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L’arco Agosto 2009

ANNO XXII n. 2

PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE CULTURALE “L’ARCO” - MAZARA DEL VALLO - Reg. Trib. Marsala n. 86-5/89 del 2/3/1989 - Distribuzione gratuita

Editoriale

CAMBIARE PER CONTINUARE di Giuseppe Fabrizi Con questo numero il giornale "L'Arco" si presenta per la prima volta in rete, all'indirizzo internet www.arcomazara.it. Si tratta di una scelta quasi obbligata: oggi l'informazione si fa in rete, e anche per la testata "L'Arco" è arrivato il momento di presentarsi sulla rete. Quando nel lontano settembre 1988 uscì il primo numero del nostro periodico, scrivemmo che "la nascita di un nuovo giornale rappresenta un evento lieto, ma non scevro per questo da intensa apprensione". E l'apprensione derivava dal timore, rimasto infondato peraltro, di essere stati responsabili della nascita di un nuovo, ma non utile, giornale! Ancora oggi questa apprensione è presente, ma mitigata dal fatto incontrovertibile che in questi 21 anni, di non sempre puntuale periodicità, “l'Arco” abbia costituito per la città di Mazara del Vallo e non solo, una voce libera e scevra da condizionamenti di pensiero, d'opinione e d' azione! Durante tutto questo tempo “l'Arco” è stato al centro del tessuto connettivo sociale della nostra città con le proprie convinzioni, con le proprie idee e con le proprie proposte, tanto da diventare, visto anche l'assenza di spazi pubblicitari che l'hanno da sempre contraddistinto, non soltanto un fenomeno editoriale, fuori dal coro, ma anche un importante punto di riferimento per tutta la collettività mazarese. Nel numero scorso abbiamo sottolineato, cercando di spiegarli, alcuni cambiamenti nel nostro giornale: prima di tutto, un nuovo Direttore, capace, con il suo carisma e con la sua elevata caratura intellettuale, di coagulare attorno a sé nuovi entusiasmi e un nuovo modo di fare il giornale; e poi, una discussione critica all'interno del Comitato di Redazione, che ha condotto ad una nuova e più moderna visione del giornale, al passo con i tempi, e più vicino alla realtà sociale, economica e politica del territorio. Una cosa però rimane sostanziale e ferma e la vogliamo riprendere, riportando, quasi integralmente, perché ancora attuale, gran parte dell'editoriale di allora, del numero unico di Ottobre del lontano 1988. Innanzitutto teniamo a ribadire la nostra assoluta libertà di pensiero, scevra da qualsivoglia condizionamento ideologico o da opportunità contingenti, ed il nostro impegno civile. Il giornale è e rimarrà sempre libero da pesi o vincoli, che potrebbero affievolirne la voce, e da compromessi, che potrebbero distorcerne i messaggi. Soltanto chi è abituato a vivere, a meditare e ad operare in un'ottica ed in una realtà diverse potrebbe meravigliarsi di questo. Durante tutti questi anni abbiamo ottenuto lo scopo prefisso, che era quello di gettare un sasso nella stagnante realtà mazarese: si è, da allora, cominciato a parlare di noi nei circoli, nelle piazze e persino durante gli incontri politici e per alcuni attimi, troppo brevi, alcuni politici hanno, esprimendo le proprie idee, partecipato al dibattito culturale! Ciò ci ha in parte confortato e ci ha spinto a stimolare ancora nuove discussioni e nuovi dibattiti. Abbiamo iniziato a far questo con la dotta conferenza tenutasi il 16 Maggio di quest'anno presso l'Aula magna del seminario dal nostro nuovo Direttore Responsabile, il Prof. Onorato Bucci, e avente come tematica i reali rapporti di convivenza o di integrazione, nella società mazarese, tra cristiani e islamici. Molte idee lanciate dall'oratore durante la conferenza (istituzione di una circoscrizione territoriale tunisina, costituzione di una biblioteca siculo-araba, valutazione delle esigenze reali della comunità islamica mazarese, ecc.) hanno fatto riflettere molto gli astanti che numerosi affollavano la sala. Tali idee, se germoglieranno, potranno essere confrontate in un dibattito con la controparte, che ci prefiggiamo di organizzare, entro tempi brevi. Ci conforta inoltre sapere che ciò servirà a stimolare nuove discussioni e nuovi dibattiti. Ci conforta ancora riconoscere che la coscienza civica e sociale del mazarese non è affatto morta e ci piace pensare che è in uno stato di quasi “letargo funzionale”. E sicuramente alle nuove stimolazioni essa reagirà risvegliandosi e, lavorando nel tessuto connettivo sociale, potrà realizzare quel bene comune che è, anche e soprattutto, il bene del singolo: noi siamo sicuri che sempre più numerosi saranno i mazaresi che parteciperanno attivamente ai dibattiti, discutendo e criticando in modo costruttivo, per concorrere a realizzare così una società migliore, più democratica e più giusta. Il nostro giornale quindi si pone al servizio di queste idee e di quanti hanno nel cuore il desiderio e la capacità di attuarle, indipendentemente dal loro colore politico! Esso rimane pertanto aperto a tutti gli uomini di buona volontà, agli onesti e agli intellettuali, ai lavoratori e a chi ha in animo soltanto il bene supremo della collettività mazarese. Se ciò avverrà, noi saremo sempre al fianco di queste idee e per esse, facendole nostre, e con tutta la nostra forza, saremo disposti a lottare sino in fondo!

QUALE ISLAM IN ITALIA, QUALE ISLAM A MAZARA? di Onorato Bucci

Il presente contributo del nostro direttore è la trascrizione del suo intervento nella Conferenza tenuta a Mazara il 16 maggio 2009 nell’Aula Magna del Seminario Vescovile, arricchito da spunti e riflessioni successive dal titolo e argomento “Mazara come modello di integrazione tra civiltà cristiana e civiltà islamica”. Per rispondere all’interrogativo postoci dividerò il mio intervento in tre parti: a) cos’è l’Islam; b) l’Islam in Italia; c) l’Islam a Mazara.

Cos'è l'Islam Per capire cos'è l'Islam bisogna preliminarmente partire dalla constatazione che la dottrina della civiltà islamica si fonda sul sillogismo, a differenza della cultura grecoromana che si fonda sulla dialettica. L'Islam, infatti, afferma la verità del sillogismo che, stante la stessa definizione di Aristotele, è “il ragionamento nel quale, poste alcune premesse, deriva da queste, è in forza di queste, necessariamente qualcosa d'altro”. La premessa a tutto il pensiero islamico, la sua vita, il suo modo di sentire, la sua storia e il suo mondo, in una parola la sua Weltanshauung, è il concetto di Dio, di Allah, che nella radice semitica ripropone l'El – Al ebraico e, come il Dio ebraico, è rigidamente monoteistico. Non vi è posto per la Trinità cristiana, che lo stesso Corano intende come politeismo, tanto più che viene intesa come composta da Dio, Gesù e Maria. Dio invece ha la qualità di onnipotenza, onniscienza, illimitata libertà di volere, essere unico creatore del nulla, che agisce costantemente su tutte le cose grandi e piccole dell'universo, dove non c'è nulla di simile a lui, giudice supremo anche, che retribuirà gli uomini con il paradiso

o con l'inferno. I suoi rapporti con le creature sono quelli di un padrone verso i suoi schiavi, anche quando parla di clemenza e di perdono, termini che può usare solo lui. Egli è invisibile agli uomini di questo mondo e si renderà visibile solo nell'aldilà. Egli è qualificato con 99 nomi bellissimi, simili ai grani del rosario musulmano: da questi nomi la teologia ortodossa ha estratto tredici attributi (sifat) di Dio.Una concezione siffatta della divinità non poteva che sorgere nella penisola arabica, fortemente caratterizzata dalle condizioni climatiche e geografiche dell'Arabia dei Beduini al tempo di Muhammad: le dottrine ebraiche e cristiane, “recepite” dal Profeta, si adattano e si forgiano nel mondo (immemoriale) dei pastori e dei carovanieri nomadi, ripiegandosi su se stessi e adeguandosi allo scenario generale del territorio che le modifica profondamente fino a farne un quid novi con una caratteristica che sarà una costante per tutta la sua storia, fino ad oggi, il rifiuto di ogni elemento della civiltà greca e romana. Questa concezione della divinità assoluta è propensa a pensieri mistici piuttosto che a soggetti tragici ed eroici: è, se così si può dire, una “cultura del deserto”. Articolo a pag. 3


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L’arco

FRAGMENTA EX FOLIIS Mazara medievale, al di là del sec. XIV (nel XV) di Nino Gancitano A.D. 1406, settembre, a meriggio di sabato, nel chiostro di ... (?) Fu chiesto, dunque, da frate Andrea, di parlare con lei. Entrò nel parlatoio, alla luce incerta, trascesa su antiche pietre, in un grezzo saio stinto. Il tempo, anni prima, anni dopo, scivolato su se stesso e su di lei. Smagrita. Di candida bellezza, ancora giovane Talagea; colpiva, come prima, il suo fiero portamento, la sua fine grazia; il suo composto e innocente dolore, la sua non altera amarezza, il suo sguardo benevolo verso l'acredine del mondo. Lasciò che il tempo scorresse su se stesso e su di lei. Abbandonò i ricordi per anni, penitente, tra le mura claustrali di *** . Sentiva. Intuiva la presenza austera, astiosa delle moniali. Dapprima non parlò molto. Chiese solo della sua casa, della dimora avita. “Non più domina” – aveva sussurrato. Ascoltava. E poi… Parlò del tempo non più suo, di ignare verità, di mani stanche, di membra avvizzite dal lavoro, di lamenti mai compiuti, di incerti timori, di coraggio distratto, perduto per via, di strade senza meta. E poi, sorrise, mestamente, alla luce incerta del giorno, trascesa su quelle antiche pietre… Guardò oltre la grata del parlatoio. “ Il suono di una “filba” - disse. Ma non c'era alcun suono. Amori senza nome, amori senza età. Non più vita, il nulla, fuori le mura di la citati di Mazara. Senza cunortu, senza vringi, senza più appigli. Questo disse, alzandosi, a frate Andrea. Il suono di una filba. U n s o g n o , sognando la casa di suo padre. Aveva patito i desideri dell'anima, le passioni dello spirito, la stessa inesperta gioventù. Del suo stesso dolore, perfino di fugaci attimi di gioia. Questo disse quel giorno nel parlatoio del monastero di *** *** Domini Nostri Incarnationis Anno 1412 (?) Tra mura claustrali di ... (?) Talagea E il vento tra i tralci delle viti, ormai spoglie nei campi al di là della timpa, nel tempo della memoria, nella Mazara dei ricordi; e poi un canto … conforto, misericordia, pietà. Lasciò che il tempo scorresse su se stesso e su di lei. Abbandonò i ricordi per anni, penitente, tra le mura di quel chiostro. Non voleva ricordare. “Non importava. Non amavo la memoria. Non ho voluto ricordare.” Ci sono gli umani, le storie, gli amori, alcuni disprezzati, altri coltivati con cura, indifferenti coercizioni, le scelte, le

inquietudini, i pegni, gli errori…. Aveva patito desideri dell'anima, passioni dello spirito, la stessa inesperta giovinezza. Perfino del suo stesso dolore aveva sofferto e della gioia evanescente di attimi smarriti. ….gli umani, gli amori, alcuni senza nome e senza età, le scelte, i n d i f f e r e n t i coercizioni, le inquietudini, gli errori…... Perdono. Serva, penitente e serva. Fuggitiva e reclusa per tacitare le colpe. Le mancava la sua città, perduta e lontana, il mare, i colori, il vento, gli odori salmastri dell'aria mattutina. “Ora et labora”. “Venne frate Andrea una volta, anni fa, a trovarmi. Domini Nostri Anno Incarnationis, 1406. Vecchio oramai. “ E fu di conforto la sua presenza. Ascoltava. Dapprima non parlò molto. Ascoltava la voce di persona benevola, amica. “Parlò della morte di frate Matteo. Del vescovo, della casa di mio padre, “et domina fui”, del tempo che invero mi appartenne e non fu mio. Parlò del peso della vecchiezza, il frate, di membra avvizzite dall'età, del distacco delle cose appartenute, del cielo, della terra, di Dio, nostro Signore, della carità , dell'amore e di tante cose che a volte non udì nemmeno. Le diede dei fogli. Serva, penitente e serva, accolta per carità e misericordia della badessa, nel chiostro di ***. “Non ho rivisto il mare… “ A volte riapparivano le memorie. “L'amore…” Memorie. Le memorie. “Non ho rivisto il mare… Lo scorgevo dalla bifira della loggetta della camera alta, al chiarore del giorno, al tramonto, al serico buio …nella mia Mazara…” Ci sono gli amori, alcuni disprezzati…. Ci sono le colpe, alcune inconsapevoli …. “ Ho ripreso le memorie che mi appartennero”. Non aveva occhi, orecchie, labbra,braccia, mani, gambe, piedi se non per la forza, se non per la violenza. “Mi fu dato sposo a 18 anni. Sorridevo quel giorno.” …” Si bruciavano legni di cedro nel camino della casa di mio padre..” Ci sono amori, alcuni quieti, alcuni disprezzati… “E poi conobbi la sua indole, la sua crudeltà…, io, Anna Talagea di Matteo Pisano e di

Maria Boccardo…sposa di Matteo Penna” ( Et nullo (se) sappe de Mattheo de Pinna. ) Ci sono indifferenti coercizioni, le inquietudini, le scelte non volute, i pegni, gli errori… quali arrisettu pi stu malu disìu ? “… desideri dell'anima, passioni dello spirito, la stessa inesperta giovinezza….” Il timore per un passo pesante, per uno sguardo malevolo, per una smorfia infida… Qualche parola, qualche frase, qualche insulto a bassa voce…” Si bruciavano legni di olivo nella casa dei Penna, obi domina…” Serva, penitente e serva, accolta per carità e misericordia della badessa. “Si bruciavano legni di alloro nelle cucine del convento…” “ Le moniali di *** , talune buone, tal'altre a malignare, “ in cauda venenum”, a giudicare, senza parole, senza rancore né pietà, con lo sguardo, con il sorriso perfido d'ironia e poi…frasi smorzate, parole monche …“ “Ora et labora” “ Vurnu com'ulcu chi 'nun passa mai” (Una ferita, malattia, piaga inguaribile). “……..dimenticare. ... ricordare. …ricordare d'amore…” “Vuci senz'abbentu; vuci n'ghusciati, jru oramà senza ciatu, senza chiù paroli, ciatu tò , e ciatu di la terra, ciatu, vuci senz'abbentu ….” La memoria. Il coro delle moniali intonava “Veni…”. E poi la decana si avvicinò, lesta, severa, a quella figura immobile con la sua “sargina”, accanto a frate Andrea. La scrutò attenta (volgeva al declino l'anno 1399, dicembre ). Un coro, inno al Signore, supremo Dio dell'amore, della misericordia, della pace, del perdono, infine, per peccati recenti, per colpe antiche. “E lo spirito del Signore, spirito di sapienza, di forza, non giudicherà secondo le apparenze…..” Greve la penombra. Compieta. “ … chiesto tante volte perdono a Dio, nel buio e nel silenzio, per l'inquietudine della carne, per il peregrinare della volontà, per la vampa delle passioni, pure per la misericordia di un amor profano.” Per tanto tempo, “quaesivi et non inveni” . Per tanto tempo, “di sorrisi la bocca e la lingua di giubilo..” salmodiando , lodando il Dio dei viventi, il Dio degli afflitti, dei miseri, dei tribolati. Le memorie. Temeva solo il

“rimita”, Matteo Penna, solo Brunone, Goffredo Lurole dei Penna, il fratellastro. Lo ascoltò contrito, umiliato, era nuvemmiri a l'annu 1399,….. quali arrisettu pi stu malu disìu? Brunone lo tacitò, zittì timori di soprusi, quel giorno. Aveva lamentato il vuoto del rancore, il nulla della vendetta, l'inutilità dell'ira. E poi… poi come prima. “… il suono lontano di una “filba”. Un eco. Era settembre, 1406 : era vecchio frate Andrea. Salmodiava e lodava il Dio dei viventi, dei miseri, degli afflitti… Guardava con sguardo innocente il divenire della vita… Non sarebbe più tornato a trovarla. Non più vita fuori le mura di Mazara. Non più appigli. Niente fuori le mura della città. Indegnità. Lavoro. Serva. Questo fu detto a frate Andrea. “Questo dissi.” E poi , rammarico, amarezza, dolore, sul suo volto. Dei fogli … Rammarico. Tristezza. Il suono di una filba. Non era un suono. Un sogno. “Ho sognato la casa di mio padre”. Questo fu detto a frate Andrea. Breve il tempo per un sole opaco quel giorno. Un'ombra , sotto il sole, a raccogliere cicoria lungo il sentiero che portava alla roggia. Poi la notte e luci di luna. Aspettò l'alba sulla loggetta del campanile. E la sua sagoma , frate Andrea , sul carro, al serico buio – tardava l'alba ad incipere – a l'aranzi di la platìa di lu munisteriu di *** Andò via. Non tornò più, il frate. Fogli di frate Matteo all'anno Domini…. “Ci sono i ricordi, la memoria, la vita…” Fogli di frate Andrea all'anno Domini … “Ognuno trasmette un poco di sé, vivendo …” “Quaesivi…” Ho chiesto” . L'umiltà, la carità, l'amore, la grazia… Chiese. “ Ho chiesto. Ho cercato Dio, da penitente, tra le mura di un chiostro, i o , A n n a Ta l a g e a Pisano… “Ho chiesto. Ho cercato.” Il suono di una campana. Il vespro. E ancora un suono…Compieta. E poi ancora… Mattutino. E poi… Nella incerta volontà della memoria, come reticoli di luce tra ignote ombre, echi di mete irragiunte, spirali di desideri incompiuti, irredenti, rivide. E poi gli ulivi sferzati dal vento e le piane e i crinali e i sentieri, al di là del passo di Busàl, la sua Mazara, le sponde del fiume grande, e le rive fangose del guado del Màzar, e i cavalli al galoppo, suo padre, e il sole e il vento di xirocu tra i tralci delle viti, nei campi al di là della timpa, lu chianu, sua madre, voci, Madelvo, suo amato, faiddra,spaiddrìu, trazza ni l'aira. La scogliera e il mare… E poi un suono, un canto che diventava conforto, misericordia, pietà, e odori di nepitella, di satareddru, di mela acetosa. Ciatu. Ciatu di vita. Soffio…


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QUALE ISLAM IN ITALIA, QUALE ISLAM A MAZARA? di Onorato Bucci

Cos'è l'Islam Per capire cos'è l'Islam bisogna partire dalla constatazione che la dottrina della civiltà islamica si fonda sul sillogismo, a differenza della cultura grecoromana che si fonda sulla dialettica. L'Islam, infatti, afferma la verità del sillogismo che, stante la stessa definizione di Aristotele, è “il ragionamento nel quale, poste alcune premesse, deriva da queste, è in forza di queste, necessariamente qualcosa d'altro”. La premessa a tutto il pensiero islamico, la sua vita, il suo modo di sentire, la sua storia e il suo mondo, in una parola la sua Weltanshauung, è il concetto di Dio, di Allah, che nella radice semitica ripropone l'El – Al ebraico e, come il Dio ebraico, è rigidamente monoteistico. Non vi è posto per la Trinità cristiana, che lo stesso Corano intende come politeismo, tanto più che viene intesa come composta da Dio, Gesù e Maria. Dio invece ha la qualità di onnipotenza, onniscienza, illimitata libertà di volere, essere unico creatore del nulla, che agisce costantemente su tutte le cose grandi e piccole dell'universo, dove non c'è nulla di simile a lui, giudice supremo anche, che retribuirà gli uomini con il paradiso o con l'inferno. I suoi rapporti con le creature sono quelli di un padrone verso i suoi schiavi, anche quando parla di clemenza e di perdono, termini che può usare solo lui. Egli è invisibile agli uomini di questo mondo e si renderà visibile solo nell'aldilà. Egli è qualificato con 99 nomi bellissimi, simili ai grani del rosario musulmano: da questi nomi la teologia ortodossa ha estratto tredici attributi (sifat) di Dio.Una concezione siffatta della divinità non poteva che sorgere nella penisola arabica, fortemente caratterizzata dalle condizioni climatiche e geografiche dell'Arabia dei Beduini al tempo di Muhammad: le dottrine ebraiche e cristiane, “recepite” dal Profeta, si adattano e si forgiano nel mondo (immemoriale) dei pastori e dei carovanieri nomadi, ripiegandosi su se stessi e adeguandosi allo scenario generale del territorio che le modifica profondamente fino a farne un quid novi con una caratteristica che sarà una costante per tutta la sua storia, fino ad oggi, il rifiuto di ogni elemento della civiltà greca e romana. Questa concezione della divinità assoluta è propensa a pensieri mistici piuttosto che a soggetti tragici ed eroici: è, se così si può dire, una “cultura del deserto”. La conseguenza è che la concezione della divinità nell'Islam delle origini – e che passa integralmente nella Sunna – è rimasta prettamente beduina: sufficiente a nutrire la malinconia della sua gente e ad alimentare le fantasticherie delle genti circostanti che sentono pesare su di loro un eterno ricominciamento e che subiscono la forza invincibile delle cose e delle leggi di un destino eterno non plasmabile né governabile da alcuno, e per questa ragione oltremodo affascinante.Si può capire allora perché Gesù per l'Islam non può essere figlio di Dio e, bestemmia delle bestemmie,

Dio egli stesso, pur avendo l'Islam verso il Nazareno un grande rispetto ritenendolo a chiusura della Profezia. E si può capire anche, sulla base di questi attributi, che Dio ha conosciuto e voluto fin dall'eternità tutto ciò che è accaduto e accadrà nell'universo e quindi anche gli atti più particolari dell'uomo, pervenendo ad una predeterminazione delle azioni umane, ad un legame che Dio stesso pone fra causa ed effetto salvo ad annullare questo legame quando lo ritiene opportuno. Ma se è così, se l'Altissimo è l'unica fonte dell'agire dell'uomo è da dedurre che, non vi può essere autonomia regolatrice dell'azione umana, per cui non c'è distinzione fra jus e fas, fra norma etica e norma giuridica, e quindi fra potere politico e potere religioso, fra foro interno e foro esterno. Si nega che Gesù di Nazareth abbia mai pronunciato l'affermazione “date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio”, si rifiuta la distinzione fra clero e società civile perché si rifiuta il concetto di sacerdozio distinto da un potere politico, da un potere cioè che possa gestire l'attività divina distinta da un potere che gestisce l'attività umana. Ed è questo il fondamento della Sharia, del diritto islamico, il cui vocabolo squisitamente arabo, ha il significato di “via che conduce all'abbeveratoio” e, metaforicamente, “via diritta rivelata da Dio”. Quest'ultimo significato, per la giurisprudenza islamica, ha un valore squisitamente giuridico, con una triplice distinzione: a) legge religiosa comprendente dogmi, reati, precetti morali e giuridici rivelati a Ebrei, Cristiani e Musulmani; b) via rivelata ai soli Musulmani nel suo significato di foro interno e foro esterno; c) via rivelata ai soli Musulmani per indicare, valutare e regolare il foro esterno (ash – sharija al – colamiyya). Comunque, il significato è ritenuto unitario per tutte e tre le culture giuridiche, Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Il fatto che le prime due culture non si attengano all'antico valore come prescritto dall'Altissimo dimostra secondo tutte le correnti dottrinarie musulmane, come Cristianesimo ed Ebraismo si siano allontanati dalle proprie radici per l'influsso del razionalismo greco. Di qui la convinzione che scopo e fine di ogni buon musulmano è quello di riportare Ebrei e Cristiani agli antichi valori. Era questo il fine del cosiddetto estremismo islamico dei Fratelli Musulmani fin dal loro apparire nel XIX secolo. Ed è questa la base che giustifica la jihad, che sta a significare: sforzo a favore della diffusione dell'Islam nel mondo, sforzo che deve avvenire in qualunque modo perché comunque è a favore dei dhimmì (cristiani ed ebrei, e poi zoroastriani e indu), sforzo che può essere anche violento, purchè finalizzato alla conversione, e quindi “guerra santa” (e per questa ragione sforzo che si differenzia dalla igihad che è il puro sforzo intellettuale). E' chiaro che questa concezione del diritto deve fare i conti con la storia, e la storia insegna che quando non si può imporre la sharia neppure con la jihad si deve fare in modo che negli Stati dove la tradizione costituzionale occidentale si è imposta, è bene che la sharia conviva con quest'ultima (tashri o taqnin) fino a renderla subordinata ad essa, in caso di contrasto. I caratteri della Sharia sono: a) l'imperatività assoluta; b) consenso generale configurato sia come igma al-umma, sia come igma al-a'imma; c) carattere di extrastatualità per cui nessun Stato può ingerirsi nella sua effettualità; d) ammissione dei sotterfugi giuridici (hiyal) mediante i quali, rispettando la forma, si viola la sostanza giuridica; e) concezione dell'equità

concepita come indulgenza e benevolenza (rakhsa) contro il rigore (azima) dello stretto diritto (mashian) e nel significato di parità (adala), giustizia (idaqq), misura (haqq); f) carattere personale e cogente della sharia, a tutela anche dei dhimmi, per quanto riguarda i diritti della persona, della famiglia, dei rapporti successori, delle associazioni (waqf) e dei diritti patrimoniali. Dovendo dunque fare i conti con la storia, il diritto musulmano (o meglio: il diritto dei Paesi islamici) ha ribadito universalmente i principi cardini del suo dogma [1. Legame inscindibile fra norma etica e norma giuridica e quindi fra ciò che noi chiamiamo religione e ciò che noi chiamiamo diritto, e che l'Islam chiama Sharia; 2. Personalità del diritto in base alla propria tradizione giuridica che viene a coincidere con la propria confessione religiosa; 3. Caratterizzazione etico-religiosa del diritto privato e del diritto pubblico fino a far scomparire la distinzione fra queste due branche del diritto, vanto e cardine della tradizione giuridica occidentale nata dalle radici del diritto romano]. L'impatto dell'Islam sulla storia, a partire dalla terra del Tigri e dell'Eufrate (attuale Iraq) e a partire dal periodo storico degli Ommayadi, ha dato vita a diversi sistemi e scuole giuridiche che in questa sede non possiamo dettagliatamente presentare ma che, al termine di una lunga tradizione storicogiuridica si sono definite nelle seguenti quattro: Scuola hanafita (dal suo fondatore Abu Hanifah) che divenne sistema ufficiale dell'Impero Ottomano dove perdurò fino al 1926-1929 quando restò limitata per la Siria, Palestina, Libano, Iraq e Afghanistan e per i musulmani di Iugoslavia, Romania, Bulgaria, India, Egitto e Sudan angloegiziano; Scuola malikita (da Malik Ibn Anas) che è seguita dalla quasi totalità della popolazione dell'Africa settentrionale ad occidente dell'Egitto, in Mauritania, Nigeria e Sudan Centrale e Occidentale, Eritrea, le coste dell'Arabia Saudita; Scuola Sciafaita (da Muhammad ash-Shafi), diffusa in Eritrea, Dancalia, Somalia, Etiopia, Ciad, Kenia, Tanganika, Oman, le coste arabe da Hadramut, Yemen fino ai Curdi, Palestina, Daghestan, l'India del Malabar e tutta l'Indonesia;

Scuola hambalita (da Ahmad Ibn Hambal) applicata in Arabia (Neged e territori del Higiaz) dove è diventato sistema ufficiale, estendendosi nell'Iraq centrale e meridionale, in Siria e in parte della Palestina. Ma in cosa si distinguono queste Scuole e come applicano la Sharia, contribuendo alla sua formazione e alla sua specificità? Nell'interpretare o, meglio, nell'indagare sulle quattro radici o fondamenti del fiqh (gli usul al-fiqh) che sono: α) il Corano, che è inteso come la parola di Dio nel senso più stretto e preciso della parola, dettata termine per termine, direttamente da Dio a Maometto; β) la Sunnah, cioè la consuetudine di Maometto, che si desume dagli hadith cioè dalla tradizione canonica relativa ai singoli detti, fatti e silenzi di Maometto; γ) l'igma al ummah, l'accordo di opinioni di dottori di una data epoca che è poi l'accordo della collettività musulmana su questioni non risolte chiaramente o non contenute nel Corano e negli hadith; δ) il qiyas, la deduzione per analogia con norme risultanti da alcune delle tre fonti precedenti. L'attività costruttrice dei giuristi è chiamata igtihad, cioè sforzo (intellettuale e per questa ragione sforzo che si differenzia dalla jihad) a capire ed elaborare. E' evidente che le Scuole sono chiamate a esprimere i loro pareri sui punti γ e δ. Il risultato di tutta questa attività è il fiqh, che altro non è che la giurisprudenza. Il termine equivale a prudentia, ed esattamente alla definizione conservataci nel Corpus Iuris Civilis di D 1,1,10,2 di iurisprudentia come rerum divinarum atque humanarum notitia, sebbene le profonde differenze fra il concetto di Sharia e quello romano di ius invitino ad avere molte cautele in tal senso.


Pag. 4 Più esattamente, il fiqh è un estrarre (dalle varie fonti) le norme relative alla qualificazione sciairitica delle azioni del soggetto tenuto all'adempimento dei suoi obblighi che sono giuridici perché sono religiosi e che sono religiosi perché sono giuridici. Non c'è dubbio che le radici di questo svolgimento storico-giuridico siano radici di tipo giudaico non meno che cristiano: più precisamente, l'Islam si configura come un'eresia rispetto al Cristianesimo e come un'apostasia rispetto al Giudaismo. Non è fuori luogo definire l'Islam come eresia cristiana, cioè una scelta (tale è il significato del termine eresia, dal greco airesis) compiuta all'interno di una predicazione cristiana diffusasi ai margini della società beduina assommando conoscenze giudaiche e cristiane, formatesi, queste ultime, nei primi cinque secoli della predicazione apostolica, postapostolica e dei Padri della Chiesa. Giovanni Damasceno, che fu alto funzionario a Bagdad nella prima dominazione musulmana della Siria e che è considerato dalla Cristianità l'ultimo (in ordine di tempo) Padre della Chiesa non ha dubbi in proposito, comprendendo i seguaci di Maometto fra le 101 eresie cristiane del tempo (e ultima in ordine cronologico). L'eresia di Maometto (nel senso di scelta compiuta differenziandosi dai canoni della maggioranza all'interno della quale avviene la separazione) risente infatti della predicazione copta e soprattutto di quella nestoriana alle cui Scuole il Profeta dell'Islam era stato educato. Questo è un dato ben presente nella storiografia sciita ma volutamente ignorato da quella sunnita. E' fuori di dubbio, infatti, che Maometto sia stato profondamente influenzato da sacerdoti copti (provenienti dall'Egitto) e soprattutto nestoriani (i quali negavano il fatto che in Gesù di Nazareth vi fossero le due nature, umana e divina), e quindi da un cristianesimo profondamente antiellenico e antirazionale (ripudio della tradizione filosofica greca). Ta n t o p e r e s s e r e c h i a r i : Prometeo e le scelte del razionalismo greco –cardine e fondamento di tutta la successiva cultura europea – nulla hanno a che vedere con il determinismo arabo – beduino. L'Islam è fuori dalla concezione del libero arbitrio, che è squisitamente ellenocristiana e ignora deliberatamente il concetto giudaico di persona, diventato il perno della cultura dell'Occidente. Il Giudaismo puro, non influenzato dal razionalismo greco, riconosce il concetto e il valore di persona solo all'Altissimo: è di questo Giudaismo (e non di quello passato attraverso il filtro ellenistico), che l'Islam si sente erede e successore. Su queste fondamenta l'Islam inizia la sua storia e costruisce la sua memoria. E' dall'epopea di Maometto che parte la storia islamica, e non prima, perché la storia precedente è fuori dall'Islam e va completamente cancellata perché quella storia ha visto il trionfo della cultura greca su quella semitica, del

AGOSTO 2009 Maligno sull'Angelo Gabriele. Il Profeta non può accettare che il Verbo si faccia carne, pura bestemmia a fronte dell'Altissimo. Di qui il rifiuto di tutta la tradizione razionalistica greca, a partire dalla Scuola di Mileto che ha osato cercare i principi dell'origine della storia dell'uomo negli elementi naturali (aria, acqua, terra e fuoco) e non nell'atto del Creatore, di qui l'ignorare totalmente lo stoicismo; di qui l'ignorare Paolo di Tarso che la tradizione islamica non conosce, sia essa sunnita o sciita; di qui l'ignorare i cinque secoli della tradizione e della dottrina cristiana fino a Calcedonia. Quei cinque secoli non vanno studiati perché opera del Maligno. Come eresia cristiana, l'Islam è per sua natura centro di missionologia sulla terra, senza chiudersi nel breve orizzonte della stirpe semitica. Se Dio si è rivelato in modo completo ma progressivamente fino a Maometto, questa rivelazione va portata a tutta l'Umanità come insegnava il Nazareno ma senza le scorie del pensiero razionalista greco. E' l'Umanità intera che è l'oggetto della predicazione islamica, la Umma. Questa pretesa universalista porta ad affermare che la storia dell'Islamismo è dunque una storia che si svolge in tutto il mondo: è dunque la storia di una religione ed insieme di uno Stato in fieri, di uno stato universale che coincide con l'Umanità intera. Il concetto di Umma, nella sua

conclude le parole di Dio per cui il Corano, e non altro, è il Libro dei Libri, è al-Kitab, il Libro per eccellenza. C'è, in questa acquisizione di autocoscienza culturale, la consapevolezza di aver dato vita, per le genti beduine, ad una raccolta storica della propria tradizione culturale pari a quella delle altre genti ma teologicamente superiore perché priva delle incrostazioni delle altre culture (babilonese-assira, egiziana, ellenistica). C'è la forza della tradizione scritta che non può che essere opera di Dio, e quindi opera certa e immutabile. Per capire l'immensa distanza che separa il Corano dagli altri Libri cosidetti sacri basti considerare che mentre questi ultimi sono stati studiati, tradotti, filologicamente scandagliati e interpretati con i canoni della dialettica greca (processo di sintesi dei contrari che tende ad avvicinare l'unità alla molteplicità difendendo con pari sicurezza il pro e il contra di ogni opinione e dando al vero l'apparenza del falso e viceversa), mettendo in discussione la loro origine e la loro formazione nel tempo e nello spazio, nulla di tutto questo è avvenuto per il Libro

inscindibile unità, dimostra altresì che non esiste il concetto di Chiesa distinto dallo Stato, perché l'Umma è Chiesa e Stato allo stesso tempo. Questo è stato voluto dall'Altissimo e a questo fine devono tendere tutti i membri della Umma, singolarmente e in gruppo, perché questo in definitiva è il significato di jihad, sforzo che si storicizza, non solo in forma aggressiva ma anche in forma pacifica, soprattutto attraverso le Confraternite, che sono l'unica mediazione fra l'individuo e lo Stato. L'apostasia dal comune ceppo semitico è caratterizzata comunque dall'aver dato vita al Corano, il testo sacro. Si ritiene che il Corano sia stato ricevuto testualmente in lingua araba da Dio stesso: Qur'an significa letteralmente recitazione o lettura ad alta voce, salmodiando i vari versi, e quindi recitazione per eccellenza. Il testo è la raccolta di canti orali che l'epopea beduina ha unito, e resta l'ancoraggio fedele al passato semitico, che l'Antico Testamento ha in gran parte dimenticato, fra immissioni della cultura babilonese, di quella egiziana e di quella ellenistica. Ecco perché il Corano completa e suggella tutta la tradizione semitica presente nell'Antico Testamento e nel Nuovo e la trasmette integra alle nuove generazioni: ecco perché completa la Rivelazione e

dell'Islam verso cui, ancora oggi, vi è una sorta di timore riverenziale da parte di tutti i Credenti nel Profeta fino ad avere perfino pudore a toccare una copia. Per secoli si è perfino proibito di tradurre il testo arabo nella persuasione che avendo Allah parlato in lingua araba, la parola di Dio non poteva essere tradotta. La stessa recitazione del Libro è sottoposta a regole di pronunzia e di modulazione vocale fissate da una disciplina detta tagiwrd, esposta in una miriade di manuali insegnati in tutte le Scuole islamiche (madrasa). Ogni esemplare del Corano anzi, per gli Ortodossi, è ritenuto sacro di per sé e neppure tangibile da un infedele. Per scopi liturgici viene usato solo ed esclusivamente il testo arabo, per cui la lingua araba viene automaticamente a diffondersi presso tutte le genti e in ogni regione del mondo, tenuto anche conto che la preghiera e la recitazione non può che essere in lingua araba. Principio generale (e rivoluzionario) dell'Islam è che tutti i musulmani sono fratelli ovunque essi vivano, senza distinzioni di razza e di lingua. Poiché poi i Credenti sono i seguaci dell'ultima rivelazione che Dio ha concesso all'Umanità, attraverso il suo inviato Maometto, deriva un secondo principio per cui nessun infedele può avere autorità e supremazia su un musulmano. La conseguenza è che il mondo intero è diviso in due grandi parti: Paesi d'Islam (Dar alIslam), i territori abitati da Musulmani e Paesi di Guerra (Dar al – Harb), abitati e governati da Infedeli. L'infedele del dar al – harb, cioè, non suddito del diritto

L’arco

musulmano, si chiama harbi (termine che le versioni ufficiali francese e italiana del Codice dello Statuto personale musulmano egiziano del 1875 traducevano con hostis): i suoi beni e la sua persona sono fuori dalle legge e quindi oggetto potenziale di razzia, a meno che egli entri in territorio musulmano munito di aman, cioè di un salvacondotto. In tal caso, egli diventa musta'men, cioè uno che ha ottenuto sicurezza ma che se prolunga per oltre un anno la sua dimora in terra islamica, che è terra sacra, si trasforma in dhimmi, ossia in un infedele suddito dello Stato musulmano. La giurisprudenza classica musulmana affermava che, se il territorio abitato da musulmani cade in potere degli infedeli senza che vi sia speranza di riscossa, questo diventa dar al – harbi e i musulmani residenti hanno l'obbligo di emigrare. A partire però dalla colonizzazione francese e inglese delle regioni mediorientali, alcune fatwa mitigarono questa dottrina ritenendo che il dar al – I s l a m n o n d i v e n t a automaticamente dar al – harb se c'è libertà di culto e osservanza del proprio statuto personale (famiglia, successione e wacqf) per i musulmani. A fare da supporto a questa concezione della vita e della storia c'è una teologia positiva che si basa sui seguenti punti, così come Alfonso Nallino l'ha puntualizzata: Il grado più alto delle creature è costituito dagli angeli, creati dalla luce senza distinzione di sesso, che non mangiano, né bevono, occupati a glorificare Dio nei cieli, a obbedire e a eseguire gli ordini. Sono guidati dall'angelo Gabriele, che ha il compito di trasmettere le volontà di Dio, dall'Angelo Azra'il, angelo della Morte che preleva le anime dei morenti, dagli angeli Munkiar e Nakir, che interrogano i morti nel sepolcro, dall'angelo Ridwan, custode del Paradiso e Malik, custode dell'Inferno. C'è anche un settimo Angelo, Isolis o Ash – Shaitan, ma che è diventato il Maligno Satana, nel momento in cui non ha voluto ubbidire a Dio. Tutta questa impostazione dogmatica è intessuta di elementi e credenze che si alimentano delle tradizioni popolari del cristianesimo orientale. Per esempio, lo stesso nome proprio del diavolo, Iblis è corruzione del greco δια βαλος; poi ci sono i Ginn (di natura inferiore agli angeli ma superiore agli uomini) i quali hanno un posto notevole nel Corano e nella novellistica araba. Nati nel paganesimo siro-beduino-arabo, possono essere buoni o cattivi: mangiano, bevono, procreano e sono creati dal fuoco. I Ginn cattivi hanno la denominazione di shayatin, afarit; il terzo punto della fede è la rivelazione di Dio che si conclude nel Corano ma che era iniziata nella Tawrah (il Pentateuco) di Mosè e nell'Al-Ingal (il Vangelo) di Gesù di Nazareth. Il giudizio del Nallino in proposito è netto: “rivelazione e ispirazione furono concepite da Maometto sotto forma di adattamento del concetto ebraico e cristiano a quello arabo preislamico dell'espiazione testuale, meccanica, parola per parola, che i ginn o shaitan facevano a indovini e a poeti” (cfr. voce Islamismo, in EI, XIX, 1933, p. 608). Di qui il principio che il


L’arco AGOSTO 2009 Corano è un preciso dettato del m e s s a g g i o d i v i n o a ff i d a t o all'Arcangelo Gabriele; il quarto punto è la credenza nella profezia e nella missione divina dei profeti. In arabo il termine profeta è nabi (plurale nabiyyun o anbiyà) di origine squisitamente ebraica. Nella concezione profetica c'è da parte di Maometto il recupero integrale della semiticità, da cui Israele sembra si sia allontanata. Iddio (Allah) inviò dei suoi inviati (rasul) ognuno dei quali ha “fatto scendere” sulla terra (leggi: sulla terra dei beduini e dei Semiti) il libro della propria profezia: sono stati venticinque, il primo Adamo, e l'ultimo Maometto: fra di loro c'è Idris (Enoch), Noè, Abramo, Lot, Ismaele, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Giobbe, Mosè, Aronne, Dhu'l-Kifl (Ezechiele), Davide, Salomone, Elia, Eliseo, Giona, tutti della tradizione veterotestamentaria, e poi Zaccaria, Giovanni Battista e Gesù Cristo (della tradizione neotestamentaria) e poi Shu'aib, Hud e Salih, appartenenti al popolo di Maydan, corrispondente al biblico Ietro, medianita. Alcune scuole di teologia aggiungono Uzak (Esdra), Dhu'l Aarnain (Alessandro Magno) e Luqman, il saggio. Eccetto Alessandro Magno (il cui ricordo è in Corano, sura XVIII, 59 e ss.), tutta la presenza profetica islamica è di tradizione rabbinica, vetero e neotestamentaria. Questi profeti sono uomini impeccabili e infallibili il cui compito è di dar vita a miracoli (mu'gizah). Fra tutti, due sono gli inviati di Dio più importanti, Gesù Cristo e Maometto. Il primo (Isa al – Masih) ha compiuto miracoli portentosi. Nacque da Maria Vergine sorella di Aronne per opera dello Spirito Santo. Non fu figlio di Dio e i Cristiani bestemmiano ogni volta che lo affermano; non morì sulla croce ma fu rapito al Cielo mentre i suoi persecutori crocifiggevano uno dei suoi discepoli (per miracolo divino fu data la sembianza di Gesù). Maometto non compì miracoli anche se la tradizione successiva gliene attribuisce molti, ma egli resta il più insigne degli inviati di Dio (afdal) perché non è stato mandato per questa o quella tribù, per questo o per quel popolo, ma per l'Umanità intera, perché è il “sigillo del profeta” e chiude la profezia, e nessun altro verrà dopo di lui; il quinto punto della fede islamica è la credenza nella vita futura: le anime dei profeti, dei martiri e dei Credenti andranno subito nel Cielo. Gli infedeli e i musulmani malvagi saranno assoggettati al dolorosissimo tormento della tomba che cesserà con la resurrezione. Tutta l'apocalittica giudaico-cristiana entra nella Resurrezione finale dei corpi, descritta in modo coloratissimo dal Corano. Nel momento del Giudizio Universale diventeranno eterne solo le pene infernali per gli infedeli mentre i peccatori musulmani verranno comunque perdonati. A questa tesi si oppongono gli Ibaditi, eredi della Scuola mu'tazilita. Il Paradiso è un vero giardino incantato, con acque dolcissime correnti, alberi pieni di foglie e di frutti, coppieri che girano mescendo vino, con vergini bellissime poste a disposizione dei beati e sempre rinnovanti la loro verginità. Di contro le pene dell'Inferno sono: fuoco ardente, ghiaccio, cibi nauseanti, pesce bollente e maleodorante, orribile albero zaqqum, flagellazione con catene; il sesto punto della fede islamica è la credenza che il bene e il male provengono da Dio, perché questa è la decisione di Dio (al – qadà wa al – qadar). Il risultato è che tutto ciò che avviene nell'universo (compreso l'istante della morte e le azioni volontarie e involontarie, buone o cattive, di tutti), avviene per volere,

determinazione di Dio, fin dall'eternità e per prescienza di Dio. E' questa la dottrina della predeterminazione assoluta islamica, difesa in modo categorico dalla Sunna e da tutta l'Ortodossia. E non può che essere così: è il sillogismo a volere questa conclusione. Se Dio ha la sconfinata libertà di volere e di potere, se è padrone assoluto delle sue creature e non soggetto ad alcun obbligo vero di esse, non possono essere ammesse azioni da lui indipendenti e da lui non volute. Se così fosse sarebbe un'offesa alla sua onnipotenza e quindi una contraddizione al principio dell'assoluta onnipotenza di Dio. L'allusione coranica alla “tavola custodita” (degli Angeli in cielo) o al libro celeste ove sono scritti, fin dalle origini della creazione, tutti gli avvenimenti che accadranno nel futuro del mondo, favorisce la concezione deterministica. Si ammette il concorso della volontà umana ma quale volontà non efficiente: opporsi a questa concezione fu la Scuola maturida che tentò una mediazione fra la dottrina del libero arbitrio e quella della predestinazione dando vita a ciò che è stato chiamato Occasionalismo, che si fonda anche in questo caso sul sillogismo. Si parte infatti dall'esistenza di una libertà parziale di scelta creata in noi da Dio: l'uomo può volgere al bene o al male, ma questo fatto non decide l'esistenza o inesistenza di atti voluti perché questi sono creati da Dio in corrispondenza con la decisione presa dall'uomo. E' all'interno di questa concezione che si possono spiegare il Sufismo, le Confraternite e la presenza dei Santi nell'Islam.

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Il primo, vero e proprio movimento di teologia spirituale, è la summa dell'ascetica e della mistica, il cui cantore ufficiale è al – Ghezzali. Il nome Sufismo è il latino da tasawwuf, arabo, introdotto dallo studioso tedesco F.A. Tholuck nel 1821. L'origine è squisitamente cristiana e proviene dai centri monacali nestoriani: una sorta di follia amorosa verso Dio in rapimenti estatici. Le scuole teologiche avversarono e avversano il Sufismo: il concetto stesso di amore verso Dio sembrava (e sembra) ai teologici un indecoroso abbassare la divinità a livello dell'uomo, mentre l'amore verso Dio deve consistere soltanto nell'adorarlo e nell'obbedire ai precetti religiosi. Il movimento delle Confraternite è anch'esso di provenienza cristiana. E' sorto nel VI secolo dell'Egira in Mesopotamia, in Iraq, e poi diffusosi in tutte le regioni a maggioranza sunnita Le Confraternite sono associazioni che ad una vita religiosa molto intensa uniscono la realizzazione di scopi solidali a favore dei soci. I Santi sono di origine squisitamente cristiana e si diffondono in Iraq, in terra cioè nata cristiana. Essi sono fuori dalla tradizione islamica, diffusisi nel mondo sciita e ritenuti tali per volontà popolare, non essendoci nell'Islam come invece accade nella Chiesa Cattolica, una “canonizzazione” ufficiale. A vigilare sulla corretta interpretazione del Corano e della Giurisprudenza e a dibattere questa incredibile ricchezza religiosa e sociale, ci sono le Moschee e le Medrasa, gli addetti alla preghiera e all'insegnamento. Non essendoci un sacerdozio, non c'è culto

nel senso cristiano del termine (e nel senso ebraico): la Moschea è luogo di preghiera e tale rimane in tutto l'Islam, e il Mullah ha il solo ma grande compito di richiamare alla preghiera. Esistono, certo, altre figure che invitano alla preghiera, come gli Ulema e gli Imam, ma queste figure sono in qualche modo sussidiarie: in origine, svolgevano ben altri compiti. L'Imam, nel passato, è perfino sinonimo di Califfo (Khalifah) e nel periodo del Califfato è alla base del diritto costituzionale islamico, oggetto di specifiche e quanto mai puntuali trattazioni in materia. Con lo stesso titolo, si è indicato (soprattutto nel passato ma anche nel presente) la figura di teologo e giurista eminente. Il titolo di Imam successivamente sarà dato anche a colui che dirige la preghiera pubblica, al pari dei mullah, ed allora si chiamerà, soprattutto nel mondo sciita, Imam – es – salat. Negli ordinamenti coloniali italiani sorse una figura che serviva come organo di collegamento fra i nativi e le autorità governative, e questa figura venne chiamata, in Libia e in Somalia, Imam, sorta di “pubblico ufficiale”, i cui certificati erano ritenuti atti pubblici. Per quanto riguarda gli Ulema (plurale della parola araba 'alem, che indica in senso letterale colui che ha appreso, e sta per dotto, sapiente, e quindi cultore o esperto in materia di Sharia, studioso del fiqh), sono alla lontana i corrispettivi degli antichi rabbini del tempo del Nazareno e sono alla base dell'igma, l'accordo, cioè, dei dottori per una interpretazione coranica accettata per mutuo consenso. 8. E infine c'è l'Ayatollah, che è paragonabile al Rabbino capo dell'epoca saddocita dell'Israele antico, ma che eredita parte del sacerdozio zoroastriano e parte del sacerdozio cristiano-nestoriano. E questo spiega non poco, e chiarisce, la nascita della Schi'a che fa degli Ayatollah quasi dei Vescovi cristiani con una superiorità di tipo gerarchico che non esiste all'interno dell'Islam. La stessa figura dell'Ayatollah – che ha il significato del “più vicino ad Allah” perché “miracolo ed espressione diretta di Dio” - è l'erede di una tradizione millenaria che unisce l'antico sacerdote zoroastriano, la memoria dei Magi della Media e la figura del Vescovo nestoriano. Schi'a vuol dire separazione, scelta, come l'antica origine indoeuropea dal greco αίρεσις (scelta) e sta ad indicare il movimento sciita rispetto alla Sunna, che rappresenta la tradizione ortodossa. E qui c'è la prima netta distinzione: la Sunna ha radici squisitamente semitiche ed arabe, mentre la Schi'a ha radici iraniche e quindi indoeuropee, cioè arie. Come la Sunna ha alla sua base la tradizione beduina, nomade e orale, che dà vita al Corano, alla base della Schi'a c'è la tradizione iranica antica, achemenide, partica e sasanide, mai rinnegata dall'Islam iranico. Sullo sfondo, a unificare Schi'a e Sunna ci sarà da un punto di vista teologico il pensiero platonico e aristotelico compiuto da Avicenna e Averroè, e da un punto di vista della pratica quotidiana le pratiche rituali che possono raggrupparsi in cinque categorie (pratiche d'obbligo raccomandate, i n d i ff e r e n t i , s c o n s i g l i a t e e disapprovate, illecite o vietate), con due grandi diversificazioni: a) che troppo spesso i centri di culto dell'Iraq vengono a sostituire per gli Sciiti la Mecca; b) che la Schi'a nel suo complesso con le sue grandi famiglie (zaiditi, imamiti, ismaeliti) si differenziarono dai Sunniti proprio sul piano della concezione di Dio. Gli Ismailiti ritengono dio inaccessibile (come il resto dell'Islam) ma privo di attributi distinti dall'essenza di Dio (concezione, invece, propria della


Pag. 6 Sunna), affermano che dall'Altissimo derivano, per via degradante, l'intelletto (universale), l'anima (universale), la materia prima, lo spazio, il tempo e il mondo terrestre ma che l'intelletto universale ha avuto sette incarnazioni parlanti (Adamo, Noè, Abramo, Mosé, Gesù, Isma'il, ognuno dei quali ha avuto un suo assistente perticolare, Samis o Asas, incarnazione dell'anima universale, Aronne per Mosè, Pietro per Gesù, Alì per Maometto). Gli Zaiditi (la quasi totalità degli abitanti dello Yemen) negano gli attributi divisi distinti dell'essenza di Dio; negano che il Corano sia increato; negano la visione beatifica della vita futura; affermano il libero arbitrio; proclamano che l'uomo può stabilire il bene o il male per mezzo del solo ragionamento senza alcun bisogno della rivelazione; proclamano l'eternità delle pene infernali anche per i reprobi musulmani (in contrasto con la Sunna), non ammettono il Sufismo e le Confraternite; proclamano infine che l'Iddio non può mutare i propri decreti anche prima che abbiano avuto esecuzione. Gli Imamiti (la totalità degli Sciiti dell'Iran e la maggioranza degli Sciiti dell'India, di Palestina e di Siria), sono i veri eredi dei Mut'taliziti proclamando: a) che Dio ha per sua scelta il suo potere e la sua volontà limitata dal dovere di giustizia e di fare il meglio per le sue creature; b) che gli atti buoni sono riconoscibili dai cattivi in forza del raziocinio indipendentemente dalla rivelazione divina; c) che gli attributi di Dio, che non vengono negati, non possono essere distinti dalla sua essenza; d) che il Corano è creato; e) che Dio è invisibile nella vita futura; f) che esiste il libero arbitrio dell'uomo; g) che Dio può mutare o sospendere le sue decisioni anche quelle dettate per l'eternità; h) che è ammissibile la taqiyyah o katman, ossia la legittimità di occultare la propria fede per evitare pericoli o danni gravi. Tutti gli altri gruppi religiosi dell'Islam Kharigiti, Ibaditi, Ahmadiyyah, babi, bahai, yaziti e i rami del modernismo musulmano, molto presenti in Egitto e in India, si muovono fra Schi'a e Sunna e trovano nelle posizioni razionaliste dei Mut'taziliti (primi ad applicare il razionalismo greco alla conoscenza dogmatica) la loro base. Questa, in estrema sintesi, è la base culturale del musulmano (dove cultura “vuol dire tutto: fede, fatto religioso, fatto politico, canone giuridico, società civile e familiare), rappresentazione di un mondo, come si può notare, lontanissimo dalla nostra cultura (che accetta invece la distinzione e la separazione netta fra le categorie innanzi riportate) e che non è lecito riportare alle nostre raffigurazioni categoriali che hanno come punto di riferimento più che Adamo (che comunque ubbidisce all'invito di Dio e sopporta, e soffre, ma non si ribella) Prometeo (che invece disubbidisce, si ribella e in nome del libero arbitrio si contrappone a Dio). Il rischio infatti che si corre nell'indagare terre, gesti e luoghi diversi dalle nostre terre, genti e luoghi, è quello di applicare i canoni della nostra cultura allo studio di situazioni storiche che nulla hanno in comune con quest'ultima. C'è chi è tanto sicuro della grandezza della cultura occidentale da ritenere che l'occidentalizzazione del mondo sia una meta non solo auspicabile ma inevitabile per tutta l'umanità, perché la cultura di Socrate-Platone-AristoteleEraclito-Parmenide sarebbe superiore a quella dei Mullah-Ulema e degli Ayatollah. Questa schizofrenia è parallela alle due forze altrettanto schizofreniche che minano la società cristiana: a) una forza illuministica-positivistica che ritiene il Cristianesimo dello stesso stampo islamico, perché irrazionale e lontano dalle radici greco-romane da cui pure il Cristianesimo ha ricevuto linfa vitale; b) una forza islamica che rimprovera alla società cristiana di aver rinnegato le sue radici ed essersi fatta discepola dell'illuminismo ateo e pagano. A dimostrarlo sta proprio quanto avviene all'interno della Chiesa Cattolica, principale bersaglio di questa critica: i cattolici che passano da un rito orientale (caldeo, maronita, siro, melkita e copto) al rito latino perdono spesso la fede abbracciando consuetudini e tradizioni del paganesimo occidentale.

AGOSTO 2009 Quale futuro può esserci fra la civiltà dell'Occidente e quella Orientale oggi a prevalenza islamica? Chi scrive non è ottimista nel prevedere lo scenario del futuro: da un lato, infatti, c'è una società tarda greco-romana trònfia della sua cultura e del suo passato, determinata a imporre i suoi canoni di vita e di storia; dall'altra c'è una società islamica che nella sua espressione sunnita (la Schi'a rappresenta solo l'8,10 % della totalità musulmana) vuole imporre i canoni della civiltà semitica e di un passato califfale come modello di civiltà per tutta l'Umanità secondo le linee dottrinali della Umma che frattanto si è venuta a formare e sviluppare. In mezzo, c'è la civiltà cristiana di cui il Vescovo di Roma si fa garante contro ogni tentativo di distruggerla. Nata in Oriente, la civiltà cristiana pone a base del suo agire storico il Discorso della Montagna del Nazareno, sorta di “Carta Costituzionale” su cui

Cattolicesimo per la fede islamica sunnita. Sull'onda delle aperture del Concilio Ecumenico Vaticano II verso la religiosità non cristiana, si costituisce un Consiglio degli Ambasciatori Arabi e Musulmani accreditati presso la Repubblica Italiana e della Santa Sede con legami e finanziamenti con la Lega Araba (controllata dall'Arabia Saudita) e la Conferenza Panislamica (controllata dal Pakistan e con sede a Lahore). Questo Consiglio, forte anche di rilevanti concessioni finanziarie, chiese nel 1973 la possibilità di costruire in Roma, a Monte Antenne, su un terreno donato dal Comune della Capitale, un complesso edilizio inaugurato poi nel 1995, religioso e culturale al servizio di una Comunità islamica tutta da costruire e da vivacizzare, comprendente una moschea di grande dignità architettonica (il cui progetto e la cui realizzazione fu affidata a Paolo Portoghesi) una sala da preghiera, una

modellare i rapporti all'interno della società e i modelli di agire intersoggettivi, e la prima lettera ai Corinti di Paolo di Tarso che sulla scorta della tradizione storica invita alla mediazione dei rapporti tra individui, fra gruppi associativi e collettività maggiori. E c'è poi l'eredità dei tre principi (provenienti dalla cultura greca, e in particolare da quella socratica), della Fede, della Speranza e della Carità, diventati parte integrante del pensiero neotestamentario: questi valori restano momenti fondanti della civiltà cristiana, e a mio modo di vedere, preziosi giorni di speranza per un futuro meno conflittuale e per una pacifica convivenza tra le (diverse) comunità umane.

Scuola di lingua e cultura araba, una sala di conferenze e una parte adibita a residenza e alloggio per il personale. E' nel periodo 1966-1995 che si diffonde in modo costante la venuta di gruppi umani prima provenienti dall'Albania islamica e dalla Bosnia catara-bogomila-musulmana (in concomitanza con le lacerazioni del territorio della ex-Jugoslavia), poi dai territori mediorientali ed estremo-orientali che raccoglievano migliaia di diseredati in un percorso marittimo i cui centri erano i porti del Libano settentrionale, della Siria mediterranea e della Turchia degli antichi luoghi portuali anatolici con tappe sulle coste cipriote e della Grecia, nonché i centri di raccolta su carrette marittime già programmate (come poi si constatò successivamente) dalle coste atlantiche del Gabon – Guinea – Liberia – Marocco passando attraverso lo stretto di Gibilterra e toccando tutti i porti del Mediterraneo nordafricano fino a pervenire al Golfo di Alessandretta in terra turca dove venivano caricati indiani, pakistani, bengalesi e cinesi di cultura musulmana. Le autorità consolari italiane di quei territori avvertivano sempre, e di volta in volta, i Dicasteri degli Interni e degli Esteri di quanto avveniva nelle acque del Mediterraneo così come, fino ad oggi, le autorità Centrali italiane hanno sempre saputo di un percorso migratorio che in territorio africano dal Kenia-Madagascar perveniva fino alla Libia incamerando diseredati etiopi ed eritrei portando c o n s é g e n t e dell'Uganda, Sudan e dei territori petroliferi nigeriani tutto quindi è avvenuto alla luce del sole perché tutti sapevano. I misteri paventati sono stati tutti costruiti ad arte. Le tre direttive sul piano storico del flusso migratorio islamico in Italia hanno continuato a diffondersi in un

L’Islam in Italia La comunità musulmana in Italia si diffonde in modo capillare a partire dalla prima metà degli anni Sessanta del secolo scorso dando vita ad una organizzazione islamica nata con finalità di protezione delle piccole comunità islamiche di Roma e di Milano, sedi delle famiglie dei diplomatici delle ambasciate e dei consolati delle due città. Un dato da rilevare che può sembrare strano, ma non lo è, ed indica come anche sotto questo aspetto il territorio della Sicilia abbia una programmazione storico-sociale diversificata dal resto della Nazione italiana, è che l'Isola è sempre rimasta fuori (anche dopo la successione degli sbarchi a Lampedusa) dal disegno (più o meno avvenuto spontaneamente, più o meno programmato) di una presenza islamica in Italia di tipo immigratorio che non fosse quella tunisina (che si è riversata sulla sola provincia di Trapani). Sta di fatto che quest'ultima di è avuta, con una continuità determinata nel Centro-Nord del Paese, in tono sottomesso nel Centro-Sud e solo sporadicamente (rispetto alla diffusione capillare nelle altre due aree del territorio nazionale) nelle isole, Sicilia compresa. C'è una data storica da cui partire, il 1966. In quell'anno, a Roma, viene costituito il Centro Culturale Islamico favorito da illustri uomini di cultura ed ex diplomatici italiani dei Paesi mediorientali che abbandonarono il

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trentennio economico di grande valorizzazione dei territori del Nord Est e Nord Ovest italiani e di grande organizzazione malavitosa di clan posti sul territorio nazionale di fatto alleati per lo sviluppo industriale e finanziario dell'Italia 1966-1995, favorendo l'ascesa progressiva dei diseredati dalla richiesta da un lato di manodopera da parte degli Industriali del Nord (soprattutto del Nord Est), dall'altra della permissività degli Stati musulmani a consentire che dai propri territori fuoriuscissero masse incredibili di persone in cerca di lavoro ottenendo un duplice risultato: rispondere affermativamente alla richiesta degli industriali italiani per ottenere una manodopera a basso costo (richiesta che perveniva fino a richiami in tal senso dei Capi di Stato succedutisi al Quirinale sulla “necessità” e indispensabilità del flusso migratorio per l'industria italiana) e dall'altra liberarsi di individui non economicamente autonomi nel proprio Paese. Questa è la linea incredibile di lettura per giudicare quanto è avvenuto in quel trentennio di fine secolo in Italia fino a chiedere altra manodopera, quando i flussi “autorizzati” dai Paesi islamici sono venuti meno in Romania e nel resto dei Paesi già appartenenti alla ex Unione Sovietica (dall'Ucraina ai territori musulmani del Tagikistan, Uzbekistan, Daghestan di cultura islamica sciita). Caratteristica di tutto il flusso migratorio proveniente dall'Oriente islamico e non islamico è la presenza cinese nella quasi totalità proveniente dalle regioni della Cina a forte caratterizzazione musulmana. In questo scenario, quasi a programmare una presenza fattiva musulmana nel Paese, nasceva una rete organizzativa di strutture che si accompagnavano al Centro Culturale Islamico e alla Moschea di Roma. Nella seconda metà degli anni Sessanta veniva potenziato l'unico organismo musulmano presente in Italia prima del 1966, quell'Unione Islamica in Occidente (UIO), fondata nel 1947 e che dal 1972 diventa appendice del World Islamic Call Society (WICS) costituita a Tripoli di Libia in quello stesso anno avendo come scopo la testimonianza della religione islamica nel mondo. Negli anni ottanta nasceva l'Istituto Culturale Islamico di viale Ienner a Milano che si separa dal Centro Culturale Islamico di Milano e Lombardia, l'Associazione Musulmani Italiani (AMI) costituita a Napoli nel 1982 con lo scopo del dialogo con Ebrei e Cristiani e poi, negli anni Novanta, l'UCDII (Unione delle Comunità Islamiche Italiane) costituita ad Ancona nel 1990 sulle ceneri dell'USMI (Unione degli Studenti Musulmani d'Italia) diffusosi a Perugia e Siena nelle Università degli Stranieri, e poi, la Lega Musulmana Mondiale – Italia nel 1997 e, nello stesso anno, il COREIS, la Comunità Religiosa Islamica Italiana sorta intorno alla figura di Abd al Wahid Pallavicini che nel 1993 aveva dato vita all'Associazione Internazionale per l'Informazione sull'Islam (AIII) intorno a cui si erano riuniti gli Apostati italiani passati dal Cattolicesimo all'Islam. Nel 1998 nasceva l'Associazione Islamica Culturale in Roma e negli anni Ottanta erano fondate le Associazioni di Confraternite e di Missionologia Islam Kultur Merkesi (Guleymancilar), l'Islam Cemeat Wahfi Milli Gorus, entrambi a Milano e appendici italiane della Jama'at al Tabliqh di Parigi. Questi organismi, or ora riportati, sono tutti di estrazione sunnita mentre sorgeva


L’arco AGOSTO 2009 l'Associazione Islamica Ahl al Bait (Genti della Casa) formata da apostati italiani che avevano abbracciato l'Islam nella forma sciita di eredità Khomeinista fin dal 1983 ad opera di Luigi (Ammar) De Martino, a Napoli, e un Coordinamento in Italia del pensiero sciita con sede presso l'Ambasciata della Repubblica Islamica dell'Iran presso la Santa Sede. Intorno a questi organismi, di influenza sunnita o sciita che sia, è sorta una comunità islamica italiana di circa cinque milioni di persone che si è andata sempre di più arricchendo di numeri e qualità dalla Calabria al Veneto, di oltre dodicimila famiglie musulmane poligamiche (quando la bigamia è ritenuta nel nostro Codice penale un reato perseguibile d'ufficio), cui sono stati consessi contributi INPS e INAIL alla seconda e terza moglie deliberati dal TAR di Bologna e da quello di Torino, autorizzazioni da parte degli industriali del Nord Est a usufruire per i propri dipendenti di congedi matrimoniali per i matrimoni successivi al primo, con un'applicazione, dunque, qui come in attribuzioni precedentemente ricordate, dello jus personarum (e non dello jus civitatis) fino ad ora sconosciuto dalla nostra tradizione giuridica italiana ed europea di derivazione romanistica che si fonda sullo jus loci su cui si basa lo Stato Nazione di eredità hegeliana. Un dato è certo: sugli immigrati musulmani il Nord Est e il Nord Ovest hanno costruito la loro fortuna economica ed è ben noto che gli immigrati prima sbarcati a Otranto e poi lungo le coste della Calabria e poi a Lampedusa venivano dirottati nel Nord Est anche quando ricevevano i fogli di via obbligatoria. Con una precisazione: che i musulmani di Paesi arabi venivano dirottati verso le regioni settentrionali italiane mentre quelli provenienti dai territori africani venivano dirottati verso il Meridione d'Italia, i primi verso i lavori dell'industria meccanizzata e dei servizi, i secondi verso i lavori agricoli. E' a partire dalla seconda metà degli anni Novanta (dopo la caduta del muro di Berlino, e lo sconvolgimento politico dei Paesi cosiddetti socialisti e lo sfascio dell'Impero sovietico) che le frontiere orientali dell'Italia offrono i passaggi a una diversa forma di immigrazione sempre islamica proveniente dalle antiche repubbliche a maggioranza islamica dell'ex Unione Sovietica (quali il Tagikistan, l'Uzbekistan, il Daghestan) e dai territori a maggioranza musulmana dell'immenso impero cinese. Attraverso le frontiere orientali entrano in Italia anche immigrati di provenienza dei territori tradizionalmente di cultura cristiana come l'Ucraina e la Romania che riversano nella nostra penisola centinaia di migliaia di persone. Di fronte a questa nuova ondata di immigrati si può e si deve fare a meno dell'immigrazione proveniente dalle coste africane, di quelle dell'area mediterranea mediorientale e dell'Oriente estremo: di qui un taglio netto ai flussi precedenti, soprattutto a quelli provenienti dalla Libia che era diventato il collettore di tutta l'immigrazione dell'Africa bagnata dall'Oceano Indiano. Qualunque chiusura di frontiera arriva tuttavia troppo tardi: la Comunità islamica

italiana sa che entro il 2030 diventerà maggioranza numerica e democratica nel Paese, favorita soprattutto nel rapporto di sei a uno dei nati vivi fra famiglie islamiche e famiglie cristiane e nel degrado dei valori cui la stessa Comunità cristiana dice di appellarsi.

L’Islam a Mazara Ben altro discorso si deve fare per Mazara. Dire che a Mazara l'Islam non è estraneo è dire il vero, e non solo perché è stata soggetta a conquista musulmana come il resto della Sicilia dall'807 al 1072, ma perché Mazara produsse letterati, filologi, poeti e giuristi arabi che fecero conoscere il suo nome e la sua terra in tutto il mondo islamico. E dal 1072 alla unificazione nazionale che condusse la Sicilia a far parte della Nazione italiana, Mazara non fu mai estranea agli influssi arabi e in genere islamici poiché è ben noto che dal tempo delle Repubbliche Marinare tirreniche (Amalfi, Pisa e Genova) ci fu un flusso di contatti con la Tunisia, e non è possibile che da questi rimanesse estranea Mazara. E' ben noto, poi, che parte della comunità ebraica di Spagna a partire dal XVI secolo fosse ospitata dalle coste tunisine e che le comunità ebraiche locali (siciliane e tunisine) avessero contatti con le comunità ebraiche tirreniche, in particolare con quelle di Livorno e Pisa. L'esistenza di una comunità ebraica livornese in Tunisia è attestata da documenti incontrovertibili, e documenti incontrovertibili attestano rapporti commerciali della terra di Tunisi con gente di Mazara, Pantelleria e Malta. Se è vero come è vero che nel 1860, all'atto del passaggio della Sicilia alla Nazione italiana, a Tunisi vi erano diecimila cristiani di cui 3000 italiani, è lecito dedurre che fra questi vi fossero, in pianta stabile o episodica (per tutelare il commercio della pesca) gente di Mazara. Nel 1921 gli Italiani erano la più forte comunità europea in Tunisia, comprendendo circa 84799 persone ed è attestato che erano presenti compagnie di pescatori di Mazara.Lentamente Mazara

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diventa modello di integrazione fra civiltà cristiana e civiltà islamica. L'Islam della Tunisia della scuola Malikita, erede anche di una tradizione berbera passata dall'Islam senza le incrostazioni selguikidi, tale da rendere l'esperienza musulmana da Tunisi al Marocco insieme alla Spagna Andalusa fra Siviglia e Granada è già di per sé un modello unico di convivenza fra popoli e tradizioni di diversa provenienza culturale e con questa immagine viene a Mazara. Karim Hannachi in uno studio che va ritenuto insieme a quello di Antonio Cusumano (Il ritorno infelice) un punto di riferimento sicuro per la storia del fenomeno immigratorio a Mazara del Vallo, e facendo tesoro di un'abbondante dottrina in merito (il cui ultimo sbocco è Nullo Casotti, Italiani e Italia, in Tunisia dalle origini al 1970, Roma, 1964) ricorda come, sulla scia di Jean Loth, Le peuplement italien en Tunisie et en Algerie, Paris, 1905, è attestato che a Tunisi, alla fine del XIX secolo, ci fosse una “piccola Sicilia” di povera gente di Sicilia, formata da “stanze affumicate in cui vivevano alla rinfusa tre generazioni di povera gente fra mobili fatti di casse e di tavole sconnesse, strade fangose dove nugoli di bimbi appena vestiti mendicavano, si rincorrevano, gridavano in un dialetto siculo-franco-tunisino…” (Gli immigrati tunisini a Mazara del Vallo, Inserimento o integrazione, Gibellina, 1998, p. 31) continuando con questa constatazione: “la Sicilia, terra di emigrazione, di immigrazione e di passaggio, è all'ottavo posto per la presenza di immigrati stranieri. Della popolazione dell'Isola che conta più di 5 milioni di abitanti fanno parte 64.828 immigrati extracomunitari. Di questi, la comunità più numerosa è quella di Tunisini, con 15043 unità”, (ibidem, p. 32) richiamando l'attenzione su Trapani, la provincia cui appartiene Mazara del Vallo, invitata (“per la sua storia, per la sua vicinanza alla riva Sud del Mediterraneo, per i suoi rapporti economici, per i suoi diversi collegamenti marittimi con alcune città costiere della Tunisia”: ibidem, p. 33) ad “assumere pienamente la sua funzione di provincia di frontiera, anche se la presenza di immigrati è inferiore alla media

nazionale. Al 31.12.1996 gli extracomunitari residenti nella provincia di Trapani ammontano a 4.325 unità (circa l'1% della popolazione provinciale che conta 434.088) di cui più della metà si sono stabiliti a Mazara del Vallo” (ibidem, p. 33). Il nodo, dunque, è Mazara, dove, su 52.000 abitanti, il 5% della popolazione è di origine tunisina facendo di Mazara “la città più araba d'Italia” (ibidem, p. 49). Questi i dati ufficiali, ma certamente i 2.600 tunisini si triplicano in posizioni irregolari per la costante presenza di soggetti che sfuggono alle statistiche ufficiali. Questa presenza è occupata prevalentemente nella pesca ma una buona parte è adibita anche nell'agricoltura e una piccola parte ai servizi. Non c'è dubbio, dunque, che l'economia di Mazara del Vallo debba non poco alla presenza degli immigrati tunisini tanto da far dire ad Hannachi che “nessuno, economicamente, può, oggi, negare l'indispensabilità della manodopera tunisina nell'economia mazarese. Se, per ipotesi, gli immigrati tunisini decidessero di abbandonare la loro attività nell'ambito della pesca, tutti i pescherecci di Mazara resterebbero alla fonda in porto, con effetti disastrosi sulla intera economia della città” (ibidem, p. 49).Ed allora ritorna il problema: se il nodo di Mazara (o certamente il nodo centrale) è la presenza tunisina, se questa presenza tunisina è determinante per l'economia mazarese, si errerebbe grandemente se si trattasse il problema in termini di costi-ricavi e di utilità keynesiana perché si cozzerebbe prima o poi nel dover dare una risposta falsa e bugiarda ai problemi che l'economia porta con sé senza che si tenesse presente lo scenario in cui quei problemi si muovono e che vanno compresi negli ordini di grandezza culturali ed etici. Il vero problema invece è che c'è un gap da superare nel rapporto con la comunità tunisina: rispettarla nel suo insieme e nei suoi appartenenti, ad uno ad uno, nella convinzione che la cultura occidentale, quella che comunemente chiamiamo cristiana, non è affatto superiore a quella islamica ma di pari dignità e grandezza. Al tempo stesso la comunità islamica deve comportarsi con la comunità cristiana. Qui i termini Islam e Cristianesimo devono essere intesi nel senso dell'apporto e del contributo di civiltà che essi hanno dato nella storia e fuori dagli schemi religiosi. E qui gli amici musulmani devono fare lo sforzo di capire, e di comprendere, che il dato inalienabile del “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” è un momento non negoziabile in alcun modo. Cosa che non vuol dire soltanto comprendere l'altro fino in fondo e rispettarlo. Bisogna soprattutto che l'eurocentrismo culturale da un lato e la forza prorompente derivante dal principio unificante della Umma non distruggano la convivenza interpersonale. Qui si formeranno i modelli di rispetto e di amicizia, etici e culturali ad un tempo. Sulla base di queste acquisizioni, si può costruire lo stare insieme per convivere nello stesso territorio e dare vita ad una società unitaria.


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PIAZZA DELLA REPUBBLICA: E LA STORIA STA A GUARDARE I nuovi interventi di arredo urbano e di pedonalizzazione tra avventurismi politici e architettonici di Gabriele Mulè È difficile sostenere un dibattito sul valore estetico degli interventi di architettura contemporanea. Difficile non solo per una costante diminuzione degli spazi di confronto, ma anche del numero di interlocutori: perché spesso si sceglie di non inoltrarsi nel pericoloso campo minato dei giudizi che, seppure motivati, preparati, condivisibili (e non dico che questo articolo ne contenga), rischiano di generare una controproducente spirale di polemiche in cui ci si allontana sempre di più dal tema, cioè il progetto realizzato. Ma nel pieno rispetto delle professionalità coinvolte, dagli amministratori ai tecnici, le scelte progettuali sono (devono) essere oggetto di discussione e di critica quando coinvolgono la sfera pubblica ed in particolare quando intervengono nel delicato tessuto della città storica.

Detto ciò credo sia doveroso, non so se altrettanto opportuno, inaugurare un dibattito sulla sistemazione di Piazza della Repubblica di Mazara del Vallo. Principale spazio urbano della città, di forma pseudorettangolare i cui vertici si aprono in altrettante strade, la piazza è definita (direi consacrata) per tre lati da edifici religiosi. Il fianco muscolare della cattedrale normanna rimodellata nel seicento, la sobria facciata del palazzo vescovile, già edificio baronale chiaramontano, ed il doppio loggiato del seminario dei chierici, opera settecentesca del celebre architetto G.B. Amico, convivono con l'arrogante ex-palazzo di città, che ha volgarmente sostituto negli anni '70 del secolo scorso un edificio modesto ma decisamente più raffinato. In questo spazio convergono, come spesso avviene nei paesi di Sicilia,

l'anima civile e religiosa della città: luogo dove, nella durevolezza delle forme pietrificate dell'architettura, si inscenano equilibri sociali, politici, religiosi, economici, in una sintesi monumentale che è manifesto di identità storica e culturale, depositaria di storia e valori condivisi dalla comunità, e dunque spazio vivo e vitale nel presente. Ancora, una piazza la cui armonia spaziale, come nelle migliori piazze d'Italia, deriva da una (in)visibile maglia di relazioni e di principi ordinatori, pensata e progettata tra gli edifici che la definiscono, non ancora del tutto indagata e divulgata da s t u d i specialistici. Una maglia di relazioni che si scioglie agli occhi degli studiosi in allineamenti, proporzioni, corrispondenze, modularità, assialità, e che si risolve agli occhi di tutti, abbandonato il metro e la squadra, nella percezione di un risultato di bellezza, di ordine, di armonia che con il caso nulla ha a che vedere. Pertanto confrontarsi con uno spazio così complesso e simbolico dovrebbe, a tecnici ed amministratori consapevoli della storia e della cultura, fare tremare le vene ai polsi per la grande sfida che esso rappresenta, così da chiedersi, prima di tentare avventurosi esperimenti, quale sia la strada migliore per ottenere il miglior risultato. Ed in assenza di un Giulio II della Rovere e di un Michelangelo a servizio, il miglior risultato si sarebbe potuto ottenere aprendo il ventaglio di un concorso di idee riservato ai professionisti. Un concorso di idee che prevedesse una fase partecipativa degli abitanti, ed il cui vincitore fosse designato da una giuria preparata (imparziale, formata da storici della città, progettisti, artisti). Peccato che sia ormai tardi. Piazza della Repubblica è ormai un'altra, l'ennesima, occasione perduta di una città che riflettendo su sé stessa si compiace di allori ormai seccati, e si comporta da provinciale nell'illusione di rinverdirli senza sforzo. Piazza della Repubblica meritava un ripensamento. Ma un ripensamento molto più profondo del sommario, incauto, grossolano lifting cui è stata sottoposta. Un ripensamento che ne indagasse il disegno, che rinnovasse nel rispetto della storia i valori che in essa si

manifestano modellandoli nel segno del presente, che ne interpretasse il ruolo di contenitore simbolico (spirituale, civile, urbano). Peccato. Sacrificata per anni al benessere collettivo dell'automobile, monumentale parcheggio scoperto, la piazza è stata infine oggetto di un intervento volto alla sua pedonalizzazione. La somma degli interventi precedenti e di quello attuale, purtroppo, segna a mio avviso un irrimediabile segno negativo. Vediamo perché. La pallida pavimentazione, tormentata da una frettolosa bocciardatura ad esorcizzarne la cronica scivolosità (specie dopo un velo di pioggia), è risultata troppo delicata ed è screziata da imperfezioni e procinti di rottura. Distesa senza disegno (ma poteva anche essere un bene), non conserva neanche il valore dell'uniformità, chiazzata com'è da macchie e tombini. La nuova illuminazione scenografica mostra evidenti incongruenze nel rapportarsi con i prospetti, realizzata con pezzi sporgenti inadatti fino alla pericolosità per uno spazio pedonale, tanto da dover essere “mascherati” e protetti da ingombranti fioriere; d'altra parte il rapporto con l'illuminazione pre-esistente è confuso e conflittuale. Discutibile poi la soluzione adottata per lo spazio circostante la statua di S. Vito del Marabitti: protetta da una ringhiera e da un aiuola fiorita prima, è stata riavvicinata ai devoti eliminando ogni barriera dissuasiva, coronata da quattro alte palme (poi morte e sostituite, con una strana equivalenza, da due piccoli ficus), e posta alla mercé di piccoli atti di adolescente vandalismo (in attesa che diventino più maturi gli atti di vandalismo o gli adolescenti?). Ancora sfugge la logica formale, irrispettosa dei valori monumentali, estetici e di fruizione, che schiera funeree fioriere in acciaio zincato simil-ghisa in

corrispondenza di ogni piedritto del portico loggiato del seminario (il progetto originario prevedeva fossero piazzate addirittura davanti ad ogni arco), già pesantemente segnato da questo metallo industriale, totalmente estraneo al contesto, nella realizzazione dei pluviali in un recente restauro. Semplicistica la disposizione delle panchine, indifferenti nell'anonimo disegno di serie. Timida, infine, e non adeguatamente supportata da una strategia di smaltimento del traffico veicolare e di parcheggio, la delimitazione dell'area pedonale: un più coraggioso e radicale intervento avrebbe almeno coinvolto la vicina piazza Plebiscito, altro grande nodo irrisolto della valorizzazione del centro storico (valorizzazione sempre spesa a parole e mai con i fatti di una seria e preparata politica: strategie, non proclami). Dove sono finite le corrispondenze, gli allineamenti, le proporzioni, il senso della misura, che sono il segreto invisibile ma percepito dell'armonia di questa piazza? Spezzate, almeno agli occhi di chi le avverte, per fortuna non irrimediabilmente, da interventi superflui ed inadatti che stonano nel dialogo silenzioso e potente che gli edifici compongono, che ad esso rimangono estranei,. Ma, dopotutto si tratta di interventi leggeri, precari, cui speriamo, si riconosca il valore del transitorio (come transitori sono i soldi occorsi per realizzarlo), in attesa di risorse, anche culturali, più adeguate: mi riferisco ad un misero (in termini economici costerebbe pochissimo) convegno di studi sullo spazio della piazza (tema pure già diversamente affrontato da numerosi autori), che in modo unitario socchiuda i pericolosi vuoti della conoscenza e della coscienza, a non offrire più, come alibi e riparo, varchi nella Storia e nella memoria collettiva.


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Finalmente l’Africa! Viaggio attraverso le strutture sanitarie di Ouagadougou in Burkina Faso: l’Università Cattolica "S. Tommaso D’Aquino" di Giuseppe Fabrizi Non ero mai stato in Africa. Ne avevo letto, l'avevo vista attraverso la Tv, ne avevo sentito parlare, chi c'era stato mi aveva spesso raccontato del mal d'Africa, ma…non avevo mai respirato l'Africa. E adesso…finalmente l'Africa! Guardando attraverso l'oblò, man mano che l'aereo discendeva sul continente nero, un paesaggio brullo, immerso in una terra arida, rossastra, con qua e là qualche piccolissima macchia di verde, a testimonianza della presenza, anche se sofferente, di una esile vegetazione, mi veniva incontro. Niente palazzi, soltanto piccolissime case, mono o bilocali, in ordine sparso, costruite con terra argillosa pressata, e pertanto quasi mimetizzate in questo immenso deserto! Scendendo dalla scaletta respiro profondamente l'aria polverosa e insopportabilmente calda proveniente dal deserto, chiudo gli occhi e penso a tutte le cose che debbo fare in cinque giorni. “Chissà se ce la farò” mi sto dicendo, quando mi appare il sorriso serafico e ormai familiare di S.E.R., Mons. Vito Rallo, che accoglie me ed il mio compagno di viaggio in un caldo e fraterno abbraccio di benvenuto! Arrivati in Nunziatura, dopo aver cenato, facciamo il programma delle giornate a seguire: 1° giorno Villaggio dell'artigianato locale, 2° giorno visita alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università Cattolica di Ouagadougou, 3° giorno visita all'Ospedale Paolo VI, 4° giorno visita ai pozzi, al museo delle maschere e al villaggio delle presunte streghe, ecc. Di buon mattino quindi, accompagnati da Mons. Firmino, segretario della Nunziatura Apostolica, ci rechiamo a visitare la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, intitolata a S.Tommaso d'Aquino. All'inizio in città le strade sono asfaltate e ben percorribili: l'atmosfera è vivace e variopinta, con numerose biciclette e vecchie moto che ci sfiorano nelle due direzioni e mi rendo conto di quanto sia bravo il nostro autista ad evitare passanti, bici e motocicli in questo traffico disordinatamente organizzato! Ai lati della via sono sparsi qua e là negozi ambulanti improvvisati, piuttosto precari, che espongono le loro mercanzie (frutta, bibite, pollami e qualche verdura!), sotto un sole cocente, che annerisce rapidamente soprattutto gli enormi cumuli di banane, poste in vendita su rudimentali carretti! Poi, pian piano, il paesaggio comincia a cambiare. Scompaiono le piccole case e le strade asfaltate per far posto a case rurali, ancora più povere e spartane, tantissime in costruzione e pertanto lasciate senza porte, senza finestre e senza tetto (per impedire a

chiunque di occuparle abusivamente, ci dice prontamente l'autista!), mentre appaiono i modesti villaggi di capanne, piccoli agglomerati di capanne dove convivono pochi gruppi familiari, governati per così dire da una figura carismatica che è il capo del villaggio, e le vie di comunicazione diventano strade sterrate, ricordano le nostre “trazzere” di campagna, con superfici stradali polverose, sconnesse e ricche di buche, più o meno profonde! Dopo circa trenta minuti arriviamo ad una ampia radura nella quale emergono dei fabbricati moderni ,di recente costruzione. Ecco siamo arrivati a destinazione! Ci accoglie il Preside della Facoltà di Medicina, il Professor Rambré Moumouni Ouiminga, titolare dell'insegnamento di Anatomia Chirurgica, in modo molto informale, con una camicia aperta su una canotta bianca, mentre io , in completo lino blu, con camicia e cravatta, comincio a sentirmi inadeguato in questo clima tropicale! L'accoglienza è molto calorosa, in tutti i sensi, e brevemente il Preside illustra orgogliosamente come funziona la Facoltà di Medicina, ci dice che attualmente sono giunti al 3° anno di Corso e che gli studenti iscritti sono soltanto cinquanta. E' proprio, penso tra me stesso, come la

Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università degli Studi del Molise a Campobasso, dove mi sono trasferito da qualche anno, provenendo dall'Università Cattolica di Roma! Osservando il programma degli studi noto che i corsi sono molto compattati e ne chiedo il motivo! E il Preside mi spiega, con un sorriso, che i docenti sono itineranti e non esclusivi di una facoltà, per ovvie ragioni economiche, e pertanto in una settimana il docente deve completare tutto il programma arrivando anche a fare 8-9 ore di lezioni al giorno! E scorrendo la lista dei docenti vedo un nome a me familiare,

quello di Jean Kossi Assimadi, mio compagno di studi a Roma, laureatosi con me alla Cattolica ed attualmente Professore di Pediatria e di Genetica a Lomè nel Togo, suo Paese natale, e anche ad Ouagadougou! Come è veramente piccolo il mondo e come imperscrutabili per noi uomini sono le vie terrene della Provvidenza!

Visitiamo quindi i laboratori di fisica e di biologia e successivamente quelli di istologia, dove ogni banco ha il suo microscopio per ciascuno studente. Mi faccio dare dei vetrini colorati da osservare al microscopio e quando comincio a toccare la rotella per scegliere il campo vengo colpito da una forte scarica elettrica, che per fortuna esce dal mio corpo attraversando la mano sinistra libera: evidentemente la messa a norma delle apparecchiature lascia molto a desiderare! Ci spostiamo quindi nella zona delle aule e arriviamo mentre gli studenti del 3° anno stanno uscendo nell'intervallo tra due lezioni di ematologia. L'aula è molto grande, arredata in modo essenziale, con una cattedra rettangolare ed una vecchia lavagna, abbastanza lunga, dove i docenti esprimono i loro contenuti soltanto con l'ausilio di un gessetto; quanto mi sono sembrate lontane le aule confortevoli e tecnologiche, con sistemi di foto e video proiezioni, degli Istituti Biologi dell'Università Cattolica di Roma e del

Policlinico Gemelli, dove ho ascoltato per anni i miei professori, da studente, e dove, successivamente ho insegnato ai miei studenti sino a pochi anni fa! Ed ho pensato agli sforzi immensi che invece fanno qui i docenti per farsi capire ed i ragazzi ad apprendere! Il Preside li fa rientrare in aula e i ragazzi aderiscono all'invito con entusiasmo, assieme al Docente, e naturalmente fatte le presentazioni, a causa della mia deformazione professionale, mi metto a parlare di dermatologia, della pelle come specchio dell'anima e come superficie riflettente i nostri sentimenti, le nostre gioie e le nostre sofferenze, e come la pelle costituisca in fondo il libro del nostra vita, dove, occhi attenti ed esperti, quali sono quelli di un bravo ed appassionato dermatologo, possono leggere le parole ed andare a volte dritto al cuore dei pazienti! I ragazzi mi guardavano estasiati, e perdonando il mio malfermo francese, dimostravano una notevole capacità di attenzione ed una grande voglia di sapere. Si era quindi puntualmente ripetuto il miracolo dell'insegnamento accademico, e cioè di quell'invisibile filo che lega il docente ai propri studenti e che si consolida sempre di più, e soprattutto, quando il docente, parlando, fissa lo sguardo dritto negli occhi dei propri allievi. E' stata quindi naturale, da parte mia, la promessa di ritornare a fine anno o agli inizi del prossimo per organizzare loro un corso completo di dermatologia! All'uscita ho notato la grande volontà di questi splendidi studenti, che, pur nelle difficoltà e non avendo molto a disposizione, riescono ad adattarsi:ed ecco quindi che l'ombra di un albero, il sagrato di una chiesa, gli spazi antistanti il college diventano uno spazio di aggregazione, una scrivania ed una sedia, dove leggere insieme, ed imparare e ripassare le materie, prima di andare a sostenere gli esami! Sono rientrato in Nunziatura fortemente scosso da questo mio primo approccio con la realtà universitaria del Burkina Faso ed ho capito che questi studenti e questi docenti in poche ore mi avevano insegnato molto di più di quanto io avrei potuto offrire loro durante un intero corso accademico. La dignità della persona e la fierezza dei loro sguardi o gesti,assieme ai loro comportamenti, intrisi di estrema attenzione e di massima educazione, rimarranno veramente sempre impressi dentro di me, in modo indelebile!


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AGOSTO 2009

L’arco

PAESAGGIO E RIMOZIONE DELLA MEMORIA STORICA DI MAZARA Due casi esemplari che possono ancora essere recuperati... di Giuseppe Pernice Ci sono in ciascuno di noi delle immagini che caratterizzano il luogo natale. Sono dei segni che, al di là dei cambiamenti naturali dovuti allo scorrere del tempo e alla necessità di modernizzazione, oltre che ai mutamenti climatici, ambientali e antropici, dovrebbero rimanere salvaguardati come “memoria storica” per differenziare un luogo da un altro. Con una felice definizione Antonietta Iolanda Lima nel 1984 la definì “la dimensione sacrale del paesaggio”, cioè quei segni che sono le caratteristiche fondamentali dell'ambiente e dell'architettura di una città. Se un mazarese ritornasse nella propria città dopo cinquanta anni di lontananza, quali segni e quali ricordi andrebbe a ricercare per potere “ricordare”? Ed esistono ancora questi “segni” capaci di fare ricordare il luogo natale? Molti dei “segni caratteristici” della nostra città sono oggi scomparsi o fortemente ridimensionati. Nel corso degli anni Mazara e i cittadini mazaresi hanno saputo sapientemente e incoscientemente rimuovere molti di questi segni, sostituendoli con altri, che, proprio perché recenti, non sono diventati e rischiano di non diventare “dimensione sacrale del paesaggio”. A salvarsi da questa

restauri effettuati che, anzi, accrescono il fascino della riscoperta. Intorno al 1150 ne ''Il libro di Ruggero'' lo scrittore e viaggiatore arabo Al-Idrisi così descriveva la nostra città: 'Mazara, città splendida, superba e veramente insuperabile per la posizione e il prestigio di cui gode, ha raggiunto il vertice in quanto all'eleganza della sua sistemazione urbanistica. Essa raccoglie in sé tanti pregi quanti nessun'altra: ha mura robuste e alte, case notevolmente graziose, arterie larghe, molte strade, mercati rigurgitanti di merci e prodotti vari, bagni sontuosi, vaste botteghe, oltre a orti e giardini con piante pregiate; a essa convengono viaggiatori da tutte le parti per approvvigionarsi dei suoi abbondanti prodotti. Il suo distretto è di considerevole estensione e comprende prosperi casali e masserie. Lungo le sue mura scorre il Mazara nel quale sostano le navi per fare il carico e svernano le barche''. Quali di questi segni sono oggi ancora presenti? E quali invece non esistono più? Sicuramente quello che è stato più

distruzione sistematica della memoria sono state solamente le chiese cittadine, che hanno mantenuto, pur nei restauri attuati nel corso degli ultimi anni, e specialmente dopo il terremoto del giugno 1981, i tratti fondamentali della originaria connotazione. La Cattedrale, San Nicolò Regale, Madonna dell'Alto, S. Francesco, Santa Caterina… mantengono intatta la loro superba memoria storica anche di fronte ai

distrutto è il verde cittadino. Mazara era ancora, sino a circa cinquanta anni fa, una città ricca di verde: nel centro cittadino le strade principali erano quasi tutte alberate e due ampi giardini pubblici erano a disposizione dei cittadini e soprattutto dei bambini: Villa Iolanda e Villa Garibaldi. Oggi Mazara non può assolutamente essere considerata una “garden city”. Le strade alberate non esistono più e le due

ville, nate alle fine dell'ottocento dalla demolizione delle mura e del Castello Normanno, sono ridotte a ruderi cementificati con qualche albero che tenta disperatamente di sopravvivere. Non esistono aiuole o fiori, e nemmeno verde pitturato, staccionate in legno: tutto marmo e cemento. Nella nostra città sistemare una strada, un lungomare, una piazza significa eliminare il verde e sostituirlo con il cemento o con il marmo. Un mausoleo di rimozione della memoria storica della città. Negli anni cinquanta molte vie del centro storico erano alberate con l'ailanto (in dialetto marcabbollo), una pianta d'alto fusto della famiglia delle Simarubacee (Ailanthus altissima), di cui ricordiamo le foglie di odore sgradevole, e i fiori giallastri riuniti in pannocchie. L'ailanto, detto anche Albero del Paradiso si ritrova ora soltanto al Lungomare Mazzini. Come pianta altamente infestante si ritrova, poi, anche in tanti spazi privati abbandonati. Perché non recuperare questo albero per il verde cittadino? L'altro grande esempio di rimozione della memoria che voglio ricordare riguarda il Lungomazaro, a partire dalla Piazzetta dello Scalo, sino al Ponte sul Mazaro. La rimozione parte innanzitutto dall'aspetto del fiume, sporco, inquinato, maleodorante, così diverso da quello degli anni

cinquanta, quando era ancora possibile pescare l'anguilla e il muletto, e culmina con il mercato del pesce nella sua nuova asettica architettura. Nella piazzetta si sono perduti i colori e l'odore del pesce appena pescato, e predomina una confusione selvaggia di macchine e mercatino di frutta e verdura. Si continua sconsolati a passeggiare sul molo del fiume per arrivare sotto i due ponti, anonimi e sconsolati, con la malinconica immagine dei magazzini abbandonati e scrostati. Si parla tanto di pesca turismo, ma intanto deve rivitalizzarsi questa parte del territorio mazarese con il risanamento del fiume Mazaro e il recupero architettonico dei vecchi magazzini sul molo, così come già e avvenuto sull'argine destro al di là dei ponti. Sono solo due esempi che permetterebbero ad un ipotetico viaggiatore nel tempo di recuperare qualcosa della “dimensione sacrale del paesaggio” di Mazara del Vallo.

L’arco ANNO XXII n. 2 AGOSTO 2009 Periodico dell’Associazione Culturale “L’Arco”

Fondatore Giuseppe Fabrizi Direttore Responsabile Onorato Bucci Comitato di redazione Onorato Bucci - Giuseppe Fabrizi Pietro Foraci - Enzo Gancitano - Nino Gancitano Michele Norrito - Giuseppe Pernice Tonino Salvo Redazione Via G. Toniolo, 3 - 91026 Mazara del Vallo Registrazione Tribunale di Marsala n.86-5/89 del 2/3/1989 Finito di stampare presso: Rallo s.r.l. Mazara del Vallo


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