Newl'Ink N.6

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NEW L’INK 06

novembre - dicembre duemiladodici

free press

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e!! Natoastlro sito.

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013 io 2 nna a ge ia d brer In li

Edizione Newl’ink | F.to cm 15 x 22 | Pagine 256 | € 12,00

H ISTORY

o di l n l a g e imo r subito su t t o Un stalo i u q c A

di Rocco Giudice | Racconti Sul filo, volta a volta, del disinganno o di una farsa meno pietosa del dramma con le pretese indebite come con le aspettative giustificabili, con gli errori peggiori non meno che con le illusioni migliori, i protagonisti di questi racconti sono figure che tendono a sparire o a non trovare più una dimensione propria all’interno della società odierna. Figure che, spesso, costituiscono stereotipi, non solo letterari, ma anche cinematografici e teatrali di grande successo nell’immaginario ratificato. Di scorcio, stilizzato, ma riconoscibile, un paesaggio sociale e naturale - siciliano, indispensabile, ma insolito, che sfugge al repertorio sull’isola certificato da modelli di scrittura e di lettura consueti e correnti: come se, anche in questo caso, sovrapponendo cliché umani e “ambientali”, a configurarsi fosse una realtà molto meno riducibile alle proporzioni della “metafora” che consenta a usi e abusi dell’interpretazione. In questa visione sfrangiata, frammentata per comporsi in unità, ma che non vuole essere neppure una rappresentazione di dati reali o verificabili, tutto è rimesso a un linguaggio capace di modulazioni sorprendenti, piegato a fughe sul piano della sintassi, di un ritmo da cui vicende e personaggi traggono tutta la forza che deriva dalla qualità dello stile. Il messaggio, infine, è nella scrittura come forma di una passione e di una ragione che, se non possono dare senso al mondo né possono sperare di comprenderlo o di dargli l’ordine, sia pure provvisorio, di un discorso, conservano lo spessore di una esperienza che resiste a tutte le ingiunzioni della storia.


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02 | FRANCIS BACON E LA

CONDIZIONE ESISTENZIALE di Giuseppe Carrubba

11 | CRONACA DI UNA MALAKTION. HERMAN NITSCH AL MART di Sabina Lorenzi, Simone Melis

1 16 | INTERVISTA A HUGO RACE. UNA VITA ALL’INSEGNA DEL ROCK

di Sisco Montalto

05 | TIZIANO. LA FUGA IN EGITTO

12 | LA C APPELLA SISTINA

17 | L’ATTUALIZZAZIONE DELLA STORIA

06 | EDGAR DEGAS A TORINO

13 | FRANCO VIMERCATI

18 | KLITSCHKO. DUE FRATELLI

08 | TOMAS SARACENO A MILANO

14 | LE STAGIONI DEL NOSTRO

di Silvio Lacasella

di Silvio Lacasella

di Rossella Di Giacomo

10 | CONTEMPORANEITà IN VILLA di Michele Romano

ENERGIE FLUIDE A SIRACUSA di Michele Romano

di Silvio Lacasella di Silvio Lacasella

AMORE

di Giuseppe Carrubba

15 | IL NUOVO MAGGIO. THE CLASH di Jessica Leti

BLU NEL ROSSO. LUIGI CAFLISCH

di Alessandro Finocchiaro

di Ornella Fazzina

UNICO DESTINO di Davide Scandura

20 | MARTIRIO A TANGERI - CAP. 4 di Pippo Bella

22 | SELLING ENGLAND BY THE SPREAD di Rocco Giudice

23 | IL LIBRO DEL MESE 24 | I 3 CD 25 | L’ARTISTA

l’INDICE


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l’ARTE

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di Giuseppe Carrubba

Francis Bacon Nathalie Djurberg Adrian Ghenie Arcangelo Sassolino Chiharu Shiota Annegret Soltau

nell’ARTE CONTEMPORANEA


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Raccontare, condividere, rendere visibile il dolore è un’esperienza che aiuta a rendere tollerabile l’esistenza dell’uomo, così cambia la percezione delle cose e si traccia una strada per uscire dall’isolamento. Franziska Nori, direttore del CCC Strozzina di Palazzo Strozzi, Firenze, e curatore della mostra Francis Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea, insieme a Barbara Dawson, direttore della Dublin City Gallery The Hugh Lane, Dublino, inizia il testo critico della mostra citando Albert Camus per sottolineare proprio questo pensiero: Quando si riesce a

dare un nome alle cose si diminuisce la sofferenza nel mondo.

In mostra otto dipinti di Francis Bacon, insieme ad un repertorio di materiali fotografici e d’archivio, che entrano in relazione con i lavori di Nathalie Djurberg, Adrian Ghenie, Arcangelo Sassolino, Chiharu Shiota, Annegret Soltau attraverso il tema dell’esistenza, del corpo e della pro-

Un’installazione site specific è quella elaborata da Arcangelo Sassolino (Italia, 1967) proprio per questa mostra che mette in trazione, mediante un pistone, una pesante fune, coinvolgendo lo spazio del luogo. Si crea in que-

A SINISTRA

j Francis Bacon

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Hugh Lane, che ha conservato dal 1998 lo studio londinese di Francis Bacon insieme a tutto quel materiale visivo che l’artista collezionava e usava, fino a danneggiarlo, in maniera ossessiva. L’usura e le tracce del tempo sono “cicatrici” che danno a questa documentazione e alle opere un valore particolarmente significativo per comprendere in maniera profonda la sua dimensione poetica ed esistenziale. In mostra l’autoritratto, che è stato l’ultimo lavoro dell’artista, trovato nel suo studio londinese, quando egli moriva a Madrid nel 1992, insieme a tre dipinti incompiuti e ad opere provenienti da collezioni internazionali. Franziska Nori ha curato la relazione dei cinque artisti contemporanei con i dipinti di Bacon, all’interno di un percorso espositivo che mette lo spettatore in uno spazio connotato da una dimensione estetica ed emotiva coinvolgente, che si diversifica anche in personali ed emblematiche in rapporto alla storia recente. Egli indaga il tema della rappresentazione umana muovendosi tra figurazione ed astrazione, in questo modo sviluppa un tratto pittorico che aggredisce e distrugge, fino a rendere quasi irriconoscibile, il soggetto mediante campiture e sgocciolature cromatiche.

pria relazione con il mondo. Dipinti, installazioni site specific, fotografie e video rappresentano il lavoro di questi cinque artisti contemporanei che hanno trovato nell’arte di Bacon diversi elementi di legittimazione e ispirazione, alternando figurazione e astrazione, deformazione dei corpi insieme a varie fonti iconografiche, dove il concetto di isolamento e di tensione diventano metafora della vita. Le opere di Bacon sono tracce visive e visionarie, indizi e memorie di una vita tormentata, dove la figura umana incompiuta e deformata, vive nella precarietà e nell’impossibilità di trovare una definizione ed una stabilità. Le opere in mostra dell’artista sono state selezionate da Barbara Dawson che ha scelto oltre ai dipinti alcuni ritratti fotografici, ma anche riproduzioni di opere del passato e immagini tratte da libri e riviste che venivano utilizzate da Bacon come strumenti per lo sviluppo delle sue opere. La mostra è stata possibile grazie alla collaborazione del CCC Strozzina con la Dublin City Gallery The

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rapporto alle singole poetiche. Le opere di Bacon all’inizio introducono il tema della condizione esistenziale e ritornano dentro un percorso caratterizzato da rimandi, per mettere in evidenza le diverse personalità artistiche in relazione alla problematicità del presente. Il lavoro di Nathalie Djurberg (Svezia, 1978) presentato al CCC Strozzina consiste in tre installazioni che denotano il suo particolare approccio operativo e visivo, dove convivono contenuti crudi e violenti con immagini grottesche e a volte fiabesche, secondo modalità giocose e naif. L’artista indaga l’esistenza attraverso dubbi e interrogazioni in relazione alla solitudine, alla sessualità e alla morte. Le immagini rivelano corpi enfatizzati nella loro decomposizione o deformazione da una materia duttile e mutevole come la plastilina. Adrian Ghenie (Romania, 1977) dipinge utilizzando immagini prelevate da libri di storia, cataloghi, film o da internet, così facendo crea opere

L’OP E R A

Untitled (Three Figures), c. 1981, Olio su tela, cm. 198 x 147,5 Dublin City Gallery The Hugh Lane, Dublin (reg. 1982) © 2012 The Estate of Francis Bacon. Allrightsreserved. BY SIAE, Roma, and DACS, London

sto modo un gioco di tensione e di equilibri di forze che pongono lo spettatore in una condizione psicologica di precarietà e ansia rispetto al possibile esito dell’opera: il suo cedimento. La proposta dell’artista Chiharu Shiota (Giappone, 1972), anche questa un’installazione, site specific, consiste in una “rete” ingarbugliata di fili di lana neri che interagiscono con l’ambiente di Palazzo Strozzi, dando densità e significazione allo spazio con rimandi e connessioni celate, dimenticate o semplicemente immaginate. Il sogno e la memoria so-


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no i temi che l’artista affronta in lavori tridimensionali dalla forte connotazione esistenziale, dove la dimensione emotiva sembra indicare una possibile strada di lettura e riflessione intorno all’opera. I temi del corpo e dell’identità nel lavoro di Annegret Soltau (Germania, 1946) sono affrontati mediante la perfomance, il video e la fotografia. In mostra “ritratti fotografici cuciti”, i photo sewings, dove i volti, compreso quello dell’artista, sono frammentati e cuciti da sottili fili neri. Metafora della ferita e della costrizione, questo lavoro sul volto e sul corpo si afferma come una riflessione sulla rappresentazione della condizione umana. La diversa sensibilità insieme al linguaggio specifico di questi artisti in mostra dimostrano come, con risultati formali differenti, le opere di Bacon risultino attuali e con sviluppi nuo-

vi, in rapporto alla ricerca e all’ossessione di un lavoro artistico che ruota intorno alla sfera emotiva dell’io e del corpo. La centralità di quest’ultimo come oggetto da modellare e controllare, tipico del tempo presente è frutto di un pensiero fluido, neo-esistenzialista, che vuole trovare soluzioni individualistiche, anche estreme, al senso di precarietà delle giovani generazioni e ai conflitti quotidiani. Nel secolo scorso il pensiero della crisi veniva legittimato, dai filosofi e dagli intellettuali esistenzialisti, da una riflessione tragica e traumatizzante legata all’esperienza delle due guerre mondiali, mentre oggi, il pensiero pragmatico e postmoderno, caratterizzato dal crollo delle utopie e dei valori collettivi, trova soluzioni personali da contrapporre alla cultura dominante; in questo senso ai problemi di una collettività sociale vengono date risposte individuali,

h Arcangelo Sassolino | Senza titolo, 2006-2007, acciaio e sistema idraulico Courtesy l’artista | Photo: Fausto Caliari e Federico Perezzani k Nathalie Djurberg | Turn into Me, 2008, Clay animation, video, 7’10’’ Musica di Hans Berg | Courtesy l’artista e la Fondazione Prada, Milano A PAGINA 3, DALL’ALTO:

Annegret Soltau | Permanente Demonstrationam 19.1.1976 1976, fotografia, cm. 62 x 51 con cornice | © Annegret Soltau. All Rights Reserved Chiharu Shiota | In Silence, 2008, lana nera, pianoforte bruciato Centre PasquArt, Biel | Photo: Sunhi Mang | © Chiharu Shiota. All Rights Reserved Adrian Ghenie | Pie Fight Interior, 2012, Olio su tela, cm. 208,9 x 161,2 Courtesy l’artista e The Pace Gallery

che generano cortocircuiti e anomalie estetiche ai limiti della patologia. La memoria, la paura, la morte e il male diventano tòpoi culturali, soggetti di investigazione, sublimazione esistenziale che si riflette nell’arte contemporanea.

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L’opera d’arte afferma così il suo potere liberatorio nella capacità di canalizzare “il nostro nichilismo aristotelico” (Mehdi Belhaj Kacem, 2012) e diviene metafora concettuale nel rapporto tra la vita e la realtà.

FRANCIS BACON

E LA CONDIZIONE ESISTENZIALE NELL’ARTE CONTEMPORANEA CENTRO DI CULTURACONTEMPORANEA STROZZINA Fondazione Palazzo Strozzi 5 ottobre 2012 | 27 gennaio 2013 Piazza Strozzi - 50123 Firenze

Orario martedì/domenica: 10-20 giovedì: gratuito 18 - 23 lunedì chiuso

INFO Segreteria: +39 055 391711 Biglietteria: +39 055 2645155 http://www.strozzina.org/

Con il supporto di: Comune di Firenze | Provincia di Firenze | Camera di Commercio di Firenze | Associazione Partners Palazzo Strozzi Regione Toscana | Unicoop Firenze, Ataf Francis Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea è organizzata dal Centro di Cultura Contemporanea Strozzina in collaborazione con la Dublin City Gallery The Hugh Lane (Dublino). Il catalogo della mostra (italiano/inglese) è pubblicato da Hatje Cantz, con i contributi di Franziska Nori, Barbara Dawson, Martin Harrison (storico dell’arte e curatore del catalogo ragionato di Francis Bacon) e Michela Marzano (filosofa e docente presso l’Università Descartes di Parigi).

La mostra si tiene in contemporanea all’altra esposizione in corso a Palazzo Strozzi:

ANNI TRENTA. ARTI IN ITALIA OLTRE IL FASCISMO PALAZZO STROZZI 22 settembre 2012 | 23 gennaio 2013

La mostra offre uno sguardo sulla grande sperimentazione creativa che caratterizzò l’Italia degli Anni Trenta e che vide schierati tutti gli stili e tutte le tendenze, dal Classicismo al Futurismo, dall’Espressionismo all’Astrattismo, dall’arte monumentale alla pittura da salotto.

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di Silvio Lacasella

bi, così come assai ben dipinta è la figura di San Giuseppe, però che dire dell’ “angelo che guida il giumento”, se non che pare uscito da un quadro di Balthus (un caso di prodigiosa fuga temporale?). E gli animali? “Ritratti dal vivo” sono “veramente naturali e quasi vivi” oppure, come a chi scrive sembra, oltre ad essere collocati come avrebbe potuto fare un espositore intenzionato a venderli, paiono impagliati? Una linea di continuità che non conduce a Giovanni, bensì a Gentile Bellini, come già peraltro era visibile nella pala di Jacopo Pesaro, di qualche anno però precedente. E’ stata stabilita anche una datazione per questa Fuga in Egitto: il 1507 (proprio l’anno della morte di Gentile Bellini). Come può essere che contemporaneamente o di lì a poco Tiziano dipinga il Concerto della Galleria Palatina di Palazzo Pitti? Prova armoniosa e sofisticata nell’invenzione compositiva, le cui figure, pur disegnate con minuzia, paiono scontornate da una luce interiore che le proietta in superficie. Come sappiamo, infatti, e com’è facile sempre vedere, la luce in Tiziano (ma non solo in Tiziano, in Rembrandt ad esempio) non v’è possibilità che si posi sulle figure unicamente dall’esterno, come nella Fuga in Egitto, ma si fonde con essa dopo essere fuoriuscita, luminosissima, da vertiginose profondità, calda di emozione. Accanto al quadro dell’Ermitage, una quindicina di opere di artisti ope-

ranti in quegli anni a Venezia o suggestionati dal clima veneziano, testimoniano la straordinarietà di una pittura che aveva finalmente riconosciuto al paesaggio una sua centralità, valorizzandone la grande forza evocativa: Giovanni Bellini, Giorgione, Cima da Conegliano, Sebastiano del Piombo, Dosso Dossi, ma anche Durer e Bosch le cui opere in laguna furono guardate con grande attenzione.

G Giorgione La tempesta, olio su tavola, cm 82 x 73 Venezia, Galleria dell’Accademia SOPRA IN SENSO ORARIO

Giorgione Omaggio al poeta, olio su tavola, cm 58 x 48

Londra, The National Gallery

Tiziano Vecellio Autoritratto (particolare) Tiziano Vecellio La Fuga in Egitto

1507, olio su tela, cm 206x306 San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage

TIZIANO LA FUGA IN EGITTO E LA PITTURA DI PAESAGGIO GALLERIA DELL’ACCADEMIA

fino al 2 dicembre 2012 Venezia Mostra a cura di Irina Artemieva Giuseppe Pavanello Catalogo Marsilio editore

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La storia dell’arte, come si sa, è piena di fughe, anche se il pensiero va subito alle innumerevoli rappresentazioni che gli artisti nei secoli hanno dato de La fuga in Egitto, episodio evangelico tra i più amati e ricorrenti nell’iconografia religiosa, di fronte al quale all’osservatore non è unicamente chiesta devozione, quanto di stabilire con naturalezza un rapporto diretto, poetico e umano, fatto di sensazioni “terrene”. Vi riconosciamo, infatti, uno stato d’animo che in una certa misura sentiamo nostro. Almeno tutte le volte in cui, per costrizione o per scelta, ci sentiamo obbligati a fuggire da una condizione interiore che non ci appartiene. Non a caso, qui, è Giuseppe il protagonista, presenza rassicurante e silenziosa. Non sarà martire, non scriverà Vangeli, accetterà persino di essere ricordato per non aver concepito il proprio figlio. Sarà proprio lui però, in questa circostanza, a portare in salvo il Bambino e la Madonna, dopo essere stato avvertito da un sogno premonitore delle feroci intenzioni di Erode. Potessimo scorrere velocemente le immagini dedicate a questo tema in ogni secolo e in ogni area geografica, ci accorgeremmo subito di una cosa: niente fa pensare ad una fuga. Il passo è lento, misurato. Non trapelano preoccupazione ed ansia dal volto maturo di Giuseppe, mai raffigurato nel fiorire degli anni. Al contrario della Madonna che, prima serena, poi malinconica e infine affranta, oltre trent’anni dopo ai piedi della Croce, manterrà intatti i suoi giovani lineamenti. Fughe in Egitto dunque, ma l’arte conosce bene anche le fughe temporali, quasi fosse dotata di sensori emotivi proiettati in avanti, a scavalcare il proprio tempo. E poi le fughe attributive, frequentissime quando documentazioni e riscontri scientifici risultano insufficienti. Queste molto assomigliano alle fughe prospettiche: di una prospettiva però interiore, che avvicina e allontana i piani di valutazione come fossero zattere galleggianti, a seconda dell’autorevolezza di chi le indica e del momento in cui viviamo. Per quanto lo sguardo sia concentrato sull’immagine, infatti, il nostro vedere è influenzato anche da ciò che ci circonda. Ed è naturale che sia così. La mostra ora allestita alle Gallerie dell’Accademia, intitolata Tiziano – La fuga in Egitto e la Pittura di Paesaggio, a cura di Irina Artemieva e Giuseppe Pavanello fornisce, in forma involontaria e proprio su questi temi, uno spunto assai importante di riflessione, incentrata com’è sulla grande tela (206 x 306 cm) da sempre attribuita al maestro cadorino, in Russia dal 1768 e custodita nelle sale del Museo dell’Ermitage. Dopo quasi 250 anni questa è la prima volta che il dipinto varca i confini e ciò accade alla fine di un impegnativo restauro durato ben 12 anni (all’incirca quanto fu impiegato per riportare a splendore l’intero ciclo di affreschi di Piero Della Francesca ad Arezzo, tanto per prendere a caso un termine di paragone). Una Fuga in Egitto accompagnata da testimonianze autorevoli e lontane, che parrebbero sigillarla tra le opere certe di Tiziano. Primo tra tutti Vasari, che probabilmente vide il dipinto nel suo viaggio a Venezia nel 1542 , per poi ricordarlo nelle celebri Vite ventiquattro anni dopo con queste parole: “Un quadro grande di figure simili al vivo [...] è dipinta la Nostra Donna che va in Egitto, in mezzo ad una gran boscaglia e a certi paesi molto ben fatti, per aver dato Tiziano molti mesi a fare simili cose, e tenuto per ciò in casa alcuni Tedeschi, eccellenti pittori di paesi e verzure. Similmente nel bosco di detto quadro fece molti animali, i quali ritrasse dal vivo e sono veramente naturali e quasi vivi. Ma anche Carlo Ridolfi nel 1648 ne dà una descrizione assai precisa: E per la medesima casa (Grimani Calergi, attuale sede del Casinò) fece un quadro ad oglio di Nostra Donna con figlio in seno, che passa nell’Egitto, seguita da San Giuseppe; un angelo guida il giumento, e per le herbe passeggiano molti animali corteggiando il loro Signore: vi è una cortina di alberi molto naturali, e lontano un soldato e Pastori. Tutto corrisponde, come dubitarne. Così come è impossibile rimanere indifferenti di fronte alla traboccante ammirazione espressa in versi da Morco Boschini (1660): Quadro che ognun che ‘l vede el se ghe inchina/ Opera umana no, ma ben divina. Eppure, è proprio di fronte a questi commenti entusiastici che una forma di dubbio già presente, ma difficile da descrivere, si espande. Può essere che quest’opera “umana no, ma ben divina” presenti al suo interno una discontinuità qualitativa così evidente, un impianto compositivo da tirocinante e privo delle sorgive ambizioni, che un giovane dotato di genialità, qual era Tiziano, da subito e per forza d’istinto alimentava? Le parti di natura mostrano la mano di un eccellente pittore, su questo non possono esserci dub-


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di Silvio Lacasella

Colto, strenuo difensore della propria vita privata, severo e rigoroso con gli altri quanto con se stesso, quasi sempre insoddisfatto, acre e sferzante nei giudizi, alcuni dicono misogino, questo era Degas e quando muore a Parigi, nel 1917, lui che in vita non ebbe mai un allievo, pare voler salire in cattedra, per impartire l’ultima sua lezione. Stabilisce, infatti, che sulla tomba vengano incise queste parole: Amò molto il disegno. Una breve dichiarazione che non solo vuole sottolineare una volta di più e con fermezza l’autonomia della propria ricerca, ma è come se ci dicesse: “Io, nell’avanzare, a differenza di tanti, non ho mai pensato di recidere i fili col passato”. E sappiamo quali passi in avanti fece la pittura in quegli anni. Il cimitero è quello nella collina di Montmartre, alle pendici della quale, nel 1834, egli nacque e abitò per tutta la vita. Dove riposano grandi musicisti, quali Berlioz e Offenbach (la musica fu parte della sua vita. Persino mentre lavorava canticchiava le arie di Cimarosa), ma c’è anche l’amico Gustave Moreau, da lui definito l’eremita che sapeva a memoria gli orari dei treni. Avrebbe potuto scriverlo Ingres quell’epitaffio, l’artista che Degas più di ogni altro portò nel cuore, sin dal giorno in cui, pieno di trepidazione, agli esordi,

andò a fargli visita, con la speranza di ricevere un consiglio. Fu in quell’occasione che Ingres, oramai anziano, dopo aver osservato alcuni suoi lavori, gli disse: Fate delle linee… fate molte linee, sia a memoria, sia dal vero giovanotto, e diventerete un buon artista. Le linee, dunque il disegno: i contorni, il dettaglio, il tratteggio, la forma, il metodo. Una dichiarazione di riconoscenza e fedeltà, non solo ideale, nei confronti dell’arte classica. Ed ecco, le numerosissime visite al Louvre, solo o in compagnia del padre banchiere, appassionato d’arte. Poi i grandi musei Italiani (il sillabario sul quale si impara a leggere), visitati durante i ripetuti soggiorni, dal ’54 al ’58 e poi, di nuovo, nel 1886: Firenze, Napoli, Roma. Le copie da Mantegna, da Goya, da Durer, da Rembrandt, lo sguardo attento su Poussin, in modo da rielaborarlo quando arriverà il momento di comporre quei pochi quadri con soggetto storico che gli servirono per partecipare ai Salon parigini. Classico e moderno. Audace sperimentatore e, al contempo,fine e attento esecutore, la cui andatura pittorica non andrà mai a creare una situazione deragliante nei confronti della tradizione. Sorprende saperlo inserito nel gruppo degli Impressionisti. Vero è che egli espose quasi ininterrottamente assieme a


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loro per sette volte, a cominciare dalla prima mostra del 1874 (organizzata nello studio del fotografo Nadar). Impressionista lo diventò allorché le circostanze, nella parte finale della sua vita, glielo imposero. Quando cioè il progredire di una malattia agli occhi lo rese praticamente cieco. Fu in quel momento che egli chiese alla luce d’intervenire con maggior forza, plasmando i soggetti. Sentì anche l’esigenza di sviluppare un contatto “tattile” con la materia, modellando sculture in cera: un punto altissimo all’interno del suo percorso.

sì si può dire. Uno spazio raccolto e articolato che permette una sintesi perfetta: gli inizi legati ad Ingres; la pittura di Storia; le figure e i ritratti (il solo Autoritratto del 1855 o la grande tela de La famiglia Belleli, iniziata a Firenze nel 1858 e terminata a Parigi nel ’69 varrebbero il viaggio); gli interni; le celebri “Ballerine” in movimento, così come il movimento caratterizzerà le scene con le corse dei cavalli. Annoterà Valery riflettendo sulla sua pittura: Quattro unghie lo portano. Nessun animale somiglia alla prima ballerina, quanto

Purtroppo, molte di queste sculture dopo la sua morte vennero fuse in bronzo, conferendo ad esse una patina diversa. Ottanta opere di Edgar Degas da Parigi sono ora giunte nella più francese tra le città italiane, Torino. Erano molti anni che in Italia non si vedeva una mostra così importante di Degas (sino al 27 gennaio 2013 e accompagnata da un catalogo edito da Skira), il pensiero va all’oramai lontano 1985, quando a Roma, nella sede di villa Medici, dell’autore si intese scandagliare il periodo italiano. Questa torinese, ripercorre con opere significative e in parecchi casi emozionanti (circa ottanta, tra disegni, pastelli, sculture e dipinti), l’intera sua vicenda artistica. D’altronde, provengono tutte dalla maggiore raccolta al mondo di Degas: il Musée d’Orsay e questo potrebbe essere un difetto, se non fosse che qui a Torino le splendide sale della Promotrice delle Belle Arti, al Valentino, formano una cornice ideale e degasiana, se co-

un purosangue in perfetto equilibrio. Il pittore francese sorprende per l’innovativo taglio fotografico: dal basso, dall’alto, cogliendo di sorpresa il soggetto, con inquadrature assai ardite, quasi cinematografiche. Poi la lunga serie dei “Nudi” alla tinozza o seduti sul bordo della vasca, scontornati da una luce diversa, appunto. Ripresi anche in questo caso con prospettive per nulla rituali, quasi sempre di spalle e inseriti in atmosfere intime e malinconiche. E qui c’è già Luchino Visconti. Delle sculture s’è detto, per tutte La tinozza, un vero capolavoro: la velocità esecutiva pare sciogliere la forma, oltrepassando Rodin, in direzione di Medardo Rosso. In mostra vi sono anche tre pastelli su carta raffiguranti “Paesaggi”, tema meno usuale per Degas (ne fece circa cento, contro oltre duecento soggetti legati al ballo) e anche questo segnala la sua distanza dagli Impressionisti. Oltre ad essere disegnati in studio, lontano dal soggetto (non parlate di plein air in mia presenza) questi scorci di natura paiono illuminati da una luce artificiale, quasi fossero i fondali polverosi di una rappresentazione teatrale. Mentre usciva da una mostra di Monet lo si sentì dire: Me ne vado, tutti questi riflessi d’acqua mi fanno male agli occhi” per poi aggiungere in un altro momento: Nessuna arte è meno spontanea della mia, è tutta di riflessione. Infatti, è altrove che occorre cercarlo. All’interno, non all’esterno. In quei ritratti pensati per indagare in profondità il soggetto (non a caso sono quasi sempre persone a lui familiari). E’ facile trovarli sulla tela con sguardi assenti, lontani. Come tutti i grandi artisti egli sente di essere distante da ciò che il suo animo vorrebbe realizzare. Lo pensa in continuazione, lo dice: Ho visto cose bellissime, grazie alla diversa prospettiva suggerita dalla mia perenne insoddisfazione, e quello

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che mi consola ancora è che non smetterò di osservare. E ancora: Je travaille avec la plus grand peine, et je n’ai que cette joie la ed è così toccante e bello il suono di queste parole uscite dalla bocca di un uomo burbero, che sarebbe un errore tradurle. Neppure la sua pittura va tradot ta. Una volta entrati in Degas, lasciare che essa ci emozioni è più che sufficiente.

SOPRA

h Edgar Degas

Il riposo, olio su tela A SINISTRA

f Edgar Degas

Quattro ballerine, 1899, pastello A PAGINA 6

j Edgar Degas

La classe di danza, olio su tela

EDGAR DEGAS CAPOLAVORI DAL MUSéE D’ORSAY PALAZZINA PROMOTRICE DELLE BELLE ARTI

18 ottobre 2012 | 27 gennaio 2013 viale Balsamo Crivelli, 11 Torino

Mostra a cura di Xavier Rey Organizzata e prodotta da Skira Comune di Torino Main Sponsor BNL INFO carla.piro@comune.torino.it tel +39 011 4421976 lucia@luciacrespi.it tel. +39 02 89415532 +39 02 89401645

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di Rossella Di Giacomo

Milano sperimenta l’utopica installazione creata dall’artista argentino Tomas Saraceno, con la cura di Andrea Lissoni. Fino al 3 febbraio l’HangarBicocca ospita On Space Time Foam, opera site specific dove arte e scienza sono in strettissima relazione tra loro. Il lavoro di questo artista e architetto, stabilitosi a Berlino, è costituito da installazioni visionarie dove il pubblico partecipa attivamente e diviene un elemento fondamentale dell’opera stessa. Sono installazioni generate da una riflessione profonda su temi cruciali della cultura contemporanea: la volontà di superare le barriere geografiche, comportamentali, sociali; l’utilizzo della tecnologia per la ricerca di modalità sostenibili per l’uomo e per il pianeta. Ma è l’aspetto ludico che in apparenza ne contraddistingue i tratti, e, non a caso,

Saraceno trae spunto dalle teorie di Bruno Munari per l’utilizzo del gioco come modalità di scoperta e apprendimento, e la modularità degli elementi costruttivi come base per la creazione di strutture complesse. On Space Time Foam, ispirata alla forma cubica dello spazio espositivo, ha portato l’artista e il suo team attraverso diverse fasi progettuali fino a giungere alla conformazione finale, quella di una struttura fluttuante sollevata tra i 14 e i 20 metri di altezza e costituita da tre membrane che diventano tre livelli praticabili dal pubblico. Il Cubo, ha influenzato Saraceno nella realizzazione di una installazione in cui i movimenti dei visitatori rappresentano la variabile temporale, introducendo il tema della quarta dimensione all’interno dello spazio tridimensionale. Lo spazio si genera con l’ingres-


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so delle persone, si modifica con il loro peso. Saraceno, ispirandosi liberamente alle teorie della meccanica quantistica sulle origini dell’universo, attraverso On Space Time Foam ne rende visibile metaforicamente il funzionamento, ovvero l’idea delle particelle subatomiche in movimento in grado di causare mutamenti nella materia spazio-temporale. Ma On Space Time Foam può essere letta secondo diversi livelli interpretativi che lasciano libero il pubblico di mettere in discussione le certezze percettive, di relazionarsi con le persone e con lo spazio, di superare utopicamente le leggi della gravità.

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È una grande architettura fatta d’aria dove i corpi rimangono sospesi a 20 metri dal suolo che scivolano, strisciano o si arrampicano, forse volano, sprofondano, ma condividono insieme un diverso modo di percepire e abitare lo spazio. Il progetto per HangarBicocca va considerato un importante momento del percorso di sperimentazione artistico/scientifica di Saraceno in grado di mettere in relazione l’ambito simbolico e immaginifico dell’arte, quello ingegneristico della ricerca sui materiali e sulle tecnologie, quello culturale e antropologico della riflessione sul futuro che ci aspetta.

Autore: TOMáS SARACENO (San Miguel de Tucumán, Argentina, 1973)

| Curatore: Andrea Lissoni

L’OPERA

All’HangarBicocca Saraceno realizza On Space Time Foam, una struttura fluttuante costituita da tre livelli di pellicole trasparenti praticabile dal pubblico, ispirata dalla conformazione cubica dello spazio espositivo. L’opera, che ha richiesto mesi di progettazione e sperimentazione con un team multidisciplinare di architetti e ingegneri, avrà il suo naturale proseguimento in un importante progetto che l’artista realizzerà durante una residenza al Massachusetts Institute of Technology - MIT di Cambridge (MA). On Space Time Foam è un’opera molto particolare, inusuale e suggestiva. Si può considerare un esperimento che richiede innanzitutto disponibilità a interagire, senso di responsabilità individuale e collettiva e condizioni speciali sia di comportamento sia di manutenzione. Ecco perché sono previste una serie di norme e di suggerimenti che ne possano garantire la migliore fruizione possibile al pubblico per tutta la durata della mostra.

L’opera è sempre visitabile al piano terra. La prenotazione per l’accesso ai piani superiori dell’opera deve avvenire strettamente in loco ed esclusivamente per il primo orario disponibile del giorno stesso di visita. Non verranno accettate prenotazioni né telefoniche né via mail. Per rendere effettiva la prenotazione è necessario presentarsi con un documento di identità valido provvisto di fotografia. NON È CONSENTITO ACCEDERE AI PIANI SUPERIORI DELL’OPERA AI MINORI DI 18 ANNI SI CONSIGLIA DI NON ACCEDERE AI PIANI SUPERIORI DELL’OPERA A: persone che soffrono di attacchi di panico, claustrofobia, crisi epilettiche, problemi di equilibrio e/o deambulazione, problemi respiratori, tachicardia, vertigini | donne incinte | persone di peso superiore ai 100 kg | diversamente abili. TEMPO DI PERMANENZA ALL’INTERNO DELL’OPERA: 15 MINUTI (10 PERSONE OGNI 15 MINUTI). ULTIMO INGRESSO 21.45


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l’ARTE

novembre | dicembre 2012

di Michele Romano

L’evento contemporaneo che relaziona arte e territorio, inaugura la quinta edizione di Arte Contemporanea a Villa Pisani, progetto che da quest’anno assume cadenza biennale: Niele Toroni e Arthur Duff sono gli artisti invitati a ideare e realizzare opere inedite per la Villa Pisani Bonetti a Bagnolo di Lonigo nel vicentino, capolavoro giovanile dell’architettura di Andrea Palladio. Lo spazio o il genius loci, non solo veneto ma palladiano, è una delle risorse di rilettura contemporanea dell’area suburbana della campagna o dell’entroterra veneziano, infatti dal 2007 Manuela Bedeschi e Carlo Bonetti, collezionisti d’arte contemporanea e attuali proprietari della

Villa, hanno riavviato coordinati dalla curatela di Luca Massimo Barbero, un progetto di committenza contemporanea: non più lo spazio costruito nel rinascimento veneto ma l’opera che dialoga nell’area che lo circonda, un colloquio di interni/ esterni, volumi e natura. I due artisti, apparentemente distanti, per area geografica e cronologica, mostrano, in questa intelligente curatela di Francesca Pola, delle opere pensate per dialogare con il luogo e gli spazi di una dimora abitata, in una dimensione privata e vissuta che non è soltanto uno spazio espositivo. Niele Toroni (Muralto, Locarno, 1937) è un artista svizzero, si pone tra l’ Arte concettuale e il Minimalismo,

ni laser e a neon proposti al Macro di Roma nell’opera Rope, si rimodellano in questo nuovo intervento spaziale dove luce e movimento sono elementi fondanti per una delle grandi sale d’angolo. Dal soffitto ligneo crea nell’oscurità una proiezione di luce, un laser di messaggi dinamici o a scorrimento, a seconda dell’angolarità della visione, realizzando un senso dinamico dello spazio, nello spazio della lettura-visione dell’opera. Installazione e partecipazione attiva della presenza dello spettatore che coinvolto da questa direttrice magenta identifica le coordinate dello spazio rinascimentale. Inoltre, lo stesso Duff, nei meandri e nelle viscere dell’architettura palladiana dipana nodi e nuclei spaziali, che rievocano i circuiti astronomici tra macro e microcosmo. ARTE CONTEMPORANEA A VILLA PISANI: ARTHUR DUFF & NIELE TORONI

VILLA PISANI BONETTI

24 giugno | 10 novembre 2012 via Risaie, 1 Bagnolo di Lonigo (VI) Evento a cura di Francesca Pola Catalogo in mostra Orario lunedì/venerdì: 15-17 sabato: 10-12 Tutti i giorni su appuntamento

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h Arthur Duff | Sign about the past but feel it in the present 2012, proiezione laser, dimensioni variabi (fotografia di Lorenzo Ceretta)

con un metodo di lavoro consistente nell’applicare su una qualsiasi superficie un’impronta di pennello n. 50 a intervalli regolari di 30 cm. Il gesto di imprimere il pennello è da Toroni volutamente ridotto alla sua essenzialità e ripetuto secondo una regolarità che ne denuncia il metodo di realizzazione. La sua pittura concretizza un senso del lavoro che Toroni ama definire “travaux/peintures” che, pur nella sua ripetizione costante e nella sua regolarità, acquista a seconda del contesto delle valenze sempre nuove. A Villa Pisani Bonetti l’artista ha scelto il salone centrale come narrazione tra la loggia e il fiume, veduta e natura, segnata dalla grande finestra termale cieca nella parte superiore e sulle due piccole porte in quella inferiore. Niele Toroni, nella sua ascesa regolare e nella modularità del suo agire a pennellata fissa, dialoga con la forza dinamica dello spazio: aperture e chiusure, movimento e reintegrazione temporale, serialità e paesaggio. Non a caso nei luoghi underground della villa cinquecentesca, le cantine, l’artista svizzero interviene nei passaggi, nei luoghi di transito con una triangolazione visiva. Invece, Arthur Duff (Wiesbaden, Germania, classe 1973) coerente alla sperimentazione contemporanea identifica la sua opera in un dialogo osmotico di natura concettuale, quell’idea di spazio o spazi finiti e infiniti, attraverso la luce. Le sue proiezio-

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di Michele Romano

ENERGIE FLUIDE GALLERIA CIVICA D’ARTE CONTEMPORANEA “MONTEVERGINI”

via Santa Lucia alla Badia, 1 | Ortigia (Siracusa)

Nello spazio sperimentale della Galleria civica d’arte contemporanea “Montevergini” di Siracusa sono state presentate le opere di un fluxus aretuseo, una quadrupla visione della ricerca artistica. Bonnici, Canigiula, Forzisi e Pravato si mostrano attraverso una sinergia univoca e pluridirezionale, dalla gestualità segnica e pittorica alla matericità della forma che si trasmuta in trasparenze fluide. Segni, forme e variazioni tematiche che suscitano intime spazialità, in una chiara e duplice conversazione tra spazio e oggetto visivo. La comunicazione è sintomo di una duplicità corale, dove ogni espressione plurimaterica è indice d’indagine intima e urbana, tra trasmutazione del genius loci e la pura metamorfosi dell’essere e del fare artistico. Complicità tra policromie e materia, navigazioni narranti e volatili ferrei, è questa la ricerca di una diagonalità interattiva, di una comunione di amorosi sensi, dove il fare si identifica in pura narrazione dell’Anima. A SINISTRA

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Veduta dell’allestimento della mostra all’interno della grande aula della Galleria


novembre | dicembre 2012

Dal 2 all’8 ottobre, si è svolta al Mart di Rovereto, una Malaktion (pittura-azione) dell’artista viennese Hermann Nitsch conclusasi, in concomitanza con la giornata del contemporaneo (AMACI), con una performance della durata di otto ore. Dopo cinquant’anni dalle prime azioni pittoriche il Maestro ha fatto rivivere lo spirito del Wiener Aktionismus ricercando nuovi spettatori-attori del proprio rituale. Nato nel 1963 da Hermann Nitsch, Otto Mühl, Gunter Brüs e Rudolf Schwarzkogler, l’Azionismo Viennese si caratterizza per aver ricercato i limiti del corpo e della mente per mezzo di performances ed azioni spesso violente ed autolesionistiche. Alla celebrazione artistica di Nitsch abbiamo partecipato anche noi due, Simone e Sabina, studenti del quarto anno del Liceo Artistico Depero di Rovereto (TN). Abbiamo avuto l’opportunità unica di essere per una settimana assistenti del Maestro. La prima volta che abbiamo incontrato Nitsch eravamo molto eccitati. Conoscevamo da tempo il suo lavoro e finalmente era lì, davanti a noi, appena arrivato da Prinzendorf. Lo abbiamo subito aiutato a scaricare il materiale per la performance. Dai camion uscivano pigmenti, camici, libri e soprattutto, immense e pesanti tele. Naturalmente la fatica non era finita lì, ed il giorno dopo abbiamo preparato la sala per la performance ricoprendo tutta la galleria B del Mart con carta e plastica. Durante la preparazione, il Maestro stava seduto silenzioso su una sedia osservandoci lavorare (a volte anche scivolando tra le braccia di Morfeo…). Lo sforzo fisico è stato appagato quan-

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do Rita, la moglie di Hermann, ci ha consegnato candidi camici da indossare durante l’Azione e che sarebbero diventati parte integrante delle opere dipinte. Cominciavamo a renderci conto di essere coinvolti in prima persona in un’opera d’arte. Una volta preparato il colore, un’intera gamma di tonalità del rosso (tra cui “Karminrot”, il suo preferito), Hermann Nitsch ha iniziato a versarlo con forza, con un gesto impetuoso, realizzando sulla superficie della tela una colata a forma di imbuto. Dopo averci spiegato come lanciare il colore sulla tela ognuno di noi ha preso un cilindro colmo di rosso, ed uno alla volta …splash! Il colore si spargeva e si dilatava, mischiandosi agli altri toni. Più le tele si riempivano, più se ne poteva vedere l’effetto sui nostri camici, che poco a poco si sporcavano di macchie e colature. Questo gesto era il momento più bello, poiché potevamo sfogare tutte le nostre tensioni e vederle impresse sulla tela. Quando Nitsch ci fermava con un cenno, era il momento della ”Prozession”: tutti scalzi, uno dietro l’altro, camminavamo lentamente sulle tele sentendo il colore freddo e colloso che si mischiava e fondeva sotto i nostri piedi. Così una tela dopo l’altra, passo dopo passo, le nostre impronte riempivano la fascia centrale dei quadri. Una volta terminato, si ricominciava da capo con la processione, su e giù almeno dieci volte, finché Nitsch ci ordinava di fermarci. Una dopo l’altra le tele venivano messe su dei cavalletti, e impastando il colore direttamente sul supporto con le mani, lasciavamo impresso sulla superficie il movimento delle nostre dita. “Simo, dai muoviti, che stanno già fa-

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di Sabina Lorenzi e Simone Melis cendo il colore!”... “Sì, sì, un attimo che non trovo il camice!”...“Sembra di essere tornati al primo giorno, con le tele ancora nuove, i vestiti candidi e il pavimento lindo!” Cominciò così sabato, l’ultimo giorno e anche il più importante.Si presentava come una giornata ricca di aspettative per l’arrivo del grande pubblico, giunto fin qui soltanto per noi. Tutti i presenti hanno avvertito una certa suspence quando Nitsch, lentamente, ha preso in mano il colore dando il via alla performance finale. L’emozione provata è stata molto più grande dei giorni precedenti perché il pensiero del “chissà cosa farà ora!” era svanito e quindi, non restava altro che la magia della sua pittura. Il tutto era accompagnato dalle composizioni musicali del Maestro, che riuscivano a coinvolgerci in maniera profonda per l’intera durata della performance; il pubblico era meravigliato e tra artisti, amici o semplici curiosi, molti scattavano foto e alcuni oltrepassavano le transenne pur di veder da vicino Hermann in azione. Alla fine delle otto ore di lavoro, la performance si è conclusa con un grande abbraccio con tutti gli assistenti, gli amici della Fondazione Nitsch di Napoli ed il personale del Mart, e un brindisi con il vino prodotto con l’uva dei vigneti di Prinzendorf. Questa esperienza ci ha aperto molte prospettive sul modo di intendere e concepire un’opera d’arte e ci ha rivelato inaspettate informazioni sul processo che porta l’artista alla realizzazione dell’opera.

SOPRA E IN ALTO

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Alcuni momenti della Malaktion di Hermann Nitsch al Mart di Rovereto


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l’ANNIVERSARIO

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di Silvio Lacasella Pare essere stata la natura ad affidare a Michelangelo il compito di decorare la volta della Cappella Sistina, punto nevralgico per la cristianità, nonché stazione di confine tra il prima e il dopo, tra l’esperienza terrena e il trascendente. E questo accadde nel 1504, allorché, all’interno della struttura, una serie di crepe larghe come saette (forse anche causate dai lavori nel vicino cantiere della Basilica di San Pietro) si presentarono in modo preoccupante nella parte alta della sala, a quel tempo dipinta con un cielo uniforme, punteggiato da stelle dorate. Fu, infatti, a seguito di quell’emergenza, terminati i necessari lavori di ristrutturazione, che Papa Giulio II pensò di affidare al grande artista fiorentino la colossale impresa di dipingerne la volta, seguendo anche il consiglio di Bramante. Anche se, c’è da credere che il grande architetto sperasse malignamente di fare un torto a Michelangelo, suo nemico, sapendolo quasi a digiuno nella tecnica dell’affresco, non fosse che per i primi rudimenti appresi nell’oramai lontano periodo di apprendistato trascorso nella bottega di Ghirlandaio, quando vi arrivò tredicenne. Ci mise due anni Giulio II a convincerlo, non solo perché Michelangelo (1475-1564) si sentiva scultore, più che pittore, ma perché aveva capito che accettare quell’incarico avrebbe provocato un punto di interruzione eccessivamente lungo all’altra sua impresa, da poco avviata e a cui teneva moltissimo: la realizzazione, in San Pietro, della tomba del Papa. Cosa questa che, evidentemente, aveva messo nel conto anche Bramante. Come poi è andata lo sappiamo. Nel 1508, dieci anni dopo aver scolpito la Pietà, Michelangelo inizia ad arrampicarsi come un geco su quella volta, confondendo la notte con il giorno. E’ però necessario immaginarlo, altrimenti si fa fatica a parlarne: la sua è un’impresa solitaria, in vetta a dialogare con se stesso, misurando i propri limiti (dirà Goethe: Senza aver visto la Cappella Sistina non è possibile formarsi un’idea di cosa un uomo da solo sia in grado di ottenere). Egli avrà modo di manifestare in piena libertà la propria indole attraverso il segno inciso nell’intonaco ancora fresco, la sapienza prospettica, la ricerca del movimento, la chiarezza del racconto, ma anche, e soprattutto, attraverso la qualità timbrica del colore, con contrasti decisi, talvolta acidi e violenti, i medesimi che verranno fatti loro dai Manieristi, Pontormo e Rosso Fiorentino, in particolare. Di Vasari non occorre dire, se non che rimase folgorato dal suo genio, al punto da scrivere che il benignissimo Rettore del cielo […] dispose di mandare in terra uno spirito (capace) di praticare la maniera difficile con facilissima facilità lodandone il grado di sapienza con la quale riusciva ad unire la vera filosofia morale, con l’ornamento della dolce poesia e non meno “nella vita, nell’opera, nella santità dei

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costumi e in tutte l’azzioni umane era più tosto celeste che terrena cosa. Quello che per “troppo amore” non capì Vasari è che Michelangelo, anche e specialmente lassù, immerso in una condizione di costante penombra, solo parzialmente rischiarata da qualche finestra o dal bagliore delle torce e dalle candele, non era il mistico che l’autore delle “Vite” aveva idealizzato. Ma, più ancora sorprende come Vasari dia per scontato che Michelangelo si accostasse all’arte con “facilissima facilità”. Era sempre scontento, toccato dal dubbio: lo dice più volte e, quando non lo dice, lo fa capire. La consapevolezza che la sua mano fosse mossa da un talento impressionante, amplifica in lui questo sentimento. Sibille e Profeti. La Creazione, la Cacciata dal Paradiso terrestre, la scena con Noè che ringrazia il Signore dopo il Diluvio: volti ed episodi lavorati con una minuzia di particolari che da lontano sarà impossibile cogliere. Michelangelo lo sa, ma, in cuor suo e prima di ogni altra cosa, egli vuole soddisfare se stesso e, pur di riuscirci, si lancia in questa nuova, enorme impresa. Cerca di riassumere all’interno di una sola opera l’illimitata complessità dei sentimenti che accompagnano l’animo umano. Ma, appunto, è nell’avvicinarsi alla perfezione che egli, ancora una volta, pare individuare con crescente nitidezza, i segni della propria sconfitta. Questo gli crea grande tormento e anche qui è annidata la sua grandezza. Non maschera né disperde la sua rabbia, vive le sue contraddizioni: era anche un uomo avaro, scontroso, arrogante, presuntuoso. È proprio il sapersi uomo, in costante dialogo con la morte, la più vitale delle sue energie. Quattro anni di lavoro. Quattro lunghissimi anni, evitando per quanto possibile ogni interruzione, superando caparbiamente ogni difficoltà, con la testa e le mani verso l’alto e il corpo sdraiato per ore sulla schiena, in bilico sui ponteggi dell’epoca, senza caschetto protettivo, a oltre venti metri dal pavimento, in quella Cappella voluta da Sisto IV della Rovere nel 1473. Progettata con l’intento di ricreare uno spazio combaciante col tempio di Salomone a Gerusalemme: 40,93 metri di lunghezza , 13,41 metri di larghezza e 20,70 di altezza. Michelangelo: il suo genio, la sua forza, il suo coraggio, trascinano lo sguardo stupito, oltre che ammirato, in un vortice che sentiamo nostro. Ed è bello scoprire con quanta delicatezza e con quanta dolcezza, dopo averci allarmato (mai, comunque, quanto riuscirà a fare un quarto di secolo dopo, con la parete del Giudizio Universale)(immagine a sinistra), alla fine ci accoglie e ci consola, quasi ci sfiorasse con le dita dopo aver modificato il nostro modo di vedere le cose. Pressato da Giulio II, che temeva di non riuscire a vedere l’opera terminata (morirà meno di quattro mesi dopo), Michelangelo, con venti giorni di anticipo sulla data prevista, darà disposizione di smantellare le impalcature e di togliere i teli sottostanti, tesi a protezione degli affreschi di Botticelli, Ghirlandaio, Signorelli, Cosimo Rosselli, raffiguranti episodi tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento, ma anche per non dare la possibilità né al Papa né a nessun altro di vedere l’opera durante la lavorazione. Era il 31 ottobre 1512, giusto cinquecento anni fa


di Silvio Lacasella Una delle condizioni necessarie per comprendere un’opera d’arte è avere la consapevolezza che qualcosa in essa rimarrà per sempre inafferrabile, come se lo sguardo in determinati momenti slittasse in una sorta di dirupo interiore. Una sensazione, questa, presente e stabile anche nell’animo di chi, quella medesima opera d’arte, ha creato. Solo avendone piena consapevolezza il pensiero non smette d’interrogarsi, germinando nuove idee e creando utili spessori alla nostra coscienza visiva. Però tale sensazione - per nulla inedita, dunque - pare amplificarsi vistosamente nella ricerca artistica di alcuni autori.Questo è quanto è accaduto, ad esempio, a Franco Vimercati (1940-2001) e questo è quanto accade ora e ancor più vistosamente a chi, catturato dall’ammirazione, si pone di fronte alle sue sequenze fotografiche, esposte a Venezia nello scrigno prezioso di Palazzo Fortuny, in una mostra visitabile sino al 19 novembre. E’ dunque possibile essere attratti, pressoché in eguale misura, da ciò che si vede e da ciò che l’artista indica senza mostrare? Parrebbe proprio di sì, poiché l’ “assenza”, in determinati casi, stabilisce con forza la sua “presenza” sino a divenire, se non proprio soggetto, parte integrante dell’opera. Solo che è difficilissimo, per chi deve darne conto, trasmettere, nella sua complessità, questo stato d’animo. Ecco dunque che, nel caso di Franco Vimercati, potrebbe fare da solida base critica anche solo spiegare il motivo per il quale una così coinvolgente e totale condivisione emotiva, anziché favorirne il flusso, arrivi quasi a bloccare lo scorrere fluido delle parole. Presenza affascinante e anomala nel panorama della fotografia, ma non solo della fotografia, italiana. Occorre, innanzitutto, immaginarlo nel periodo della sua formazione artistica, avvenuta nell’ambiente milanese di Brera, sul finire degli anni Cinquanta, tra il consolidarsi delle teorie spazialiste e i grovigli del Realismo esistenziale. E poi durante la pausa del servizio militare, in una condizione di forzata, operosa inattività, mentre rimedita sul valore di quelle prime esperienze, non del tutto combacianti col proprio sentire artistico. Siamo così giunti alla metà degli anni Settanta. Da qui in avanti inizia la sua solitaria inda-

J Franco Vimercati Zuppiera, 1983/1992 | Vaso 1994 - Esposizioni multiple, 1999 | (© Franco Vimercati) SOPRA, DALL’ALTO

gine sul respiro della luce e del tempo. Un tempo registrato nell’immobilità assoluta del soggetto. Intanto, attorno a lui, l’assordante presenza della critica e del mercato (di lì a poco nasceva la Transavanguardia, tanto per dire) vanno stabilendo graduatorie dentro alle quali un artista morandianamente meditativo e riluttante ad ogni prefissata corrente come Vimercati, dalla produzione contenuta e dall’etica rigorosa, non può che risultare quasi assente. Questo nonostante fosse non poco stimato. Da alcuni, profondamente amato. Lo fa capire, sin dalle prime righe di un suo bellissimo testo del 1984, Paolo Fossati: In tanto rumore di fotografi e di fotografie, ecco il caso, evidentemente non semplice, di un fotografo come Vimercati, che, nel quadro di questi anni, è persino troppo ovvio definire appartato, e solo. Sembra si debba iniziare da questa considerazione, per inquadrarne la figura, se anche oggi, Elio Grazioli (curatore) apre con frasi molto simili il suo testo introduttivo alla mostra: Franco Vimercati era diventato una piccola leggenda nel mondo dell’arte italiana. Di lui si diceva che si era chiuso in casa per dieci anni a fotografare esclusivamente una piccola ciotola su un fondo nero. La leggenda lo colorava perciò di anticonformismo e di inattualità, con un’aura di sapore orientaleggiante, quasi un bodhisattva in meditazione contemplativa su un unico oggetto. Non sappiamo se egli cercasse proprio di conseguire il “risveglio dell’immagine”, intrattenendo con essa una sorta di colloquio spirituale. Vimercati stesso negherebbe questa dimensione filosofica, che pure a tutti pare di individuare, considerando il periodo passato a imprimere nel negativo più e più volte le piastrelle e le doghe del parquet, la sveglia e la bottiglia d’acqua minerale - per non dire dei quasi dieci anni (dal 1983 al 1992) dedicati alla zuppiera in porcellana, antico reperto di un

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passato recente, trovato durante un trasloco e abbandonata dai precedenti inquilini - non altro che un “monumento all’attenzione”. Ciò che a lui interessava, come detto, era l’impercettibile variare della luce e delle forme in un contesto di assoluta immobilità. Ecco dunque spiegata la natura del suo andare per cicli, quasi a segnare un ritmo, una cadenza, senza mai allentare la tensione espressiva, così da tener lontano il rischio della ripetitività. Ed ecco spiegato l’amore per la serialità dell’incisione e per il suo processo esecutivo. Il grande interesse per l’arte orientale, per quella islamica, identificata nella minuzia calligrafica, labirintica e ipnotizzante, presente nelle decorazioni dei tappeti. Una minuzia nei dettagli, sia pur in direzione del reale, che egli ritroverà nell’arte fiamminga e, in alcuni casi, in quella contemporanea. Specie quando, come in Enrico Castellani, per citare il nome di un artista che Vimercati guarderà con grande attenzione, motivi e geometrie vanno a rinnovare l’immagine senza modificarne l’impianto compositivo. Che poi è quanto, con lirismo, ha sempre fatto Morandi. Ma ciò che Franco Vimercati, al pari di un maestro calligrafo, va ostinatamente ritraendo, più di ogni altra cosa, più della forma intagliata dalle ombre e che sovente invade sino al margine estremo la superficie, è la propria idea di perfezione. Persino nell’ultimo periodo, quando quelle medesime immagini si sfocano, si capovolgono o si sdoppiano, nello scatto fotografico vi è la volontà di bloccare lo scorrere mai uguale del tempo. Un soggetto senza forma, il tempo, e, per sua natura, mai completamente ritraibile. A noi, dunque, il difficile compito di completare l’immagine.

FRANCO VIMERCATI. TUTTE LE COSE EMERGONO DAL NULLA PALAZZO FORTUNY chiusura il 19 novembre 2012 San Marco, 3780 - S. Beneto (VE) Mostra a cura di Elio Grazioli Catalogo: Eskenazi/Skira

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l’ARTE

di Giuseppe Carrubba Le stagioni del nostro amore già

dal titolo e dall’immagine della cartolina invito, svela immediatamente, in maniera anche ironica, tutto un immaginario nostalgico-sentimentale della cultura popolare, dal cinema alla letteratura. Per quanto riguarda il titolo si tratta proprio di una citazione relativa al film di Florestano Vancini ed Elio Bartolini, mentre la cover del progetto espositivo è una citazione letteraria che riguarda Jerome K. Jerome e il suo romanzo Tre uomini in barca; in questo modo una fotografia che riprende i tre artisti in barca sul Lago di Massaciuccoli, vicino una delle due sedi della mostra, ha anticipato e promosso l’evento. Un progetto unitario in due luoghi espositivi per una mostra a Villa Castello Smilea a Montale (Pistoia) e una all’Antico Frantoio di Quiesa a Massarosa (Lucca). La mostra a Villa Castello Smilea presenta l’installazione Ovunque pro-

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teggi di Federico Gori, dove il paesaggio si intreccia con storie intime e personali, i cerchi da ricamo, realizzati con corda da nave, di Manuela Menici e le tele di Gerardo Paoletti, Essi sono dentro di te, che si affermano come riflessioni su temi sociali e civili. Nella sede dell’Antico Frantoio di Quiesa a Massarosa l’intervento è stato anticipato da una performance di Manuela Menici, l’8 settembre 2012, durante la celebrazione della messa commemorativa per la liberazione della popolazione di Massaciuccoli dall’occupazione nazista. Con l’opera Non voglio consumare l’artista invitava le persone che assistevano al rito religioso ad accendere le candele colorate, profumate e di diversa altezza, di un mandala che definiva forma e significato in rapporto al tempo ed alla storia. Qui Federico Gori propone l’installazione Giro, giro tondo, composta da un vortice di foglie di quercia che segue il motivo della spirale evocando l’immateriale, ma anche l’energia e la forza della natura, mentre Gerardo Paoletti, con il progetto La sazietà genera il delitto mescola pittura e proiezione video, proponendo temi sociali con un linguaggio carico di espressività. Le stagioni del nostro amore indaga sulla natura, sul tempo e sulla memoria attraverso la complessità e le visioni poetiche di tre artisti che raccontano ciò che sono attingendo al passato, ma guardando anche a nuove possibilità future. IN ALTO A DESTRA

k | Cover della mostra

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LE STAGIONI DEL NOSTRO AMORE VILLA CASTELLO SMILEA

20 ottobre 2012 | 20 gennaio 2013 Via G. Garibaldi, 2/a Montale - Pistoia ANTICO FRANTOIO DI QUIESA

3 novembre 2012 | 20 gennaio 2013 Via Piaggetta, 9 Massarosa - Lucca Mostra a cura di Chiara Canali INFO Tel. +39 339 507 84 80 Progetto promosso da Regione Toscana Provincia di Pistoia Comune di Montale Comune di Massarosa SOPRA IN PRIMO PIANO

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Manuela Menici, Back to black, installazione IN ALTO A SINISTRA:

Gerardo Paoletti, Ho visto un uccellino A DESTRA, NEL VANO IN FONDO:

Federico Gori, Ovunque proteggi, frame del video Villa Castello Smilea, Montale (Pistoia), 2012

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l’APPUNTO

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di Jessica Leti

Englaro, Scuola 8 Marzo, Piazza Alimonda, e tanti altri nomi di luoghi e di persone, The Clash, Storie di lotte e conflitti, è una raccolta di avvenimenti storici, anche là dove risultino solo ispirati alla realtà conservano infatti la forza e la rabbia, la casualità e l’inconsapevolezza, la coscienza e i dubbi degli anni che raccontano. L’oggi. Non è facile confrontarsi con il periodo storico corrente, si corre il rischio di non avere il necessario distacco, di non aver avuto il tempo di valutare le conseguenze e di osservare le dinamiche. Gli autori degli 11 racconti hanno corso tutti questi rischi ed il risultato è misurabile nel coraggio di queste pagine. Equipaggiati con il kit del “buon rivoluzionario”, facemmo il nostro ingresso in società. E ancora: Sembrava come quando a Pamplona liberano i tori per le strade della città … Bene, noi eravamo come quei tizi con il fazzoletto rosso legato al collo che corrono terrorizzati a tutta velocità, cercando un nascondiglio veloce e sicuro. È così che Cristian Giodice racconta il G8 di Genova ed è così che si delinea il personaggio coraggioso e vincente del nostro tempo. Siamo lontani da un eroe senza paura, ma lontani anche dall’inetto che si lascia sopravvivere: l’eroe che The Clash propone è un personaggio che sceglie semplicemente di agire pur rimanendo in una dimensione limitata, in una dimensione assolutamente umana. Il G8 di Genova ritorna in diversi racconti e fra i personaggi molti fanno parte di quelli che nel 2001 non c’erano, di quelli che non sono stati su-

bito pronti ma che ora sì, lo sono: Io volevo dire che il motivo per cui stavate in piazza dieci anni fa noi non lo capivamo e ci sembravano i sogni di sciroccati […] buoni per farsi le canne e fare piazzate all’università mentre noi cercavamo di studiare. Poi passa il tempo e te le ritrovi scritte nero su bianco, quelle cazzate, nel contratto che firmi a lavoro, per la casa che prendi in affitto, per il mutuo che non ti danno […]. (Luigi Lorusso) Le storie raccontate hanno sempre un punto di vista sconvolgente, un modo di guardare che sconvolge propriamente la dimensione consueta e impigrita dell’osservare. Rashid per esempio, il personaggio del racconto di Guido Tobia, è un kamikaze; ma non gli appartiene una religione esaltata come immediatamente siamo abituati a immaginare di fronte al termine kamikaze, lui è un ragazzo che cercava una nuova possibilità lontano dal Marocco e poi: Mi hanno preso a schiaffi e pugni ed io persi conoscenza. Quando mi svegliai ero imbottito di esplosivo. In questo racconto, Milano is burning, ci sono una serie di personaggi meravigliosi, il protagonista si chiama Nenni, un uomo di 79 anni che accoglie in casa sua Rashid e lo aiuta a disfarsi dell’ordigno che lo imprigionava. Questa dinamica è assolutamente nuova e positiva, è lontana dall’idea veicolata negli ultimi anni soprattutto dalla televisione, è un racconto delicato e commovente. Anche nelle pagine di Lisa Mazzieri avviene una cosa straordinaria nel panorama italiano, non solo nel panorama letterario, ma in quello culturale: in questo racconto le protagoniste Sophia e Milena sono lesbiche ma non è questo il centro del racconto. Cioè l’autrice ha trattato l’omosessualità come un fatto ordinario dando invece spazio ad altri avvenimenti (immigrazione e violenza sessuale), in questo racconto il sentimento delle protagoniste è un sentimento e basta, è un normale sentimento. Il senso di quotidianità nel rapporto di Sophia e Milena è lontano da tutti i dibattiti e dalle rivendicazioni che siamo abituati ad associare al tema dell’omosessualità; strutturata in questo mondo, la sto-

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h Gennaio 2012, Piazza San Pietro, Roma ria, non è una rivoluzione in atto ma è una vittoria conquistata. Valerio Evangelisti nell’introduzione a The Clash cita il clangore metallico dei “guns of Brixton” che, nelle periferie, migliaia di giovani stanno ricaricando. “Quando ti sfonderanno la porta Come ti presenterai? Con le mani sulla testa O sul grilletto della tua pistola?” ( The Clash, Guns of Brixton). The Clash, lo scontro, fa ai suoi lettori questa domanda e intanto racconta la scelta di chi ha già risposto, di chi nelle piazze combatte già la lotta di tutti. Numerose sono le pagine dedicate ai conflitti, alle violenze fatte e ricevute, alla rabbia e alla paura, sono pagine di guerriglia urbana con le perplessità che questo comporta, ma anche con la necessità di agire e di manifestare e concretizzare la volontà del cambiamento. È un libro denso di umori e significati, denso di impegno civile, che guarda dentro tante stanze italiane; nelle stanze politiche ormai usurate, e in quelle culturali finalmente affacciate nella piazza della libertà di esistere autenticamente. Molti racconti contenuti nella raccolta presentano, al termine, testimonianze, udienze, resoconti dei fatti realmente accaduti, dei fatti che hanno visto protagonisti gli eroi moderni (con zaino e maglietta) che entrano a far parte della storia di tutti.

di Alessandro Finocchiaro La Chiesa della Trinità è poggiata appena in alto su una curva a poco dagli edifici abbarbicati del vecchio borgo di Anticoli Corrado, al suo ingresso piante di rosa cresciute come alberi. I lavori di Caflisch (Forlì, 1961) si confrontano all’interno dell’edificio sacro con la parca architettura e le pitture tardo-barocche. Il centro di Anticoli

com’è noto non è estraneo all’arte moderna, vanta la bella fontana di Arturo Martini - in cemento, mi fa notare Luigi - e la presenza nel tempo di vari studi d’artisti, compreso quello di Fausto Pirandello negli anni venti, il quale del paese degli artisti e delle modelle sposò Pompilia d’Aprile, ch’era modella sua. Lo stesso Caflisch ha l’atelier ad Anticoli ed è attivo al centro un piccolo Museo. Blu nel rosso oltre che titolo della mostra ne è in particolare d’un paesaggio romano, una soggettiva impulsiva e vorticosa di Castel Sant’Angelo visto al di là del Tevere, con le grandi statue del ponte in primo piano. Le tele in mostra sono a carattere sacro. Tra tutte Samaritana al pozzo e la grande Resurrezione mi

pare dicano al meglio le capacità di Caflisch di accostarsi con sincero abbandono al tema. Questa non è con evidenza una pittura “alla moda”, ci si può vedere forse Varlin, il tardo Kokoschka, o tra i contemporanei Ruggero Savinio con gli umori della sua matericità. Il catalogo ha testi di Mariano Apa e Silvia Guidi.


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l’INTERVISTA

di Sisco Montalto Raccontare la storia di Hugo Race in poche righe sarebbe impossibile e riduttivo e comunque non riuscirebbe a far capire la magia che c’è dietro la sua esistenza (oltre che dietro la sua musica). Quindi non lo faccio e lascio che siano le sue parole in questa intensa intervista a dirvi chi è Hugo Race, a chi non lo conosce o a chi lo ha solo sentito nominare o a chi invece lo conosce bene e sa l’importanza che ha avuto e ha ancora nella musica, magari quella meno reclamizzata, ma di un certo spessore, quella fatta col cuore e con gli stimoli che vengono dalle mille esperienze, da mille volti incontrati e dalla vita di tutti i giorni, che persone come Hugo sanno continuamente cercare e rinnovare, quasi come un bisogno vitale. S.M. Sei un “pezzo” di storia del rock, hai girato tanto e suonato ovunque. A che punto della tua carriera artistica, ma anche umana, ti senti? H.R. Non ti rendi mai conto di cosa sta accadendo mentre lo stai di fatto vivendo. Soltanto quando ti guardi alle spalle riesci a farti un’idea di dove fossi realmente. La mia vita è la mia musica e viceversa. Ho iniziato a scrivere della mia vita e della musica che ne è parte integrante dopo il primo viaggio in Mali con i Dirtmusic. E’ stato cosi affascinante, ho sentito che dovevo mettere su carta ciò che ci era accaduto in Africa. In seguito quella storia è stata pubblicata in Australia ed ho ricevuto un sacco di feedback da parte di persone che dicevano di averla trovata una lettura interessante. Da allora ho scritto diversi report sull’essere on the road, dal Brasile ad esempio, ed anche una storia su The Merola Matrix, come ci ritrovammo insieme, perchè, e cosa successe dopo. Al momento sto scrivendo una road trip story sull’Italia, a partire dal tour solista che ho intrapreso quest’estate, la quale include alcune osservazioni sulla politica ed altre di più ampio respiro, al di là del solo aspetto musicale. Credo di essere arrivato al punto di poter fare ciò che mi va di fare, e sto esplorando tutto, l’assurdo, il sublime e quello che vi si trova in mezzo. S.M. Ami molto la Sicilia, sei un catanese d’adozione, alcuni tuoi ultimi lavori sono registrati qui, forse anche concepiti qui. Quanto dell’Italia, di Catania, c’è in questi album? H.R. No But it’s True è stato registrato a Catania con Cesare Basile, e, oltre a condividere la passione per i suoni acustici grezzi ed il vecchio e oscuro blues, Cesare e io abbiamo una storia in comune sin dal suo album Closet Meraviglia. C’è un sacco di feeling catanese in quest’album - il conflitto tra il romantico ed il brutale, un paradosso di tutti i giorni dell’Italia del sud... Il suono dell’album è influenzato da Zen arcade, da tutta quella tipologia di strumenti realmente organici che vi ruota attorno, le chitarre siciliane costruite con le scatole di sigari, quelle vecchie, scassate con le corde in acciaio, strani organi vintage... E poi l’atmosfera stessa della città, Catania è come se ti inghiottisse, vivo per via della sua presenza cosi forte, la storia e il degrado sono tutt’intorno a te. Tutta la Sicilia ha questa specie di grandeur decadente con il suo sottobosco oscuro, e poi d’improvviso la luce Corrado Vasquez ha girato il video di I’m on Fire sotto il ponte di un’autostrada abbandonata da qualche parte vicino Trapani.... La Sicilia è un luogo che ha ancora un battito, un cuore, spezzato bisogna ammettere, ma in qualche modo ancora pulsante. S.M. Cosa trovi qui che a quanto pare non riesci a trovare in altri posti pur avendo girato molto? H.R. La prima volta che venni in Sicilia, avevo come l’impressione di esserci già stato in un’altra vita. Nessun altro posto mi fa sentire allo stesso modo. É abbastanza strano, e poi ho incontrato gente e girato e conosciuto il posto più approfonditamente... S.M. Come è cambiata secondo te la musica in questi anni e come vedi, rispetto ad altri posti, la scena musicale italiana? H.R. La scena italiana è caratterizzata da musica straordinaria ed in continuo fermento, ma come dappertutto c’è cosi tanto in movimento che ci si può rendere conto solo di una piccola parte di essa. Il mondo in generale è in uno stato di flusso continuo ad ogni livello - politica, tecnologia, arte, clima, convinzioni, vita. La musica? Come è cambiata la scena? Molte più bands registrano i loro album in casa ed usano internet come veicolo per farsi conoscere. Milioni di canzoni che sgomitano per farsi strada lungo una banda larga di microonde radio. Le mode ed i fenomeni del momento girano in cerchio orchestrati dai media. Le vendite dei dischi diminuiscono a causa del digitale, molti più musicisti on the road che suonano live. Reunions di bands che avresti considerato inghiottite dalla storia. Repliche dei momenti d’oro, valanghe di nostalgia. Siamo in pieno postmodernismo, nella società dello spettacolo, ma i situazionisti che lo avevano predetto negli anni sessanta sono già morti, molti di loro suicidi in un modo o nell’altro. La musica, come la scrittura, diventa qualcosa di serio se la segui per tutto il corso della tua

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vita. Una cosa è se lo fai per qualche anno a livello amatoriale, ma se vai oltre, al punto di arrivare faccia a faccia con te stesso, è una roba seria. Io seguo il mio sentiero personale così come si presenta ad ogni singolo istante. Non c’è nessun piano, nessuna mappa. Vedo ed ascolto continuamente delle cose interessanti nei momenti più inaspettati, allora si apre una porta e dò un’occhiata all’interno. Musica incredibile viene creata ovunque, sempre. Dobbiamo essere noi a provarla e ad assimilarla, ma tutta nello stesso tempo, è impossibile. S.M. Una curiosità: cosa pensi dell’Arsenale e di quello che sta facendo? Anche se graviti attorno ad esso, penso che tu possa avere quel distacco e quell’esperienza tale da per poter dare una visione più “pura” e distaccata dell’idea Arsenale. H.R. L’Arsenale sta mettendo in moto parecchie cose - eventi, dialogo, controversie per scrollarsi di dosso la situazione culturale veramente statica e formalizzata della Sicilia. E’ una grande idea, che si aspettava da tempo. L’Italia, culturalmente parlando, effettivamente non incoraggia l’iniziativa indipendente, di conseguenza si ha bisogno di qualcosa di radicale per frantumare il blocco burocratico di regolamenti riguardanti le licenze, le corporazioni musicali ed i monopoli di stato come la SIAE, il vecchio ordine fossilizzato. E in Sicilia ci sono una marea di spazi e luoghi che hanno bisogno di sangue fresco, di essere rivitalizzati, cambiati.” S.M. Hai avuto e hai ancora tanti progetti: è un modo per dare sfogo alle varie parti della tua anima rock, di musicista o cos’altro? H.R. Credo che non riuscirei a riposare mai se facessi una cosa alla volta semplicemente perchè ci sono tantissime cose che voglio fare. Ad esempio, con i Dirtmusic torneremo presto in Africa a registrare, esplorare la musica con i musicisti locali. Si può imparare tantissimo lì sulla musica, su un sacco di cose in realtà. Mi sto dedicando a dei progetti che mi portino fuori dalla mia zona, rimescolino la mia visione delle cose. Sepiatone è un nuovo album che uscirà presto - io, Marta Collica, Giovanni Ferrario, Dade Mahony, Marco Franzoni. Lo abbiamo registrato nell’arco di 4 anni, quando ne avevamo il tempo, e ci sono un sacco di vibrazioni italiane su quest’album, Echoes On. Forse tutto ciò ha una relazione con i differenti aspetti della mie psiche, tipo personalità multiple. S.M. Gli ultimi due album Fatalists e No but it’s True, sono diversi come contenuti ma molto intimisti nell’approccio. H.R. Si, anche Between Hemispheres. Anche BKO dei Dirtmusic. Sono tutti albums composti da registrazioni live in studio. C’è giusto un po’ di overdubbing, ma tutto ruota intorno alla performance, lo studio è stato settato per catturare quell’energia. La registrazione giusta è quella che è nel momento, nello spirito della cosa. E’ un approccio “old school” ed in uno studio analogico crea scintille. Mi piace il suono grezzo, che porta alla luce le imperfezioni, più fedele possibile alla realtà, la voce umana, le unghie sulle corde di acciaio. E le canzoni sono molto dirette, scritte per essere suonate dal vivo, guardando la gente negli occhi. S.M. L’idea di registrare un disco di canzoni d’amore come ti è venuta? H.R. Un giorno mentre guidavo la macchina, realizzando che le più grandi canzoni sono inevitabilmente quelle d’amore. Ma non sempre in maniera ovvia... L’originale Never Say Never è fantastica come quasi tutti questi pezzi, la prima volta l’ho ascoltata tanto tempo fa, nell’82. Sono passati trent’anni dalla “new wave”! Queste canzoni sono diventate parte di una certa storia allo stesso modo, per me, di un classico come Cry Me A River. Non sempre tutti i pezzi hanno funzionato a seguito del trattamento che gli ho fatto, diversi pezzi sono stati scartati, e nel caso di I’m On Fire, abbiamo dovuto registrarla due volte, in momenti differenti, cercando di trovare il modo di alterarla drasticamente rispetto all’originale, ma senza perderne la potenza. S.M. Fatalists invece è un disco abbastanza cupo: quanto c’è di autobiografico? H.R. Beh, ultimamente credo sia tutto autobiografico, tutti gli album e le canzoni, nel senso che tutto proviene dalla mia esperienza, ma anche indirettamente, attraverso le vite delle altre persone. Non ho scritto Will You Wake Up o In The Pines, ma si inserivano perfettamente nella narrativa dell’album, e le altre canzoni erano tutti pezzi che avevo scritto per altri progetti, eccetto Slow Fry, in cui Antonio Gramentieri ha scritto la musica mentre il testo è arrivato in un secondo momento. Credo che ciò che si può ascoltare su Fatalists sia legato all’atmosfera della mia vita in quel periodo, la lotta con la polmonite, una relazione finita, spostarsi tutto il tempo, tutte queste emozioni vi sono intessute all’interno. Con Antonio e Diego Sapignoli abbiamo completato il prossimo album dei Fatalists, che uscirà più avanti quest’anno, ed una volta ancora ci saranno delle registrazioni live ricavate dall’esperienza, il diario di un momento nel tempo. S.M. Credi che amore e inquietudini personali possano andare d’accordo? Come collochi l’amore nella tua vita e nella tua ispirazione artistica? H.R. L’amore e l’inquietudine esistono in parallelo perchè viviamo il gioco umano dell’emozione e dell’incertezza, a malapena possono essere separate. Come la vita e l’arte. Come si suol dire, tu, te stesso, sei tutto ciò che sta succedendo perchè senza di te, niente di ciò esisterebbe, se non altro non dal tuo punto di vista. C’è ispirazione ovunque ma bisogna discernere tra ciò che è rilevante per te e la situazione in cui ti trovi. Bisogna utilizzare qualsiasi strumento si abbia sotto mano. È tutto un work in progress. Hugo Race | www.hugoracemusic.com | Aus +61 402472707 | EU +39 3420350050


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l’ARCO

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di Ornella Fazzina Il dialogo tra antico e contemporaneo ha sempre richiesto una grande preparazione teorica che, nella conoscenza e attraversamento delle differenti epoche, rispetti e conservi le preesistenze restituendo una “cultura del progetto” insieme a un esempio di buona pratica. Quest’anno la Triennale di Milano ha premiato con la “Medaglia d’oro per l’architettura italiana” Vincenzo Latina che dalle lezioni universitarie di grandi maestri come Gregotti, Tafuri e Venezia ha tratto giovamento, riuscendo a far diventare la sua tesi di laurea il Padiglione di accesso agli scavi dell’Artemision di Siracusa. Claudio De Albertis, il presidente della Triennale di Milano che con Mibac e Made Expo ha bandito questo prestigioso concorso, sottolinea l’importanza di osservare la situazione in cui versa questa complessa disciplina che si misura con temi impegnativi come politica e territorio, società e storia, estetica e memoria, formazione e ricerca, puntando a promuovere l’architettura contemporanea come costruttrice di qualità ambientale e civile, attraverso il non sempre facile rapporto tra progettista, committenza e impresa. Con il suo progetto Vincenzo Latina ha convinto una giuria che ha dovuto visionare 350 progetti e che ha optato per il felice connubio tra l’archeologia e il contemporaneo, in una linea di continuità tra passato e presente che mette in relazione la Siracusa sotterranea e il suo tempio ionico con le forti tracce di preesistenze nel tessuto urbano e nelle architetture. Il progetto è il risultato di un lungo studio che ha trovato espressione formale e funzionale all’interno di un contesto di riqualificazione, ricordando che in quell’area vi erano demolizioni lasciate a metà, una cabina elettrica e un prefabbricato in cemento, segno di un degrado che Ortigia (centro storico della città) non meritava. Dopo aver vinto diversi e importanti premi, Latina è approdato ad un riconoscimento che gli fa credere con ancor più tenacia che l’architettura

è una forma di risarcimento con cui puoi fare rinascere le cose. Difatti, con le enormi potenzialità che possiede nel poter migliorare la qualità della vita, l’architettura ha oggi un grande compito etico oltre che estetico. Una qualità fatta anche di piccole cose che porta benessere ed economia. Fulvio Irace asserisce: L’architettura di provincia oggi è la più vitale nel raccontare trasformazioni: non servono grandi progetti, ma è con tanti piccoli interventi di questo genere che si porta qualità al territorio. Quando interveniamo sul nostro patrimonio lo rigeneriamo con un effetto moltiplicatore che può portare turismo in angoli dove prima non c’era nulla. Figuriamoci in un contesto dove già ci sono tante stratificazioni millenarie, come è la città di Siracusa; bisogna in quel caso renderle solo visibili e dare un senso di continuità con un linguaggio contemporaneo che guardi alla storia. Il difficile, delicato e misurato intervento di Latina, coadiuvato dal soprintendente emerito Giuseppe Voza e dall’archeologo Lorenzo Guzzardi per gli scavi dell’Artemision, ha ricucito silenziosamente lo stile ionico dell’Artemision allo stile dorico della colonna d’angolo del tem-

pio di Atena inglobata nella cattedrale di fronte per mezzo di un lungo taglio verticale sulla grande cortina muraria calcarea di evocazione catalana che permette questi segreti sguardi. Intelligenza ambientale e capacità d’innovazione tecnologica sono i requisiti riconosciuti a Latina che ha consegnato a Siracusa la buona architettura, muovendosi su un palinsesto che narra di mito, memoria e attualità. SOPRA E AL CENTRO

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Due visioni esterne del Padiglione e una veduta dall’interno (a sinistra)



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l’AZIONE

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di Davide Scandura

Si può giocare a calcio, è possibile giocare a hockey, si può giocare a basket... ma non si può giocare facendo boxe, la boxe è roba seria. Le parole di Chris Byrd, ex campione del mondo dei pesi massimi, racchiudono tutta l’anima del pugilato. Un’arte e uno sport che ha conosciuto mille volti e mille storie e che negli ultimi anni ha visto nascere, crescere ed affermarsi una favola tutta nuova e inedita: quella di due fratelli, alla vista gemelli, cresciuti nelle difficoltà di un’Ucraina in piena crisi che accompagnava la caduta del muro di Berlino e la disgregazione dell’Unione Sovietica. È proprio negli anni ‘80 che nasce la voglia di combattere, dentro e fuori dal ring, di Wladimir e Vitali Klitschko, un solo cognome un unico dominio, quello appunto dei pesi massimi. Proprio lo scorso 11 novembre alla “O2 World Arena” di Amburgo il più piccolo dei due, Wladimir, è salito sul ring per difendere i sui titoli IBF, IBO, WBO e WBA, ma ha dovuto soffrire non poco contro il pugile polacco Mariusz Wach, fino a quel momento imbattuto con un ruolino fatto di 27 incontri e altrettante vittorie. Klitschko, in lotta per la prima volta senza il suo storico allenatore Manny Steward, scomparso due settimane prima, e per la prima volta sul ring contro un avversario più alto di lui (198 cm contro i 202 cm del polacco), ha sofferto fino al quinto round, nel quale sembrava che Wach potesse addirittura vincere. E proprio lì che è uscito fuori, ancora una volta, il campione; l’ucraino ha infatti resistito ai colpi di Wach e, con la sua solita calma, ha dominato i round successivi; i punteggi finali di 120-107, 120-107 e 119-109 con il 40% di colpi a segno contro il 19% del polacco, riflettono infatti la grande prova di Wladimir nella sua tredicesima difesa del titolo mondiale (solamente Joe Louis (25) e Larry Holmes (20) hanno fatto meglio). L’ucraino, imbattuto da otto anni (solamente Joe Louis ha fatto di più rimanendo imbattuto per più di 11 anni tra il 1937 e il 1949) ed alla vittoria numero 59 (51 per K.O.) della sua carriera, ha ancora una volta dimostrato tutta la sua esperienza. Ma non è sempre stato tutto facile per Wladimir. Il suo curriculum da dilettante è impressionante: 134 vittorie e appena 6 sconfitte, suggellato dall’oro olimpico di Atlanta 1996. Nel 2000 vince il titolo WBO battendo lo statunitense Chris Byrd, ma dopo sei difese arriva l’improvvisa sconfitta contro il sudafricano Corrie Sanders a causa di un grave errore tattico. Amareggiato dalla perdita del titolo Klitschko si rivolge allora a Manny Steward che contribuisce a fare di lui uno dei migliori pesi massimi della storia. L’esplosione arriva così nel 2006 quando, battuto ancora Chris Byrd, si porta a casa i titoli IBF e IBO; non contento nel 2008 si riprende il titolo WBO superando il russo Sultan Ibragimov e nel 2011 arriva la definitiva consacrazione con la conquista del titolo WBA, strappato al britannico David Haye. La storia di Wladimir non inizia per caso, chi l’ha avvicinato alla boxe è stato infatti il fratello Vitali (di cinque anni più grande): una pietra di muscoli, oggi attuale campione WBC dopo essere stato quattro volte campione d’Europa, tre volte campione del mondo WBO e due volte WBC, detentore inoltre della più alta percentuale di K.O. di qualsiasi altro peso massimo (41 su 45). Se Wladimir “martello d’acciaio”, è diventato pugile nel tempo, Vitali “pugno di ferro” sembra invece nato per combattere. Dopo gli inizi nel kickboxing passa al pugilato dilettantistico vincendo una medaglia d’argento ai Mondiali e passando al professionismo nel 1996 con uno score di 210 incontri disputati di cui 195 vinti. L’inizio nel professionismo è da campione; Vitali vince infatti consecutivamente una serie di 27 incontri per K.O. conquistando, nel 1999, la corona WBO ai danni dell’inglese di origine nigeriana Herbie Hide per K.O. alla seconda ripresa. Il 4 gennaio del 2000 la perde però inaspettatamente contro Chris Byrd a causa di un infortunio alla spalla che lo costringe all’abbandono del match. I critici con lui sono durissimi definendolo un bluff, ma lui,

ferito nell’orgoglio, prepara nel silenzio il suo ritorno e dopo la vittoria del titolo europeo, nel 2003 affronta Lennox Lewis in un combattimento durissimo, vinto per il pubblico ma perso sul ring quando un gancio di Lewis gli provoca una profonda ferita al sopracciglio; Vitali, in vantaggio ai punti, perde così per K.O. tecnico: una beffa, con tutta la gente dello “Staples Center” di Los Angeles in piedi per lui. La rivincita con Lewis purtroppo non si verificherà mai, dopo l’incontro infatti il britannico si ritira lasciando in Vitali una ferita nell’orgoglio. L’unione fra Klitschko e la WBC è però solo rimandata: arriva infatti l’anno successivo la vittoria contro il sudafricano Corrie Sanders che gli vale il titolo. Dopo la difesa del titolo contro Danny Williams arriva tuttavia il ritiro per problemi fisici. Ma il ring per lui è un richiamo troppo forte e Vitali, volontà di ferro e soglia del dolore altissima, dopo ben quattro anni di stop torna ad allenarsi e, nel 2008, a vincere contro il “carro armato” nigeriano Samuel Peter, di 10 anni più giovane, conquistando così per la seconda volta il titolo WBC del quale è tuttora il detentore dopo ben nove difese. Un cow boy sempre pronto a sparare Vitali, un giocatore di scacchi Wladimir; due modi tanto differenti di combattere ma stessi principi. Due fratelli con un unico obiettivo che traggono la forza l’uno dall’altro. Due fratelli cresciuti nella periferia di Kiev e diventati pugili grazie al padre, comandante di una delle unità aeree inviate a bonificare Cernobyl in seguito al disastro nucleare del 1986 e morto lo scorso anno proprio per un cancro causato dalle radiazioni allora assorbite. Dopo l’oro di Atlanta ed il passaggio al professionismo ricevettero addirittura la telefonata del più famoso promotore di pugilato esistente, quel “Don King” che fu storico manager tra gli altri di Muhammad Ali, Mike Tyson, George Foreman ed Evander Holyfield, ma loro non si fecero impressionare dai suoi modi poco ortodossi e dal fascino del denaro. Lo scorso anno la loro storia ha ispirato anche la Universal che gli ha dedicato un film documentario intitolato semplicemente Klitschko: un racconto della loro ascesa all’olimpo della boxe composto da spezzoni dei loro match più importanti, interviste e momenti di vita privata. Nelle recenti elezioni politiche ucraine inoltre Vitali ha ottenuto il 13 % di consensi assicurandosi un posto in uno dei parlamenti più “accesi” del mondo e confermando tutto il suo impegno per il suo paese, anche fuori dal ring. Un successo costruito quindi attraverso le dure scelte nella vita e l’impatto scioccante con l’Occidente, quello dei fratelli Klitschko; un talento forgiato dalle tante vittorie e dalle poche, dolorose sconfitte, dalla capacità di cadere al tappeto sul ring come nella vita e di riuscire a rialzarsi arrivando alla vetta del mondo. Uno sport spettacolare, quasi mitologico, la boxe, in cui sul ring sei sempre solo e non c’è molto spazio tra vittoria e sconfitta, una disciplina in cui devi dimostrare, secondo dopo secondo, di essere migliore del tuo avversario, e per farlo devi combattere. Un modo di essere che vale anche come insegnamento di vita, dove l’avversario più duro da affrontare sei solo tu e se cominci ad avere dubbi su te stesso sarai sempre destinato a perdere. Nel mondo del pugilato, che ricorda volere sempre un solo uomo sulla vetta più alta, a comandare oggi sono due fratelli che hanno promesso in maniera solenne alla madre di non affrontarsi mai sul ring, per quello che sarebbe forse l’incontro più atteso di tutta la storia della boxe. Due campioni, un unico cognome; due fratelli che hanno saputo trasformare il ring in una lunga strada da percorrere insieme, anche nella vita; una “favola” che trascina il cuore nell’anima del pugilato, quello che dicono in giro deve essere proprio vero: “solo un Klitschko può sconfiggere un Klitschko”.

f A PAGINA 18 | Giovanni Frangi SOPRA

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I due fratelli, 2012, matita e acquerello su carta, cm 70 x 50 Wladimir Klitschko durante un incontro (immagine dal web)


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l’IDEA

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di Pippo Bella

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h Nuccio Squillaci 001 - Momenti 002 - Una strana piazza 003 - Bramosia e il capretto sgozzato A DESTRA g Nuccio Squillaci 004 - desidEROS 2012, tecnica mista su carta cm 31,5 x 22 SOPRA DALL’ALTO

utti mi evitano. Da Lamberto a Giancarlo, è uno scansarmi furtivo, un lanciarmi da lontano sguardi diffidenti. Sono trascorse all’incirca tre ore dall’infame episodio; adesso suonano le otto, nell’aria è già buio. Sono andato in giro per Tangeri. Ho cercato in aeroporto il primo volo, disposto a salirci anche senza i miei bagagli; ma il prossimo aereo non partirà che domani mattina. Sono rientrato di malavoglia. Già in giardino si era raccolto un mucchio di invitati a quella festa cui Simon non ha rinunciato nonostante tutto. Mi sono infilato nella mia stanza accompagnato fino alla porta dal mio amico Maometto, che non sapeva cosa dirmi e mi ha sfiorato la testa con una carezza tremante. Giulio è venuto a cercarmi, l’unico tra i frequentatori della casa che io sopporti; e con insistenze misurate è riuscito a convincermi. Ho fame, tra l’altro. Eccomi qui. Il giardino rigurgita. Parecchia e bella gente. Non si è badato a spese, per le cibarie. Molti i visi conosciuti. Però non scorgo mio fratello. Non desidero rivederlo. Ma la sua assenza, comunque, mi colpisce. Simon tiene in braccio la solita Sissì, la quale si impone per una vistosa fasciatura a una zampa e pare contenta di me che l’osservo, manifestandomi una allegria crudele e abbaiante; egli pure mi ha notato, ma mi concede uno sguardo sfuggente. Sorride, Simon; il suo interlocutore è Leon. Però non potrei dare per certo che sia proprio Leon l’uomo che porta il bicchiere alle labbra con gesto impeccabile; lo desumo dalla deferenza di Simon. Passa per essere straricco, Leon. E prodigo con i suoi amanti. E’, a dir poco, settantenne; un vecchio a cui il tempo, ma meglio ancora una cosmesi milionaria ha risparmiato la vergogna dello sfascio. Longilineo, dritto, giacca viola su pantaloni bianchi; la quale giacca accentua la ricca geometria del suo comportamento; ogni suo gesto appare calcolato, eppure egli lo esegue con una scioltezza ariosa. Leon ha il viso circonfuso di una

serietà turbata e rinunciataria, una aria ascetica da cenobita, rimarcata dai profondi solchi nelle guance. Naso sottile e adunco, dalle narici arcuate. Sopra la giacca, sul petto, esibisce una collana d’oro pesante, a forma di catena, con un medaglione pendulo. Sul medaglione è fisso lo sguardo di Simon. Tratta Leon con zelo ipocrita. Comincia a distendere intorno all’antiquario la sua rete vischiosa; gli strapperà per una somma risibile qualche pezzo d’arte che poi rivenderà a Lamberto a un prezzo triplicato. La scena mi disgusta, me ne allontano. Siedo in un angolo; bevo. Singolarmente o a gruppi cominciano ad andarsene. Saranno le quattro, sulla marina c’è un presentimento di aurora. Siccome il mio aereo parte alle nove, posso riposare soltanto per tre ore. Nessuno sa della mia decisione, non voglio salutare alcuno, o meglio solo uno. Quell’uomo minimo, Maometto. Entrerò nella sua cuccia e gli sussurrerò: “Fratello, vado via e non credo che ci rivedremo, ma ti ricorderò con gratitudine e dal tuo sorriso, da quei denti neri partirà sempre un raggio che mi coglierà dovunque io mi trovi”. Ero venuto sperando di riallacciare il rapporto con Giorgio, me ne torno rassegnato a una perdita che non ha più rimedio. La mia camera si trova in fondo a un largo corridoio su cui si aprono le stanze e che è adibito, in un angolo, a sala da pranzo. Non c’è luce diretta ma appena il riverbero delle lampade nel cortile. Giorgio dorme, è chiuso nella sua camera da oltre un’ora. Passando davanti alla sua porta ho una breve esitazione; mi chiedo se sia bene sparire come un ladro nella notte. Potrei trasferirmi in albergo per qualche giorno; gli offrirei così un’ultima occasione. Da sotto l’uscio filtra un rigo di chiarore: forse è ancora sveglio. Spingo la porta; cedevole gira sui cardini. Non ho una visione chiara di lì dentro ma mi impressiona qualcosa che, sordidamente, si agita. Confuso movimento di membra. Dura un istante, poi riesco a vedere. Giorgio è nudo, in piedi e si ap-

poggia con le spalle alla parete che ho di fronte. Ha gli occhi chiusi, per questo non sobbalza. Nel mio ricordo rimarrà fisso in questa posa: solleva il braccio destro al di sopra della testa e la mano sinistra è affondata tra il muro e la sua schiena. Un martire appassionato. Il suo corpo mi appare, nel semibuio, con una gravità massiccia e alterata da cumuli di grasso. Un martire deforme. In ginocchio davanti a lui c’è un altro corpo. Qualcuno accende una lampada, fuori nel cortile, e tanto basta perché una sciabolata di luce fenda l’ombra squallida di questa stanza. Giorgio sbarra gli occhi. Mi vede. C’è dapprima angoscia e sorpresa nel suo sguardo, poi un lampo, un sorriso maligno, un senso di sfida nei miei confronti; non dice nulla. Leon si limita a girare la testa e a fissarmi. Il Boeing ogni tanto traballa ai vuoti d’aria. Sfoglio un libro che ho trovato nel mio borsone. E’ in francese, stampato a Tangeri. Parla della fortuna letteraria di questa città, punto d’incontro con l’Occidente e terra in cui s’incarna il mito di un sesso affrancato da ogni pregiudizio. L’autore si diffonde sulle figure di molti intellettuali, forniti di tendenze erotiche promiscue, da Burroughs a Bowles a Genet. Volto pagina e nella commessura trovo un biglietto. Con delle frasi. Di cui riconosco la grafia. E’ di Giorgio. Non esito un solo istante. Non leggo. Strappo il biglietto. Vado nel wc, butto i resti nella tazza, premo il bottone dello scarico. Il breve vortice d’acqua trascina con sé per sempre l’ultima provocazione di mio fratello. Oltre l’oblò l’azzurro del cielo comincia a intorbidarsi. L’aereo si inclina, comincia la discesa. Si accende e lampeggia sul minuscolo monitor di fronte a ogni fila di sedili la figura di un omino che serra sulla vita la cintura. Si atterrerà fra non molto. L’aereo è scosso da sussulti violenti. Sul finestrino batte la sferza della pioggia. Ci sarà tempesta a terra. FINE


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l’IDEA

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l’ALTROVE

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di Rocco Giudice bito a gente che, nella migliore ipotesi, non fa nulla dalla mattina alla sera e nel tempo libero, si dedica alla speculazione ai danni del resto dell’umanità, che è tutta salute. Bisogna essere stati corrotti fin da bambini dall’ora di religione di Stato del Vaticano, per deplorare nello spread un blasfemo dogma protestante elevato a supremo regolatore delle relazioni economico-finanziarie internazionali, al di fuori del controllo di organismi statali o di autorità sovranazionali - però, estremamente solerti, bisogna riconoscerlo, nello stabilire la caratura dei piselli e le dimensioni standard delle banane, a eccepire sull’esatta composizione della cioccolata, a sanzionare inflessibilmente i forni a legna, di grande rigore sulla residua percentuale di succo d’arancia da tollerare nelle bibite conformi agli standard euro-sanitari, ma sempre pronti a non far nulla di nulla contro la speculazione e la post-moderna pirateria finanziaria che minaccia di cancellare, per privatizzarli, dalla lista dei buoni (del Tesoro) di Standard & Poors interi Paesi. Diceva tutto, questo show dello sport-spettacolo che unisce i popoli a suon di musica e a passo di ballo, mentre i popoli sono sul cliff dello spread che li separa e il mondo dello sport è sempre più scosso da scandali di corruzione, bancarotte societarie e fallimenti morali, doping e altro ancora, per il trionfo della Cina Popolare e di una delle sue ragazze che nuota, lei e i suoi anabolizzanti, più veloce dei maschi con i loro aiutini chimici. Perché, non sarà un caso, i rapporti di forza sportivi, nei moderni giochi olimpionici, hanno sempre rispecchiato egemonie politiche e confronti/conflitti ideologici: e spread su spread, la loro parte la fanno, le nuove super-potenze finanziarie, cioè, gli Stati sovrani che controllano il debito estero di ex giganti imperiali, controllano risorse strategiche, non solo in campo energetico, monopolizzano a livello mondiale comparti manifatturieri e dulcis in fundo, perseguono politiche proprie avendo forza, prestigio e P.i.l. per imporle agli altri, così da decidere fino a che punto è lecito commuoverci per il Tibet o preoccuparci per l’avanzata del fondamentalismo, dentro e fuori dell’Europa. Non solo: non possiamo nemmeno permetterci di dirci fra di noi come stanno le cose. E dispiaceva, un po’, che il capo dei capi del Comitato organizzatore di uno spettacolo prossimamente in cartellone a Disney World e a Las Vegas fosse Sebastian Coe: che ci aveva entusiasmato ai tempi delle disfide all’ultimo respiro e della rivalità sul piano agonistico e simbolico con Steve Ovett (immagine a sinistra), quando i mezzofondisti britannici (senza scordare l’ottimo Steve Cram, cui mancò solo un dioscuro antagonista) dominavano a livello mondiale senza l’apporto dei superman delle ex colonie1. Quando, per il gioco delle parti, Coe il “bianco” era, dentro e fuori la gara, di una regolarità mostruosa e di un aplomb e una eleganza da baronetto, quale sarebbe stato nominato per meriti sportivi; mentre Ovett il “negro” era di una spaventosa irruenza nella sua condotta di gara e di riflesso (e chissà perché), di intensità di vita2. Incarnazioni miticostereotipiche di stili contrapposti, ma con un valore d’immagine che non sapeva di artificio, quando li vedevi correre. Duello culminato nella memorabile disfida di Mosca ‘80, quando Ovett stracciò Coe (2°) nella finale degli 800, con una rimonta che aveva dell’incredibile; quindi, qualche giorno dopo, nei 1.500, Coe liofilizzò Ovett, disperso nelle retrovie e giunto solo terzo. Ecco, preferivamo quei momenti di gloria (perduta), quelle leggende dello sport alla kermesse favolistica del “C’era una volta Albione…”, per arrivare (tanto per cominciare: e arrivare in “tempo reale” da record storico) a “Inghilterra, addio!” 1

E guai, guai a notare che certe discipline sportive sono monopolizzate da atleti, come dire, dalle caratteristiche antropometriche assai simili. Così, un illustre genetista ammoniva severamente, sul Sole 24h, da un errore del genere: il fatto che, per es., gare di velocità e di resistenza vedano pressoché esclusivamente come finalisti e comunque, vincitori e medagliati solo e sempre atleti dai caratteri così tipici e omogenei, nonché, guarda caso, trasmessi con la regolarità che le leggi della genetica oppongono mitemente ai minacciosi diktat dei manipolatori del linguaggio, non vuol dire che abbiano caratteristiche che li identifichino come “gruppo umano” distinto. Infatti, continuava a tutta birra il cattedratico, dal momento che non tutti i neri battono in velocità e resistenza i bianchi (i Belgi per tutti, nell’esempio addotto dallo scienziato), ecco che gli uni sono indistinguibili dagli altri sotto il profilo razziale! Che non sembra un argomento che brilli per congruenza né per sportività intellettuale o serenità e lealtà olimpica nemmeno per gli standard del Pensiero Unico Politicamente Corretto.

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Abbassare la soglia della tolleranza politico-culturale aumenta, non riduce il rischio di conflitti e di restrizioni alla libertà di pensiero e di parola. Con le interdizioni crescenti in misura direttamente proporzionale alla suscettibilità di gruppi, lobby, minoranze e militanze, più o meno armate, offerte dal vasto campionario dell’isterismo come valore diffuso e condiviso nel clima della disintegrazione in atto, aumentare i veti incrociati diminuisce il livello di libertà complessiva con la scusa di tutelare (peraltro, garantendo a opinioni che si sa o si finge di dare per scontato siano relative e dunque, opinabilissime, lo status di dogmi indiscutibili e infrangibili) livelli di democrazia e di convivenza che meritino l’apprezzamento degli Standard & Poors delle virtù civiche, fra le quali non è contemplato il dissenso, neppure di fronte alle più flagranti mistificazioni correnti.

NOTE

Un amico, un bello spirito in vena di amenità a bassa gradazione di humour sottile e battute con un indice di gradimento sotto la media consentita da tempi di crisi, parodiava così l’incipit di un libro che è tornato di moda citare, a detta di alcuni che lo spirito (citazionista) lo tengono di riserva come un vino per ebbrezza da vuoto d’intelligenza o calo di speranza (o come nel titolo di testa qui sopra, interferenza fra reminiscenze pop e “pagelle” delle agenzie di rating): uno spread si aggira per l’Europa: lo spread del terrorismo capitalistico in chiave finanziaria. Certo, se i fantasmi col sudario omologato sono, nell’immaginario, “emanazioni” dei defunti, ce ne sono altri e di gran lunga più impressionanti, proiezioni di scarsa o declinante e sbiadita vitalità. Lo spread, invece, ha più le sembianze di un angelo vendicatore: la lista delle recriminazioni è fin troppo “ricca”, per sbagliare maschera da super-eroe senza macchia e senza pietà. La società opulenta, la Belle Époque di qualche decennio addietro, le endemiche guerricciole e crisi regionali con impatto internazionale… Strane coincidenze con gli eventi di cent’anni fa che si notano a prima vista e non da ora. Ogni remake, com’è giusto, ci deve mettere del suo. Pareva significare qualcosa, in piena estate e alta stagione di animazione turistica da villaggio vacanze globale, perfino una cerimonia d’ouverture olimpionica a chiusura di un passaggio di staffetta di grandeur imperiale a un mondo nuovo sulla cui gratitudine contare. Non credevamo ai nostri occhi, dopo le disgrazie abbattutesi sulla Grecia che aveva, assai fastosamente, celebrato le Olimpiadi del millennio: sembravano tempi belli, allora e di una bellezza a lunga durata, ancorché dopata e botulinizzata da sostanziosi innesti di euro gentilmente forniti dalle banche tedesche: fosse pure una bellezza ridotta a brandelli, bensì sfolgorante come il Partenone - e intanto, i fregi sono ancora là, al British Museum. Ma oggi? Che senso aveva? Vedevamo quello spettacolo da lezione scolastica di ripasso animata e live di storia bignaminizzata a uso del più vasto pubblico della platea mediatica, per cui mitologie contemporanee (James Bond) e sempreverde folclore locale (S.A.R. Elisabetta II e i suoi real-cani) erano precettati a fornire all’Old England i conforti di un finale di carriera imperiale di gran successo: e sembrava non si trattasse della stessa isola che ha messo in moto l’effetto domino e che, con un’industria manifatturiera volatilizzata, vive di “prodotti finanziari” e di una memoria storica da Alzheimer buona giusto per un’autocelebrazione da podio olimpionico di retorica a tempo di ritmo. Tocca, a questo punto, confessare un profondo senso di disagio e sì, di colpa da parte di chi, come noi, è cittadino di un Paese i cui conti pubblici, d’un tratto, non piacciono più a quel consesso di alte autorità morali che sono gli speculatori finanziari. No, non possiamo farci venire dubbi di comodo proprio noi, accampando la ignobile scusa che spread e anti-spread non gradiscono il consenso democratico di una collettività di lavativi in evidente conflitto di interessi (mentre, come ognun sa, sono pacifici e legittimi quelli di chi punta dritto al fallimento di Stati a sovranità eurocraticamente limitata, così da accaparrarsi a prezzi di realizzo intere nazioni). Non è possibile farci venire le crisi di governo proprio ora che una linea di demarcazione è tracciata (Nach Westen! E perciò, con lo spread davanti a noi, guida sicura - spread heil, Kanzlerin! –, si comincia dal Sud del Vecchio e marcio Continente, dove il cammino trionfale della civiltà alla conquista dello spread cominciò.) Solo il rispetto dei limiti di manovra che competono a un governo tecnico di fronte ai compiti che gli sono assegnati, nonché la consapevolezza che si addice a un governo sobrio chiamato (da chi?) a grandi responsabilità, può impedire agli esecutori sotto de(di)ttatura di sì onerosi compiti scritti per lettera da Bruxelles di considerare un programma tanto ambizioso, messo in atto senza mandato popolare, come il rito di passaggio a una più matura forma di regime finanziario e istituzionale. Con quale coraggio respingere o denigrare lo spread, questa teodicea in soldoni, un indicatore finanziario come parametro morale; con quale faccia tosta comportarsi così choosy di fronte a un’equazione “infallibile” (almeno essa, tanto per dare il buon esempio) fra solvibilità e reputazione di collettività nazionali, declassando l’asta dei Bot a (quanto laica) vendita delle intransigenze? Occorre proprio tutta la faziosa grettezza da sottosviluppati causa bimillenaria oppressione papista, per ritenere che si tratti di uno scandaloso corollario della precettistica puritana, santificato come paradigma delle pubbliche virtù amministrative - e si capisce! -, non è morale mantenere coi soldi pubblici morti di fame condannati alla tara ereditaria della disoccupazione; invece, è profondamente etico pagare fino a gettare sangue gli interessi sul de-


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L’OPERA D’ARTE nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Tre versioni (1936-39) a cura di Fabrizio Desideri

di Walter Benjamin Donzelli | 2012 | pp. LX + 138 Benjamin lavorò alla prima stesura del famoso testo all’età di quarantatre anni, ma ne vide pubblicata solo una versione in francese, che fu tradotta da Pierre Klossowski con la

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sua diretta collaborazione, e che uscì nel ’36 col titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità meccanizzata sulla rivista Zeitschrift furSozialforschung di Max Horkheimer. La palese attualità del testo di Benjamin sconfina già qui, ricordando Marinetti e i futuristi, dal campo estetico nel sociale con la magnifica visione del nesso tra “estetizzazione” e crisi della democrazia. Egli non relega il fascismo nei suoi anni storici, che non fece a tempo a vedere conclusi, ma lo guarda come possibile sistema sempre pronto a rigenerarsi in nuove violente forme. L’epoca di Benjamin non meno della nostra vedeva la comunicazione di massa come efficace strumento di persuasione e controllo. Le immagini della nuova arte del materialismo quindi, soprattutto quelle in movimento ben manipolabili grazie alla pratica del montaggio, potevano, come possono, essere utilizzate a scopi governativi. La suddetta versione in francese de L’opera d’arte è qui tradotta per la prima volta in Italia da Massimo Baldi e precede nel volumetto altre due seguenti stesure “tedesche”. Dato che

non si può essere certi di quale delle versioni Benjamin avrebbe licenziato come “definitiva”, o se avesse ancora intenzione di riprendere tutto in mano, si dovrà considerare il saggio, ci dice bene Desideri, nei termini di un multiplo. Comune denominatore è certo il primo manoscritto, ma in tutte le altre versioni, tra cui la prima data alle stampe di cui sopra e che confluirà nelle seguenti, vi sono delle varianti. Per queste differenze rimando a I modern times di Benjamin di Desideri e alla accuratissima nota al testo di Baldi, che sono un’altra ragione per leggere questo libro, sia per chi già conoscesse il testo del grande berlinese nella più nota versione del ’39 come per chi vi si accosti per la prima volta. La teoria su l’abbandono dell’aura propria dell’arte del passato a favore dell’esponibilità nelle nuove forme è centrale nel saggio: chiudo a proposito questa segnalazione riportandone uno stralcio: Nella fotografia il valore d’esposizione inizia a respingere su tutta la linea il valore rituale. Questo però non cede il terreno senza resistere. Si ritira in un ultimo trinceramento: il volto umano. Non è ca-

l’APOSTROFO

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suale che il ritratto sia l’oggetto principale della prima fotografia. Il culto del ricordo delle persone amate, lontane o defunte, offre un ultimo rifugio al senso rituale dell’opera d’arte. Nell’espressione fugace di un volto umano su vecchie fotografie, l’aura sembra gettare un ultimo bagliore. È questo che ne costituisce l’incomparabile bellezza, carica di malinconia. Alessandro Finocchiaro

h Eugene Atget | fotografia


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l’ASCOLTO

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l’ASCOLTO

Rubrica a cura di Clap Bands Magazine

UFOMAMMUT Oro: Opus Alter

E’ uscito il diciotto settembre “ORO: OPUS ALTER” degli Ufomammut (Neurot Recordings - 2012), l’aurea parte seconda di quel magniloquente concept album che aveva avuto inizio con l’opera “Oro: Opus Primum” uscita lo scorso aprile. Il discorso è e rimane ben consolidato con quello che era stato, più o meno, detto e fatto pregevolmente nella prima parte dell’opera. E cioè, scosse telluriche doom immense, alternate a momenti space-ambient, si mescolano come in un calderone da rituale di magia nera a un impasto psichedelico di cosmica memoria. Difatti, il gruppo con l’attuale lavoro rimane aggrappato o meglio dire, porta avanti una dissertazione sonora audace e tendenzialmente sperimentale, suggellata anche da un’eredità discografica, pur recente, che si manifesta soprattutto attraverso i loro ultimi quattro album, che li hanno portati di lavoro in lavoro verso territori ben più complessi, ossia l’opera concettuale in album. Comunque, se le nostre vedute musicali rimangono aperte a un confronto estetico a quello che oggi ci offre il panorama

italiano e, innanzitutto, pensiamo al blasonato “indie”, possiamo spiegarci e spiegare il perché del suddetto “tendenzialmente sperimentale”, riferito all’album in questione. Dopo vari ascolti, però, l’insieme è vittima di piccole increspature, e possiamo evincerne, rimanendo su grandi linee e confrontandolo col predecessore, che non sia tutto un elogio. La mole di materiale che un genere come quello che gli Ufomammut suonano, ha creato decisamente numerose produzioni; appunto, la scena doom metal e heavy psych ha antesignani e pionieri con un bagaglio d’esperienza che supera, più o meno i gruppi, di un quindicennio. Risultare innovativi o addirittura geniali, nuove leve nella propria area oggi, non dico sia impossibile ma bisogna avere molto coraggio artistico per un lavoro sia “valido” che riuscito. Oro: Opus Alter in un certo senso lo è, sia al mio ascolto, che per molti settori musicali e musicanti con i feedback recenti di stima. I riferimenti musicali relativi all’album come per il predecessore ancora una volta sono sempre chiari: Sleep, Neurosis, Electric Wizard e tutta la scena d’oltre oceano heavy-psych stoner doom che è attiva come lava incandescente già da parecchi anni. Sapranno Urlo, Vita e Poia ancora evocare tali riti di comunicazione con l’universo? E dopo la trasmutazione purificatrice tramite l’oro alchemico, riusciranno a varcare la

soglia di queste due ultime prove? Direi di aspettare che il tempo faccia il suo corso tramite ascolti attenti dell’album e prove dal vivo - Oro: Opus Alter verrà presentato questo ottobre con un tour in giro per mezza Europa - dove i nostri adepti ci daranno prova del loro monolitico e imperioso sound (http://www.youtube.com/ watch?v=M8Dn7e97-DA). Paolo Finocchiaro http://www.ufomammut.com/ http://www.myspace.com/ufomammut https://www.facebook.com/pages/UFO MAMMUT/83336386071

PAOLO SAPORiTi L’ultimo ricatto Personaggio schivo e fuori dalle luci dei grandi riflettori, Paolo Saporiti naviga da oltre vent’anni nei mari dell’underground italico. “L’ULTIMO RICATTO” è il suo

quarto album in studio, distribuito dalla ORANGEHOMERECORDS e prodotto dal quel volpone e terrorista sonico che è Xabier Iriondo, eroe che non credo abbia bisogno di tante presentazioni. A dispetto del titolo, le tracce del disco sono tutte cantate in inglese. Toccanti ritratti personali e intimisti, debitori del folk anni ‘70 e di certo cantautorato indie, forti di un corposo songwriting mai sopra le righe, affascinante e catartico, con la voce intensa e malinconica, piena di sfumature. È più che mai facile avvertire la presenza di Iriondo in cabina di regia; la maggior parte dei brani vengono ”sporcati” e disturbati dall’intervento dell’elettrica, da un sax impazzito in odor di jazz, o da certe dissonanze di archi malati, rendendo il lavoro ancor più intrigante e per certi versi sperimentale. Da ricordare il brano d’apertura Deep down the water, col piano che viene frequentemente contaminato da rumori e inserti elettronici, il falsetto e l’intensità di War. L’immagine bucolica di Sweet liberty, la presenza del banjo in We’re the fuel e Sad love bad love e la psichedelia da cameretta di Toys. Dietro la montagna fa capolino il fantasma di Tim Buckley aggiornato in chiave moderna e piu’ diretta. Sincero, onirico e gustoso. Salvatore La Cognata http://www.paolosaporiti.com/ https://www.facebook.com/pages/Paolo -Saporiti/268376037439


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l’ARTISTA

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LETTURA Nuccio Squillaci Nasce a Catania nel 1961. Dopo aver conseguito la maturità artistica, ha frequentato l’Istituto Europeo di design a Roma e si è laureato all’ Accademia di Belle Arti di Catania. Il suo percorso professionale si divide in tre diversi filoni di ricerca: la grafica pubblicitaria, della quale è docente all’Istituto Statale d’Istruzione Superiore “V.E. Orlando” sezione Arte di Militello in Val di Catania; l’illustrazione, è stato per diversi anni socio dell’ Associazione Illustratori di Milano che lo ha inserito in diverse pubblicazioni e ha partecipato a vari concorsi e mostre, in Italia e all’estero; infine, la Pittura, che nell’attuale periodo di ricerca si divide in due ordini conseguenti: il primo di sapore intimistico ed il secondo caratterizzato dalla realizzazione di un personale tessuto informale. Ha esposto in diverse mostre collettive e tra le Personali ricordiamo: Studio Nuccio Squillaci, 1985 , Catania; Con Arte, La Porta Rossa, 1993, Catania e MOS Multimediali Officine Sperimentali, Milano; Carte, Bottega delle Arti, Bagheria (PA); Irripetibili ambiguità, Chimù Design, 2007, Casteldaccia (PA); Cosmogonie, 2007, Palazzo Aragona Cutò, Bagheria (PA), a cura di A. Pes. Hanno scritto di lui: G. Brancato, G. Giordano, G. Iovane, F. Gallo, A. Lombardi, P. Montana, I. Palmeri, A. Greco Di Bianca Titone, M. Corsaro, M. Andronico, G. Labbrosciano, M. Palminteri, A. Pes, S. Mangiameli, N. D’Alessandro.

06 anno II

novembre - dicembre 2012

Progetto editoriale, Concept,Direzione creativa Luca Scandura Hanno scritto e collaborato in questo numero

P. Bella, G. Carrubba, R. Di Giacomo, O. Fazzina, A. Finocchiaro, P. Finocchiaro, R. Giudice, S. Lacasella, J. Leti, S. La Cognata, S. Lorenzi, S. Melis, S. Montalto, M. Romano, D. Scandura.

Tiratura 7.000 copie Registrazione

in attesa di registrazione

Direttore Responsabile Gianni Montalto Editore di Luca Scandura via Giuseppe Vitale, 29 95024 - Acireale (CT) Redazione redazione@new-link.it via Giuseppe Vitale, 29 95024 - Acireale (CT) Progetto grafico LucascanduraDesigner Stampa Eurografica Srl S.S. 114 Orientale - Cont.da Rovettazzo 95018 - Riposto (CT) È VIETATA LA RIPRODUZIONE ANCHE PARZIALE ALL RIGHT RESERVED

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SPORT

COVER

Giovanni Frangi

La copertina di questo sesto numero di Newl’ink continua il ciclo di Cover realizzate dalla nostra redazione attraverso la diretta collaborazione e sinergia con l’operato dell’artista invitato a realizzare l’opera che interpreterà il tema sportivo del bimestre. il nostro Direttore Creativo interverrà così, manipolandola di volta in volta, sull’immagine di un’altra opera dello stesso artista per darle un’ulteriore significato, renderla immagine di una nuova libertà che è arte e contenuto.

Giovanni Frangi (Milano, 1959). Principali attività: Rosso e nero, Palazzo del Governo Europeo, Strasburgo (2012); Giovanni Frangi/Mappe, Villa Morosini, Polesella, a cura di Daniele Capra (2012); Albatros, Galleria Civica d’Arte Contemporanea Montevergini, Siracusa (2011-’12); Straziante, meravigliosa bellezza del creato, Villa Manin, Codroip (2011); Giardini Pubblici, MART, Rovereto (2010); La règle du jeu, Teatro India, Roma (2010); Pasadena, GAMUD, Udine (2008); MT2425, Oratorio di San Lupo, Bergamo (2008); Nobu at Elba, Villa Panza di Biumo, Varese (2004); Giovanni Frangi, Contemporary Art Center Schalkwijk, Utrecht (1999); Frangi Pae- saggi 1986-1996, Palazzo Sarcinelli, Conegliano Veneto (1997); Frangi

Carte 1993/’97, Casa dei Carraresi, Treviso (1997); Giovanni Frangi, Museo d’Arte Contemporanea, Montesegale, Pavia (1986). Ha esposto in numerose gallerie private in Europa, Asia e Stati Uniti d’America. Nel 1996, alla XII Quadriennale di Roma, ha vinto il Premio della Camera dei Deputati, esponendo poi alla Sala del Cenacolo a Montecitorio con la mostra La Fuga di Renzo. Nel 2005 è stato invitato a esporre alla II Biennale di Pechino, nel 2011 alla 54.a Biennale di Venezia, Padiglione Italia all’Arsenale. Quest’anno è vincitore del Premio Lombardia Arte 2012 - premio speciale (MiArt).

j Nuccio Squillaci 004 - desidEROS, 2012, t.m. su carta, cm 31,5 x 22 (part.) IN ALTO A SINISTRA

h Giovanni Frangi View master, 2006/2011 SOPRA AL CENTRO

(OPERA SCELTA PER LA COVER)

J Giovanni Frangi I due fratelli, 2012, matita e acquerello su carta, cm 70 x 50 IN ALTO AL CENTRO E A DESTRA

(OPERA REALiZZATA PER LA PAGiNA SPORTiVA)

Nobu at Elba, 2004, installazione

Pubblicità, marketing, grafica pubblicitaria, ideazione e organizzazione eventi, editoria +39 340 5919260

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