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L’arco

OTTOBRE 2010

ANNO XXIII n. 3

PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE CULTURALE “L’ARCO” - MAZARA DEL VALLO - Reg. Trib. Marsala n. 86-5/89 del 2/3/1989 - Distribuzione gratuita

Editoriale

… E IL CUORE SA QUELLO CHE LE PAROLE NON POSSONO DIRE …

INAUGURATO IN BURKINA FASO UN MODERNO CENTRO MEDICO DI PEDIATRIA di Gieffe

di Giuseppe Fabrizi Te ne sei andato in silenzio, quasi in punta di piedi, con garbo e con discrezione come sempre hai fatto nella tua vita! Hai avvolto di riserbo e di pudicizia il tuo essere malato e lo hai coperto con un sorriso, quasi nel timore che “i tuoi bambini” potessero intravedere o leggere in te una particolare ansia o una, sia pur minima, preoccupazione. Hai fatto tante cose belle in Romania, a Bucarest e a Singureni, in questi ultimi anni, principalmente donando a dei bambini, malati di AIDS e a te sconosciuti, un semplice sorriso o una stretta di mano. Ti sei fatto giullare con loro per strappare un momento di gioia condivisa. Il tuo impegno sociale, la tua totale dedizione alla solidarietà verso l'infanzia ti ha portato la visita e la vicinanza di tanti personaggi importanti: tra essi, tra i tanti, nel mondo dell'arte (Sting), della moda (Moschino), dell'industria (Barilla), e della politica ( tanti!). Due Capi di Stato, Costantinescu per la Romania e Oscar Luigi Scalfaro per l'Italia ti hanno reso omaggio, constatando “de visu” la realtà concreta del tuo impegno, con la costruzione a Bucarest, presso l'Ospedale Victor Babes di un moderno padiglione per l'AIDS pediatrico, e con la realizzazione a Singureni, a 30 km dalla capitale rumena, di un villaggio con numerose casette di legno dove i bambini che già stavano meglio potevano correre, giocare, studiare in una scuola e pregare in una chiesa. Ho sempre ammirato la tua incredibile forza di volontà e mi sono sempre avvicinato a Te con grande rispetto per i tuoi valori (la profondità di pensiero e la tua, nella grandezza d'animo, disarmante semplicità!) e con grande amicizia. Hai anche sublimato il tuo affetto profondo verso questi poveri bambini, orfani e malati di AIDS, nel modo più eroico, ma per te anche più spontaneo, adottando ed amando Andreia, la tua prediletta figlia adottiva, fino alla sua prematura scomparsa, come se fosse stata una tua vera figlia. Ma forse per te ha rappresentato molto di più. Infatti per essa hai lottato come un leone contro i pregiudizi della gente comune prima in Romania e poi a Roma, dove l'hai sempre difesa da tutto e da tutti, corazzandola con il tuo affetto. La Provvidenza ha voluto che ci incontrassimo e che per più di dieci anni vivessimo insieme una forte esperienza di solidarietà, fatta di tanti momenti emozionanti e di molti eventi straordinari, vissuti però sempre con assoluta normalità. I ricordi sono innumerevoli, ma rimarranno per sempre dentro il cuore. Senza di te, caro Mino, siamo diventati tutti più poveri. Il rimpianto per la tua assenza definitiva è enorme e la tristezza del distacco è infinita. Ci rincontreremo ancora e percorreremo insieme, come due vecchi amici, i viali dell'eternità. E già ti immagino in cielo tu, Angelo custode, circondato da tanti bambini soli, perché orfani, ed indifesi, perché malati, ma allegri e festanti come ieri, perchè contagiati dal tuo sorriso. Ciao Mino! Ci mancherai tanto piccolo…grande Uomo!

Mino Damato nel parco giochi dell'Ospedale Victor Babes di Bucarest

Il 3 luglio 2010 è stata una data importante per l'Ospedale Paolo VI di Ouagadougou! Infatti alla presenza delle più alte Autorità religiose, civili e militari e accompagnati dai canti della corale burkinabè, è stato inaugurato il nuovo reparto di pediatria, dotato di moderne sale per personale medico e paramedico e di 8 letti di degenza, dove i piccoli possono essere ricoverati, assieme alle mamme, per ricevere le cure di cui hanno bisogno! La nuova struttura é stata intitolata alla Sig.ra Antonietta Contu Deroma, madre di un affermato professionista della Capitale, l'avv. Pino Deroma, che nel volgere di poco tempo ha raccolto, facendo suo il nostro progetto e inviando numerose lettere ai suoi amici romani e non, la somma necessaria per costruire ex-novo l'immobile e per arredarlo attrezzature medicali e con le apparecchiature mediche indispensabili per cominciare a funzionare. Dopo i discorsi di rito da parte del Direttore Amministrativo dell'ospedale e del Sindaco di Ouagadougou ha preso la parola il Prof. Fabrizi, presidente di Arcobaleno onlus di Mazara del Vallo. Egli ha manifestato la propria soddisfazione per aver mantenuto l'impegno, assunto in una precedente visita, di dotare l'ospedale di un moderno padiglione pediatrico ed ha pubblicamente ringraziato gli innumerevoli sostenitori che da ogni parte d'Italia hanno sostenuto l'Arco-baleno onlus e l'avv. Deroma nella realizzazione di tale progetto . E la soddisfazione più grande è stata quella di vedere il logo della onlus impresso sulle targhe poste sulla facciata del centro pediatrico a memoria perenne del progetto, andato a buon fine. Dopo un breve intervento dell'Arcivescovo di Ouagadougou, S.E. Mons. Philippe Ouedraogo,ha tenuto il discorso finale S.E.R. Mons. Vito Rallo, Nunzio Apostolico in Burkina

Faso e Niger, che successivamente ha benedetto tutta la struttura e si è compiaciuto con la nostra onlus per il raggiungimento di tale traguardo. Ricordo ai nostri lettori che la Arco-baleno onlus esplica le sue attività o i suoi interventi in Burkina Faso in tre direzioni: nel campo della salute, con la costruzione di presidi sanitari e strutture mediche; nel settore dell'acqua,con la perforazione e la costruzione di pozzi di acqua potabile in zone o villaggi che ne sono per ora esclusi; e infine nella scuola, settore nel quale è già partito il progetto Pro.me. s.so, che contempla l'adozione di studenti universitari bisognosi, che possono così essere sostenuti con una somma non gravosa (500 euro per ogni anno scolastico!) nel loro percorso scolastico, sino alla laurea in Medicina e Chirurgia, in Giurisprudenza e in Economia e Scienza delle Finanze. E' solo così, cioè preparando in loco e al meglio le future classi dirigente del Paese, che si può incidere, secondo noi, a migliorare più rapidamente le condizioni socioeconomiche di paesi poveri come il Burkina Faso e il Niger!


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(SEGUITO DAL NUMERO PRECEDENTE)

ALLE ORIGINI DELL’ASSOCIAZIONE VOCATA “MAFIA” 1. Il dato precisato da Giuseppe Giarrizzo di un legame storico fra mafia e camorra appare comunque incomprensibile scientificamente per la pretesa origine storica della prima come immissione della seconda nel tessuto siciliano. Che i due organismi abbiano potuto avere contatti e connessioni nel corso della loro storia è più che legittimo supporre ma è tutto inattendibile supporre che la mafia abbia avuto origine dalla camorra (G. Giarrizio alla voce Mafia, in EI, pp. 1979-1992, V., pp. 277281 e ibidem, p. 278). Dire come fa Giarrizzo, che “è provata la discendenza diretta del mafioso come tipo dal tipo del camorrista: prima che i termini mafioso/mafia divenissero correnti (dalla metà degli anni Sessanta dell'Ottocento), le fonti ufficiali e quelle letterarie chiamano camorrista proprio il tipo che presto sarà detto mafiusu” – a parte l'incomprensibile distinzione sul piano scientifico fra “fonti ufficiali” e “fonti letterarie” (davvero incomprensibile per uno studioso di razza quale il Giarrizzo) – lo studioso contraddice se stesso dal momento che poco dopo riporta la ben nota lettera del 3 agosto 1888 del Procuratore Generale di Trapani P. Calà Ulloa al ministro Parisi cui si è fatto cenno precedentemente. Dire poi che il mafiusu protagonista de "Li Mafiusu di la Vicaria" di G. Rizzotto è camorrista solo perché l'oggetto del dramma messo in scena a Palermo ha più di un elemento in comune con "La Camorra" di M. Monnier del 1862, è storicamente ingiustificabile. Il Giarrizzo è così convinto che il mafioso sia la copia del camorrista in terra siciliana che arriva perfino a dire che “al guappo-paladino rinvia il colorito ritratto del mafioso siciliano disegnato nel 1886 da G. Pitrè” (ibidem, cit.), tanto da far proprio l'opinione di G. Mosca (Che cos'è la mafia, in Giornale degli Economisti, s. 28, 11, 1901, pp. 236-262) che distingue la mafia come associazione per delinquere [“non uno speciale sodalizio, ma il complesso di tante piccole associazioni che propongono scopi vari, i quali però quasi sempre sono tali da fare rasentare ai membri dell'associazione stessa il codice penale e qualche volta sono veramente delittuosi”] dalla mafiosità come «spirito di mafia» [che, precisa Giarrizzo, ibidem, p. 278, è “una particolare maniera di sentire caratterizzata dall'onore – rispetto e pretesa di rispetto per l'onorata società e per il picciotto onorato – e dall'omertà, che è il rifiuto di denunciare e di affidare alla forza legale del pubblico ragioni o atti privati di violenza e di offesa”] che si concretizza poi, come sottolinea sempre Mosca, in “quella regola, secondo la quale è atto disonorevole dare informazioni alla giustizia in quei reati che l'opinione mafiosa crede che si debbano liquidare fra la parte che ha offeso e

quella offesa” (in G. Giarrizzo, Mafia, cit., p. 278). L'identità fra camorra e mafia è evidente, dice Giarrizzo, nel momento della detenzione carceraria: “il carcere è lo spazio in cui il modello associativo si struttura e si diffonde, mentre per la definizione e diffusione dell'ideologia dell'onore mafioso, dell'omertà, dello «spirito di mafia» un ruolo decisivo hanno i processi, dove non solo la difesa assume un'immagine forte del modello, ma ancora più il criminale interiorizza i valori reclamizzati e si identifica negli aspetti del modello sulla cui riconosciuta positività la cultura alta legittima i comportamenti e i valori della cultura plebea” (ibidem, cit.). Il sociologo ha preso la mano allo storico e il risultato è il trionfo dell'emotività sulla realtà dei fatti giuridici. Si ha il sospetto che da parte di Giarrizzo (come da parte dell'altro buon studioso del fenomeno mafioso, Salvatore Lupo) si voglia far passare l'idea che il termine mafia abbia un valore così variegato (Lupo parla espressamente di “termine polisemico” riferito a fenomenologie discordanti e spesso lontane l'una dall'altra nel tempo e nello spazio) tale da poter parlare di “mafia alta dai guanti gialli”, distinta da quella (anzi ne è il presupposto!) della mafia popolare, dei contadini e degli zolfatai se non della mafia composta da facinorosi della classe media. Ebbene, a unificare (nel senso a mettere ordine) le varie partizioni della mafia sarebbe stata di volta in volta la camorra o la massoneria. E qui è l'errore, e non lieve: perché questa scelta metodologica lascia insoluta l'analisi delle origini della mafia (plebea, borghese,alta) che sembra non interessi né al Giarrizzo né tanto meno a Salvatore Lupo che studiano il problema mafioso solo e nei limiti in cui questo diventa sociologicamente rilevante per l'opinione pubblica (in armonia peraltro con la radice comtiana della ricerca scientifica sociologica da cui in fondo sia Giarrizzo che Lupo si muovono). Dunque, la massoneria o la camorra non come fonte e base del fenomeno mafioso, certo, ma la massoneria o la camorra come criterio di indagine scientifica del mafioso, e quindi come criterio di lettura dei fatti e atti di mafia, questa è la scelta metodologica compiuta dal Giarrizzo e da Lupo (e, dunque, di tutta la storiografia sul fatto mafioso che vede in Lupo e Giarrizzo i propri capiscuola). Di qui la scelta della storiografia corrente di partire per l'analisi

del sistema mafioso dall'unificazione della Penisola e quindi dall'annessione dell'Isola al nuovo Stato italiano. È da quel momento che il dato massonico e il dato camorristico qualificherebbero il dato mafioso. Per quanto riguarda i rapporti fra la camorra e la mafia innanzi e dopo l'Unità della Penisola abbiamo già detto. Per quanto concerne i rapporti fra massoneria e sistema mafioso va precisato che la massoneria come organismo autonomo si diffonde in Sicilia dopo e non prima il movimento risorgimentale che portò all'annessione dell'Isola allo Stato italiano. Se non in quell'occasione, certamente per quell'occasione sorse e si diffuse ampiamente la Carboneria che è un movimento essenzialmente francoitaliano e che si diffuse principalmente nell'Italia meridionale al tempo dei Borboni. Non c'è dubbio che – anche attraverso l'opera assillante e feconda di Lord Bentick – i Carbonari divennero massoni ma non sorsero come massoni. Soprattutto il clero meridionale, e quello siciliano con quest'ultimo, si lasciò non poco affascinare dalla Carboneria cui aderirono non pochi sacerdoti e Vescovi. Quanto tutto questo influisse sullo sviluppo del sistema mafioso non è facile dirlo, e Lemmi, lo studioso che meglio ha studiato il sistema della Carboneria [F. Lemmi, Le società segrete nella Sicilia e l'autodifesa dell'abate Luigi Odolo, Palermo, 1920] non ne fa cenno alcuno. E questo conferma ancora una volta che la mafia nasce plebea e resta plebea per tutta la sua storia, dal XIII secolo ad oggi. Con questo bagaglio storico si giunse all'Unità d'Italia. Quanto accaduto a Bronte e l'attenta vigilanza degli inglesi di Sicilia portarono alla Commissione straordinaria di indagine sulla Mafia (l'Antimafia, ha una sua lunga storia e nasce subito dopo l'Unità del Paese!) del 1875, e poi alla Commissione G. Nicotera del 1877, a quella di F. Crispi del 1895. Il risultato fu quello di creare controlli in ogni centro urbano attraverso le Stazioni dell'Arma dei Carabinieri che vigilassero sull'ordine pubblico ma non si fece nulla per capire le ragioni storiche, sociali ed economiche della fratellanza mafiosa. E si giunse così al primo vero processo di mafia, quello contro la Fratellanza (meglio chiamata Mano Fraterna) di Girgenti che si ebbe fra il 1882 e il 1885, che non insegnò nulla alla classe dirigente della Penisola che si era insediata nell'isola se non che dovevano essere usate le maniere forti di uno Stato hegeliano che in nome del Volksrecht (lo spirito di popolo) imponeva la sua legge e la sua storia e che non ammetteva che oltre all'Ordinamento dello Stato potessero sussistere altri Ordinamenti giuridici.

di Onorato Bucci

Perché, che la Mafia, o meglio i singoli gruppi mafiosi fossero ritenuti veri e propri ordinamenti giuridici era chiaro a Luigi Pirandello che della Fratellanza Mafiosa dà un lucido esempio ne La lega disciolta, scritta nel 1912 [cfr. il testo in Novelle per un anno, Mondatori Editore, Milano, 1957, vol. II, pp. 324-332]: “là, nel fondaco di San Gerlando, amministrava lui, la giustizia, la soddisfazione morale che gli veniva dal rispetto, dall'amore, dalla gratitudine dei contadini che lo consideravano come il loro re, gli bastava. E tutti in pugno li teneva. L'esperienza gli aveva insegnato che, a raccoglierli apertamente in un fascio perché resistessero con giusta pretesa all'avarizia prepotente dei padroni, il fascio, con una scusa o con un'altra, sarebbe stato sciolto e i caporioni mandati a domicilio coatto. Con la bella giustizia che si amministrava in Sicilia! Non se ne fidavano neanche i Signori!” (ibidem, p. 327). E poi “Aveva un cartolaro, Bombolo, ch'era come un decimario di comune, dove, accanto a ogni nome erano segnati i beni e i luoghi e il novero delle bestie grosse e delle minute. Lo apriva, chiamava a consulto i più fidati, e stabiliva con essi quali tra i signori dovessero per quella settimana “pagar la tassa”, quali fra i contadini fossero più designati, o per pratica dei luoghi o per amicizia coi guardiani o perché d'animo più sicuro, al sequestro delle bestie. E raccomandava prudenza e discrezione”. I guardiani dello Stato hegeliano chiameranno qualche decennio dopo il pagar la tassa “pagare il pizzo”, ma il capomafiusu, Bombolo, la riteneva tassa e, semmai “pizzo” quello che lo Stato piemontese richiedeva ai signori e alla povera gente. Comunque, Luigi Pirandello ci descrive un ordinamento giuridico – mafia che così era ritenuto nella dottrina giuridica internazionale al punto tale che Bernard Windscheid (Dussendorf 20.6.1817, Lipsia 26.10. 1892) e Otto Gierke (11.1.1841 Stettin, 10.10.1921 Berlino), i due più esatti formulatori del Codice Civile Tedesco che il Bismarck emanò nel 1900, furono attenti studiosi dell'ordinamento giuridico mafia e ai gruppi mafiosi rivolsero attenzione dottrinaria fino a venire in Sicilia per studiare il fenomeno. Il Gierke, soprattutto anticipò la teoria istituzionalistica del diritto secondo la quale tutte le associazioni umane a cominciare dalla semplice “società” ed inclusi lo Stato e la Chiesa sono enti organici a sé stanti, con una propria volontà, con pensieri e con ambienti propri, che cioè non sono soltanto la somma delle persone membri. E tale è il gruppo e l'associazione vocata mafia. (segue)


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MA QUALI CROCIATE...!! Cerchi di essere sereno il Direttore de "L'Opinione" nei suoi giudizi sulle sorti della Chiesa, e, soprattutto, studi un po' più la storia del nostro passato cristiano: non sarà certo la cornice surreale delle notti brave dei preti "gay” descritta dal settimanale "Panorama" del 29 luglio scorso, né tanto meno la poco credibile leggenda della Papessa Giovanna (che persino Giosuè Carducci che non era tenero verso la pietas cristiana – e a dimostrarlo basterebbe il suo Inno a Satana – riteneva una grossolana invenzione dei facitori di contumelie contro la Chiesa romana) a far venir meno la “rispettabilità e l'onestà di una fede che non ha nulla a che fare con tutti questi scandali”, come si legge nell'editoriale de "L'Opinione" del 31 luglio di quest'anno. La cosiddetta "crisi della Chiesa e del Vaticano” (ahimè, in un raffronto astorico perché il Vaticano non è la Chiesa e certamente la Chiesa non può limitarsi al Vaticano perché di essa è una parte infinitesimale) è la crisi della società occidentale (quella che – abusando di canoni storiografici ormai desueti persino nella retorica – vogliamo far coincidere con la società civile) con la quale la chiesa si è troppo spessa confusa (nel senso proprio del linguaggio toscano delle nostre valli senesi, del cum-fondere, formare un tutt'uno) dimenticando le sue origini

giudaico-ellenistiche, cioè, in una parola, orientale. A dimostrarlo stanno proprio alcune notizie provenienti dal Belgio dove – a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, la società civile si è lacerata prima fra Valloni e Fiamminghi (fino a distruggere l'unità scientifica della gloriosa Università di Lovanio che si è divisa in due tronconi – Louvain l'antica, e Louvain la Neuve – che sono l'ombra entrambi, della superba tradizione di cui si è persa ormai ogni memoria) e poi è precipitata in un percorso di miserie umane dovute ad un consumismo sfrenato che ha distrutto i fondamenti dell'etica familiare e sociale fino a dimenticare le stesse radici che hanno dato vita al sorgere dei Lari e dei Penati delle membra della società umana. Ho il sospetto che si chiudono troppo spesso occhi ed orecchie dalla società civile (che si vuole campo di dominio di Satana) che si pretende essere salvata dalla società ecclesiastica (che si ritiene regno degli Angeli) e non si riflette, invece, che gli Angeli ribelli guidati da Lucifero e quelli invece consapevoli di essere guida dell'umana solidarietà lungo le linee di indirizzo di Michele, Raffaele e Gabriele, devono fare, sempre e comunque, i conti con la persona, singolarmente intesa, che si muove con il criterio del libero arbitrio e

dell'autodeterminazione. E il libero arbitrio e l'autodeterminazione implicano autoeducazione e responsabilizzazione degli atti compiuti, conseguenza del criterio di discernimento, che i Greci, e Paolo di Tarso con loro, chiamavano dianoia. E qui l'affettuoso invito a studiare un pò di più, tutti quanti. Ed allora non bisogna meravigliarsi se constatiamo che società civile e società religiosa hanno avuto nel passato momenti ben più garvi e pericolosi di quelli attuali e – di fronte a certi periodi di epoche precedenti – non siamo proprio alla caduta della società cristiana. E tutto questo senza entrare nella questione – limpida per un cristiano - che i momenti tristi della nostra vita altro non sono che il prodotto e il frutto del peccato e che quest'ultimo – quando si realizza – deve dar luogo ad un profondo esame di coscienza da cui deve nascere il dolore per le azioni compiute e il proponimen-

di Onorato Bucci

to di non commetterne più, pena la propria perdizione. Engels e Karl Marx, che altro non sono che la ricaduta ereticale della società cristiana (una delle mille ricadute ereticali cui ha dato vita la società cristiana) – chiamavano tutto questo insegnamento cristiano – facendolo proprio – “autocritica”. Facciamo tutti insieme una profonda autocritica, perché la crisi della Chiesa, come si paventa è la crisi della società civile, e della cultura occidentale, e cioè la nostra crisi.

FA PIÙ RUMORE UN ALBERO CHE CADE… CHE UN BOSCO CHE CRESCE! di Giuseppe Fabrizi

Vorrei tornare un attimo sui presunti peccati della Chiesa. E' ormai da anni che assistiamo ad una tempesta mediatica sugli abusi perpetrati da sacerdoti su minori, anche all'interno di strutture ecclesiastiche! Sgombro subito il campo da ogni equivoco dicendo che questi sono crimini orrendi, perché violano la struttura fisica e psichica di esseri umani, più deboli e indifesi perché piccoli, e ancor più esecrabili perché compiuti da religiosi che proprio questi bambini dovrebbero educare e di essi dovrebbero prendersi cura! E' stata recentemente orchestrata anche una campagna mediatica, ad opera di un settimanale di caratura nazionale, su alcune tendenze omosessuali e su presunti festini gay da parte di alcuni sacerdoti italiani e stranieri. Per quanto concerne questo secondo argomento ci sembra che l'articolo a firma del nostro Direttore, Prof. Onorato Bucci, ci chiarisca come la causa di tutto sia la crisi profonda cui va incontro la nostra società civile, con l'appiattimento o l'annullamento di valori fondamentali come la scuola, l'educazione civica e la famiglia. Per quanto riguarda invece il problema della pedofilia, che è innegabilmente presente nel clero, ma per fortuna in percentuale quasi infinitesimale, ci sembra doveroso affermare che la stragrande maggioranza o meglio la quasi totalità dei sacerdoti svolge il proprio ministero pastorale, esercitando in prima persona la carità verso i fratelli più poveri, l'amore verso il prossimo e la cura degli infermi, testimoniando cioè in modo concreto sulla terra la Parola di Dio. Personalmente ho avuto la fortuna di incontrare e di conoscere un missionario che da circa 40 anni vive in Africa, in Burkina Faso, che come è noto è tra gli stati più poveri del mondo. Ebbene questo sacerdote, Fra' Vincenzo, un

missionario Camilliano, da sempre si prende cura degli ammalati di AIDS (ne ha in cura circa 1800!) ed ha costruito inoltre per altri poveri malati di lebbra un intero villaggio, con abitazioni di muratura per ciascuna famiglia di lebbrosi che medica personalmente e ai quali distribuisce sementi, alimenti e medicine; e infine si prende cura da sempre di circa 400 presunte streghe (sono donne burkinabè, costrette a scappare dai villaggi di provenienza, spesso a centinaia di Km di distanza, perché ingiustamente incolpate della morte naturale di qualche abitante della comunità stanziale!). Ebbene Frà Vincenzo è la testimonianza vivente della grandezza della Chiesa e l'esempio concreto della più alta professione di fede. E tanti, tanti numerosissimi altri Fra Vincenzo, sono sparsi nel mondo e da veri discepoli testimoniano con sacrifici personali ed umiltà la parola di Dio. Lasciamo quindi i nostri lettori liberi di fare qualunque riflessione e qualsiasi considerazione al riguardo, dopo aver letto e meditato sulle parole di questo “Fra Vincenzo”, missionario salesiano, che vive ed opera in Africa in Angola, al servizio dei propri fratelli e che, giustamente indignato per la campagna scandalistica contro la Chiesa, ha preso carta e penna scrivendo questa nobilissima lettera al New York Times. Da una attenta lettura ciascuno di noi potrà giungere alle proprie giuste considerazioni! LUANDA, maggio 2010 (ZENIT.org).- “Sono un semplice sacerdote cattolico. Mi sento felice e orgoglioso della mia vocazione. Vivo da vent'anni in Angola come missionario”. Inizia così una lettera che il missionario salesiano uruguayano Martín Lasarte ha inviato al New York Times senza ottenere risposta. Nel testo, spiega l'opera silenziosa a favore dei più sfortunati svolta dalla maggior parte dei sacerdoti della Chiesa cattolica, che però “non fa notizia”. Nella lettera, che ha girato a ZENIT, padre Lasarte esprime i suoi sentimenti di fronte all'ondata mediatica sollevata dagli abusi di alcuni sacerdoti, mentre sorprende lo scarso interesse che suscita nei media il lavoro quotidiano di migliaia e migliaia di presbiteri. “Mi provoca un grande dolore il fatto che persone che dovrebbero essere

segni dell'amore di Dio siano stati un pugnale nella vita di persone innocenti. Non ci sono parole che possano giustificare atti di questo tipo. La Chiesa non può che stare dalla parte dei deboli, dei più indifesi. Tutte le misure prese per la protezione della dignità dei bambini, quindi, saranno sempre una priorità assoluta”, afferma nella sua lettera. Ad ogni modo, aggiunge, “è curioso constatare quanto poco facciano notizia e il disinteresse per migliaia e migliaia di sacerdoti che si consumano per milioni di bambini, per gli adolescenti e i più sfortunati nei quattro angoli del mondo”. “Penso che al vostro mezzo informativo non interessi il fatto che io abbia dovuto trasportare su percorsi minati nel 2002 molti bambini denutriti da Cangumbe a Lwena (Angola), perché il Governo non si rendeva disponibile e le ONG non erano autorizzate; che abbia dovuto seppellire decine di piccole vittime tra gli sfollati della guerra e i ritornati; che abbiamo salvato la vita a migliaia di persone a Moxico con l'unico posto medico in 90.000 chilometri quadrati, o che abbia distribuito alimenti e sementi; o che in questi 10 anni abbiamo dato un'opportunità di istruzione e scuole a più di 110.000 bambini”, sottolinea. “Non interessa che con altri sacerdoti abbiamo dovuto far fronte alla crisi umanitaria di circa 15.000 persone negli alloggi della guerriglia, dopo la loro resa, perché gli alimenti del Governo e dell'ONU non arrivavano”, aggiunge. Il sacerdote cita poi una serie di azioni compiute da suoi compagni, spesso rischiando la vita, che vengono ignorate dai media. “Non fa notizia che un sacerdote di 75 anni, padre Roberto, di notte percorra le vie di Luanda curando i bambini di strada, portandoli in una casa di accoglienza perché si disintossichino dalla benzina, che alfabetizzi centinaia di detenuti; che altri sacerdoti, come padre Stefano, abbiano case in cui i bambini picchiati, maltrattati e violentati cercano un rifugio, e nemmeno che fr. Maiato, con i suoi 80 anni, vada casa per casa per confortare i malati e i disperati”. “Non fa notizia che più di 60.000 dei 400.000 sacerdoti e religiosi abbiano abbandonato la propria terra e la propria famiglia per servire i fratelli in lebbrosari, ospedali, campi di rifugiati, orfanotrofi per bambini accusati di stregoneria o orfani di genitori morti di Aids, in scuole per i più poveri, in centri di formazione professionale, in centri di assistenza ai sieropositivi... e

soprattutto in parrocchie e missioni, motivando la gente a vivere e amare”. “Non fa notizia che il mio amico padre Marcos Aurelio, per salvare alcuni giovani durante la guerra in Angola, li abbia portati da Kalulo a Dondo e tornando alla sua missione sia stato ucciso a colpi di mitragliatrice; che fr. Francisco e cinque catechiste siano morti in un incidente mentre andavano ad aiutare nelle zone rurali più sperdute; che decine di missionari in Angola siano morte per mancanza di assistenza sanitaria, per una semplice malaria; che altri siano saltati in aria a causa di una mina, mentre facevano visita alla loro gente – prosegue padre Lasarte –. Nel cimitero di Kalulo ci sono le tombe dei primi sacerdoti che giunsero nella regione... Nessuno aveva più di 40 anni”. “Non fa notizia accompagnare la vita di un sacerdote 'normale' nella sua quotidianità, nelle sue difficoltà e nelle sue gioie, mentre consuma senza rumore la sua vita a favore della comunità che serve”. “La verità è che non cerchiamo di fare notizia, ma semplicemente di portare la Buona Novella, quella notizia iniziata senza rumore la notte di Pasqua. Fa più rumore un albero che cade che un bosco che cresce”, sottolinea. “Non pretendo di fare un'apologia della Chiesa e dei sacerdoti – aggiunge padre Lasarte –. Il sacerdote non è né un eroe né un nevrotico. E' un semplice uomo, che con la sua umanità cerca di seguire Gesù e di servire i fratelli. Ci sono miserie, povertà e fragilità come in ogni essere umano; e anche bellezza e bontà come in ogni creatura...”. “Insistere in modo ossessivo e persecutorio su un tema perdendo la visione d'insieme crea davvero caricature offensive del sacerdozio cattolico in cui mi sento oltraggiato”, afferma. “Amico giornalista, le chiedo solo di cercare la Verità, il Bene e la Bellezza. Ciò la renderà nobile nella sua professione”, conclude.


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FINALMENTE MAZARA INTESTA UNA STRADA A PADRE MORELLO di Tonino Salvo*

Finalmente un vecchio desiderio di alcuni ex allievi del “G. G. Adria” (quasi un debito di riconoscenza verso il nostro Preside) si è avverato. La nuova strada che congiunge Via Castelvetrano con il Lungomare San Vito è stata intitolata a Gaspare Morello, sacerdote–educatore, a seguito della determinazione del Sindaco n. 177 del 06/07/2010. Ringrazio, anche a nome dei componenti del nostro comitato, la Dott.ssa Leonarda Bono ed il Prof. Danilo Di Maria per la Loro gentilezza e disponibilità ed inoltre tutto il Comitato per la Toponomastica; ringrazio altresì con particolare riguardo il Sig. Sindaco, l'On. Nicola Cristaldi, per la sensibilità dimostrata. Un doveroso ringraziamento a tutti i componenti del Comitato “pro Gaspare Morello”: Prof. Dr. Giuseppe Fabrizi, On. Ing. Giuseppe Pernice, Dott. Mario Caiazzo, Prof. Vito Ingrasciotta, Dr. Salvatore Enzo Gancitano, Dott. Pietro Foraci, Dr. Antonino Gancitano per la collaborazione ricevuta. Con un pizzico di orgoglio possiamo dire che: ”pochi ma determinati sono riusciti dove molti ma indifferenti non hanno mai raggiunto alcun risultato". *Coordinatore del Consiglio di Presidenza del Comitato “pro Gaspare Morello"

BREVE BIOGRAFIA DEL SAC. PROF. GASPARE MORELLO Gaspare Morello nasce a Mazara del Vallo il 21 Settembre 1891. Dopo aver conseguito la licenza della Scuola Media frequenta il Regio Liceo-Ginnasio di Trapani ed all'età di vent'anni entra nel Seminario Vescovile di Mazara e successivamente nel Seminario Arcivescovile di Palermo. Completa gli studi a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana laureandosi in Filosofia e Teologia, e viene ordinato sacerdote dal Vescovo di Mazara il 7 Ottobre 1915. Insegna nel Seminario di Mazara e ne diventa pro-rettore (1919-1921); contemporaneamente continua gli studi universitari presso l'Ateneo di Palermo e si laurea in Storia e Filosofia. Suo faro e maestro è stato Antonio Rosmini a cui si è sempre ispirato, come punto di riferimento, per affermare la dignità dell'uomo come soggetto titolare dei diritti naturali che ogni Nazione deve riconoscere e difendere. Condivide inoltre gli ideali di Don Luigi Sturzo, e quando quest'ultimo fonda il Partito Popolare Italiano nel 1919 lanciando l'ormai famoso appello: ”…a tutti gli uomini liberi e forti…” Padre Morello su invito dello stesso Sturzo diventa il primo segretario politico a Mazara; ciò principalmente in quanto abbraccia pienamente la concezione di Don Sturzo sulla laicità e l'eticità della politica, intesa semplicemente come servizio verso la comunità in cui si vive. In ciò si vede forte e presente il diverso modo di concepire il sacerdozio e cioè essenzialmente “essere apostolo nella scuola e nel sociale”. Il 2 Ottobre 1925 (dopo una precedente esperienza nell'Istituto Rosmini) fonda l'attuale

Liceo Classico, che poi prenderà il nome di Gian Giacomo Adria insieme al vecchio Ginnasio. Nel 1938 insegna Storia e Filosofia presso il Liceo Annibal Caro di Fermo, divenendone poi nel 1942 Preside. Nel 1943 a Fermo viene costituito Il Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale e Padre Morello, unico prete in tutta Italia, viene incaricato di dirigere tale organismo subendo anche il”carcere”. Nel 1947, trasferitosi a Roma, viene nominato ispettore ministeriale per gli istituti scolastici non statali e nel 1949-50 assume l'incarico di preside presso il Liceo Classico di Velletri. Nel 1951 ritorna nella sua Mazara, dai bei campanili, (come usava chiamarla) ed assume la presidenza del Liceo Classico “G.G. Adria”, la sua amata creatura, dove rimane sino al 1961. In questi ultimi dieci anni non si limita a svolgere il ruolo di preside del G. G. Adria ma promuove (esercitando le sue notevoli capacità organizzative) la costituzione del Liceo Scientifico, dell'Istituto Tecnico Industriale, dell'Istituto d'Arte. Sollevato dall'impegno di Preside, non dimentica mai di “educare” e fonda una sezione della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) che intitola a Vito D'Ondes Reggio. Non si limita però soltanto alla formazione sociale dei giovani studenti mazaresi ma si preoccupa anche degli operai, dei contadini e dei marinai mazaresi fondando il circolo”Fede e Lavoro” e la “Cooperativa del Mazzaro“. Istituisce anche un asilo per i figli dei pescatori italiani e tunisini ed un centro di assistenza socio-culturale per gli extra comunitari (all'epoca quasi sicuramente primo esempio di

CONSIGLI SUL… CONSIGLIO Non avrei mai pensato di dedicare un mio articolo al “consesso cittadino di Mazara Del Vallo”. Ormai lontani i momenti relativi della mia breve ma intensa esperienza nella pregressa legislatura, ruolo che penso di aver svolto con “scrupolo” e “coscienza” (così come recita l'articolo che viene letto al momento dell'insediamento). E quando qualcuno, dispiacendosi della mia non elezione, mi esortava ad un giudizio, declinavo ogni polemica con cenni speranzosi sui nostri rappresentanti del massimo consesso cittadino: “vedrai….saranno anch'essi dei buoni rappresentanti istituzionali. Ad un anno del nuovo volto politico, nelle discussioni con amici e conoscenti, l'unico incedere dialogico, colonna sonora della politica autoctona, sembra essere la voce unisona: “che vergogna!”…..“ma da chi siamo rappresentati?”….”ma come si esprimono?”. Bene. Al di là di giudizi scontati relativi ad un registro linguistico, quale quello di taluni consiglieri comunali, indecoroso e inidoneo (soggetti che sembrano aver scritto le sceneggiature dei film di Totò) non sono queste le situazioni che mi sorprendono più di tanto poichè a suscitare una certa perplessità nella mia persona è piuttosto, ascoltando le faziose critiche, un interrogativo che ritengo alquanto inquietante: “Ma questo consiglio comunale di Mazara Del Vallo, che desta sdegno, ma chi lo ha eletto?....i cittadini di Siracusa o quelli di Trieste?”. Il grande umanista Machiavelli sentenziava: “Ogni città ha l'Assise che si merita, ogni Assise è specchio riflesso della città”. Dunque, i vari Brontolo insaziabili di critica distruttiva, si sono mai interrogati sul fatto che forse, fondamentalmente, noi siamo

quel quadro politico tanto bistrattato? Il grande presidente della Repubblica Luigi Einaudi quasi 60 anni fa sentenziava: “Noi siamo quello che votiamo” Ognuno si assuma le proprie responsabilità: quando per esempio qualche candidato dignitoso (e ve ne erano molti) chiedeva con molta umiltà il consenso e si rispondeva che la presenza del cugino o dell'amico condizionava la loro scelta elettorale; quando per esempio qualche candidato dignitoso chiedeva con molta umiltà il consenso e si rispondeva che la propria scelta elettorale era stata seriamente compromessa dal datore di lavoro che obbligava non solo al voto personale “condizionato” ma altresì al reclutamento di altri consensi vicini alla propria persona; quando per esempio qualche candidato dignitoso chiedeva con molta umiltà il consenso e qualche altra persona rispondeva: “mi dispiace davvero tanto non poterle riconoscere il mio tributo di stima ma sa…a mio marito l'impresario sta pagando le cambiali scadute ed è con la morte nel cuore che devo darle il mio diniego”. Credo che ormai da tempo si sia registrata l'inesorabile fine del voto di opinione…si di quel voto che esprimeva tali sentimenti: “mi piace questa persona, mi piace la sua dialettica, il modo serio di porsi…mi può ben rappresentare, il mio consenso è suo!” ed ha messo insulse radici un altro tipo di voto che non oso nemmeno commentare…poiché si commenta da sé. E tutto ciò, al di là di persone credibili e affidabili, che comunque sono pure presenti nel nostro parlamento cittadino, ha partorito realtà politiche locali che i molti contestano, si quei molti che paradossalmente, a causa della pseudo

convivenza civile). Presiede l'ONARMO e la POA; ripristina il centenario Festino di San Vito. Il 30 Settembre 1961 quando lasciò, per limiti d'età, la scuola militante ma non l'impegno e l'amore per la sua città natale i colleghi e gli alunni in un'ultima riunione nel suo liceo gli resero con le parole di un altro preside, il Prof.Vito Salvo, questa testimonianza: “….nella n o b i l e f a t i c a dell'insegnamento profuse la luce del suo pensiero ed il calore della sua umanità,nella speranza che il messaggio della Scuola fosse guida nelle lotte dell'esistenza……… ……operò con fede nell'interesse della cultura, suprema esperienza di vita che dissolve gli egoismi ed avvicina cristianamente le genti.” Rende l'anima a Dio alle ore 20 del 14 Gennaio 1980 ed il Vescovo Mons. Costantino Trapani nel rendergli omaggio, tra l'altro, così dice:…”Mazara perde in Padre Morello una delle figure più mirabili, uno dei figli più prestigiosi, un vero maestro, educatore e plasmatore di coscienze…” Alcuni anni dopo (1991) alcuni suoi ex allievi, principalmente il Dott. Mario Caiazzo ed anche il sottoscritto

presidenti pro-tempore rispettivamente del Collegium Adrianum e del Centro Internazionale di Studi e Ricerche ”Gaspare Morello”, fanno murare nel vecchio Liceo la seguente lapide commemorativa: "All'educatore e maestro Sac. Prof. Gaspare Morello - Che alla scuola ed a Mazara sua patria diletta - Donò l'impegno della mente e del cuore - E che in questo liceo classico - Da lui fondato e diretto - Ai giovani insegnò - Che vano è il sapere - Senza la fede negli ideali supremi - Di libertà e giustizia."

di Danilo Di Maria cultura di cui sopra, hanno contribuito ad eleggere. Aver votato per il proprio cugino o parente per consentire al soggetto in questione di far “bella figura” ha significato penalizzare quelle persone serie che avrebbero potuto davvero dare un contributo alla nostra città; tutto ciò favorendo l'inesorabile elezione di quei soggetti oggi criticati. Sia chiaro un convincimento personale: chi mi conosce sa che preferisco stringere la mano a chi l'ha lordata di calce ma è onesto piuttosto a chi l'ha pulita ma è disonesto, poiché ogni forma di lavoro risulta essere nobile, se svolto con dignità. Il riferimento ovvio è solo ed esclusivamente fatto all'adeguatezza dei ruoli istituzionali che si ricoprono. Occorrerebbe una maggiore consapevolezza dei propri limiti, una maggiore umiltà, una grande capacità di relazionarsi con l'altro nella piena coscienza di poter anche apprendere, ciò non vuol dire essere fragili o perdenti ma è indice di quella grande forza d'animo, di quel coraggio nel volere inseguire ciò che si ritiene migliore per la propria crescita culturale e spirituale, ciò a cui si pensa di somigliare di più e di conquistarlo perché si possa essere il più possibile completo nelle proprie virtù. Un uomo, una donna, più conoscono più sanno, e se più sanno più sono, e nel momento in cui sono scelgono, prendendo debita distanza da inquietanti compromessi e agendo secondo il criterio della saggezza e della

saputa consapevolezza. Assistiamo sempre più a un crescendo di “ignoranza armata”, e così di un'arroganza dell'ignoranza, che rappresenta un perfetto e devastante “cretinismo pratico.” Una società la nostra che premia la mediocrità e l'ignoranza e quanto più si è ignoranti tanto più si tende a essere arroganti per un meccanismo psicologico di difesa e di mascheramento della propria pochezza, e quanto più si è arroganti tanto meno ci si preoccupa di colmare la propria ignoranza. Così come sostenni qualche articolo fa, mi piacerebbe avere dei maestri in cui credere. Maestri saggi però, pervasi dall'intelligenza di colui che “sa di non sapere”. La nostra consolazione? Un asino puoi raccomandarlo quanto vuoi…non diventerà mai un cavallo….Anche se, in uno stato democratico come il nostro che ha, a suo tempo, sigillato la sovranità popolare, ponendo alla ribalta, con strepitosi consensi, personaggi tanto chiaccherati, il silenzio, da parte di tutti, non è doveroso ma è d'obbligo.


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QUOD NON FECERUNT BARBARI, FECERUNT BARBERINI Questa frase coniata a Roma nel periodo Rinascimentale comparve intorno al 1630, come riportano le cronache dell'epoca, sulla statua di “Pasquino” per denunciare gli atti di spoliazione e gli scempi edilizi di cui alcuni membri della famiglia patrizia dei Barberini, all'ombra del potere temporale del Papa Urbano VIII (Maffeo Barberini) si erano resi responsabili. Col passare del tempo assunse il significato più generale di "distruzione", in senso lato, di quanto di buono esiste da diverso tempo. Volendo utilizzare questa frase, la si potrebbe adattare in certo qual modo allo scempio che si vorrebbe perpetrare nei riguardi del nostro lungomare.

davanti all'ingresso laterale della Cattedrale e guardando verso il mare si avrà inevitabilmente la sensazione di vedere il mare attraverso una finestra incorniciata dagli alberi. Non bisogna certamente addossare tutta la colpa di questo eventuale scempio che si vuole perpetrare a coloro che per interessi personali, politici, economici (non certo per regalarci qualcosa) propongono varie offerte quasi come se ci trovassimo al Supermercato. La responsabilità maggiore sarebbe da imputare ad alcuni mazaresi ed in particolare a chi si trova nella stanza dei”bottoni” che a finir bene per una errata interpretazione di voler a tutti i costi

E' un problema che, tra alti e bassi, si trascina da diversi anni; da quando alcuni mazaresi (amministratori e non) ed altri non mazaresi, o ancora mazaresi che hanno dimenticato di esserlo forse (ma non ne sono tanto sicuro) in considerazione degli anni trascorsi lontano da Mazara promuovono un'iniziativa che così come progettata porterebbe inevitabilmente alla distruzione del nostro Lungomare. "Giornale di Sicilia": 29/10/2004 pag 32—e— 23/06/2005 pag28; ambedue i progetti presentati prevedono la realizzazione di un porto turistico: 1) Porto turistico “Al Furat”dal piazzale Quinci sino all'altezza di via Valeria, con due bacini a semicerchio per 550 posti barca e più di trecento stalli per il parcheggio di auto al servizio del porto turistico; 2) Porto turistico ”San Vito di Mazara” dal piazzale Quinci sino alla chiesetta di San Vito a mare, con 900 posti barca e relativi parcheggi e servizi annessi (delfinario,spazi adibiti a verde ecc). Senza propendere per l'uno o per l'altro, in quanto entrambi deleteri, mi pare opportuno sottolineare che il secondo progetto (che si permette di sfruttare il nome del nostro Santo Patrono) rovinerebbe tra l'altro proprio la chiesetta dedicata al Santo che verrebbe a perdere il fascino del suo isolamento a pelo d'acqua sul mare sino al punto che quando vi è l'alta marea le onde sembrano lambirne le fondamenta e fanno sì che somigli ad una chiesa galleggiante. (Ma di ciò forse pochi si sono accorti). Da diecine d'anni Mazara si è sempre vantata con altre cittadine rivierasche, suscitandone l'invidia, di avere una “passeggiata a mare” in pratica al centro della città e totalmente fruibile da tutti noi (mazaresi distratti a tal punto da non saperne più apprezzare la bellezza) ed in modo particolare dai turisti che manifestano lo stupore e l'ammirazione definendola con diversi appellativi, dei quali forse il più bello è: “una finestra sul mare”. Ponendoci infatti

scopiazzare, male e senza discernimento, altre città (e mi auguro comunque non per altri scopi) si piegano a certe logiche politiche senza riflettere,senza avere la santa umiltà (merce ormai rara) di analizzare altre eventuali soluzioni possibili. Ho sentito dire assistendo alle trasmissioni televisive di qualche seduta del Consiglio Comunale che:”…..solo chi ha viaggiato come me…. .blà,blà,blà ecc”. Come se il fatto di aver viaggiato diventa una certezza di essere nel vero; tutti gli altri “poveretti” che hanno viaggiato poco o nulla sbagliano sicuramente. ”Protervia delle genti “! Continuando questo scontro caratterizzato principalmente dall'arroganza, dalla spregiudicatezza nell'agire, dal servilismo senza imbarazzo o reticenza si finirebbe per non avere alcun”vincitore”; ma sicuramente ci sarà un “perdente”: la città di Mazara. Una volta quando ero ragazzo (tanti anni addietro) sentivo spesso una frase:”…ma non ti vergogni…?”. Oggi purtroppo la morale del buon vivere civile è stata travisata, adattata e corretta arrivando al punto di tacitare ogni rimorso, mentendo agli altri e principalmente a se stessi. Ed allora a tale domanda seguirebbe inevitabilmente la seguente risposta: ”perché mi dovrei vergognare”; risposta che è anche a sua volta una domanda e pertanto è in certo qual modo indice di ”sfrontatezza”. Sarebbe bello (lo dico principalmente e prima di tutti a me stesso) imparare nuovamente a “vergognarsi” ed ammettere eventuali errori tenendo presente che ciò non è affatto un segno di debolezza, bensì una manifestazione di dignità e di responsabilità civile. Bisogna altresì fare tesoro degli insegnamenti dei nostri predecessori. Una volta il grande maestro e concittadino Consagra mi ha detto:”…io ho paura che ci si abitui all'orrido…”, riferendosi al Palazzo Comunale di piazza della Repubblica che ha rovinato una delle più belle piazze d'Italia. A quanto pare però alcuni mazaresi sono ciechi ,oppure si sono abituati al “Palazzaccio” (come lo chiamo io,non sapendo o forse non volendo definirlo diversamente) o ancora peggio non fanno tesoro dell'esperienze pregresse. Considerato che non è certamente possibile o comunque facile eliminare questo sconcio, ricordiamoci di questo “orrido” che abbiamo ogni giorno davantri ai nostri occhi per evitare che si crei un altro “orrido” ,rovinando senza possibilità di recupero il Lungomare. A scanso d'equivoci, aprendo una parentesi, mi preme precisare che non mi sto

schierando con l'odierna amministrazione non condividendo del resto tante altre iniziative (anche se plaudo al fatto che si vuole conservare e migliorare l'attuale lungomare); infatti in tempi non sospetti, nel 2004, 2005, 2006, dalle pagine del periodico "l'Arco" e successivamente nel 2008 dalle pagine di Mazara On line ho espresso la stessa opinione che confermo oggi, con convinzione, come scelta di campo e senza paura alcuna. A volte è necessario un pizzico d'orgoglio e di rispetto verso se stessi, non cambiando opinione a seconda del vento che soffia o per opportunismi di vario genere; come purtroppo accade con una certa frequenza nella nostra città a vari livelli. Ritornando ai progetti di cui sopra è innegabile che l'altro lato della medaglia significherebbe per Mazara un'occasione di rilancio turistico, purchè però non sia a scapito di quanto di bello ancora esiste. Questa iniziativa che presenta alcuni aspetti positivi, suscita in ordine alla sua ubicazione delle grosse perplessità. In effetti il problema non è il porto turistico in se stesso (opera importante, anche se non così “faraonica”) bensì dove ubicarlo in modo che sia utile allo sviluppo di Mazara senza creare un danno irreparabile di cui potremmo pentirci senza potervi più porre rimedio, e che vanificherebbe la lungimiranza dei nostri avi che sono riusciti a lasciarcelo in eredità. Pongo a me stesso ed a voi tutti una domanda: ”E' possibile conciliare lo sviluppo socio-economico di una città con l'esigenza di salvaguardare le testimonianze del passato e la cultura di un popolo”? La risposta ,a mio avviso, è sicuramente positiva; in quanto sono convinto che le risorse ambientali di un popolo possono e debbono essere usate purchè non se ne comprometta l'utilizzo da parte delle nuove generazioni. Bisogna pertanto coniugare le esigenze del presente nell'ottica della salvaguardia del passato, da consegnare il più intatto possibile al futuro.

Ma vi è un altro problema che non si riesce a comprendere,e cioè l'inserimento con i due progetti in esame del Progetto della Provincia di Trapani che prevede la “riqualificazione della costa” dal Porto sino al fiume Arena (Giornale di Sicilia del 09/08/2005, pag. 28) con un finanziamento di tre milioni di euro per il”ripristino della spiaggia naturale”. A volte si ha la sensazione che alcune Istituzioni (a vari livelli) siano come un'orchestra i cui componenti suonano sì seguendo uno spartito, ma senza un direttore che li diriga. A questo punto mi chiedo (e moltissimi concittadini si chiedono come me): perché non trovare un altro sito diverso dal Lungomare? Si potrebbe valorizzare la zona vicino al Porto Nuovo, alla Capitaneria di Porto, ai Cantieri Navali ottenendo così una valida sistemazione quanto meno per le infrastrutture ivi presenti e che sarebbero i naturali punti di riferimento della nautica da diporto; riuscendo così a “sanare” inoltre quel tratto di costa malsana (dal Porto Nuovo sino all'incrocio con Via Fani) che attualmente è adibita anche a scarico di immondizia di ogni tipo. Oppure si potrebbe utilizzare se non tutto almeno la prima parte del Porto Canale, sistemando le banchine e con incentivi vari realizzare negli edifici lungo le due rive o nelle immediate vicinanze ,trattorie

di Tonino Salvo

tipiche,negozi e quanto si reputa opportuno come supporto al turismo. Inoltre si potrebbe ripristinare la “chiatta” che renderebbe l'attraversamento del fiume caratteristico e consentirebbe al turista di trovarsi in pochi minuti a Piazza Regina e quasi al centro della città. Questa eventuale scelta, che non condivido nella sua totalità, ha sicuramente un suo fascino e consentirebbe altresì di sviluppare in un certo qual modo un “percorso turistico” (da diversi anni in cerca di attuazione) quasi obbligatorio che renderebbe “visitabile” San Francesco, San Michele, la Cattedrale, il Museo Diocesano, il Satiro, ecc. Ma prima di una prendere una decisione sarebbe opportuno chiedere a noi stessi: considerato che una legge di mercato è basata sulla domanda e l'offerta, vi è a Mazara una domanda tale per tanti posti barca? Perchè se così non fosse si rischierebbe di avere poi una struttura sottoutilizzata, vanificando un impegno di spesa non indifferente e deturpando il lungomare senza ottenere una contropartita, come sembra stia accadendo in altre cittadine marinare non solo siciliane che complessivamente durante l'intero anno (maggiormente durante i mesi autunnali ed invernali) si trovano con il 50% circa di posti barca inutilizzati. Non è da sottovalutare altresì che Trapani e Marsala (da tempo attrezzate, specialmente la prima) hanno un

flusso turistico sicuramente maggiore anche per gli eventi che sono in grado di realizzare (bisogna riconoscerlo) oltre alla vicinanza di Mozia, Erice, Segesta e le isole Egadi. Spero che questa mia”difesa “del Lungomare sia servita ad aprire gli occhi quanto meno agli indecisi ricordando loro che nei quasi fisiologici momenti di sfiducia si pensa di non avere voce in capitolo e si desiste dal combattere per migliorare la nostra vita, anche perché si ha la sensazione di essere dei Don Chisciotte e di lottare inutilmente contro i mulini a vento. Ma anche noi semplici cittadini abbiamo il diritto ed il dovere di far sentire la nostra voce. Non dobbiamo subire in silenzio ma difendere le nostre idee, perché il silenzio è sinonimo di resa incondizionata. Dovremmo però ricordarci, ”a futura memoria” non solo degli uomini e delle donne che hanno ben operato per la nostra città, ma eventualmente anche di coloro (amministratori, professionisti, tecnici, cittadini comuni)che ne hanno reso possibile la “deturpazione”. Invito pertanto tutti i mazaresi che condividono questo mio “pensiero” a vigilare affinchè non avvenga lo “scippo” del nostro Lungomare, forse unico nel suo genere, quanto meno perché situato a cinquanta metri dal centro storico e dalla Piazza della Repubblica che se avesse ancora il vecchio Palazzo Comunale sarebbe sicuramente una delle più belle piazze d'Italia.


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L’arco

MOSAICI ROMANI E BARBARI MODERNI Calcinacci, polvere e detriti: lo scempio dei mosaici sotto la chiesa di San Nicolò Regale Scritto e diffuso su internet nel corso della terza decade di giugno, quest'articolo è stato preceduto nella pubblicazione cartacea in agosto da cronisti che si sono interessati dello stato dei mosaici . In questi casi non dispiace arrivare secondi. C'è qualcosa sotto. C'è qualcosa sotto la chiesa di San Nicolò Regale, austero monumento arabo-normanno affacciato sul porto-canale di Mazara del Vallo. Non è uno scantinato di servizio, un locale tecnico, un box-auto: sotto la chiesa, nascosti per anni da impolverate finestre a nastro in alluminio, semi-infrante, negati alla comunità ed ai turisti, stupidamente abbandonati all'incuria, riposano mosaici romani di età tardoimperiale. Una distesa di tessere minute, pazientemente collocate ad arte, che disegnano motivi geometrici, figure di animali: breve, elegante racconto/testimonianza della romanità, uno dei fogli che sovrapponendosi nella nostra storia urbana misurano lo spessore del nostro passato. Un brandello, una parte della nostra memoria, della nostra storia. Ma sotto la chiesa, adesso, c'è anche qualcos'altro che, nello stupore della constatazione, non so come definire: scempio o recita?

p o t e s s e r o scrupolosamente usarli come superficie d'appoggio, calpestarli, operare sul soffitto malandato e fare cadere polvere e detriti sottoponendoli a pericolosissime sollecitazioni e minacciarne l'integrità. Nessuna precauzione è stata presa a protezione delle tessere. Il tutto per piazzare nuovi apparecchi illuminanti che, tra l'altro, senza un'adeguata valutazione progettuale, rischiano di aggravare il già cattivo stato di conservazione delle tessere. Altri calcinacci rimangono appesi al soffitto, incerti come foglie d'autunno ma meno leggiadri. In questa fiera del paradosso scellerato, per migliorare l'illuminazione dei mosaici superficialità che, a mio avviso, non può e non deve collimare con l'impunità. Forse dovremmo chiederci, in un rapido esame collettivo: ci interessa davvero conservare la nostra storia? Siamo disposti a chiedere che le responsabilità vengano accertate? Siamo pronti a protestare, oltre che ad indignarci? L'alibi della delega ad altri evidentemente non funziona. E che per primo sia un giornale come L'Arco a fare questa segnalazione (come tante altre nella sua lunga, militante storia) è motivo, per me, anche di velata tristezza, per l'ovvietà e l'evidenza di un simile scempio che altri avrebbero dovuto segnalare per primi. Che non sarebbe dovuto

Non bisogna essere esperti di restauro perché le immagini-denuncia che pubblichiamo destino almeno un'incerta perplessità. La delicata superficie mosaicata è coperta da calcinacci caduti dal solaio soprastante. Un crollo? Un distacco? Le vetrate tirate a lucido, il nuovo impianto di illuminazione moderna collocato da poco: i calcinacci rovinati sui delicati, fragili, preziosi mosaici sono il frutto di un lavoro maldestro compiuto da persone che sul lavoro, probabilmente, non usano fare distinzione tra il bagno di casa e la Cappella Palatina di Palermo. O forse, vista l'ambientazione romana, frutto di una suggestione teatrale collettiva di attori in erba che hanno recitato a soggetto “la caduta dell'impero”. Con discreta immedesimazione. Così, mentre gli archeologi, accovacciati in ore di duro, malpagato lavoro, si guadagnano i ritrovamenti a colpi di certosino, minuzioso, delicato pennello, dei factotum comunali hanno vivacemente interpretato, in un set d'eccezione, le truppe di Genserico, re dei vandali. Dei mosaici del IV secolo dopo Cristo, trasmessi a noi dalle vicissitudini della Storia, scoperti nel 1933, sono stati scavati, studiati, protetti affinché, 1700 anni dopo la loro paziente creazione, degli operai impiantisti

di Gabriele Mulé

e favorirne la fruizione si è attentato e si attenta alla loro stessa esistenza. Di chi è la colpa? In questa triste rappresentazione classica è degli operai, disinvolti esecutori. La colpa è di chi ha autorizzato questi lavori, non ha vigilato sull'esecuzione ed ha consentito che si compissero non rispettando il nostro patrimonio culturale, la nostra memoria, il nostro senso civico, in assenza anche del semplice, e a quanto pare rarissimo, buon senso. In questa brutta faccenda ci sono stati marcati e marchiani errori di valutazione: il senso grave di responsabilità, obbligatorio quando si opera sui nostri beni culturali, è mancato. Il tentativo di valorizzare un bene avvolto dalla polvere non può riscattare un abuso imperdonabile, frutto di una

accadere. Ed è un preoccupante segnale, all'alba di ben più importanti interventi di restauro: ciò che si distrugge o si danneggia rimane perduto e questo senso dell'irrimediabile deve fare riflettere. Per questo propongo: questa volta cambiamo registro. Fuori i nomi dei responsabili, non perché siano additati al pubblico: ma perché, silenziosamente, siano destinati a lavori adatti alla loro preparazione, alla sensibilità che hanno dimostrato. Ed aggiungo un suggerimento: per pulire i mosaici non usate l'aspirapolvere. Almeno per quelli del IV secolo d.C. A seguito della segnalazione di cui è stato protagonista L'Arco, il brigadiere Antonio Di Garbo del prezioso e sollecito Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dell'Arma dei Carabinieri ci ha confermato che “nello scorso mese di luglio questo Nucleo ha effettuato un sopralluogo congiunto con funzionari del Comune di Mazara del Vallo, a seguito del quale è stata trasmessa una informativa di reato alla Procura della Repubblica di Marsala”. Speriamo che, prima ancora che dall'autorità giudiziaria, un segnale che imponga una matura riflessione giunga dai cittadini e dalle istituzioni.


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LA GIACA Giachi e petri pitrusi Il fiume si abbandonava in silenzio verso l'ignoto mare, sciumando, come muto testimone di un presente nuovo, inconsapevole futuro per umani viventi un passato già trascorso. Era suonata la mezza, lu toccu di campana della chiesa di Santa MaraGesu, S. Maria di Gesù del vicino convento dei francescani e il vecchio era ancora lì, appoggiato sulla chiglia della sua barca in secca, sulla piana a margine la spiaggia che rarugnava il fiume. Un giorno d'aprile del 1898, sotto un cielo di un azzurro chiaro e un sole che scintillava i colori del fasciame e rifletteva le balze diversamente pitturate. E il vecchio era lì e guardava lo scorrere lento dell'acqua limpida e l'inscresparsi a filo dei margini della corrente sulle sponde e il fondo chiaro del fiume e li addruzzi ciumaroli qua e là. Lo spirito del fiume, l'ansa, i colori della ddisa buciareddra, e il sole acceso e la brezza, livata di punenti, e la petra pitrusa e l'anima del mare e li vaetari, pusati a chiattu, chi parianu taliari cunurtati lu distinu sò e la terra, e la vita amorevole, materna, matrigna, jocu, e la fatica , accussì ogni ghiornu, ogni giorno. Tutto mutava. Anche i colori del fasciame mutavano… E i riflessi di luci fluttuanti, il sole, sull'acqua e le memorie e tutto era mutevole, anche le antiche sembianze. Si sedette sulla poppa, rialzò sul capo il berretto e si accese la pipa; si tolse i sandali, si arrotolò le brache di tela sino alle ginocchia, poi si alzò e a piedi nudi entrò a mollo nell'acqua che lambiva la riva. Scelse una giaca [ciottolo levigato dall'acqua di mare o di fiume] - giaca e petra pitrusa [ciottolo non levigato] cantilenò – e la ripose nella tasca di la bunàca. Uno specchio sembrava la superficie del fiume… E prolungava il commiato dal suo mare, il vecchio, dalla sua città, dal suo fiume, di sé che presto sarebbe dovuto partire – a 76 anni – lontano, verso un mondo ignoto, sconosciuto, lui, Nnirìa di Cola, nato a Mazara il 1° di aprile del 1822, marinario e pescatore dall'età di 8 anni. E come un sogno, nitido, netto, antiche sembianze, scintillanti davanti a sé come l'acqua chiara nel cavo della mano ai raggi del sole, eppure mutevoli – il viso lontano di sua moglie, defunta da tempo, l'immagine sfumata di suo figlio Michele, partito da circa 15 anni per la Merica … Ricordava ogni particolare del giorno della partenza, pure la

di Nino Gancitano

sacca di cuoio dove aveva rimesso le sue cose, ma il volto, col tempo, era diventato indistinto nella sua memoria. Le memorie, pensò, sono qui, fissate anche nelle rare lettere che Michele gli inviava. In una delle ultime lo aveva rassicurato – come sempre, del resto, che stava bene e che lo benedicesse. “Binirici, Patri - aveva scritto – / tò figghiu furisteru, binirici. / La petra la jccà quannu partemu/ picchì s'un stavu mali/ 'un mi partìa / S'un fussi pi la terra chi ni manna/ 'un si sta mali…/ S'un fussi pi la lingua ch'attruppia / 'un si sta mali…/ s'un fussi ch'a Mazara haju la

l'eccitazione e svegliava tutta la casa. Lui no, vigghianti, il vecchio Nnirìa di Cola, dormiva poco da sempre, con un occhio solo, sveglio sin dalle quattro di notte per prepararsi alla pesca. E ddrà lappana di suo genero Ciccu, chi criria chi nna la Merica lu travagghiu era liggieru liggieru – liggierissimu, scandiva , e li scuti, li dollari và, si cugghianu accussì sulu cu la pisenza. 'Na lappana, pensò il vecchio. Da sempre, da quando lo conosceva ed era ancora un bambino. Cicciuzzu ammuccafichu, lo chiamavano. L'America. L'America… Un sogno, una speranza, una

menti / 'un stassi mali…/”… – Seguivano i saluti a Carmela, sua sorella, al cognato Francesco e alla piccola Ciccina, e la speranza di rivedersi presto. Quando il parroco finì di leggere la lettera – quel giorno – avrebbe voluto rispondere ma pensò che l'avrebbe fatto sua figlia Carmela, consegnandole la lettera. Fu così che si decise la partenza, tannu, allora, così, con sua figlia, chi parìa na taddrarita, tantu si cataminiava, pi la Merica, e dopo aver ricevuto l'assenso del fratello per la partenza – di tutta la famiglia, padre compreso, smaniava, si svegliava di notte per

realtà. Raccolse altre tre pietre (una giaca, per il genero e du' petri pitrusi per la figlia e la nipote) e le ripose in un'altra tasca. Prolungava il commiato, il vecchio, e i ricordi e i visi e i volti del suo passato, del suo presente lontano, i suoi compagni di pesca, i suoi amici, la sua Chiesa, il parroco, i vecchi preti, i suoi defunti. Si recò verso casa. I bauli erano stati caricati sul carro – tranne ancora il suo – e il carrettiere sollecitava la partenza “chi la strata pi 'nzina a Palermu era assà longa , si ppò lu jornu appressu s'avianu a 'mmarcari…”

CHI L'HA VISTA? Mi riferisco alla statua, opera dello scultore Domenico Li Muli, raffigurante Filippo Napoli (1870-1957) medico e storico mazarese. Collocata nella villa comunale, vicino alla statua di Giuseppe Garibaldi, è scomparsa da diverso tempo. La statua di un eminente figlio di Mazara, medico dalla grande professionalità e dalla grandissima umanità, che ha lasciato alcune pubblicazioni ancora oggi fonti di copiose informazioni storiche (Storia della città di Mazara; Notizie di Mazara medioevale; Feste, tradizioni e leggende religiose, solo per citarne alcune) è sparita in silenzio e sembra che nessuno se ne sia accorto. Spero che per salvaguardarla sia stata quanto meno depositata e custodita in qualche magazzino, con la dovuta attenzione. Meglio ancora sarebbe auspicabile che si stesse provvedendo al restauro (se necessario) e rimetterla così dove era stata originariamente collocata. Intanto per agevolare la ricerca mi permetto dare a qualche volenteroso le seguenti

coordinate: Latitudine 37°,39',54",72 nord - Longitudine 12°,35',20",04 est - Lungomare Mazzini a destra: 15 metri circa dalla via SS. Salvatore; 5 metri circa dalla statua di Garibaldi. Ecco (con un po' di approssimazione e se non vado errato) dove prima era collocata; ora si può iniziare una specie di "caccia al tesoro". Comprendo perfettamente che con i numerosi problemi che assillano la città potrebbe sembrare ben poca cosa occuparsi anche di una statua. Tenendo però presente quanto dice il Foscolo (I Sepolcri):" .. sol chi non ha eredità d'affetti poca gioia ha dell'urna ... ", ritengo che la "memoria" di coloro che furono e che sono degni di ricordo sia un dovere civico non solo delle varie Amministrazioni, ma anche di ogni singolo cittadino. Mi auguro che una mattina si possa avere la lieta sorpresa di rivederla collocata dove era prima; sempre che ciò non sia di disturbo e che non vi siano grosse difficoltà.

Diede ad ognuno la propria pietra il vecchio e ricordò cosa farne. Entrò in casa. Si guardò intorno. Pose la sua giaca sopra il canterano, proprio sotto il dagherrotipo della moglie. L'America… sogno, illusione, speranza, realtà diseguale. “Bon tempu e malu tempu 'un'uranu tuttu lu tempu.”. In quanto a lui, non sarebbe rinato alle illusioni, al dolore, alla rabbia, alle tristi memorie. E alla figlia che piangeva perché il padre restava “La notti 'un è pi sempi” aveva sentenziato. Salutò e incitò il carrettiere alla partenza. Seguì, con lo sguardo, il carro sino alla curva per la strada verso Palermo e poi rientrò in casa. Prese del pane, quattro olive, due sarde salate, lu ciascu (il fiasco). Uscì con i remi e le nasse. Tornò alla sua barca. E il sole e l'aria serena e il fiume che sciumava, lento, verso il mare. E l'acqua chiara. Qualche mese prima il marrobbiu aveva superato gli argini e allagato la piana di ponente. Posizionò i remi e le nasse. Spinse la barca in acqua, vi saltò dentro e cominciò a remare verso la vucca di lu ciumi, verso il mare grande, lu mari ranni, rispettato ed amato. Cantilenava. “Lu suli cu la luna l'effe e gè… lu mari cu la terra rimmi socchè…” Dagli anni '80 del 1800 a '900 inoltrato, molti mazaresi emigrarono verso l'America. Il loro numero fu consistente. Partirono dai porti di Palermo, Napoli, Genova. Era consuetudine che ognuno portasse con sé una pietra del proprio luogo, che alla partenza buttava, solitamente in mare, sussurrando “ccà ti lassu, ppi nà spiranza nova” a significare che lì si lasciava il proprio destino non benigno, per un futuro più favorevole. L'approdo a New York per molti segnò una vita nuova, non sempre facile e propizia. Alcuni – dopo controlli sanitari – furono rimandati indietro con la stessa nave. Molti rimasero nella stessa New York, a lavorare, altri si spinsero verso la Louisiana (riproposero sistemi di pesca tipici, a paranza), la California, le terre del West, contribuendo con il loro duro lavoro [alcuni ne perirono e taluni rimasero ignoti nei corpi, nel nome e nei luoghi] alla grandezza dell'America. Alcuni tornarono, custodi di altre memorie e di altri destini.

di Tonino Salvo


OTTOBRE 2010

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L’arco

VIAGGIO NELL'ADOLESCENZA di Giupe

Prosegue anche in questo numero, grazie alla collaborazione del prof. Giacalone, il viaggio attorno alle problematiche giovanili. Questa volta viene affrontato un tema abbastanza delicato: quello dell'utilizzo della rete internet da parte dei giovani e, conseguentemente, il facile accesso ai numerosi siti pornografici. Con un approfondito studio vengono esaminate le problematiche connesse alla disponibilità di materiale pornografico on line e le conseguenze che questo comporta sulla maturazione sessuale degli adolescenti.

INTERNET, DA STRUMENTO CONOSCITIVO A STRUMENTO DISEDUCATIVO la pornografia on line di Vito Giacalone*

Nonostante internet (la rete) sia nata, alla fine degli anni sessanta, allo scopo di garantire comunicazioni stabili tra le sedi delle forze armate statunitensi, in questi ultimi anni si è trasformata per i preadolescenti e gli adolescenti in un sistema sociale, finalizzato al mantenimento delle relazioni on line, importanti quanto quelle off-line (le relazioni quotidiane, faccia a faccia). Recenti ricerche hanno concentrato l'attenzione su quanto la tecnologia dell'informazione influenzi lo sviluppo umano; non a caso è cambiato il modo di esplorare il mondo, di manipolare i simboli e i linguaggi. Tramite la rete i ragazzi costruiscono relazioni, vivono identità altre, sperimentano i propri confini, e sono considerati i nuovi pionieri della relazione umana. È indubbio che la rete funga anche da mezzo per superare le difficoltà insite in qualsiasi relazione, mi riferisco a quelle “faccia a faccia”, e permette a chi non vive tale complicazione, di essere in tempi brevi se stesso, potenziando così lo spazio conoscitivo della propria persona. Al contrario la rete è anche il luogo in cui inventarsi un'identità immaginata e proiettata all'esterno: il virtuale diventa reale, e il reale virtuale. Le prime ricerche, a tal proposito, ne evidenziavano l'aspetto pericoloso, in cui il perdere identità nella rete corrispondeva nel non riconoscersi nella vita reale. In realtà, tale mondo virtuale è così connaturato nella nostra vita, da non poter farne a meno. Internet è la nostra realtà, a prescindere cosa ne possiamo pensare, e non a caso si parla di “nativi digitali” (gli under 30) nel differenziarli dagli “emigranti digitali”, cioè di quelli, come chi vi scrive, nati prima della nascita della rete, dei computer e dei cellulari. Tale differenza non è soltanto terminologica, in realtà con la diffusione dei computer e d'internet, si è segnato un nuovo modo di tessere le relazioni tra le varie generazioni. Prova ne sia che i giovani d'oggi (i “nativi digitali”) contemporaneamente, ascoltano musica, chattano, guardano la tv, scaricano file mp3 e video, inviano sms, s'identificano negli avatar (rappresentazioni digitali di sé), comunicano tramite i social network (facebook, twitter, per citare i più conosciuti), e il tutto con una naturalezza sorprendente. Le generazioni precedenti tutt'al più, contemporaneamente ascoltavano musica leggendo un fumetto. Ciò aiuta a comprendere quanto i nativi digitali, da un punto di vista cognitivo, utilizzino le conoscenze e le capacità in tanti modi diversi, in multitasking rispetto ai “predigitali”; anche se lo svolgere più compiti simultaneamente, corrisponde, secondo le nuove ricerche, a far tutto male, poiché nel nostro cervello, nel computare più informazioni contemporaneamente, si determina un aumento di stress e perdita di capacità di controllo (deprimendo contemporaneamente i processi di formazione della memoria a lungo termine). I più positivi pensano che le nuove generazioni siano di transizione, ciò significa che l'abilità del multitasking work porterà nel tempo allo sviluppo di nuove intelligenze, ma se tale opportunità non è guidata e direzionata, si aumentano le probabilità che possano diventare fine a se stesse o addirittura autodistruttive. Ovviamente la costruzione delle competenze relazionali e di uno sviluppo dell'identità, in

adolescenza, attraverso la rete, non possono essere così metaforicamente prive d'insidie. A conferma di ciò, basti pensare all'immediata ed enorme quantità d'informazioni cui è possibile accedere senza filtri e censure, lecita e illecita. Su internet s'impara a costruire bombe, scassinare lucchetti e casseforti, acquistare materiale falso (p.e. replay watch) o di dubbia provenienza, acquistare pillole a basso prezzo per migliorare le prestazioni sessuali (cialis, viagra). Il materiale pornografico disponibile nella rete è ben oltre a quello che avremmo immaginato potesse esistere. Se fino a vent'anni fa il 40% delle video cassette noleggiate era specifico del settore della pornografia - un dato poco conosciuto e sbalorditivo di questo mondo sommerso, di cui il 70% era destinato al mercato degli adulti - oggi, le percentuali sono sicuramente più alte e comprendono una fascia d'età che parte già dalla preadolescenza, dagli undici anni. Per chi non lo sapesse (e mi riferisco alle persone che ignorano l'uso del computer, oppure a quelli che ne fanno un uso molto specifico) accedere a tale materiale è di una facilità impressionante. Personalmente l'ho appreso dagli adolescenti (così come diversi colleghi psicoterapeuti), ciò a dimostrazione di come essi siano dentro i meccanismi della rete più di noi. Utilizzando qualsiasi motore di ricerca (p.e. google, mozilla firefox, bing, nch, ecc.), è sufficiente digitare non più di due “parole chiavi”, per essere in possesso della più grande collezione di filmati porno amatoriali e non, in streaming, da vedere interamente e gratuitamente. Al massimo si chiede di cliccare su “enter” (entrare) o “leave” (lasciare) dopo aver letto una dichiarazione che recita all'incirca così “You may only enter this Website if you are at least 18 years of age, or at least the age of majority in the jurisdiction where you reside or from which you access this Website. If you do not meet these requirements, then you do not have permission to use the Website”. Facile, no? Pensare che quanto argomentato possa non riguardare i propri figli non facilita la comprensione di ciò che è in atto, poiché il fenomeno è in crescita esponenziale ed è presente in tutte le case dotate di computer (a variare è soltanto il numero di ore trascorse davanti tali siti). Non dimentichiamo che le informazioni tra i giovanissimi transitano a notevoli velocità, esattamente come la loro capacità di connessione. Provo allora a elencare alcuni dei potenziali “rischi” in cui si possono incorrere nel sottovalutare tale emergenza educativa, dovuta a una fruizione non consapevole e senza confini di materiale pornografico tra i giovani. ? Innanzitutto “nutrire” la mente d'immagini che hanno poco di sentimento e amore, e tanto di mancanza di rispetto dell'intimità dell'altro, facilita la costruzione di un immaginario distorto circa la sessualità, in cui le perfomance, spesso rappresentate da uomini e donne -veri e propri fenomeni da baraccone- sono tradotte come il modo di

ANCHE L’ARCO RISPETTA L’AMBIENTE: QUESTO NUMERO È STATO STAMPATO SU CARTA RICICLATA

vivere la sessualità tra gli adulti. ? Il concepire la vita sessuale come esibizione delle dimensioni dei genitali e di quello che è possibile sperimentare meccanicamente, aumenta la scissione mentale dalla capacità di provare le sensazioni e le emozioni legate all'amore; ? L'aumento dei disturbi della sfera sessuale, dovuta a false credenze sulla durata dei rapporti sessuali, emulandone e prendendone ad esempio chi della sessualità ne ha fatto un business personale. Detto in altri termini, ciò che noi adulti abbiamo fino ad adesso considerato estremo della sessualità rischia di divenire il punto di partenza delle nuove generazioni, che auto apprendono, tramite la rete, rendendo quotidiano e naturale ciò che non lo è. Non è da escludere che le pratiche che fino ad oggi sono comprese tra le perversioni sessuali (le parafilie) potrebbero, a breve, non esserlo più. La minaccia dell'aver fatto attecchire nelle nuove generazioni la poca consapevolezza che una relazione affettiva richieda tempi lunghi e che non può ridursi nel “consumare un rapporto”, è molto alta. Lasciare che la comunità virtuale decida quali modalità e come educare i giovani, è quello che sta accadendo, e venire a capo di questa intricata matassa non è assolutamente facile, perché i primi a ignorare la pericolosità di quanto ipotizzato sono i genitori, illusi che i figli possano esplorare il corpo e le proprie pulsioni (o peggio ignorarle), gradatamente, così come è avvenuto per una buona parte delle generazioni passate. Credo sia in atto un disastro educativo senza precedenti. In un mondo, come il nostro culturalmente ricco e stimolante, pieno di bellezza e senso della vita, la cui rete, senza ombra di dubbio, ha contribuito positivamente- abbiamo offerto alle nuove generazioni modelli culturali e un insieme di valori che difficilmente trovano il modo di innestarsi in loro: i modelli, le mode viaggiano alla stessa rapidità con cui i ragazzi stabiliscono relazioni. I rapporti umani richiedono tempo e notevole attenzione, bruciare il tutto in pochi secondi vuol dire abituarli a costruire rapporti virtuali, veloci e poco profondi. In questo modo tutto rischia di diventare mellifluo e privo di significato. Pertanto cosa occorrerebbe fare. Innanzitutto insistere su una normativa che regolarizzi l'impiego d'internet e l'uso obbligatorio di software che permettano agli adulti di impostare dei filtri, impedendo così l'accesso ai minori ai contenuti pornografici (anche se ormai i ragazzi sono diventati abili nel raggirare i parental control). È auspicabile la nascita di laptop (portatili) e computer fissi indirizzati a un pubblico minorenne, con divieto di accesso ad altri computer che non siano specifici per la fascia d'età. Nella sostanza si tratta di mettere in atto una procedura simile a quanto già avviene in altri settori, come quello delle automobili e le moto.

Ricordiamo ai nostri lettori che questo giornale (e tutti i numeri precedenti) possono essere consultati in rete internet alla pagina: http://www.arcomazara.it e che si può collaborare inserendo commenti, articoli, proposte e critiche alla pagina: http://www.arcomazara.it/forum.html

Da un punto di vista educativo i piani di lavoro dovranno inevitabilmente coinvolgere la famiglia e la scuola. La prima istituzione andrebbe resa maggiormente consapevole che l'educazione è ancora il veicolo principale che solca i confini tra il lecito e l'illecito, anche per contrastare le dissonanze e le distorsioni di cui la televisione e internet sono volutamente portatori. Mi riferisco a veri e propri programmi di parent training, tramite cui educare gli adulti a essere “i nuovi educatori”, sin dalla scuola dell'infanzia, rendendoli meno insicuri e più forti di come guardare la relazione con il figlio. L'istituzione scolastica, con il supporto genitoriale, dovrebbe prendere coraggio nell'educare realmente alla sessualità, non sottovalutando le conoscenze, alterate e confuse, dei giovanissimi, e adeguando i programmi anche ai “rischi” in precedenza elencati. In questo caso, viste le tematiche trattate, è necessario che siano proprio i genitori a essere formati a scuola sui nuovi programmi di educazione sessuale, evitando che i figli, nel riportare i contenuti espressi dagli esperti, e nel tentativo di impressionare e manipolare il genitore, possano allarmarlo, e contemporaneamente far indietreggiare l'istituzione scolastica verso una chiusura totale su queste tematiche. In un'epoca come la nostra, in cui prevalgono il relativismo culturale -tutto è possibile, e tutto è il contrario di tutto- e il sincretismo -il prendere per proprio comodo e all'occorrenza quello che interessa delle religioni, una sorta di supermercato della fede in cui scegliere cosa portare via- individuare e marcare gli argini educativi del “fiume della vita”, aiuta a evitare che nei periodi di eccesso di massificazione dell'informazione, quale l'adolescenza, i ragazzi, privi di direzioni, possano essere trasportati dappertutto perché travolti dall' ”esondazione del fiume”, e perdersi in quanto privi di punti di ancoraggio. Fortunatamente c'è sempre la speranza che l'uomo, nell'aver generato una cultura in cui hanno ragione di esistere gli strumenti, le tecnologie e le strategie presenti, possa trovare una forma più consona e vicina alla propria esistenza, rimediando l'irrimediabile. * Psicologo-psicoterapeuta formatore e consulente mentoring Università degli studi di Tor Vergata e Università Europea di Roma Per contatti: vitogiacaloneconsulenze@gmail.com


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