Newl'Ink N.3

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l’IDEA

NEWL’INK

sm1

marzo | aprile 2012

di Pippo Bella

A

proposito di caccia, il caid mi disse che nei dintorni di Tetuan vengono spesso delle tigri e a volte anche leoni; quando uno di questi animali divora la vacca di un montanaro, questi non si dà pace finché non l’ha ucciso e mangiato. (J. potocki) simon Coen ha gli occhi socchiusi, le labbra curvate in una smorfia di sarcasmo; sissì, la chihuahua, si dimena tra le sue braccia emettendo uggioli di disappunto. “voi italiani, così affezionati ai vostri giornali… Li cercate anche all’estero. È un’abitudine provinciale, lei non crede?” dice simon rivolto a me, con voce esile. “È cosa buona in viaggio avere una pausa di oblio, lasciarsi le banali realtà domestiche alle spalle.” Mi rifugio, disarmato, in un sorriso; non ho la prontezza di ribattere a tono, adeguandomi alla svogliata casualità delle conversazioni che avvengono qui in giardino. simon Coen è persona colta; dirige l’albergo Caifa, un cinque stelle, sul lungomare di Tangeri. ebreo di nascita, parla e scrive in non meno di sei lingue. Ha imparato l’italiano da pochi mesi, spinto dal bisogno. Giancarlo, che con lui convive, viene da roma appunto. Giancarlo è il proprietario di questa villa, stile coloniale, primo Novecento, tutta bianca, abbagliante nel sole, un rigoglioso giardino la circonda. sediamo per colazione come ogni mattina non prima delle undici, all’aperto; tira una leggera brezza da giù, dalla marina. Mi ero alzato per primo dalla poltrona, gli altri ancora traccheggiavano e Giorgio, mio fratello, fumava fissando i cespugli d’ibiscus, i

plumbago rampicanti e la datura che si agitavano al vento con tutti i loro colori smaglianti. solo simon aveva fatto caso alla mia decisione di uscire in cerca di giornali; il resto del gruppo era rimasto indifferente, chi a fumare, come Giorgio, sperso nei suoi pensieri torpidi del mattino, chi a ciondolarsi tra bagno e sdraio, senza progetti. rivolgo un cenno di saluto a simon e scansando Brandy, il cane mite, mi imbatto in Maometto, che in uno dei suoi andirivieni attraversa in quel momento il semibuio del gran vestibolo. e’ il servo casigliano. Quando ride mostra un antico carbone di carie in bocca, due o tre molari gli pendono dalla mascella tutti storti. Conduce una vita esigua, più da cane che da servo. e ha infatti, come casa, un gabbiotto, un’umida cuccia di cemento aperta sul portone d’ingresso della villa. si muove sempre a occhi bassi; scrolla la testa di qua e di là, come se cercasse per terra qualcosa di se stesso, qualcosa di perduto; e quando risolleva lo sguardo è per scusarsi. Quest’uomo estremo mi è simpatico. riusciamo a capirci, sebbene lui usi un fitto marocchino e io con lui un siciliano stretto. Dunque, Maometto mi saluta interrompendo con un sorriso la sua inesausta quanto vana ricerca e, come ogni mattina, mi ripete il prezioso decalogo, le norme di condotta per evitare la peste dei rivenduglioli. sono ormai sulla porta quando dietro di me sento il rumore dei passi di Giorgio; ondeggiano. Non l’ho ancora notato bere, ma che sia già ubriaco? il mio breve incontro con

Maometto gli ha dato il tempo di raggiungermi, certo andrà a rinchiudersi in qualche stanza. Del resto ho rinunciato presto a insistere per averne la compagnia. Mai che abbia accettato di stare insieme con me, in questi giorni, di uscire per le vie di Tangeri; è come rinserrato nella sua indolenza, incline al malumore. ecco però che Giorgio mi chiama con voce inaspettatamente sicura e limpida, con l‘eco dell’entusiasmo di una volta. scolpiva; per circa dieci anni, dopo il diploma in accademia, aveva lavorato come un ossesso, ma di punto in bianco aveva smesso. Lo invidiavo per questa passione, ma anche perché non mancava un colpo con le donne. Mi dice di aspettarlo, che si cambia in un momento. Le bettole effondono nell’aria fumi di fritture e bolliture, odori di crostacei e di montoni; le mosche migrano a nugoli dove un altro miasma si levi più seducente. il traffico della strada è un cafarnao, uno sciamare di turisti e residenti che scansando il transito delle vetture, parte si avviano al souk lì in cima alla salita, parte entrano in certi angusti bazar stipati di robaglia. Noto che Giorgio in quel brulichio si muove disinvolto, ciò si spiega facilmente: vive a Tangeri da più di un anno. siccome né io né lui portiamo addosso i contrassegni del turista, la torma dei ragazzini, dei procacciatori di buoni affari nei bazar e dei prosseneti di amori misti, non ci degna di alcuna considerazione. Giorgio è più alto di me e cammina a vigorose falcate, molto presto

mi ha lasciato indietro; correndo mi riporto al suo fianco. Finora non ha aperto bocca. L’ho trovato ingrassato, al mio arrivo a Tangeri. in aeroporto, lo riconobbi subito per la statura svettante. La sua testa, dai riccioli di un biondo unto e grasso, stanco, di una opacità ramata, mi colpì con un senso quasi di dolore. siamo entrambi quarantenni. Gli sono maggiore di appena un anno. Tranne la statura, ci somigliamo parecchio. Ma quell’anno, quell’unico anno, ha scavato tra me e lui un solco profondo. Lontananza incolmabile: che tuttavia ho tentato di ridurre. eravamo, allora, intorno ai trent’anni. per un breve periodo, dopo la morte dei nostri genitori, Giorgio sentì il bisogno di starmi vicino. No; non per trarne conforto. era rabbioso, mi insultava, come se fossi stato colpevole della loro morte; poi si pentiva. L‘ombra di nostro padre si era allungata su di me fino a coprirmi. Giorgio disprezzava quell’uomo mite ma fazioso: ero stato il suo prediletto. per una settimana non uscimmo da casa. poi una mattina presto aprendo gli occhi notai che il suo letto sul lato opposto della stanza era vuoto. L’armadio mostrava le ante spalancate; mancava la sua roba. era d’inverno. Un’alba dello stesso colore livido del tramonto minacciava ancora pioggia; per lunghi giorni, ne era caduta sporca di un pulviscolo giallastro. A DESTRA

g Nuccio squillaci

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