui adulterium committat. Item quod possit eligere et approbare et confirmare Presbiterum ebreum, qui ebraice dicitur Hasem, ad cuius officium pertinet canere officia in sinagoga et conficere contractus et scribere instrumenta hebraica et secundum ritum eorum”. Non mancavano, però, qualche volta, gli eccessi della Curia, come nel 1399, quando impose alla comunità ebraica di assistere alle principali festività religiose cristiane in Cattedrale. Occorse l'intervento di re Martino a cancellare l'imposizione contraria alla legge esistente. La curia vescovile era nondimeno incaricata di dare il parere definitivo sui matrimoni fra appartenenti ai due culti religiosi, che le norme del tempo vietavano; tuttavia si dimostrava molto tollerante e comprensiva nell'applicazione ed osservanza delle norme canoniche. L'economia mazarese era assicurata, in una non trascurabile percentuale, dall'attività degli Ebrei nell'agricoltura, nella pastorizia, nell'artigianato, nel commercio. Alcuni feudi, già citati, appartenevano a membri della comunità ebraica o per acquisto o perché derivati da concessione in enfiteusi. La comunità, contrariamente alla convinzione generale, era prevalentemente composta da modesti artigiani quali fabbri, muratori, falegnami, tessitori, tintori, pirriaturi (picconieri), etc. Nel campo dell'estrazione dei conci di tufo per la costruzione eccellevano gli Ebrei Graziano de Angelo, Bracha Furmintuni, e mastro Nicolao che faceva parte della maestranza dei marmorari a Palermo. Rinomata era pure la peculiare capacità dell'artigianato ebraico nella fabbricazione di cutre e cuttunine, nella quale brillava Charonnu de Cuxino.L'arte medica degli Ebrei era stata sempre apprezzata, pur tuttavia aveva ingenerato dei contrasti con la categoria dei medici cristiani quando nel 1488 la regina Giovanna aveva concesso ai medici Ebrei il privilegio di esercitare la libera professione anche presso i Cristiani. L'istanza, avanzata dai medici cristiani alla Curia vescovile, soprattutto per motivi di gelosia e concorrenza, non ebbe gli effetti sperati: “Judei a pluribus annis… semper medicaverunt et medicant in ditta civitate sine aliquo obstaculo dummodo habent licentiam a magnifico prothomedico huius regni Siciliae”. Sostanzialmente la presenza ebraica era riscontrabile in ogni settore di attività ad eccezione di quella militare e marinara. Quest'ultima attività era dominata dai

Genovesi, Veneziani, Aragonesi, Pisani ed Amalfitani. I Genovesi si stabilirono nell'attuale Piazza del Purgatorio, un tempo Piazza dei Genovesi, nella quale edificarono la loro chiesa di S. Giorgio. Gli Aragonesi nel quartiere ebraico nei pressi dell'attuale Piazza F. Modica con i magazzini di deposito nella zona portuale, i Veneziani nella Piazza Mokarta dove eressero la loro chiesa di San Marco, andata in rovina nel 1780; gli Amalfitani in corrispondenza della Porta del Fiume, nei pressi della quale innalzarono la chiesa di S. Andrea ed infine i Pisani tenevano i loro magazzini nei paraggi del porto. L'opinione comune che gli Ebrei fossero particolarmente legati al denaro era enfatizzata e, comunque, riguardava singole individualità. In genere gli Ebrei vivevano esclusivamente del proprio umile lavoro. L' espulsione Durante gli anni del governo della regina Giovanna, gli Ebrei mazaresi attendevano alla loro abituale vita paesana ed erano ben lontani dall'immaginare quell'evento tragico che si abbatté, all'improvviso, sulla loro comunità con l'editto di espulsione del 31 marzo 1492, emesso da Ferdinando il Cattolico. Il decreto, in verità, costituì non solo un attacco contro le 57 comunità ebraiche della Sicilia, ma anche un attentato contro i privilegi e la semiindipendenza dell'isola. L'ordinanza, pubblicata in Sicilia il 18 giugno dello stesso anno, imponeva agli Ebrei l'abbandono dell'isola e la confisca dei beni nel caso di mancata conversione o di permanenza. L'accusa d'eresia e di eccessiva usura a danno dei Cristiani costituiva, in verità, un pretesto per giustificare l'intento economico dell'appropriazione dei beni ebraici al fine di infondere linfa vitale alle debilitate finanze spagnole. La curia regia, infatti, s'impadronì delle terre, delle abitazioni, delle botteghe, degli armenti e persino dei gioielli e degli schiavi, nel caso di famiglie facoltose. Pur se la vendita dei beni della comunità giudaica doveva svolgersi secondo norme di legge, non sempre queste furono applicate, anzi le frodi e le concussioni furono ripetute. Gli Ebrei che non accettarono l'abiura, abbandonarono la terra natia il 12 gennaio 1493, affidando i loro beni alla protezione coatta dei rappresentanti fiscali del re che approfittarono costantemente di queste situazioni per richiedere doni o somme in denaro al fine di evitare vessazioni o di consentire di occultare i beni o di portarli dietro nel viaggio. Tali vessazioni e concussioni provocarono l'invio a Mazara di un commissario regio, Ciancio Russo, per un'inchiesta dalla quale, probabilmente, non scaturì alcun risultato positivo se il re Ferdinando inviò un suo incaricato nel regno di Napoli per chiedere agli Ebrei “ se gli ufficiali del regno avessero loro estorto cosa alcuna, come denari, ori, argento, gioie, mercanzie o qualsiasi altro bene e cose di lusso…o se avessero subornato alcuno degli stessi giudei”. Anche se la conversione al Cristianesimo consentiva la salvaguardia della vita e dei beni, non furono molti coloro che l'accettarono o per convinzione o per opportunismo. Coloro che si convertirono assunsero al momento del battesimo un nome cristiano, più frequentemente Giovanni per i maschi e Caterina per le donne. Per quanto attiene al cognome la scelta fu rivolta al nome della città, oppure al mestiere esercitato o anche alla latinizzazione del cognome giudeo mantenendone l'originaria radice ebraica. Non si conosce il numero di quanti, convertiti, restarono a Mazara, ma di certo la lettura del registro notarile di Andrea Polito evidenzia un drammatico susseguirsi di atti di vendita di edifici e terreni ebraici, a prezzo irrisorio, a nobili e semplici cittadini mazaresi che incrementarono facilmente le loro ricchezze. Se la scuola, l'ospedale e, persino, la sinagoga furono venduti, il numero di coloro che scelsero la permanenza non dovette essere ragguardevole. I neofiti, ovverosia, gli Ebrei convertiti al Cristianesimo, pur non potendo più utilizzare la sinagoga come sede di culto, tuttavia non avevano esigenze economiche tali da essere costretti a vendere al nobile mazarese Simone de Mirabile la sinagoga, che avrebbe potuto essere utilizzata come sede di riunione. Anche la vendita degli edifici, adibiti a scuola e ospedale, induce a ritenere che la

Pag. 3 maggior parte degli Ebrei mazaresi preferì abbandonare la terra natia piuttosto che abiurare, portando “una sola veste, una copertina di lana, un paio di lenzuola usate, poche vettovaglie per il viaggio e tre tarì”. ( i. La lumia) Secondo l'editto d'espulsione. I più si avviarono verso il regno di Napoli, pochi verso la Palestina, tutti con l'incertezza del futuro. Parimenti all'espulsione dei Musulmani, in specie dei Berberi, l'allontanamento degli Ebrei disastrò l'economia mazarese, tanto che si rese necessario, nel periodo immediatamente successivo, la riduzione della gabella delle carni per consentirne l'acquisto ai cittadini. Scomparvero alcune attività artigianali e commerciali esercitate dagli Ebrei e sopraggiunsero quartieri disabitati, officine e botteghe chiuse, terre abbandonate in nome di un'intolleranza insensata. Ma i supplizi per i pochi Ebrei cristianizzati non erano ancora arrivati alla fine. L'8 novembre 1500 il bando dell'inquisizione, pubblicato nelle principali città della Sicilia, imponeva che “neuna pirsuna di qualsivoglia statu, grado e conditioni che sia quomodocumque descendenti di nationi ebrea, non si digia per alcuna causa personaliter partiri da questo regno né trasferiri domicilio…senza espressa licenza, e voluntati di lu sig. Inquisituri…subta poena di excommunicationi e di pubblicazioni di tutti li loru beni ipso facto applicandi lo Fisco di lo Sancto Offizio…” Non erano stati sufficienti, dunque, i tributi iniqui per la loro condizione di Ebrei, la rinuncia al credo religioso e la coatta scelta di una religione che non era quella degli avi, la perdita della identità ebraica persino nel nome latinizzato, adesso le autorità dell'inquisizione sollecitavano i concittadini cristiani alla delazione, anche falsa, dietro compenso. “…Li preditti sig. Inquisituri promettino a tutti quelli persuni, li quali revelassiro o imparassiro la fuga di alcuno di li preditti …la decima parte di tutto quello che toccassi a lo Fisco di la Santa Inquisizioni…”. Si raggiunsero, pertanto, in Sicilia, eccessi inverosimili. Nel caso di eresia o sospetta eresia, persino la premorienza non estingueva il reato e il cadavere, o ciò che restava di esso, veniva disseppellito e sottoposto al rogo. Seguivano la confisca dei beni e la distruzione dell'abitazione macchiata d'eresia”. In questo periodo del XVI secolo fu imposto agli Ebrei di vivere nel ghetto, cioè, nella zona della loro comunità, intesa non più come libera scelta residenziale. Nel 1513 fu istituita a Mazara una commissione d'inquisizione composta da un commissario, un notaio, un ufficiale e dodici militi, sulla quale non aveva alcun potere né l'autorità ecclesiastica diocesana né l'autorità militare. Un tentativo, infatti, dei giurati ed ufficiali mazaresi di impedire che sospetti neofiti giudaizzanti della città del Mazaro fossero trasportati a Palermo per il processo, avvalendosi del fatto che essendo Mazara città reginale, non dovesse soggiacere al potere dell'inquisizione, riuscì infruttuoso. Anzi fu deliberata la scomunica al capitano d'armi di Mazara, Aloisio Rodriguez, che fu costretto a recarsi presso il tribunale d'inquisizione di Messina per la rimozione della condanna. Negli anni precedenti l'istituzione di tale commissione, i processi contro i neofiti giudaizzanti erano celebrati dalla curia vescovile diocesana che assunse un atteggiamento meno rigido ed intollerante. Il processo, infatti, contro il neofita, sospetto giudaizzante, Abramo Taboza si concluse nel 1491 con l'assoluzione e la restituzione dei beni confiscati. Altro processo fu intentato, nel 1494, contro la neofita Caterina Monteverdi, accusata di praticare le consuetudini, le leggi e le cerimonie giudaiche: ”Observat et peragit consuetudines, leges et iudaicas cerimonias, quas iudei observant et ipsa prout cum iudea erat observans superstitionem et morem judeorum, permanens in illa eadem perfidia judaizando”. Occorreva ben poco per portare un ebreo della comunità mazarese davanti alla commissione d'inquisizione, una denuncia anonima, una falsa o conveniente testimonianza, l'animosità dei familiari, il semplice sentimento

antisemita di qualche cittadino o soltanto il sospetto dell'inquisitore. Il tributo pagato dalla comunità giudaica di Mazara non fu modesto potendosi contare fino al 1530 cinque condanne al rogo eseguite in persona, sei condanne al rogo in statua , manichini in cartapesta, poiché i presunti colpevoli di eresia erano fuggiti o deceduti, e ventidue condanne al carcere e alla confisca dei beni nonostante gli inquisiti si fossero pentiti di colpe inesistenti. Gli Ebrei della città del Mazaro, cristianizzatisi non certo per fede, ma solo per necessità, non poterono essere dei buoni cristiani, oltre a non essere stati dei buoni ebrei, e non poterono eliminare, ex abrupto, le loro usanze religiose, le abitudini alimentari, le tradizioni. Alcuni non ne furono capaci pur tentando, altri si rifiutarono di farlo accettando persino la condanna al rogo. Così avvenne per Angela la Madiuna (o la Maccagnuna) che, cristianizzatasi in un primo momento, riabbracciò la sua fede ebraica, più forte della paura della morte e, rifiutando l'invito insistente del marito ad abiurare, accettò la condanna al rogo eseguita il 29 settembre 1525 nella Piazza Marina di Palermo. Così fu per Sicilia Manuel, neofita giudaizzante, che non seguì il marito nella decisione dell'abiura per avere salva la vita ed accettò la condanna compiuta nella stessa piazza a Palermo. Anche l'ebrea Angela Marangona, cristianizzatasi, ritornò ai riti giudaici e fu bruciata viva. Così pure Antonia Romano, vedova, proveniente da ricca famiglia ebraica, andò al rogo il 29 settembre 1513. Non mancò chi nata cristiana, come Giacoma Greco, abbracciasse i riti ebraici ed accettasse la morte mediante rogo l'8 luglio 1520. In tutte queste vicende era chiaro agli inquisitori e ai responsabili alla guida civile e religiosa che agli Ebrei non erano state offerte quelle condizioni sociali e culturali da facilitarne l'adattamento nel nuovo mondo cristiano e che i neofiti soltanto gradualmente avrebbero potuto abbandonare le loro abitudini di vita. Gli inquisitori, invece, non permisero il loro inserimento nella società cristiana, poiché seguitavano a considerare i neofiti, quantunque cristianizzati anche nel nome, giudei, riversando su questi il loro astio religioso, eredità di secolari credenze. “Quella condanna a rimanere giudeo, invero, non fu mai formalmente pronunciata, ma fu lo stesso rigidamente eseguita con rigore implacabile”. (F. Renda) Soltanto nel 1782 fu posta la parola fine. Chi si sofferma oggi, nel quartiere della Giudecca o in quel che di diruto ne resta, avverte un silenzio profondo, figlio della solitudine e dell'abbandono, un silenzio antico di secoli, forse lo stesso che accompagnò gli Ebrei nel loro viaggio senza ritorno.


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CONTRO PROMETEO E CONTRO LA JIAD, PER UNA CIVILTÀ DELL’AMORE E DELLA CARITÀ di Onorato Bucci L'incontro del 3 agosto scorso tra chi scrive e il prof. Karim Hannachi in un dibattito estremamente corretto ma fermo nel suo significato di fondo (“Islam e Occidente: dialogo possibile o scontro inevitabile”?) ha dimostrato - semmai ve ne fosse stato ancora bisogno – l'estrema opportunità e utilità (per dirla a chiare lettere, l'inderogabile necessità) del dialogo, soprattutto in un momento come l'attuale, fra gruppi e persone provenienti da esperienze culturali lontane l'una dall'altra, e diverse fra di loro nei fini e negli scopi, come diversi e lontani l'uno dall'altro (come appariva al momento dell'organizzazione del Convegno, e come è stato confermato dopo l'avvenuto dibattito) è ciò che noi chiamiamo Occidente e ciò che intendiamo per Islam (e ci riferiamo non all'Occidente dei filosofi e dei sociologi, ma a quello che ha dominato i Paesi conquistati

con ferocia inaudita, depauperandoli delle loro ricchezze e deportando uomini e donne in schiavitù in Europa e nelle Americhe; e riandiamo non ad un Islam nell'interpretazione di Ferdousi Omar Kayyam e al pensiero e alla dottrina del Sufismo, ma a quello che non consente la libertà della liturgia domenicale ai Cristiani, che nega la libertà di vivere ai Cristiani dall'Indonesia all'Iraq, che massacra i Cristiani solo perché non sono musulmani, che crede che dopo la morte ci sia per il buon musulmano maschio la possibilità di possedere dodici vergini che, deflorate, rinnovano la loro verginità in eterno). Su queste basi, su ciò che è teoria e ciò che è pratica, si è svolto il dialogo fra il prof. Karim Hannachi e lo scrivente nel tardo pomeriggio a Mazara del Vallo, lo scorso 3 agosto. E il dialogo si è incentrato su ciò che l'Islam è, e su ciò che è l'Occidente e, nello scenario di quest'ultimo, la civiltà cristiana che maggiormente lo rappresenta. Tre sono le grandi conquiste della cultura dell'Occidente che ci provengono da una storia millenaria nata in terra greca e trasformatasi in Roma (che diventa città greca fin dal IV secolo a.C. perché tale la ritiene Aristotele): a) la conquista del valore e del concetto di persona che va bene al di là del valore e del concetto di individuo. Il primo termine, dirà Boezio, è ciò che non si può dividere perché indica l'uomo nella sua essenza, a differenza del termine individuo che si riferisce anche alle cose, agli animali e al regno vegetale che possono invece essere divisi. Alla fine di un lungo processo storico-giuridico iniziato con la riflessione filosofica greca che dalla Scuola di Talete (che per primo vuole individuare i principi dell'universo fuori dalla divinità e della trascendenza) giunge fino allo stoicismo, attraverso Eraclito e Parmenide che non disdegnano, ma vanno oltre Socrate e la Scuola cinica, sarà il diritto romano a vedere nel termine persona il soggetto giuridico titolare di doveri e di diritti che sussistono indipendentemente dal riconoscimento dello Stato o di altra entità giuridica sovrasoggettiva individuale. La persona, cioè, proprio perché non può essere divisa (persona sectari non potest, precisa sempre Boezio), è un tutto unitario, e viene a identificarsi con la persona fisica, e la sua forza sta nel fatto che l'Ordinamento

giuridico ha il solo compito di regolare i rapporti intersoggettivi, ma non di annullarla. Il diritto oggettivo, cioè, riconosce la soggettività dell'uomo per il solo fatto naturale della nascita: che implica libero arbitrio e autoconsapevolezza degli atti compiuti. Di qui i diritti della persona e i diritti della personalità che poi si estendono alla persona giuridica pubblica e privata che ha occupato non solo la storia del pensiero giuridico occidentale, da Socrate in poi fino, appunto, a Boezio. Simbolo del concetto di persona che usa il libero arbitrio e che è consapevole dei propri atti, è Prometeo che si ribella alla divinità, rappresentata da Zeus e che viene da questo punito con l'invio di un'aquila che gli rode il fegato, fonte del desiderio dell'autocoscienza e legame con il cervello che è la fonte del libero arbitrio secondo la medicina greca, ma che continua a formarsi tale e tanta è la sete di sapere dell'uomo. Una concezione siffatta – che fonda con il comportamento dell'uomo nell'assoluto libero arbitrio sulla base del quale la persona si contrappone alla volontà degli dei che anzi diventano gli interlocutori dell'umana avventura al punto tale da poter essere contraddetti – vive delle schizofrenie e dei paradossi della scelta fra fede e razionalità e trova nelle opere della tragedia greca (Sofocle, Euripide, Eschilo), dopo il superamento del mito della fase prerazionalistica narrata da Esiodo e Omero, la sua più chiara espressione. Epigono di questa concezione è la dottrina del Superuomo di Nietzche che fa del Prometeo ribelle agli dei il proprio simbolo e il proprio punto d'onore. b) quest'uomo, che le fonti greche (e con le fonti greche, l'Occidente intero) chiamano persona dal termine prosopon che sta da indicare la maschera che l'attore si attribuisce nel teatro, fa della dialettica il metro di paragone della sua attività. E la dialettica è il procedimento concettuale che si concretizza in un processo di sintesi dei contrari che tende – sulla scorta dell'insegnamento del pensiero greco, da Parmenide ai Sofisti e Filebo – di avvicinare l'unità alla molteplicità, l'essere al divenire, difendendo il pro e contra di ogni opinione e dando al vero l'apparenza di falso e viceversa, secondo la tradizione dell'eristica greca. In particolare, è da sottolineare come principe della dialettica è Socrate per il quale il termine ha un aspetto negativo quando critica le opinioni divergenti, e un aspetto positivo – che si esprime nel significato di maieutica (capovolgimento, conversione) quando svolge dai casi concreti l'elemento

generalizzante che si trasforma in concetto. La dialettica ha dato vita al pensiero dell'Occidente che ha per sfondo il pensiero greco-romano anche durante il Medioevo cattolico, ma che ha il suo trionfo nell'Umanesimo e Rinascimento immanentista fino a pervenire al pensiero moderno e contemporaneo nelle ricadute settecentesche e ottocentesche da Kant a Hegel, da Fitche allo Schlegel fino all'esistenzialismo, il marxismo e l'idealismo crociano e gentiliano. La stessa giurisprudenza romana e tutto il pensiero giuridico occidentale, da Ulpiano a Savigny, è figlia della maieutica e dell'eristica greca. c) sulla base di questo procedimento della maieutica e dell'eristica greca, figlie della dialettica, l'Occidente greco-romano ha costruito la problematica del rapporto fra jus e fas, fra norma etica e norma giuridica, fra diritto e religione o, per dirla per il suo epigono storico, fra Stato e Chiesa. A partire dalla Scuola di Mileto (Talete, Anassimene ed Anassimandro) il pensiero greco si chiede delle origini dei principi (arkai) e li trova nell'immanenza (aria, acqua e fuoco) e non nella trascendenza, che ignora totalmente nel suo percorso che da Pitagora arriva a Platone, come forza interna della stessa immanenza, ricorrendo all'ordine dell'universo e alla concezione matematica e astronomica del cielo stellato. Solo Crizia, negherà la divinità e la trascendenza, e da Crizia, riscoperto dalla Scuola umanistica di Coluccio Salutati e di Pico della Mirandola, nascerà l'ateismo moderno e contemporaneo. Non c'è dubbio alcuno che il Cristianesimo, nel corso dei duemila anni della sua storia si sia identificato con la storia dell'Occidente. E non c'è alcun dubbio che la civiltà cristiana sia stata l'incontro fra l'Ebraismo e la Grecità, così elaborata in modo affascinante da Paolo di Tarso sulla base della lettura di Gesù di Nazareth. Ma la Grecità aveva già pervaso, e non poco, i due filoni della cultura semitica che avevano dato luogo all'Israele antico l'uno di provenienza siriaco-damoscena e la'altro di derivazione egiziana di cui si fece portatore Mosè. Fusesi queste due correnti, l'Ebraismo che ne nacque dovette fare i conti con la civiltà babilonese da un lato e la civiltà greca dall'altra: il Pentateuco e il resto dell'Antico Testamento, Qoelet e Giobbe in particolar modo, lo stanno a dimostrare. Ma fu soprattutto la Grecità il termine di confronto dell'uomo ebreo e giudeo: sempre in contraddizione con sé stesso ma sempre sottomessi alla divinità, a quel dio (Iawéh) con cui si ritiene sempre in colpa, attratto

com'è da altri stili di vita e di pensiero. Il dramma del Nazareno e la nuovo storia delineata da Paolo di Tarso vivono in questo scenzario che darà luogo all'Occidente cristiano. a) Questo Occidente cristiano eredita tutto il concetto di persona dal mondo giudaico che si era immerso nel pensiero greco, fa suo il valore del libero arbitrio che la tradizione ebraica aveva proclamato nel rapporto con il suo dio Jawéh, giustificando così l'assenza del male e del peccato come conseguenza della volontà dell'uomo di fronte alla storia, e con il Discorso della Montagna proclama l'amore verso tutte le genti e l'eguaglianza di tutti gli uomini, maschi e femmine, circoncisi e non circoncisi, greci e barbari, ebrei e gentili, introducendo i valori della Grazia e della Gratuità, sottolineando il principio della

Resurrezione (se Cristo non è risorto, vana sarebba la nostra vita) e della figliolanza divina di Cristo inserendo quest'ultimo nel discorso profetico messianico della Storia di Israele che da quel momento viene ad essere Storia dell'Umanità intera, uscendo dall'angusta visione palestinese dove fino ad allora si era autodefinita, dando vita al dogma della Trinità che è uno dei capolavori culturali, se non il capolavoro per eccellenza, della nuova religione d'Israele che in terra d'Antiochia prende il nome di Cristianesimo. Paolo di Tarso compie il capolavoro culturale, e la morte del Nazareno viene intesa come compiuta in isconto dei peccati di tutta l'umanità mentre la Resurrezione diventa il riscatto dell'Umanità intera di fronte alle miserie della Storia. Ma non basta: Paolo di Tarso, andando ben oltre Gesù di Nazareth, recepisce tutta intera la dialettica greca e dà vita al nuovo pensiero cristiano, gettando le basi della missionologia di quest'ultimo con il discorso all'Areopago e formulando per prima il paradosso cristiano in termini dogmatici con la dottrina del Verbo (la parola) che si fa carne, applicando fino alle estreme conseguenze le categorie logiche del pensiero greco all'insegnamento del Nazareno: dal Concilio di Nicea a quello di Efeso e di Calcedonia, dalle riflessioni dei Padri della Chiesa latina, greca e siriaca fino alla dottrina della Scolastica, tutto il pensiero greco (prearistotelico e aristotelico, preplatonico e platonico) si fonderà con il pensiero di Paolo di Tarso e darà vita alla Civiltà Cristiana. Sulla tradizione biblica che il Cristianesimo accetterà integralmente, viene creata la testimonianza scrittoria dei quattro Evangeli e da allora si parlerà di Vecchio e Nuovo Testamento in modo tale che tutto il patrimonio storico e di fede dell'Israele Antico diventa patrimonio storico e di fede del Cristianesimo, che è il nuovo Israele: l'olivo nuovo si è innestato nell'olivo antico dando luogo alla nuova civiltà cristiana. b) Gesù di Nazareth fa sua la distinzione fra ius e fas, fra potere civile e potere religioso nel momento in cui distingue il potere di Cesare da quello di Dio e così farà Paolo di Tarso ed anche i Vangeli quando a più riprese diranno che il potere civile (tutto il potere civile) deriva da Dio e che quindi


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bisogna dare ubbidienza allo Stato come a Dio. Su questa linea sorgerà all'interno della Cristianità la dottrina agostiniana e dantesca dei due poli che governano il mondo e quindi la dottrina dei due Soli, dello Stato e della Chiesa che devono coesistere e convincere e dalla cui condivisione e convivenza si perviene all'ordinata visione del genere umano. Questa concezione della storia e della vita, unitamente all'insegnamento che dal discorso della Montagna porta ai principi di Libertà, Eguaglianza e Fraternità filtrati attraverso la Scuola stoica e recuperati, a partire dall'Umanesimo e Rinascimento, diventano patrimonio dell'Occidente anche quando (anzi: soprattutto quando) li si fa propri da parte dei circoli illuministici e positivistici negandone lo spirito religioso e sovrannaturale, come è avvenuto con la Rivoluzione Francese e con le Rivoluzioni socialiste che hanno insanguinato il mondo, a partire dall'insegnamento marxista e dalla rivoluzione bolscevica: che hanno dimenticato, nell'applicare quei principi nella storia, il fondamentale canone della non violenza che scaturiva dal Discorso della Montagna, calpestato troppo spesso anche dagli stessi reggitori della Cristianità, dimentichi che a introdurlo nella storia è stato proprio il fondatore della Cristianità, Gesù di Nazareth. L'Islam è la reazione della cultura semitica delle tribù beduine alla ellenizzazione del Giudaismo e del Cristianesimo, ma soprattutto è la reazione contro il razionalismo greco che da Socrate ad Aristotele viene ereditato dalla predicazione paolina nel dar vita al paradosso cristiano (et Verbum caro factum est) cui nessun circolo giudaico era mai pervenuto, farisaico, esseno o sadduceo che fosse. Quel paradosso nasce dall'insegnamento del Nazareno, viene approfondito da Paolo di Tarso, fatto proprio dalla Patristica (latina, greca e siriaca) e canonizzato dai Concili ecumenici fino a Calcedonia. Contro quel paradosso insorsero Nestorio e Ario, dando vita, da due versanti diversi, a due diversi e distanti movimenti, il Monofisismo e l'Arianesimo, frutto di laceranti discussioni sulla persona di Gesù, se fosse cioè solo uomo o solo Dio e non, come insegnava la dottrina dei Concili, completamente uomo e ad un tempo, completamente Dio. L'Islam è l'accettazione del Nazareno completamente e soltanto uomo, con i mille difetti e pregi dell'umanità intera, ma che chiude la profezia. A documentare quanto di educazione monofista e dell'Arianesimo ci sia nell'Islam è sufficiente il Corano (che viene ritenuto essere stato ricevuto, e dettato, direttamente da Dio in lingua araba, e Quran significa letteralmente «recitazione», «lettura ad alta voce, salmodiando i vari versi») che si aggiunge alla Torah, al Nuovo Testamento, ma anche ai Veda (testo sacro per gli Indù) e all'Avesta (testo sacro per gli Zoroastriani) e testimonia la piena autonomia della predicazione di Maometto verso la tradizione vetero e neotestamentaria. Il testo coranico, sottolineano tutte le Scuole Coraniche (le Madrasa), è la raccolta di canti orali dell'epopea beduina e resta l'ancoraggio fedele al passato semitico che l'Antico Testamento ha in parte dimenticato (per gli influssi babilonesi, egiziani e greci) e che il Nuovo Testamento ha completamente rinnegato (per il predominio ellenico ed ellenistico). Ecco perché il Corano è il Libro dei Libri, è il Kitàb, il libro per eccellenza, l'ultima e definitiva rivelazione di Dio all'Umanità per mezzo di Maometto. Ancora: il Corano è la testimonianza di una

autocoscienza culturale esclusivamente beduina che non compare nell'Antico Testamento e tanto meno nel Nuovo (o nei Veda o n e l l ' Av e s t a ) . E s s e n d o l'ultima e definitiva parola di Dio, il Corano annulla e fa tabula rasa della parola precedente e si sostituisce completamente ai testi religiosi precedenti. La conseguenza è che ciò che non compare nel Corano non ha valore né forza cogente: non c'è posto, quindi per il concetto di persona, perché persona è solo Dio, Allah, quel dio che ha la stessa radice filologica dell'el-Al ebraico ma che il Giudaismo ha dimenticato nella sua essenza tramandata dai Padri delle tribù della Siria e di Damasco; non c'è posto per il libero arbitrio della filosofia greca perché il libero arbitrio è la proposta di Satana (Scheitun) contro Dio, è l'opposizione del male contro il bene assoluto; non c'è posto per una pretesa distinzione fra ius e fas, fra norma etica e norma giuridica, fra Stato e Chiesa, perché se Dio è un tutto unitario e se Dio è onnipotente e onnisciente e ha tutti i tredici attributi che lo fanno unico nell'universo (i sifat: esistenza, eternità, nel passato, eternità nel futuro, dissomiglianza da tutto ciò che è sorto nel tempo e nello spazio, indipendenza da ogni cosa, unicità nella sua essenza, vitalità completa e autonoma, onniscienza, onnipotenza, volontà senza limiti, udito incomparabile, vista in qualunque luogo della terra e nei meandri più oscuri, la parola che egli solo ha nel modo più completo) è contraddittorio dire che egli non possa fare qualcosa e che quindi ci sia qualcosa fuori dalla sua portata; non c'è posto, infine, per il concetto di mediazione, perché non si media con il male e con l'altro, se si è certi del proprio bagaglio storico e culturale. Si comprende quindi come a differenza (e in antitesi) della dialettica che è il perno su cui si muove tutto il pensiero e la storia di quello che chiamiamo la civiltà greco-romanosemitico/ellenistico-cristiana, la civiltà islamica si fonda sul sillogismo che – stante la definizione dello stesso Aristotele, è il “ragionamento nel quale – poste alcune premesse – deriva da queste, e in forza di queste, necessariamente qualcosa d'altro.” Manca all'Islam tutto il portato storico del discorso della Montagna di Gesù di Nazareth, manca il contenuto permeato nelle due lettere ai Corinti di Paolo di Tarso, manca tutto il progetto della concordia fra genti di diversa cultura come Paolo insegna nel discorso all'Aeropago e nella lettera ai Romani. L'Islam rifiuta tutto questo portato storico del Cristianesimo che diventa Occidente: le cosiddette Scuole Giuridiche (Hanafita, malikita, sciafita, hambalita) non mediano affatto sui principi ma sono il tentativo di adeguare i principi coranici alla Sunna (la

Pag. 5 consuetudine di Maometto che si desume dagli hadith, le tradizioni canoniche relative ai detti, fatti e silenzi del Profeta), all'iðma al ummah (l'accordo di opinioni dei dottori) e al qiyas (la deduzione per analogia), e questa funzione ha avuto anche l'immissione della tradizione greca nel pensiero islamico portato da Avicenna e Averroe e dai Sufi. Il risultato è quanto di più lontano si possa pensare per quanto riguarda la nostra concezione del diritto: le Scuole giuridiche, poiché l'Islam fonda lo status giuridico di ogni individuo sullo statuto personale non riconoscendo lo jus loci e quindi non riconoscendo per principio le comunità nazionali e gli Stati nazionali) e tendendo alla Umma universale, devono accampagnare i singoli soggetti nel loro incontro con la storia, ovunque essi siano. In una parola, le Scuole giuridiche aiutano ad eliminare quanto si frappone fra il singolo musulmano e il resto dell'Umanità per rendere quest'ultima Islam. Il risultato è che la concezione della storia da applicare all'umanità intera è quella delle origini beduine: a quel tempo Dio si è manifestato, quel tempo deve essere il modello per l'Umanità intera: nella lingua,nel portamento di vita, nei modi di essere: una concezione della storia e della vita, fondamentalmente malinconica ma che, di fronte all'opposizione prometica della cultura greco-romana-giudaico/ellenisticacristiana, reagisce con la jiad, che nel suo significato più esatto vuol dire sforzo, volontà cioè di pervenire a governare l'Umanità intera, la Umma, secondo i canoni della cultura del deserto. Questo, in sintesi, è il patrimonio della cultura occidentale, che è più esatto chiamare cultura greco-romanogiudaico/ellenisticocristiana, e questo, in sintesi, è il patrimonio della cultura islamica, nata e diffusasi per reagire allo sforzo prometico di imporre la cultura occidentale al mondo intero. Allo sforzo prometeico l'Islam risponde con la jiad, che è lo sforzo, la volontà di pervenire a governare l'Umanità intera, la 'Umma, in qualunque modo, non differenziandosi in questo dalla cultura prometeica che ha tentato (e tenta tuttora) di governare il mondo, e tenta ancora di farlo ora con tutti i mezzi, dal blandire il proprio interlocutore con l'indubbio fascino della dialettica di origine greca fino all'uso della violenza quando la dialettica si dimostra (nelle parole e nei fatti) strumento insufficiente. Certamente il Cristianesimo, se pur esso stesso ne ha subito il fascino, non ha nulla a che vedere con la cultura prometeica. Quest'ultima è stata alla base del colonialismo ellenistico di Alessandro Magno, voluto e predicato dai circoli greci di Aristotele e di Isocrate ed è stato il vessillo che portò le legioni di Roma, città greca nella definizione di Aristotele, a continuare il disegno di Alessandro Magno, e che condusse poi gli eserciti europei a conquistare le Americhe, l'Africa e l'Asia, sempre per continuare il modello politico ideato da Isocrate. Alla base del colonialismo moderno ci sono stati gli stessi motivi che Isocrate indicava ad Alessandro Magno: a) sviluppare i commerci e l'economia internazionale; b) civilizzare al gusto e alla prassi dell'eurocentrismo culturale, genti e popolazioni di cultura ritenuta inferiore a quella greco-romanogiudaico/ellenistico-cristiana. E a farsi paladini di questa iniziativa sono stati i circoli illuministici e

positivistici europei che ora sotto altra forma ma con gli stessi scopi governano i mercati mondiali, attuando così il più raffinato modello della violenza prometeica, quello di imporsi senza l'uso delle armi ma con gli strumenti finanziari ed economici. Concludendo: l'Occidente greco romano viene ereditato dalla Cristianità che nella fedeltà alla tradizione semitica ed egiziana dell'Israele antico (Abramo-Mosè) dà vita all'Israele Nuovo attraverso la predicazione di Gesù di Nazareth e di Paolo di Tarso. Di questo nuovo Israele si fa garante il Vescovo di Roma che difende la Cristianità Cattolica e non Cattolica ovunque essa sia, proprio, e soprattutto, in quei territori dove l'Islam è maggioranza e dove i Cristiani sono perseguitati. Dal ceppo del Nuovo Israele religioso e cristiano si è staccata una cultura illuministica e positivistica che rinnega l'eredità cristiana della sua storia facendo proprio il passato ateo e irreligioso dell'Umanesimo e del Rinascimento ereditato dall'insegnamento di Crizia. Non pochi uomini di cultura dal passato islamico vengono attratti dal fascino della cultura atea e positivistica dell'Occidente diventando apostati rispetto alla propria storia e alla propria memoria attratti da un sociologismo di maniera che da Augusto Comte in poi imperversa in tutta la cultura mondiale e che tende all'appiattimento delle culture predicando una università di sentimenti e di unanimismi dottrinari che non trovano fondamento in alcun fonte storica. Costoro, prendano tuttavia il coraggio a due mani, e vadano fino in fondo, usino gli strumenti logici dell'Illuminismo e del Positivismo che li hanno aiutati ad accettare il sociologismo di maniera che considera gli uomini tutti eguali, indipendentemente dalla loro eredità storico-giuridica; facciano propri gli strumenti della filologia creati dalla scuola umanistica di Coluccio Salutati e che sono alla base del Positivismo e dell'Illuminismo, e li applichino alla storia e al testo del Corano, della Sharia, di tutte le Scuole Giuridiche islamiche. Si servano cioè di Parmenide e di Eraclito che sono i lontani maestri di Coluccio Salutati per mettere in discussione oltre che i testi della loro tradizione e memoria storica, soprattutto se stessi, come ha fatto tutta la cultura cristiana, dal XIV secolo in poi, da quando cioè nelle università europee, e per ordine del Vescovo di Roma, si insegnava siriaco, ebraico e greco, per mettere in discussione i testi del Vecchio e Nuovo Testamento: la Scuola di Tubinga, quella luterana e quella cattolica, hanno questo lontano antecedente nel mettere in discussione le proprie radici. Mettere in discussione se stessi e le proprie radici, questo è l'insegnamento che l'Occidente, a torto o a ragione, offre agli uomini della cultura e del mondo dlel'Islam: a nessuno è permesso di compiere scorciatoie, né agli aperturisti dell'Occidente (e son tanti, e forse son troppi) né a quelli dell'Islam: non sarebbe onesto verso il proprio passato e verso i propri interlocutori che comunque hanno avuto la fortuna e l'occasione di dialogare con loro e che, di conseguenza, sarebbero solo di comodo, come del resto vuole il sociologismo di maniera che essi hanno avuto la ventura di abbracciare, salvo la buona fede di ciascuno. Provate, amici dell'Islam a “ragionarre” con la dialettica e cercate per un po' di non “ragionare” più con il sillogismo: vi accorgerete che la ragione è parte integrante della dialettica, ma non del sillogismo.


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L’arco

PAROLE INCISE SULLA PIETRA, A MAZARA…

(Quel che la città dovrebbe cambiare)

di Nino Gancitano C'era una frase, incisa sulla pietra, a Mazara, nel tempo di una memoria lontana. Simbolo, emblema. Non un inno alla vita, non l'affermarsi della propria identità sociale, né l'appartenenza orgogliosa di cittadini alla propria città, all'humus culturale e civico di un microcosmo sentito, vissuto, amato, perfino, ma la conferma, in una visione distaccata, di un sentire amaro della vita; che è una riflessione acre dell'essere mazarese. “Nutrit alios et spernit suos” (Nutre gli altri e disprezza i propri figli) con l'effigie scolpita di una donna a seno nudo, con una serpe attaccata alla mammella e un bambino per terra... la Mazara che la pietra del passato riverbera nel presente. “Genius loci” (nume del luogo), segno, epitaffio di un sentire comune che non è stato, purtroppo, sapienza vitale, né attraente senso di umanità, né ha evocato una visione positiva della storia e del singolo destino o una speranza del futuro, ma una rinuncia indolente ad una qualsivoglia pienezza, sia pure incompleta, ad un porsi progettuale e a un pieno vivere, nella comunità, con la comunità. E poi un'altra effigie il passato ripropone al presente e raffigura, con parole lapidarie, i rivoli di un intreccio esistenziale che si sfalda nella vita di ogni giorno in una concezione distaccata del presente reale. Immobile, dolente, inevitabile. La Mazara che fu, identificata, nell'errore, con Selinunte. E i Mazaresi che furono. Immagini e parole nella pietra: “Matronae insiliens anguis quique ubera siccet prisca Selinuntios. Signa fuere mea. Felix ubertas raptoribus fausta tyrannis heu quam magna olim tam modo facta nihil” (Ogni serpe avventandosi sui selinuntini (mazaresi) prosciughi le antiche mammelle della matrona (le antiche fonti di Mazara). Furono i miei segni (i miei presagi). Felice prosperità consumata da tiranni ladri Ahi quanto grande un tempo, tanto niente ora diventata). Furono il senso, per secoli, di una proposta civica, di un “modus vivendi et operandi”, espressione di un comune sentire, che consegnò la libertà individuale e collettiva ad una contemplazione malinconica e amara del fluire della vita cittadina. Una predisposizione comunitaria che, privilegiando lo straniero, il non appartenente, il non proprio, ricercava l'essenza della condivisione di quell'inerzia individuale e collettiva nella sterile commiserazione verso la propria incerta ed evanescente appartenenza e nella rinuncia

ad una fattiva vitalità. Fu, per secoli, il senso di una indifferente identità mazarese collettiva. Che, purtroppo, forse attenuato ma costante, si riverbera ancora nel vivere cittadino; un sordo pathos sociale, di gente, di norma, indifferente al quotidiano comune, delimitata nello spazio ristretto della propria individualità che ne impedisce l'orgoglio, il senso della giusta appartenenza e condivisione, la pienezza relazionale per il bene comunitario. E' il riverbero di quella mazariesità che nella sicilianitudine atavica dei padri ha trovato e trova il suo alveo e il suo afflato e che ha

impedito e impedisce di difendere con passione, con tenacia, con orgoglio, senza asservimento, ciò che giustamente apparteneva a Mazara e ai mazaresi e che altri, altre città, hanno portato via; sanità, servizi, territori , ceduti da civici consessi (da quei rettori e custodi “pro tempore” della città, quei “pauci sed electi” per capacità, per conoscenza, per morale, per sapienza), ceduti come offerte votive, con sguardi distratti, sfacciata indifferenza, vacue giustificazioni, impudiche rinunce, impietosi acconsentimenti; riverberi di politica disattenta o servile o interessata, di politici indifferenti alla città , ai suoi bisogni,

alle sue necessità. E' stato dato, nel e per tempo, da Mazara, a città vicine più forti; è stato dato ad un potere politico, di consessi vicini, più potente, più determinato, più radicato, più organizzato a tutelare, sino all'eccessivo e soverchiante campanilismo, l proprio territorio. “Ne sit…” Il termine “civiltà” esprime “la risultante dei modi di soluzione dei problemi esistenziali ed organizzativi che le singole comunità umane adottano e seguono”; comprende, quindi, la struttura socio-politica, i sistemi produttivi e di consumo, la concezione del sociale e la sua strutturazione, inoltre le concezioni religiose e del soprannaturale, la strutturazione delle credenze e dei riti religiosi, le espressioni artistiche e le conoscenze scientifiche. “Cultura” è la disposizione che si costituisce e si determina negli individui di una comunità storicamente determinatasi e determinantesi ad affrontare la realtà. Ecco, nelle pietre e nelle pieghe della vita comune di questa città c'è racchiusa la propria storia, la propria identità, il senso del suo presente, a speranza del suo futuro. Scelte politiche di taluni autori mazaresi, nel passato, portano lontano da questa città, dalle sue istanze reali, dai bisogni dei suoi cittadini. Spesso sono state il frutto di equilibri di partito, di correnti, di reflussi generati da venti non locali, o il frutto di idee radicate volte a proporre angolature di potere di città circonvicine e più rappresentate politicamente (a discapito di Mazara) talora con la miope partecipazione di politici mazaresi, all'insegna del “vivis ut potes”. E questo non ha contribuito, certamente, alla crescita di Mazara, al suo svilupparsi produttivo, sanitario, occupazionale, culturale, in provincia. Tutt'altro… Questa – diceva qualcuno – non è più una città per giovani (“via del nord” si chiamano le strade che escono da Mazara) e forse – pessimisticamente aggiungeva un altro – non è neanche più una città per adulti… Servono la scoperta e la consapevolezza di una identità civica, un senso di appartenenza cosciente, per una speranza necessaria, intelligente, progettuale, fattiva per progettare il futuro. Serve ricostruire il tessuto sociale e culturale da cui partire. Ci vuole del tempo, è vero, ma è un percorso obbligato e necessario. Speriamo nei nuovi eletti, nel nuovo custode della città.

II RAPPORTO SULL’IMMIGRAZIONE AFRO-ASIATICA IN ITALIA

di Onorato Bucci

L’“Osservatorio Permanente per l’Immigrazione afro-asiatica in Italia” nasce nel 1992 come Istituzione scientifica presso la Cattedra di Diritto dell’Antico Oriente Mediterraneo della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi del Molise, Dipartimento di Scienze Giuridiche, Sociali e dell’Amministrazione e quindi come Ente di ricerche operante al suo interno. Il Dipartimento prese atto di questo Osservatorio nel Consiglio del 24 febbraio 1994 e da allora questo Centro di Ricerca ha elaborato con cadenza biennale (1994, 1996, 1998, 2000, 2002 e 2004) sei rilevazioni storico-statistiche racchiuse in un rapporto che ne sottolineano le caratteristiche e i cambiamenti all’interno della compagine nazionale. L’Osservatorio (che ha valenza e rilevanza nazionale), è stato riconosciuto dalla Regione Molise con

Legge Regionale 20 maggio 2004, n. 14, di cui al Bollettino Ufficiale della Regione Molise n. 11 del 1° giugno 2004. All’Osservatorio coopera un gruppo di studiosi (Francesco Beer, Olga Colatruglio, Carmelo D’Oro, Amerigo Fontanarosa, Andrea Gabriel, Lucia Liberatore, Mirella Mazzeo, Francesco Morrone, Massimo Sabusco, Stefania Rescigno, Ettore Tomassi e Raffaella Vitale) coordinati dalla dr.ssa Iolanda Palazzo, sotto la mia direzione. I dati dell’Osservatorio, e quindi le singole rilevazioni storico-statistiche, sono stati sempre pubblicati nelle edizioni nazionali de «Il Tempo» fino al 2002 e, fino a quella data, i rapporti annuali sono stati nel contempo trasmessi ai Comandi della Regione Molise dell'Arma dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza per l’invio ai rispettivi Comandi Generali e al Ministero degli Interni.

Il rapporto 2004 fu pubblicato negli Atti del Convegno “Il Libro, la bilancia e il ferro” tenuto in Isernia dal 25 al 26 febbraio 2004, Napoli, 2006 (e ciò giustifica perché si potè pubblicare il rapporto in questione) con in contributi di V. PETRUCCI, (pp. 5-8), O. BUCCI, (pp. 941), U. T. CASOLINO (pp. 43-48), A. CILARDO (pp. 49-63), M. SALEM EL SHEIKH (pp. 65-74), G. MACRÌ (pp. 7597), L. MUSSELLI (pp. 99-106), M. PARISI (107-144), G. M. PICCINELLI (pp. 145-162), V. TOZZI (pp. 163-181), E. FRANCESCA (pp. 183-194), S. ZEULI (pp. 194-215). Il rapporto è alle pp. 29-32. Dopo ci fu una pausa di riflessione che viene ora interrotta grazie alla fattiva opera de “L’Arco” su cui viene ora pubblicato il Rapporto 2008. Link al file: http://www.arcomazara.it/293/docs/Rapporto.pdf


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LA MEGLIO GIOVENTÙ

Emigrazione, turismo, centro storico: tra incertezze e contraddizioni le sfide del futuro. Tutte nel segno della fuga di Gabriele Mulè Tante persone, giovani, adulti, anziani, a Mazara tengono duro. Persone capaci, coraggiose, intraprendenti, che fanno un lavoro straordinario per la solidarietà, per l'integrazione, per l'economia, per la cultura: con onestà, dedizione, generosità e, spesso, in sordina. A loro, cui solo per errore di prospettiva può sembrare faccia un torto, dedico quest'articolo che, a rovescio, è per loro un riconoscimento ed uno stimolo. Grazie. G.M. "Quando un popolo non ha più senso vitale del suo passato si spegne. La vitalità creatrice è fatta di una riserva di passato. Si diventa creatori anche noi, quando si ha un passato. La giovinezza dei popoli è una ricca vecchiaia" (C. Pavese). Mi imbattei in questa citazione di Pavese nel giugno 1996: era la traccia della mia maturità. A distanza di qualche anno, qualche lettura, ed una passione coltivata ed educata per lo studio della Storia, avverto meno l'insostenibile leggerezza della giovinezza, e per questo, di più il peso della citazione: ricordarla, in questo numero monografico sul futuro di Mazara, mi serve a mantenere i piedi per terra ed evitare di lanciarmi in riflessioni fuori portata. Così ribalto la prospettiva e, una volta tanto, per parlare di Storia, in un processo di archeologia inversa, partiamo dal presente: dalla meglio gioventù. Sono 700 mila le persone che fra il 1997 ed il 2008 hanno lasciato il proprio paese natale al Sud per raggiungere le città più ricche del Nord Italia. Nel 2008 sono stati infatti 173 mila gli occupati residenti a Sud con un posto di lavoro al Centro-nord o all'estero. Sono 23 mila in più del 2007 (+15,3%). Sono giovani e con un livello di istruzione medioalta. E non smette di crescere neanche la percentuale di cervelli in fuga: preferiscono rischiare piuttosto che accontentarsi. Sono, infatti, i laureati eccellenti a dire no a un futuro di incertezze economiche e ad abbandonare per primi la loro Terra: se nel 2004 partiva il 25% dei laureati meridionali con il massimo dei voti, tre anni più tardi la percentuale è arrivata al 38%. Così il Rapporto sull'economia del mezzogiorno 2009. E, leggendo, l'asettico profilo del campione statistico ed i numeri percentuali si animano, prendono forma, acquistano un nome e si allineano, uno dopo l'altro, nell'elenco di chi è partito. Tutti, a Mazara, ne conosciamo qualcuno. Celebro il battesimo dei numeri: Luisa, Andrea, Domenico, Giusy,Tony, Veronica... ecco l'appello del mio 38 per cento. Il nostro 38 per cento. E forse qualcosa di più. Ho fatto la conta basandomi sul numero dei miei contatti su un noto social network: giovani mazaresi dai 28 ai 35 anni, diplomati o laureati, ed oltre la metà di loro è emigrata negli ultimi ani. Alcuni, già stabilitisi fuori, hanno tentato l'avventura del rientro, perso tempo, guadagnato qualche gastrite, infine lasciato ad altri don Chisciotte i mulini a vento della provincia di Trapani. Altri li hanno seguiti a ruota. A metà tra flessibilità e fuga di cervelli, si lasciano alle spalle lavoro precario spesso in nero, ingenerosamente retribuito, pochi riconoscimenti alla professionalità, all'impegno, all'entusiasmo ed orizzonti che si chiudono. Troppo, per chi è stato educato (per colpa nostra, della città: famiglia, scuola, amicizie) all'eccellenza, a non accontentarsi, a chiedere il meglio da sé e dagli altri, per sé e per gli altri. Così la meglio gioventù si sottrae soprattutto all'imperante principio di adeguamento al peggio: preferiscono rischiare, piuttosto che accontentarsi e, come già facevano a Mazara, con umiltà ed impegno accettare altrove qualunque lavoro, pur di guadagnare rispetto e spazio, in attesa di qualcosa di meglio, di una carta da giocare, di realizzare una visione. Secondo loro quella carta, a Mazara, rimane promessa ingannevole, e quella visione, a Mazara,

rimane ingannevole miraggio. Chissà. rimane il fatto che questi ragazzi in gamba, questi miei amici, senza piangersi addosso si sono chiesti: perché stringere i denti? Per un esausto e logoro amor di patria? Il mondo è cambiato. Ed allora via, senza sbattere la porta. Via da qui. Via da Mazara del Vallo. Che al momento del commiato, salutando, con sincero rimpianto, i propri figli, nipoti, amici, lancia spesso uno stanca, beffarda, frase da reclame: tornate per le vacanze. Già, perché pur dilapidando e disperdendo buona parte del capitale umano (e della capacità professionale, produttiva, creativa) il volto della città assume, in modo tragicomico, i lineamenti di un grande villaggio vacanze. Abbracciato il processo di diversificazione dell'economia, cresce la città dei complessi alberghieri, dei B&B, dei pub: cultura dell'intrattenimento per una Mazara da bere. D'altra parte, se il traino della pesca e dell'agricoltura stenta, il settore del turismo è promettente grazie ai viaggiatori low cost copiosamente trasportati nel vicino scalo aeroportuale trapanese. E una naturale predisposizione all'accoglienza ed all'ospitalità gli abitanti della città l'hanno sempre avuta, veri artefici di una promozione turistica praticata più che teorizzata, spontanea e generosa: ospitano amici e conoscenti in vacanza, condividono

con loro la tavola, li scarrozzano da Erice a Selinunte, dalle Alpi alle Piramidi della nostra provincia. Si riversano così, nel progetto Mazara città turistica, le speranze di un terzo asse per l'economia. Il cuore oltre l'ostacolo. Perché costruire un'autosufficiente, sostenibile, robusta economia turistica è una strada in salita, ed il dono dell'improvvisazione si paga a caro prezzo quando non si è sul palco di un teatro. In termini di numero e qualità dei servizi turistici siamo all'anno zero, così come ampiamente insufficienti ed impreparate, per non dire inclassificabili, sono state le risorse umane ed economiche finora dedicate alla valorizzazione consapevole del patrimonio culturale. Le aspirazioni legittime della città, ancora in attesa di un corretto dimensionamento ed inserimento nel mercato, sono al momento mortificate dalla povertà di iniziative di marca pubblica che finora hanno estratto dal cilindro della promozione turistica solo la partecipazione, ogni anno, alla borsa internazionale del turismo (Coup de maitre!). Così mentre nella kasbah le saracinesche velano, come donne colpite dal lutto, sempre più attività commerciali, mentre finestre sventrate mostrano le orbite vuote dell'abbandono, mentre i poveri di spirito (evidentemente alcolico) scambiano

l'apertura di pub con interventi di riqualificazione del centro storico, mentre i numeri del Museo del Satiro precipitano nell'incosciente spirale di un incapace immobilismo (- 30.000 visitatori, ma questa è un'altra storia), si alimenta e rivendica con una spregiudicata politica della deroga, della modifica, della variante, l'assalto alle zone bianche delle mappe in periferia (che poi bianche non sono, ma anche questa è un'altra storia): si sono tracciate nuove strade, ipotecando le zone contigue ad una funzione abitativa che dovrebbe essere invece re-indirizzata verso il centro storico. Insieme ai capitali ed alle idee. Questa insana fuga verso la periferia si misura con il valore degli immobili: le aree del centro sono economiche, in attesa di essere svendute a prezzo stracciato. Senza contare la moda tutta americana dei grandi centri commerciali, ulteriore disincentivo alla localizzazione nel centro storico delle attività. Eppur qualcosa si muove. Vedremo. In tempo di crisi mi ritorna in mente il titolo di un libro: Quando i sogni non hanno soldi. Parafrasando, sono le idee che al momento non hanno soldi. Tanto che nessuno, o pochi, nel pensatoio comunale (aula consiliare) si è azzardato in questi anni ad enunciare strategie, a mettere in piedi una programmazione, a stabilire il come e misurare il quanto. Ad impiantare, insomma, un progetto di ampio respiro, finalmente ambizioso, coraggioso, con mezzi e professionalità adeguate da mettere in campo. Ci si è limitati, a parte l'ordinaria amministrazione (altrove scontata), ad evidenziare il cosa, ed enunciare principi, a dare indirizzi. Esempio: “Bisogna aiutare i giovani”. Giustissimo. “Bisogna valorizzare il centro storico”. Sacrosanto. “Bisogna incoraggiare l'integrazione”. Vangelo. Ma non è di un comitato etico che le stringenti necessità della città hanno bisogno. C'è bisogno di pianificare misure efficaci, prima che questa città salti una generazione, che l'economia rimanga impantanata nella logiche clientelari della sopravvivenza piuttosto che dello sviluppo, che i nodi dell'integrazione sempre sbandierata e mai vissuta vengano drammaticamente al pettine del tempo. Ho esordito dicendo che le idee non hanno soldi. Ritratto: forse mancano le idee. Non è un caso che questa crisi di inventiva virtuosa coincida con quella della classe dirigente (professionisti, artisti, studiosi,etc.), che per anni ha abdicato al proprio ruolo di indirizzo, alla militanza attiva, alla partecipazione e che, anche a causa dell'emorragia di forze nuove, si indebolisce perdendo il ruolo di leadership, spacciando talvolta il vecchio che ci ritenta per il nuovo che avanza, inventandosi competenze alla bisogna. Occasioni perdute nella stanchezza della routine: il piano strategico, strumento capace di orientare le scelte della pubblica amministrazione attraverso un'azione di pianificazione urbanistica partecipata, con incontri aperti a tutti. Privati cittadini, associazioni culturali, ambientaliste, professionisti, operatori di pubblica sicurezza, religiosi, potevano discutere senza intermediari delle scelte per il futuro della città: i partecipanti anonimi si dividevano e riunivano all'interno degli stand per svolgere i temi che si erano autonomamente dati (recupero del centro storico, nuova portualità, etc.) mentre i partecipanti dotati di un ruolo, le cariche istituzionali, dopo una gratificante passerella, rappresentanti delle istituzioni laiche e religiose, laicamente e religiosamente snobbavano le sessioni. Noblesse oblige? Continua a pag. 8


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L’arco

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LA MEGLIO GIOVENTÙ A chiudere il cerchio di queste poche riflessioni, c'è una frase che da anni mi accompagna, in cui ritorna, ancora la giovinezza e la sua immaturità e la profonda solitudine del presente quando scioglie i nodi col passato. Scrisse Ernesto Nathan Rogers, architetto, maestro del Movimento Moderno : “I giovani fatto tutt'uno del cervello e del cuore, stentano ad ammettere il ciclo della vita e di far parte di una dialettica dove si compongono le opposte energie, il dare e l'avere. Neppure per un momento possono accettare di rappresentare il risultato, l'effetto di una causa non loro”. Molti, moltissimi a questo punto, sono i giovani di Mazara del Vallo: sono tutti coloro che cercano un'affermazione nel presente attraverso proposte che reputano innovative, rivoluzionarie, moderne, e che facendo riferimento solo al presente ad esso ed al suo destino rimarranno ancorate: l'essere effimero. Ad essi non “sovvien l'eterno,/E le morte stagioni, e la presente/ E viva, e 'l suon di lei”. Perdonate se sconfino nella

materia a me familiare ed amata: la città può, come un giardino, vivere e mutare, di anno in anno, di stagione in stagione. Ed il perfetto giardiniere sa bene che questo cambiamento è inevitabile: le foglie cadono per poi ricrescere, alcune piante muoiono, nuovi innesti fioriscono. E il vento scuote le fronde, le ombre e le luci saranno sempre mobili e diverse, i fiori muteranno sfumatura, in un rinnovamento continuo. Il giardiniere governa il cambiamento del suo giardino ed è consapevole di essere il depositario della sua continuità e del suo rinnovamento. Senza di lui il giardino muore. Forse per questo, il saggio giardiniere, insegna ad amare il giardino a qualcuno: un figlio, un nipote, un amico. Qualcuno che dopo di lui se ne prenderà cura: estirperà le erbacce, curerà le aiuole, proteggerà i semi, rinnoverà le piante. Non ci resta che rimboccarci le maniche, prendere una vanga, e levare in alto un amaro, amarissimo calice da bere, pieno di umiltà. Alla salute della meglio gioventù.

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LETTERA AI MAZARESI di S.E. Mons. Domenico Mogavero come retaggio di pregresse stratificazioni culturali. Di conseguenza, dobbiamo avere il coraggio di osare e di misurarci con progetti impegnativi e di largo respiro, abbandonando la logica degli asfittici risultati immediati. Occorre migliorare il volto della nostra Città e dare efficienza a tutte le sue istituzioni, civiche, culturali, imprenditoriali. Bisogna sviluppare i servizi, creando strutture di sistema che coniughino adeguatamente e sviluppino al massimo imprenditorialità ed efficienza. Si devono valorizzare professionalità ed esperienza, bloccando la fuga di persone competenti e capaci, fin qui costrette a cercare altrove occasioni e opportunità di affermazione e di autorealizzazione. Finalmente, bisogna convertirsi al metodo del lavoro di squadra, liberandosi una volte per tutte dalla tentazione di voler fare a meno degli altri; da soli non si va da nessuna parte. Come specifico della Chiesa che è in Mazara del Vallo, abbiamo iniziato a percorrere la via della comunione effettiva con le Chiese del Mediterraneo per realizzare nella nostra Città un luogo di incontro e di confronto tra comunità che debbono misurarsi con problematiche abbastanza simili, soprattutto con riferimento al fatto che vivono in paesi con presenza cristiana assai sparuta nei numeri. Questa prospettiva, peraltro, ci abilita ad avviare e a coltivare un particolare dialogo con l'Islam, preparato con una conoscenza vera e appropriata del suo patrimonio storico-culturale e religioso. Allargando la prospettiva culturale, inoltre, sono allo studio dei progetti finalizzati a suscitare idonee professionalità rispondenti alle nuove richieste del mercato. Il quadro delineato nelle sue linee generali non deve far pensare a una intromissione della Chiesa Mazarese in ambiti non di sua competenza; essa, infatti, vive un rapporto intenso e vitale con il territorio del quale si sente parte integrante e al quale non può e non deve far mancare l'apporto del suo patrimonio di valori e l'offerta delle sue risorse umane e istituzionali. In questo clima di apertura la nostra comunità ecclesiale, senza ricercare protagonismi effimeri, offre la propria disponibilità a camminare insieme con tutti coloro che hanno a cuore la sorte dell'uomo e spera di incontrare tanti compagni di viaggio.

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UNA CITTA’ MULTICULTURALE On. Nicolò Cristaldi Sindaco di Mazara del Vallo camminare per le strade della città vecchia per rendersi conto che si cominciano a vedere gli aspetti positivi della presenza degli immigrati, di quelli che vengono per lavorare. Sono ormai decine le case ripristinate dagli immigrati che avendo occupato, al loro arrivo in città, solo dei ruderi, adesso sono state dagli immigrati restaurate e rese vivibili. Si tratta in questo momento solo di segnali ma sono quelli che ci lasciano speranza e convinzione scientifica che questa è la strada da percorrere. Fra pochi mesi, Mazara avrà un centro multiculturale, una casa nella quale la gente di altra cultura e di altra religione si misurerà con ciò che c'è intorno e comincerà la grande sfida dello “stare insieme”, in una città dove la tolleranza è nell'anima della grande maggioranza dei Mazaresi. Nascerà “Casa Tunisia” per dare un teatro all'orgoglio dei popoli che hanno vissuto insieme a noi il fascino del mediterraneo. Chiederemo agli immigrati di diventare imprenditori e di realizzare impianti legati alla loro tradizione mentre ai Mazaresi diremo di entrare nella grande casa della tolleranza e della diversità senza mai perdere le radici ma con la convinzione che progresso è camminare con le proprie ambizioni nel rispetto degli altri. So bene che ci saranno da superare ostacoli e riserve mentali ma bisogna che prevalga la consapevolezza che per secoli siamo stati insieme Cristiani, Ebrei e Musulmani. Questa condizione sarà una risorsa straordinaria.

L’arco ANNO XXII n. 3

NOVEMBRE 2009 Periodico dell’Associazione Culturale “L’Arco”

Fondatore Giuseppe Fabrizi Direttore Responsabile Onorato Bucci Comitato di redazione Onorato Bucci - Giuseppe Fabrizi Pietro Foraci - Enzo Gancitano Nino Gancitano - Gabriele Mulé Michele Norrito - Giuseppe Pernice Tonino Salvo Segreteria di Redazione Bice Provenzano Redazione Via G. Toniolo, 3 - 91026 Mazara del Vallo Registrazione Tribunale di Marsala n.86-5/89 del 2/3/1989 Finito di stampare presso: Rallo s.r.l. Mazara del Vallo


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