Newl'Ink N.2

Page 1

NEW L’INK 02

gennaio - febbraio duemiladodici

free press

www.new-link.it

info@new-link.it



gennaio | febbraio 2012

02 | JULIAN SCHNABEL A VENEzIA di Michele Romano

04 | MAPPLETHORPE A MILANO di Rossella Digiacomo

06 | FOTOGRAFIA SICILIANA A MILANO di Alessandro Finocchiaro

07 | IL SIMBOLISMO A PADOVA di Marica Rossi

08 | FARM / PALERMO UNDER ATTACK di Giuseppe Carrubba

10 | ARTISTI NELLA LUCE DI SICILIA di Ornella Fazzina

NEWL’INK 11 | MILI ROMANO AL MAMBO di Ornella Fazzina

RICCARDO BADALà

di Alessandro Finocchiaro

DING YI A COMISO (segnaliamo) 12 | UN INCONTRO di Mario Guarrera

13 | EX POST-ILLA di Rocco Giudice

1 14 | TEATRO VALLE OCCUPATO di Sisco Montalto

15 | VINCENT MIGLIORISI di Giulio Di Salvo, Sisco Montalto

16 | AMERICA/ ON THE ROAD AGAIN di Rocco Giudice

18 | TIGER WOODS, IL RITORNO di Davide Scandura

20 | PIANO B / ATTO II - EPILOGO di Maurizio Scibilia

23 | I LIBRI DEL MESE 24 | 3 CD 25 | L’ARTISTA

l’INDICE


l’ARTE

NEW L’INK

gennaio | febbraio 2012

di Michele Romano

Gli aulici spazi del Museo Correr in Piazza S.Marco a Venezia hanno visto protagoniste le sperimentazioni cromatico-tattili di Julian Schnabel, un percorso definito Inquieto-Prometeico-Tumultuoso da Giandomenico Romanelli e… il mare strao rdinario della storia,inestimabile e infinita… secondo Norman Rosenthal, entrambi curatori dell’evento lagunare. Schnabel si mostra a Venezia con delle riflessioni intime e personali “...eccomi dunque a dipingere …un’ immagine e cambiarne la scala… l’ho dipinta così da poterci mettere sopra la forma bianca …ho dipinto un ritratto del pittore…” sono queste le parole dell’artista che troviamo in catalogo e che ci invitano a seguire un percorso introspettivo, quasi una visione non più visiva ma autobiografica e narrativa dell’essere contemporaneo. Nello spazio espositivo, di committenza napoleonica, si intravedono una poliedricità d’immagini, interruzioni, tagli, linee falcate che mostrano una inesauribile ricerca dell’artista verso spazialità extrapittoriche. I ritratti, quasi sempre personalizzati, reinterpretano nella loro frammentarietà maJULIAN SCHNABEL

PERMANENTLY BECOMING AND THE ARCHITECTURE OF SEEING MUSEO CORRER

chiusa il 27 novembre 2011 Piazza San Marco, 52 Venezia Mostra a cura di Giandomenico Romanelli Norman Rosenthal Catalogo Skira

INF O

2


gennaio | febbraio 2012

NEWL’INK dei frammenti ceramici (piatti e altro) è la fissità dello sguardo, ieratiche figure che superano la pura bidimensionalità bizantina per immergersi nella spazialità dell’umano, per un dialogo diretto e attivo con lo spettatore. Schnabel è un alchemico artista del suo tempo, poiché trasferisce la sua percezione pittorica in metamorfosi pluriformiche, dalla tattitilità dell’oggetto frammentato alla narrazione filmica, un artista che dagli objets trouvés si trasmuta in operazioni di testimonianza storica e antropologica. Miral, la biografia di una orfana palestinese, il Mediterraneo, fonte per Schnabel di inestimabile valore antropico e motrice di civiltà ataviche, un artista avido di rimandi letterali e culturali, dalla Palestina Map con interventi segnici o l’inquietante domanda iniziale, di che pasta sei fatto, su una particolare icona fotografica della Pasta Barilla. Concettualità dell’immagine, riflessioni e incisioni quasi etiche, che l’artista pone nell’excursus della sua contemporaneità culturale, particolari citazioni alla letteratu-

terica e pittorica, la monumentalità dell’iconografia aristocratica veneta, fisionomie di personaggi ricomposte dopo una gestazione esplosiva gestuale, ogni mosaico pittorico si trasmuta in cretti tattili, il volto frammentato subisce l’implosione intima dell’artista introspettivo. Questa sezione o area narrativa del-

l’evento espositivo ha sicuramente suscitato un particolare intereresse nel visitatore attento, perché si mostra una galleria dalla fisiognomica d’avanguardia, un forte richiamo ispanico, da Gaudì a Picasso, e sicuramente ad una gestualità coloristica, dell’Espressionismo astratto statunitense. Ciò che emerge e domina dal caos

l’ARTE

3

ra ispanica e americana, all’iconografia salvifica dal martyrion di S. Sebastiano all’estasi di S. Teresa d’Avila, una poliedricità che lo conduce a citare, nella sua autobiografia, come modello cultuale César Valejo, che Meditava / per scolpire se stesso / divenire confuso / perire.

hil Alcune visioni dell’allestimento a sinistra, in basso a destra e a PaG 2

diversi punti di vista dell’opera: Portrait, 2004, olio su cocci, cm 120 x 120 fotografie di Luca Scandura


4

l’ARTE

NEWL’INK

gennaio | febbraio 2012

a Milano la grande antologica di tra classicismo e contemporaneo

Mapplethorpe

di Rossella Digiacomo Un tuffo negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, alla Fondazione Forma, quando gli scatti del mitico fotografo americano fecero gridare allo scandalo. Per la prima volta a Milano e unica tappa italiana (dal 2 dicembre 2011 al 9 aprile 2012), una mostra interamente dedicata a Mapplethorpe. Una grande retrospettiva che comprende ben 178 fotografie provenienti dalla Robert Mapplethorpe Foundation di New York. Un’opportunità per ripercorrere l’intero iter creativo dell’atista, nel quale i temi delle fotografie s’intrecciano strettamente con la sua vita. Oggi forse non gridiamo più allo scandalo ma piuttosto rimaniamo affascinati dalla straordinaria contemporaneità delle sue immagini provocatorie ma insieme atemporali. Ad aprire la prima delle sette sezioni tematiche in cui si divide l’esposizione c’è una serie di Polaroid degli Anni ‘70, pezzi rari e originali che già testimoniano la sua natura di “sperimentatore”: Mapplethorpe trasforma in immagini la realtà che lo circonda, alla ricerca di quel rigore formale che troverà poi pieno compimento negli autoritratti e nella serie di nudi. E sono proprio gli autoritratti i protagonisti della seconda sezione. Giovanissimo, sorridente e scan-

zonato, travestito da donna con una pelliccia, trasformato in un terrorista e, infine, mentre impugna un bastone sormontato da un teschio, già segnato dalla malattia, l’AIDS, di cui morirà nel 1989. Guardando le immagini esposte, si capisce perché Mapplethorpe sia stato accostato a Michelangelo: per l’adesione all’estetica classica, per il modo in cui la luce modella la plasticità dei corpi, per il vigore dei muscoli e delle torsioni. Qualche differenza c’è però, tra il genio fiorentino, tormentato dal conflitto fra carne e spirito, fra l’elevazione dell’anima e quella del muscolo, e Mapplethorpe, sinceramente e spudoratamente attirato, più che altro, dalle contrazioni del corpo. Il primo parte da uno stile classico per arrivare a una scultura quasi espressionista ante litteram. Il secondo prende avvio dalle espressioni del sottosuolo per arrivare a fotografie iperclassiche. Prima di buttarsi a capofitto nella cultura del culturismo erotico, Mapplethorpe inizia col ritrarre il mondo e gli amici dello scenario underground, della travolgente rivoluzione musicale della cantante Pat-

ti Smith, alla quale è dedicata una sezione a parte; fu la sua prima modella, conosciuta nel 1967, con la quale visse per sette anni prima di scoprire la propria omosessualità e con la quale il sodalizio umano e artistico durerà per tutta la vita. Abbandonati i simboli della sessualità urbana, borchie, catene, cinture e pellettame, Mapplethorpe inizia a guardare il corpo come un paesaggio formalmente perfetto. Egli raggiunge la sua maturità creativa agli inizi degli anni Ottanta, al momento dell’esplosione dei due fenomeni che devasteranno il privato dell’America e del mondo, l’edonismo reaganìano e l’epidemia dell’Aids. Il corpo diventa veicolo di bellezza assoluta ma anche uno shuttle per l’aldilà. Se i corpi di Michelangelo sembravano volersi vanamente liberare dal peso della materia, se quelli neoclassici di Canova con la purezza del loro marmo sembrano irridere al peso e all’anima per abbracciare la bellezza assoluta, i corpi muscolosi dei modelli prediletti di Mapplethorpe, quello di Lisa Lyon, donna piccola e sensuale, e quello di Derrick Cross, duro co-


me l’ebano e buio come il desiderio, diventano simboli ideali della lussuria fine a se stessa, dell’atto sessuale. E se per i nudi (ma anche per gli inconfondibili ritratti: da Patti Smith a Susan Sarandon, da Isabella Rossellini a Susan Sontag, a Keith Haring) è agevole dunque leggere in filigrana la suggestione della statuaria classica seppure filtrata dalla modernità del suo sguardo, non diversa è la sua disposizione d’animo quando si cimenta con i fiori, ultima sezione della mostra: Quando ho fatto delle mostre, spiegava, ho sempre cercato di mettere l’uno accanto all’altro un fiore, poi l’immagine di un pene, poi un ritratto, così che si potesse vedere che erano la stessa cosa. Palesava così la stessa preoccupa-

NEWL’INK

zione di assoluta oggettività che negli stessi anni guidava Andy Warhol: di quella New York degli anni Settanta e Ottanta, pansessuale, anfetaminica, vibrante di creatività, Mapplethorpe, che era nato nel Queens nel 1946 e che sarebbe scomparso nel 1989, diventò del resto uno dei testimoni più efficaci, presto riconosciuto dovunque come un maestro (già nel 1977 era alla VI documenta di Kassel). Per avere la sua prima retrospettiva negli Stati Uniti dovrà però attendere il 1988, quando il Whitney Museum gli renderà omaggio, a un solo anno dalla morte.

fotografie© Robert Mapplethorpe Foundation

a PaGina 4 , in aLto a sinitra

Gli spazi della Fondazione Forma con l’allestimento della retrospettiva di Robert Mapplethorpe

Ha PaGina 4

altri scatti di Mapplethorpe

l’ARTE

5

h Patty Smith, 1979 laCCanto, in basso Autoritratto, 1980

a PaGina 4 , in basso a destra

Patty Smith, 1976

ROBERT MAPPLETHORPE FONDAzIONE FORMA

2 dicembre 2011 | 9 aprile 2012 Piazza Tito Lucrezio Caro, 1 Milano Orario tutti i giorni: 10 - 20 giovedì e venerdì: 10 - 22 lunedì chiuso INFO www.formafoto.it tel +39 02 58118067 +39 02 89075419

INF O

gennaio | febbraio 2012


6

l’ARTE

NEWL’INK

gennaio | febbraio 2012

di Alessandro Finocchiaro na con quelli dei vecchi Scafidi e Sellerio1, a maggior ragione lo è ravvisare consonanze o anche una semplice continuità tra Scianna e/o Battaglia con i tre autori della qui detta “nuova scuola”. Al di là dei gusti personali e delle inevitabili preferenze mi sembra importante sottolineare ciò che Guadagnini2 ha bene evidenziato, cioè che gli autori attivi nell’immediato dopoguerra e negli anni Sessanta sono mossi da un’urgenza comunicativa pressante, quasi una neces-

mo piano della Galleria e al piano superiore stavano le fotografie (e i video) di Bongiorno, Nicosia e Scalia, alle Gallerie di via Magenta del Creval oggi gli autori più giovani sono messi direttamente a confronto con i più anziani: Battaglia di fronte a Bongiorno e via di seguito Nicosia e Scalia con le tre “grandi S”. Di Battaglia, Scafidi, Scianna e Sellerio dirò poco, le fotografie in mostra sono urgenti, toccanti, definitive, alcune spaventose, molte celebri. Un discorso a parte esigerebbero le rielaborazioni della Battaglia, tra cui a me La bambina con il pallone (2005), con il contrasto aperto tra il rosso blu e giallo dei fiori e lo scabro b/n della foto di sfondo, è piaciuta molto. Certo se è già difficile paragonare i lavori di Ferdinando Scian-

sità di rendere evidente, per via di immagini, ciò che molto spesso risultava lontano non solo al resto del mondo, ma anche al resto del paese. La generazione dei Nicosia, Scalia, Bongiorno, attivi a fine secolo, sono più portati a una pratica riflessiva, a elaborare una visione più misteriosa del reale. Bongiorno è probabilmente quello che più enfatizza questa dimensione di mistero, o proponendo elementi “ingigantiti”3 ed estremamente colorati (Pink tools, Last plate, l’interno di frigorifero in Refresher, da Forbidden Colors), o con i suoi caratteristici “fuori fuoco” (le serie l’isola intima, Bagliori, Voci, b/n). Lo scatto terribilmente semplice4 della macchina fotografica è qui come piegato a esigenze poetiche traslate in forme atmosferiche, soffuse. Guardando le

totalità8: il mezzo meccanico viene qui utilizzato da Scalia per le sue panoramiche in modo descrittivo, al contempo asettico e scandaloso, forse teso verso quella “verità folle” di cui ci parlò Barthes.

h Letizia Battaglia, L’albero a sinistra in senso orario f

soPra

Carmelo Bongiorno Man in red, 2010, cm 110x110 Sandro Scalia Notturno, Palermo, 2007, cm 104x73 Carmelo Nicosia Mari, 2007, cm 104x73

LA NUOVA SCUOLA DI FOTOGRAFIA SICILIANA GALLERIA GRUPPO CREDITO VALTELLINESE

chiusa l’8 gennaio 2011 Corso Magenta, 59 Milano Mostra a cura di Giovanni Chiaromonte Cristina Quadrio Curzio Leo Guerra

Enzo Sellerio è nato a Palermo nel 1924, Nicola Scafidi nel ’25. A Scafidi sono stati dedicati da Nosrat Panahi Nejad su Nextl’ink quattro saggi (numeri 7.9.10.12). 2 Walter Guadagnini, sta in Il giornale dell’Arte, (on line dal 30 luglio 2011). 3 Può sembrare contraddittorio parlare di dimensioni degli oggetti in una foto, che può essere sviluppata in piccolo formato portando gli oggetti inversamente a dimensioni più piccole dei reali. Ma trattandosi qui di lavori presentati essi stessi come ‘oggetti’ in mostra credo sia pertinente considerare le opere nella dimensione proposta dall’autore al fruitore. 4 Ferdinando Scianna, in Manuela De Leonardis, A tu per tu con i grandi fotografi, Postcart 2011. Sono qui intervistati venticinque fotografi internazionali tra cui Battaglia e Scianna. 5 Eberhard Havekost (Dresda, 1967). 6 L’immagine è in copertina del catalogo La nuova scuola di fotografia siciliana, saggio introduttivo di Giovanni Chiaramonte, AA.VV., Silvana Editoriale, collana della Fondazione Gruppo Credito Valtellinese, 2011. 7 Formato 56 x 150. 8 Elio Grazioli, Ugo Mulas, Bruno Mondadori, 2010. Le parole citate in corsivo sono dello stesso Mulas (da La fotografia, Einaudi 1973).Davide La Cagnina a proposito del modo di ‘raccontare’ di Scalia ha parlato di tensione immaginativa serrata e incalzante nella narrazione. (Vedi catalogo della mostra, a pag. 242).

INF O

più recenti immagini a colori viene da pensare a certa pittura che dalla fotografia ha tratto linfa e soggetti, Havecost5 per esempio, pur nelle evidenti differenze di carattere tra il tedesco e l’italiano. Nicosia presenta una serie di scatti b/n dall’aereo, paesaggi o estremamente rarefatti (Mari, 2004-2010) o in contrasto con la nettezza di un elemento in primo piano (l’ala dell’aereo in Una grossa nuvola oscurò il cielo) o, al contrario, con l’evanescenza dell’ elemento in primo piano (la figura di spalle col cappellino nella prima foto che apre la stessa serie, quasi un fantasma)6. Intense le fotografie (di fotografie?) di particolari di volti, a Milano istallate in apertura, prima dei paesaggi. Scalia presenta una serie di foto estremamente orizzontali7, distaccate, oggettive, anche se può da esse inaspettato emergere l’elemento lirico (Lipari, 2009, il cielo l’isola il mare da un terrazzo -piazzale?- in rovina). Al fotografo il compito di individuare una sua realtà, alla macchina quello di registrarla nella sua 1

NO TE

La mostra “La nuova scuola di fotografia siciliana”, che abbiamo avuto modo di vedere ad Acireale, e ancora per qualche giorno è visitabile alla Galleria del Credito Valtellinese di Milano, si presenta in questa sede in maniera nuova rispetto all’istallazione siciliana. Mentre negli spazi della Galleria dell’acese Piazza del Duomo i già “storicizzati” Sellerio, Scafidi, Scianna e Battaglia occupavano, con la piccola superba foto di Avedon, tutto il pri-


gennaio | febbraio 2012

NEWL’INK

l’ARTE

7

di Marica Rossi Il mito, la fantasia, il sogno, l’enigma, il mistero, il senso della vita e della morte. Sono i leitmotiv della prestigiosissima scelta di quadri e sculture, dagli ultimi vent’anni dell’Ottocento ai primi quindici del Novecento per la mostra: ”Il Simbolismo in Italia” inaugurata a Padova a Palazzo Zabarella. L’esposizione che rimane fino al 12 febbraio del 2012, è la prima in Italia dedicata a questo specifico tema, è avvalorata da un allestimento molto elegante e gode del patrocinio del Presidente della Repubblica. Con tale evento la Fondazione Bano e la Fondazione Antonventa aprono la stagione autunnale delle grandi rassegne segnando un’ulteriore tappa negli itinerari intrapresi per far riscoprire, grazie all’apporto di curatori quali Fernando Mazzocca e Carlo Sisi con Maria Vittoria Marini Ciarelli (direttore della Galleria Nazionale d’arte Moderna di Roma), il percorso dell’arte europea, italiana in particolare, nei due secoli che precedon il nostro. L’intento è di evidenziare come mutò in quegli anni il panorama delle arti visive per quell’irrompere nell’arte dell’inconscio esplorandone i mondi fino a quel momento ignorati. Un universo affascinate, intrigante, contemplato attraverso una nuova lente che vira la percezione d’ogni realtà fisica o psicologica verso un altrove inusitato. Si tratti di un paesaggio o di un moto dell’anima, d’ora in poi nulla sarà come prima estendendosi rapidamente su scala europea il nuovo figurativo che diede vita a questo fenomeno passato alla storia con il nome di Simbolismo con i capolavori che ne seguirono. Valgano per tutti, pensando all’Austria con la quale anzitutto l’Italia ebbe a confrontarsi, La Giuditta di Salomè di Gustav Klimt o Il Peccato di Franz von Stuck (immagine in basso a destram) che da soli valgono la visita. La mostra con le sue otto sezioni guarda comunque soprattutto alla nostra penisola proponendo creazioni volte nel loro insieme a ricostruire quel dibattito sulla missione dell’arte che infuocò quegli anni di decisive mutazioni sociali. Opere che evocano ciò che aleggiava negli ambienti letterari e filosofici di Gabriele d’Annunzio o di Angelo Conti o nei cenacoli musicali devoti a Wagner, mentre le Esposizioni portarono in Italia i fermenti dei movimenti europei. E proprio con un dipinto dedicato ad una esposizione “La Triennale di Brera” del 1891 si apre l’itinerario della rassegna che presenta affiancate Le due madri di Giovanni Segantini, e Maternità di Gaetano Previati, quadri che segnano la sintesi fra divisionismo e contenuti simbolici. Segue una sezione dedicata a “protagonisti”: artisti italiani e stranieri che parteciparono direttamente al Manifesto del 1886 di Jean Moréas e all’arte di pensiero foriera della poetica degli stati d’animo (Pellizza da Volpedo, Plinio Nomellini). “Il mistero della vita” è il soggetto della successiva sezione dove troviamo la rappresentazione di azioni quotidiane: la processione, le gioie materne, il viatico, la partenza mattutina (Morbelli, Casorati, Aristide Sartorio, lo scultore Leonardo Bistolfi con la Sfinge). Spicca poi fra le altre, la sezione “bianco e nero” con una nutrita raccolta di grafica con i famosi fogli di Gaetano Previati, Alberto Martini, Umberto Boccioni e Ottone Rosai giovane. Il percorso della mostra si conclude nella “Sala del Sogno” che alla Biennale di Venezia del 1907 aveva consacrato le istanze e le realizzazioni della generazione simbolista creando una vera e propria scenografia affidata all’ingegno decorativo di Galileo Chini e agli artisti che, con la loro militanza, avevano contribuito ad alimentare le poetiche del “piacere”, dell’inquietudine, della bellezza e del mito, della spiritualità e degli stati d’animo, sostenendo con tenacia la priorità di queste voci e tematiche fino alle soglie della rivoluzione futurista cui introducono due capolavori ancora simbolisti di Boccioni: Il sogno (Paolo e Francesca) e La sorella intenta a cucire. Alcune opere in mostra (Immagini dal web) kIi

IL SIMBOLISMO

PALAzzO zABARELLA

1 ottobre 2011 | 12 febbraio 2012 Padova Mostra a cura di Fernando Mazzocca Carlo Sisi Maria Vittoria Marini Ciarelli

INFO tel +39 049 8753100 fax +39 049 8752959 www.palazzozabarella.it

INF O

Orario tutti i giorni: 9.30 - 19 chiuso i lunedì non festivi


8

l’ARTE

NEWL’INK

gennaio | febbraio 2012

di Giuseppe Carrubba

L’espressività dei linguaggi dell’arte contemporanea e l’interazione con uno spazio storico della città, quali gli spazi esterni del complesso monumentale di Palazzo Steri a Palermo, sono due aspetti importanti dell’evento Palermo Under Attack, organizzato dal gruppo di b-quadro, società di eventi e comunicazione condotta da Valentina

Bruno, con il Temporary Museum. Temporary Museum, un progetto nato da un’idea di Domenico Pellegrino, inteso sia come contenitore e promotore di cultura contemporanea per vivere l’arte in maniera diversa, sia come contaminazione di luoghi abitualmente non deputati all’arte, e l’Università agli Studi di Palermo, nella serata del 17 di-

cembre 2011, hanno presentato Farm Cultural Camp, l’accampamento culturale mobile di Farm Cultural Park. Palermo Under Attack è stato l’allestimento di un luogo della città storica, di uno spazio che pervaso dal basso, attaccato dalle immagini e dalle parole in maniera ironica, ludica e artistica è divenuto un luogo di accadimenti e di cambiamento men-

tale dove transitano idee, emozioni, relazioni a favore di una filosofia trasversale delle buone pratiche e dell’eccellenza che vuole andare oltre la politica, oramai incapace di seguire il sogno, oltre il luogo comune di un Sud che si lamenta, ma che vuole osare e fare opponendosi alle logiche comuni. L’obiettivo è stato quello di raccontare, attraverso la metafora fortemente invasiva dei linguaggi del contemporaneo, quello che sta avvenendo a Favara, un paese della provincia di Agrigento a pochi chilometri dalla Valle dei Templi, con Farm Cultural Park, ovvero il suo progetto di riqualificazione culturale e di ristrutturazione degli edifici in rapporto alla produzione e promozione dell’arte contemporanea e dell’ospitalità. Per una notte Piazza Marina di Palazzo Steri, cioè lo spazio esterno della Manifatture Tabacchi, suggestivo ed evocativo tra edifici in rovina e parti monumentali recuperate, è stato il teatro naturale per l’accampamento culturale mobile di Andrea Bartoli, notaio, collezionista e promotore di arte contemporanea per passione, che ha invaso questo spazio elettivo con installazioni e opere, dal forte impatto visivo, degli artisti che hanno collaborato al progetto Farm Cultural Park. Tra le opere di grande formato, come i manifesti digitali di Daniele Alonge, Elfo, Max Papeschi, Anthony La Pusata, Domenico Veneziano e di molti altri e le installazioni di craking art, il cuore dell’evento sono state le persone con la loro interazione, l’organizzazione dello spazio sociale, per eccellenza, delle associazioni, degli artisti, architetti e designer, dell’editoria di confine e delle produzioni indipendenti, dalla comunicazione al-


NEWL’INK

gennaio | febbraio 2012

l’ARTE

9

mento non permanente, mediante interventi instabili ed ambigui, è stato un esempio di sperimentazione del paesaggio urbano e cittadino e un terreno fertile di confronto fra tradizione, presente e futuro. La poetica dell’allestimento è divenuta così un mezzo per la trasversalità e la contaminazione, facendosi linguaggio con il suo sistema di oggetti, immagini, strutture e persone e prefigurando, così, este-

una traccia visiva della propria presenza, rintracciabile e condivisa successivamente su facebook, secondo un processo di aggregazione collettiva e creativa. Pochi metri più avanti si poteva incontrare Andrea Bartoli che nel dare il benvenuto lasciava uno sticker ricordo con la scritta “che bello”: che bello che ci sia anche tu! La tenda militare dell’accampamento culturale mobile riportava la fra-

intenti; un momento temporaneo di incontro e confronto tra chi vive e pratica l’arte, chi la promuove e la produce e chi la fruisce a vari livelli tra etica, estetica, comunicazione e innovazione. Sinergie e collaborazioni hanno rappresentato lo spirito dell’evento, il far si che un territorio di confine possa essere un posto dove si può crescere, coltivare sogni e speranze.

necessariamente a ripensare ai codici di lettura, di fruizione e di interazione e a elaborare un pensiero più ricco di punti di vista, dai molteplici riferimenti narrativi, a seguire strategie di seduzione per lo sviluppo di un pensiero sensibile e critico per la formazione di chi guarda e di chi progetta. Lo spazio della piazza in allesti-

tiche e nuove spazialità urbane dove il conflitto viene esorcizzato attraverso la reiterazione di una finzione spettacolare. All’ingresso, lungo la strada di accesso al luogo dell’evento, un set improvvisato offriva la possibilità ai partecipanti di giocare in maniera ironica con armi giocattolo, posare per una foto e lasciare così

se Would You Fight Against Art? e una bandiera rossa a pois bianchi lo contrassegnava, l’happiness flag, il simbolo dei siciliani che non si arrendono. A Palermo si sono incontrati artisti, architetti, creativi con numerose organizzazioni per una grande festa del contemporaneo e per creare un network mediante una rete di

Alla domanda perché un notaio si dedichi ad un progetto del genere Andrea Bartoli spesso risponde: se ognuno di noi mettesse le proprie passioni a disposizione degli altri, tutti quanti vivremmo in un mondo migliore. Il progetto Farm Cultural Park sarà presentato il 29 marzo 2012 a Castelvetrano (Trapani), presso l’associazione AIAC, per Partire_Tornare_Restare e a Catania alla Fiera di Arte Contemporanea Art FaCTory 02. Il giorno 11 febbraio 2012 verrà inaugurata a Favara Resistance, la mostra personale di Elfo, un artista bresciano che si muove nell’ambito della street art utilizzando la tecnica del bombing e il lettering classico, mescolato ad elementi naturali che decontestualizzano il lavoro dall’ambito specifico del writing system. A giugno 2012, a Favara, una grande festa per i due anni di attività di Farm Cultural Park.

PALERMO UNDER ATTACK

Temporary Museum - Farm Cultural Park

INF O

la musica, dalla gastronomia alle piante officinali ed aromatiche, che raccontavano ognuno la propria storia di resistenza attraverso lo scambio, la socializzazione e la condivisione delle idee. Contro l’immobilità di una società, la ridefinizione degli spazi può essere uno strumento che avvia un cambiamento. La rottura e lo spaesamento che possono produrre gli oggetti o le immagini, ci portano

Organizzazioni coinvolte

Cityvision (Roma), Scenario Pub.blico (Catania), Trinity Bank (Londra), Abadir (Catania) Autonome Forme (Palermo), Studio Nowa (Caltagirone), Fondazione Bartoli Felter (Cagliari), Mentalia (Palermo), Sicily Foundation (Favara), ArtFactory02 (Catania) ADÌ Sicilia, Fondazione Fitzcarraldo (Torino), AIAC (Roma), Associazione Musicale Etnea SSRG Sicilian Soundscape Research Group, Università di Catania dipartimento di Fisica (Catania), Hub Sicilia (Siracusa), Clac (Palermo), Gli Aromi (Scicli), Associazione Nicodemo (Favara), Daterreinmezzoalmare (Gela), Bocs (Catania), Uruk (Palermo), New l’ink (Acireale), Lettera 22 (Siracusa), Malintenti Dischi (Palermo), Passo (Scicli).

Artisti, Architetti e creativi coinvolti Daniele Pario Perra, Francesco Lipari, Roberto Zappalá, Giuseppe Veneziano, Gaspare Citarrella, Rita Russotto, Saverio Todaro,Santo Edoardo Di Miceli, Sandra Virlinzi, Club27, KK’s, Elfo, PXLM, Maria Vittoria Trovato, Carmelo Nicotra, Vanessa Alessi, Antony La Pusata, Gec Art, BR1, Dott. Porka’s, Antonio Falbo, Max Papeschi, Pep Marchegiani, Kicco Cracking, Daniele Alonge, Giuseppe Lana, Stefano Zarzanello, Gianfranco Bisceglia, Calogero Palacino, Cinzia Muscolino, Cracking Art Group, Gianfranco Pulitano, Sasha Vinci, Maria Grazia Galesi, Daniele Marranca.

Riferimenti e contatti b-quadro eventi e comunicazione Valentina Bruno tel +39 091 9820769 press@bquadro.org | www.bquadro.org

Farm Cultural Park Cortile Bentivegna - 92026 Favara tel +39 0922 34534 | +39 320 1793171 info@farm-culturalpark.com | www.farm-culturalpark.com

ja PaG 8 hJQUi in aLto e soPra h

Diverse vedute dell’allestimento del Farm Cultural Camp presso l’area esterna di Palazzo Steri a Palermo. fotografie© Daniele Inzinna



gennaio | febbraio 2012

NEWL’INK

Mili romano, ITALIA

l’ARTE

11

di Ornella Fazzina

Progetto per il 150° dell’Unità d’italia Il MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna ha ospitato, fino allo scorso 26 dicembre, Italia, un progetto inedito di Mili Romano appositamente realizzato per gli spazi della Collezione Permanente. Mili Romano artista e curatrice, insegna Antropologia culturale all’Accademia di Belle Arti di Bologna e si occupa di antropologia urbana e di arte negli spazi pubblici. I suoi interessi si muovono tra letteratura, video-arte, installazioni fotografiche e di arte pubblica e le sue scelte metodologiche comportano una profonda conoscenza dei luoghi e della memoria in cui si inserisce la sua pratica artistica. La raccolta sul campo di testimonianze e racconti di persone comuni è quasi sempre parte del processo generativo dell’opera, aperta a trasformazioni in itinere a seconda dei contributi e delle circostanze. Il lavoro presentato al MAMbo, articolato nella proiezione di un’opera video e di una azione-perfomance entrambi intitolati Italia, prende spunto da una citazione di Giacomo Leopardi tratta dal Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani e conclude idealmente il ciclo di iniziative promosse dall’Istituzione Galleria d’Arte Moderna di Bologna in occasione dellecelebrazioni per il 150° anniversario della proclamazione dell’Unità d’Italia. Nell’opera video, realizzata all’inizio del 2011, l’artista propone una ricognizione personale delle vicende della Repubblica Italiana, in cui ricordi autobiografici si intrecciano con vicende emblematiche della storia contemporanea nazionale. L’artista interpreta il difficile processo di disegnare e mantenere l’unità del paese rappresentando un allegorico movimento di

mani intente in un gioco che ricombina incessantemente le diverse regioni geografiche. La collocazione dell’opera non è stabile ma muta posizione ogni settimana, inserendosi in punti diversi del percorso espositivo della Collezione Permanente, che i visitatori dovranno scoprire da soli. Italia diventa, dunque, un momento di costruzione nel Museo di un tempo e di uno spazio “altri” rispetto a quelli abituali delle mostre e del sistema dell’arte, suggerendo una nuova apertura verso ulteriori spunti e sconfinamenti. Alla proiezione del video è affiancata una omonima azione che altro non è che un’interazione con esso: per le prime tre settimane fino al 18 dicembre, ogni giorno alle ore 15.30, l’artista, seduta su una sedia appartenuta ai nonni, ha letto per qualche minuto alcune pagine di letteratura italiana e al termine deposto il libro scelto. I libri iniziali sono scelti dall’artista e ad essi si aggiungono i consigli di lettura degli amici e del pubblico. Durante l’assenza dell’artista, si alternano nella lettura le voci di tutti coloro che spontaneamente desiderano intervenire, secondo un modello di partecipazione collettiva che Mili Romano pratica e incoraggia da anni. Un’operazione concettuale, performativa, autobiografica e storica nel contempo, complessa e interessante risulta essere quella ideata dall’artista, per mezzo di una rappresentazione-presentazione che parla una lingua personale e collettiva.

di Alessandro Finocchiaro

La mostra di Riccardo Badalà alla comisana Galleria degli Archi presenta dodici oli su tavola, così come richiesto dal curatore Salvatore Schembari. In questa esposizione i dipinti trovano il giusto respiro grazie all’ariosa distanza tenuta tra l’uno e l’altro, che consente di poterli apprezzare appieno. L’evento rientra nell’iniziativa Sul segno degli artisti, un ciclo di mostre che si protrarrà per un periodo di dodici anni

(vedi Nextl’ink, n. 12). Se è vero, come è vero, che la pittura va assaporata dal vivo e non in riproduzione, ciò è assolutamente necessario per questa di Badalà, erede sapiente di una tradizione che in Europa ha radici robuste, da De Staël a Frank Auerbach. Caratteristica di questi lavori è la tensione esistenziale espressa nel gesto-pennellata, che sembra scaturire naturalmente dalla materia stessa, come avvolta in

una luce di cenere. Ho pensato a certo Varlin, al Licini del ’43-’44. Sopravvivono echi giacomettiani, ma anche di Chighine, Mandelli, del Ferroni più drammatico, confluiti però in una stesura pittorica decisamente originale, intensa oggi come poche. Interprete dispari, L’assoluzione, sono alcune delle tavole in mostra, l’uomo ne è al centro, soggetto privilegiato, si direbbe inevitabile.

mento con “Sul segno degli artisti”: saranno esposte dodici opere su carta di uno dei protagonisti dell’arte cinese contemporanea, Ding Yi, nato a Shanghai, noto a livello internazionale grazie alla coerenza e alla qualità dei suoi lavori, che sono stati esposti in 17 mostre personali (da Shanghai a Beijing, a Berlino, Lucerna, Birmingham, Parigi, Bologna, Koeln...) e circa 130 mostre collettive in tutto il mondo (Oxford, Brisbane, Venezia, Goeteborg, Chicago, Vancouver, Barcellona, San Pietroburgo, Yokohama, Vienna, Parigi, Dublino, Milano, Taipei, Amburgo, Groninigen, Bruxelles, Hong Kong, San Francisco...). Su Ding Yi hanno scritto personalità dell’arte contemporanea quali Hans Ulrich Obrist, Hou Hanru, Achille Bonito Oliva, Gianfranco Maraniello, Fei Dawei, Gao Minglu...

Nel settembre 1995 la critica d’arte Monica Dematté, una delle maggiori esperte internazionali di arte cinese contemporanea, curò una mostra di opere su carta di Ding Yi, allora poco conosciuto seppur già reduce da una Biennale di Venezia (‘93), presso la Galleria degli Archi. Il suo pezzo: Semplicità, complessità, sintesi L’evoluzione pittorica di Ding Yi, pubblicato sulla più importante rivista cinese di arte contemporanea di allora, Jiangsu Pictorial, contribuì a far conoscere la poetica dell’artista nel suo paese. I lavori su carta creati apposta per la mostra di Comiso suscitarono l’interesse locale e vennero esposti in seguito in altre località italiane. La positiva esperienza del pittore in Sicilia nel 1995, resa possibile dall’apertura e lungimiranza del gallerista Salvatore Schem-

Interprete dispari 97, olio su tavola, cm 67x54

NewL’ink Segnala

Dodici artisti da presentare nell’arco di un anno con 12 lavori ciascuno. Alla fine dell’anno sarà pubblicato un catalogo edito dalla Salarchi Immagini, nel segno degli (astri) artisti prescelti, contenente 144 opere: esso costituirà per dodici anni il corpo ideale di una sinestesia simbolica da deporre nella collana editoriale “Sul segno degli artisti“ in dodici volumi, per un ammontare cabalistico di 1728 opere d’arte esposte, prodotte da 144 artisti. Sabato 28 gennaio alle ore 19, presso la Galleria degli Archi di Comiso, ci sarà l’undicesimo appunta-

bari, anche lui all’epoca agli inizi di un lungo e ricco percorso artistico e culturale, ha convinto l’artista (recentissimo protagonista di un’importante ed estesa retrospettiva presso il Mingshen Art Museum a Shanghai, sua città natale) a ripresentarsi in Sicilia proponendo dodici sue opere presso la Galleria degli Archi di Comiso. Si tratta dunque della terza mostra personale di Ding Yi in Italia, dopo quella appena menzionata risalente al lontano 1995 e un’importante apparizione presso il Mambo di Bologna (2008), e di una rara possibilità per il pubblico italiano di vedere le opere dell’affermato artista cinese. Sia Ding Yi che la curatrice Monica Dematté saranno presenti all’inaugurazione.

j Ding Yi Appearance of crosses 2008, inchiostro su carta


12

l’ARTE

NEWL’INK

gennaio | febbraio 2012

di Mario Guarrera

“Un Incontro” è il titolo della mostra che gli artisti Felice Sanfilippo e Giuseppe Pravato hanno tenuto presso i saloni espositivi del museo Emilio Greco di Catania dal 2 all’8 settembre 2011. Se gli incontri prendono corpo dall’accostamento di personalità diverse e per alcuni versi anche distanti, ebbene i due artisti celebrano un sincero momento d’incontro essendo per stile e temperamento non proprio assimilabili, ma per l’appunto portatori di visioni eterogenee e non convergenti. Ma gli incontri in ogni caso a questo servono, ossia a rimarcare esperienze che seppure di provenienza differente ci restituiscono il variegato ventaglio della proposta contemporanea, mai così ricco come in quest’epoca di posteriorità rispetto all’arte canonizzata in scuole e correnti del recente passato. Pravato occupa la prima sala della mostra. La sua è una formazione da scultore. Non conosciamo la precedente produzione dell’artista e ce ne dispiace. Qui però non abbiamo a che fare propriamente con sculture, tranne che per un profilo ligneo. Per il resto sono dei dipinti su legno in cui si sviluppano le volumetrie, schiacciate ed allungate, di corpi femminili senza testa. C’è un gioco di primitivismo simbolico, ma anche di sacralità erotica dentro queste opere. Le immagini sono perimetrate da una spessa cornice blu, come se appunto galleggiassero in un vuoto atemporale ed immemore. Simboli di un passato ancestrale che pur sempre ci abita nel profondo, in cui la carica libidica è raffrenata dal linguaggio ieratico ed incommensurabile dell’inconscio collettivo. Ma il simbolo non si porta dietro una sua problematicità? La proprietà assertiva del suo linguaggio non deve essere interrogata nella sua generale pretesa esplicativa? Le opere di Sanfilippo, l’altro artista presente alla mostra, ci offrono a questo riguardo un motivo di meditazione. Sanfilippo è uomo di tenace concetto artistico. Ciò traspare nelle sue riflessioni ed in special modo nei lavori di questa mostra, tutti improntati ad una avvertita coscienza critica e ad una acuta implicazione teorica dei loro effetti. Le sue opere sono presentate nella seconda sala, essendo la prima occupata da Pravato. A colpirci è già da subito il primo quadro. Si intitola “due pensieri” ed è un olio su plastica. In esso due teschi si fronteggiano pensosi, al di sopra, a guisa di arbitro supremo, le costole di uno sterno campeggiano spettrali. A tutta prima è il simbolo di inanità, la vanità del mondo che ci si offre allo sguardo, una sorta di estrema natura morta barocca che ci parla della condizione di misera caducità dell’uomo. Ma a ben guardare ciò che manca in questo quadro è proprio il messaggio, ovvero il suo senso. O forse è meglio dire che esso, il quadro, veicola la catastrofe ultima del senso, la

sua implosione. La sfacciata esibizione dei simboli in qualche modo ci parla della loro usura. Questo vuol dire che il simbolo non racchiude più la parola piena del significato, ma ne è piuttosto un simulacro vuoto, e quindi mortifero. Come appunto questi teschi dalle loro enormi orbite vuote. Essi ci parlano di morte, sì. Ma della morte del senso, del suo inabissarsi in una parola vuota, in un significante muto. I teschi nulla hanno da dirci perché hanno già detto troppo. E senza parola piena, che coincide col significato di ciò che essa ci dice e con il senso che ci comunica, l’uomo scompare, si frantuma. E’ proprio questa “mancanza a essere”, questo puro vuoto del desiderio inappagato, per dirla con Lacan, la cifra che sembra marcare le altre opere in mostra di Sanfilippo. I suoi interessantissimi libri d’arte, esposti nelle bacheche della sala, ci invitano in questo meditato pellegrinaggio tra i segni. Uno di essi si chiama semplicemente natura. Titolo bello ed evocativo. Ricordiamoci che il pensiero medievale simboleggiava la natura intendendola come un libro, cioè come un testo da leggere, una foresta di simboli divini da sfogliare ed interpretare. Sanfilippo ribalta questa metafora, e racchiude l’universo della natura in un libriccino, cercando di coglierne il senso, o anche qui, la “mancanza a essere del senso”. Tra le pagine del libriccino troviamo un fiore appassito e cristallizzato nella sua essiccazione, che sta a significare la resistenza alla macinazione distruttiva del tempo. Ma anche questo, però, a ben vedere non è che un altro simbolo abusato e logorato dal tempo. Già ce lo diceva Hegel, l’essere non si conserva perché il suo divenire è già imparentato con il nulla. Nelle altre pagine la simbologia di carta apprestata dall’artista si avvale di colorati segni, che tra di loro dialogano in un rimando continuo. Una selva di significanti che si rincorrono in una linea interminabile. Tuttavia, senza mai chiudersi in un cerchio pregno di senso, questa linea è costretta a errare di segno in segno, di significante in significante, non riposando mai nella pienezza di un significato ultimo. E dunque, disperdendosi così in una disseminazione, in una “cattiva infinità”, anche questa volta emerge una domanda di senso inevasa. Nell’altro libro d’arte l’artista raccoglie la natura nel luogo stesso dove essa accade (nelle campagne di Vizzini) sotto forma di carbone di arbusto incenerito durante un incendio, di cui

egli stesso è testimone, e che conserva vergando con esso le pagine del libro. L’effetto è quello di un fermo immagine che ritrae una natura carbonizzata, e dunque distrutta due volte: dal fuoco e dal tempo. Sforzo vanitoso e furioso di salvare ciò che non merita “senso”, perché destinato a necessario annichilimento. Un ultimo libro, “infinito in blu”, ritrae spezzoni di lastre radiografiche del corpo umano. Sanfilippo, per come ci ha direttamente dichiarato, le ha selezionate e “impaginate” per la loro singolare resa cromatica. Fa una raggelante impressione l’uomo ridotto ad effetto cromatico. La serie intitolata “mappe” ci rappresenta dei piccoli quadri in sequenza su cui sono incollati frammenti di una cartina stradale di Roma sovrastati da svelte silhouette di visi dislocati nell’intrigo stradale. Siamo forse di fronte ad uno spiazzamento dell’orientamento, ad una perdita della bussola stradale? Forse sì. A noi piace pensarle come una messa in scena delle derive situazioniste, che consistevano nel girovagare casuale e insensato per la città allo scopo di perdere l’orientamento e accedere ad una dimensione di spaesamento psicogeografico. Solo che in questo caso si tratta di quartieri consueti, familiari, i cui nomi delle strade, tuttavia, non ci dicono più nulla. Ci suonano estranei. L’opera che per noi chiude idealmente il filo del movimento concettuale di Sanfilippo si chiama “campo”. Essa si compone di una cera d’api su cui all’estremità in basso a sinistra con una pennellata di acrilico è stato sbuffato un ricciolo. Qui ci troviamo ad osservare un favo composto di cellette esagonali dentro cui le api conservano le larve ed immagazzinano il miele. Dunque qui ci troviamo dinnanzi ad una struttura di perfetta geometrica forma di pura origine animale. Risalta pertanto l’assenza dell’uomo, ovvero del suo destino di artefice manipolatore del mondo, se non fosse soltanto per quel ricciolo di embrione in basso a sinistra. Ma tale segno per l’appunto non registra altro che la fine, lo stato di indebolimento dell’umano. Inteso quest’ultimo come quel meraviglioso dispositivo del discorso che fino a non molto tempo fa ha riempito di senso le nostre esperienze, non ultima l’arte. In altre parole quel ricciolo ci induce a sentire una profonda nostalgia dell’uomo. fotografie di Mario Guarrera


gennaio | febbraio 2012

NEWL’INK

ex post-illa: per una

l’ARTE

13

MoStra RIVISITATA di Rocco Giudice

Una mostra collettiva su un tema impegnativo, una mostra-omaggio non rituale a uno dei protagonisti dell’arte italiana del Novecento, in una sede prestigiosa, si presta a bilanci che vanno al di là dell’occasione e dell’interesse diretto di chi, a un titolo o un altro, ha concorso alla realizzazione dell’evento. Così è stato per Il Bosco d’Amore, mostra tenuta a Palazzo Valle, a Catania, dal 17 settembre al 5 novembre dell’anno scorso: piccolo fatto in relazione al quale si potrebbe, tuttavia, misurare l’incidenza che analoghe iniziative riscuotono, se non altro, nella città in cui si svolgono, sugli usi e costumi mediatici, perfino sul tasso di sensibilità civica, perlomeno, nel ristretto ambito di pertinenza, qualora si riesca a andare oltre le recite a uso della demagogia che trova sempre modo di lanciare sfide immaginarie in cui niente è rischiato, neppure di essere presi sul serio. In effetti, tutte cose che offrono qualche possibilità di tornare sull’argomento. In sede di bilancio (circa 3.000 visitatori censiti), molti avranno pensato che una mostra che si caratterizza come un originale omaggio - reso anche da poeti e scrittori: Giuseppe Bella, Carmelo Causale, Vincenzo Crapio, Giuseppe Nicolosi Fazio, Angelo Scandurra, Maurizio Scibilia, Stefano Strazzabosco, che ringraziamo una volta di più per la generosità, oltre che per il talento - a un artista popolare sia cosa di tutti i giorni: una fiera del déjà vu. Ma non era così scontato, già a partire dall’opera di Guttuso al centro della mostra: Il Bosco d’Amore. Non è che la critica si sia stracciata le vesti per questo dipinto più che per altri di Guttuso. Che la pittura sia importante quando va oltre i limiti della pittura, come ogni altra espressione dell’umano operare vale quando non è fatto privato o professionale degli intenditori, per gratificare operatori e addetti ai lavori, non sembra dettaglio che si possa omettere di segnalare anche a molti preposti all’ufficio. Il curatore della mostra in questione riteneva che quest’opera di Guttuso costituisse il primo caso di un “prodotto intellettuale” post-rivoluzione sessuale in cui questa allucinazione collettiva, l’Erosfera come utopia (o almeno un Eros center), viene apertamente contraddetta o sconfessata. Non è una cosa da poco, per un dipinto, neanche di questi tempi. Guttuso ha visto rovinare, anzi, naufragare nella polvere tutte le utopie a lui care: la rivoluzione politica si è esaurita prima del ‘68, quella dei consumi stava per esaurire le masse, che, preso lo slancio dall’occupazione delle terre, correvano a occupare le spiagge e il tempo libero, il Realismo nei termini del diamat aveva dovuto soccombere alla crisi di un reale che sfuggiva alle definizioni di scuola, di Chiesa o di Partito. Ora, era il turno dell’utopia sessuale: l’eros come dittatura del piacere e antidoto all’infelicità umana e al disagio della civiltà capitalistica, oltre che alla morte, non funziona neppure come rimedio omeopatico o effetto placebo alla morte del desiderio e non lascia molte più chance alla civiltà emancipata; la felicità dietro l’angolo è un gira che ti rigira l’amore bello che ti passa: e tutti giù per terra o sul lettino dell’analista. Il festoso girotondo per calendimaggio si spezza in un capitombolo come nemmeno in una danza della morte, dove tutto è saldamen-

te assicurato. Si può condividere o no, ma Il Bosco d’Amore è, a mio modo di vedere, ben più che un’elegia sulla giovinezza perduta. Ma non tutti la vedono così, per l’appunto: quel che è importante è vedere, senza prendere (troppi) abbagli. E quanto al vedere, dispiace non sia stato in tutto e per tutto così, se pensiamo alle assenze, tutte di riguardo, ma non sempre per necessità e certamente, non per volontà, negligenza o preclusione da parte degli organizzatori: e pur senza pretendere di scusare o assolvere altri, qui si tenta parziale ammenda anche di quanto non potrebbe esserci imputato. Il primo nome che mi viene in mente è quello di Salvatore Gordon Grasso. Un pittore acese, morto dieci anni fa. In mezzo a tante ricorrenze, c’era anche questa (nde: artista invitato, ma assente per la troppo “gelosa” gestione degli eredi). Non che la pittura di S.G.G. abbia bisogno di attenzioni dettate dal calendario o dalla riconoscenza di chicchessia, S.G.G. non aveva bisogno di altro, per essere pittore, che la vitalità che gli faceva ricercare questa stessa virtù in quello che lui chiedeva di ammirare e amare, con un impeto privo degli imbarazzi che si pretende siano dovuti alla grazia. Mentre non è stata la grazia, che lo ha illuminato, Grasso non era uomo da farsi illuminare: semmai, a toccarlo e a accenderlo era la stessa energia che animava lui e permetteva alle cose vive - un albero, i fiori, un cespuglio, un frutto - di riempirlo di stupore e di commozione. Il suo potente e perenne appetito di cose vere e buone ha bevuto fino all’ultima goccia i colori che vediamo colmare le sue opere, colori che non si stancano di proliferare e crescere rigogliosi sulle sue tele come su un pergolato, in uno dei giardini fra Acireale e Naxos, infoltendo sui pendii del vulcano o pigiati lungo uno dei tratti costieri delle sue estati di ragazzo. S.G.G. era capace, in questo suo immergersi nella terra per lasciarsene scorrere dentro umori e linfe, di diventare astratto (Astrazione morbida e bituminosa, 1993; Cave di Cusa, Latomie del Paradiso, 1993; ecc…), nelle partiture in cui, anche al di fuori di ogni pretesto figurativo-narrativo (come nei pannelli di Il vincitore magnifico, 1990), si risente un’eco di Nicolas De Staël; di farsi informale (Via Tormarancia, mimose, 1983; Malvarose del Casal del Drago, 1987, omaggio, forse, a Malvarose, di Carl Frederick Frieseke, 1912-13; Cespuglio con farfalle e insetti, 1993; ecc…), lui che tutto riportava al principio di una natura che gli dava la forma e che per lui non era idolo da adorare, ma la possibilità di viverne fino in fondo le sfaccettature, apparenze, attitudini per giungere a un livello di astrazione dal soggetto più esplicita e deliberata, fino al nucleo duro dell’immagine: duro almeno quanto lui: e solo a quel punto Salvatore Gordon Grasso trovava riposo da se stesso. Intanto, Salvatore Gordon Grasso aveva spinto la sua tenacia e la sua insolenza espressionistica a un parossismo tale che un volto, per esempio, era sul punto di diventare una fisionomia completamente diversa, come visto un attimo prima di confondersi a un altro volto o di diventare una folla (notevoli Rembrandt van Rijn alla fragola, del 1991; un Ritratto immaginario di Eugène Dela-

h Salvatore Gordon Grasso La foresta delle Dalie, 1988, acrilico su tela, cm 120x100, croix giovane, sempre del 1991). Come se al volto, finito che avesse di esprimere tutto quello che poteva, il pittore potesse togliere o vanificare ogni segreto dell’aspetto esteriore e “ufficiale”, sfalsandone l’immagine codificata. Perciò, quasi sempre i ritratti di Grasso distolgono lo sguardo dall’osservatore, sorpresi fuori di sé, fuori di chiave, fuori del quadro da qualcosa che li distrae o li attira, sguarnendo il campo all’assalto all’arma bianca dell’artista. Stipati delle cose di cui S.G.G. vuole darci la consistenza prima che l’immagine, tutti i suoi colori brillano, cagliati e resinosi anche quando sono meno fittamente stesi, privi di cupezza anche nelle tonalità più fredde. La sua pennellata era voluttuosa e insaziabile, onnivora, con una foga panica, poco propensa al galateo dello stare a tavola della pittura; e volta, invece, a spremere dalla linea tutto quello che essa, di caso in caso, poteva dare in termini di verità per affidarlo a accanite masse colorate, a tradurre fermezza e incisività del tratto nella tensione dinamica delle tinte, a assottigliare e assorbire nelle sue iperboli cromatiche il segno per ritrovare la forma nella intensità così espressa. Non riesco a pensare a un disegno distinto dal colore e dalla pasta cromatica leggiamo fra le note che S.G.G. ci ha lasciato. Lontano dalle mode, alieno agli sperimentalismi, diffidente delle avanguardie, fedele, senza tentennamenti né ripensamenti, alle sue primigenie passioni di artista e di uomo, ma pronto a discuterne senza partito preso con coloro cui riconosceva la sua stessa coerenza e correttezza, con amici del livello di Bruno Munari, Salvatore Gordon Grasso ci si rivela, infine, fra gli artisti la cui opera, malgrado non vi sia in essa traccia di protagonismo autobiografico a determinarne il senso, appare come la testimonianza di una vita e di un modo di vivere l’arte.

La foresta delle dalie (1988) Come tutta l’opera di Grasso, anche questo dipinto è pervaso dalla fisicità con cui l’artista sembra vivere in prima persona la materia in tutte le tonalità in cui il mondo gli si presenta. Le masse colorate sono aggregate senza pause, perché nei dipinti di Grasso non c’è mai il vuoto, al massimo, ombra che si interpone nella continuità cromatica del mondo, trasformando in ritmo il succedersi dei piani e il condensarsi dei volumi.

OP E R A


14

l’INTERVISTA

NEWL’INK

gennaio | febbraio 2012

di Sisco Montalto

La storia del Teatro Valle è una di quelle storie che mi piacerebbe sentire molto più spesso, perché mi dà la sensazione che qualcosa possa ancora cambiare, in un Paese attualmente senza speranza, con una carenza di valori, rapporti umani e cultura davvero spaventosa, con sempre più persone incompetenti e soprattutto senza alcuna passione, se non quella del potere e del denaro. Succede così, quasi naturalmente, che per riprendersi in mano il futuro e soprattutto quello che ti spetta, un gruppo di persone, di artisti e maestranze dello spettacolo, decidono di occuparsi in prima persona del loro futuro, senza ideologie anacronistiche e lotte di potere. Il Teatro Valle, per chi non lo sapesse, è uno dei teatri più antichi di Roma ancora in attività; qualche tempo fa, decisioni politiche poco lucide hanno prima soppresso l’ente teatrale italiano che gestiva il teatro, e poi deciso di affidarlo a privati. Nasce così l’occupazione per chiedere che lo stesso venga mantenuto pubblico e soprattutto gestito con trasparenza e partecipazione da chi nell’arte e con l’arte ci lavora e ci vive tutti i giorni, rivendicando nel frattempo diritti dimenticati… Io ho voluto sentire la loro voce per capirne di più e per fare conoscere la storia del Teatro Valle occupato, per dare anche solo un’idea di come da soli possiamo fare qualcosa nel marciume di questa realtà italiana.. S.M. Intanto come è iniziato tutto (soprattutto per chi non conosce la questione teatro valle)? L.d.S. Da tre anni esiste un movimento che si chiama lavoratori dello spettacolo, composto principalmente da attori, attrici, registi e tecnici del teatro che racconta le criticità del ns settore. In questi tre anni le persone coinvolte nel movimento sono andate nei principali festival italiani e hanno fatto irruzione alle prime dei teatri romani leggendo un comunicato che esponeva le condizioni estreme del settore e chiedeva chiarezza e responsabilità da parte delle Istituzioni. L’occupazione del Valle è avvenuta in un momento in cui le criticità rispetto al sistema teatrale italiano e alla cultura in generale cominciavano a dare segni estremi. Il Valle veniva chiuso dopo la dismissione dell’ETI (Ente Teatrale Italiano che si occupava della circuitazione degli spettacoli e dello sviluppo delle pratiche per la mobilità artistica), non si sapeva a chi sarebbe stata assegnata la direzione del teatro, addirittura si vociferava la sua destinazione a bistrot cabaret, e per questo motivo l’abbiamo occupato. Si pensava di fare una tre giorni simbolica e invece le contingenze hanno voluto che si rimanesse, abbiamo così cominciato a pianificare e ad attuare un piano di lotta che potesse portare ad un cambiamento. Quello che è successo è che altre realtà, artistiche e sociali hanno riconosciuto nel nostro percorso una modalità diversa, si sono rivolte a noi e noi a loro. S.M. Ho letto da qualche parte dell’esigenza di vere e proprie rivoluzioni culturali; credo anch’io che servirebbe una bella rivoluzione del genere in Italia, sinceramente però ho difficoltà a individuare in concreto quello che si dovrebbe fare, soprattutto per slegarlo da idee, ideologie di questa o quell’altra corrente politica. Voi credete che l’occupazione sia un modo giusto e che serva davvero a smuovere qualcosa o si corre il rischio che tutto cada nel dimenticatoio? L.d.S. La nostra lotta consiste nel fatto che non ci riconosciamo in nessuna ideologia e che stiamo cercando nuove forme che mettiamo in pratica. Ci stacchiamo dalla demagogia ed entriamo nei fatti. Sfruttiamo il nostro immaginario, le nostre competenze e soprattutto gli studi e le ricerche di tanti anni e di tanti artisti che ci hanno preceduto e che sono rimasti nella storia per la giustizia insita nei loro concetti nonchè potenza comunicativa.

Quello in cui crediamo fortemente sono le pratiche e la riappropriazione di tutto ciò che ci stanno togliendo e che è nostro. Una riappropriazione che viene dal basso e che rimane nel basso, cioè restituito alla cittadinanza, questo abbiamo fatto con il Valle. Certo è il Valle. Ma siamo sicuri che qualsiasi altro spazio in Italia sia in grado di aprirsi alla cittadinanza, perchè la gente ha bisogno di questo. Il teatro è una delle forme d’arte più antiche, proprio perchè crea pensiero e confronto, ed è da questo che si creano le nuove idee, quello di cui si necessità in questo momento storico. S.M. Una domanda che ho fatto anche in altre situzioni simili: l’autogestione è davvero una cosa fattibile? E come la intendete voi? L.d.S. Noi ci appelliamo a un modello democratico basato sulla libera partecipazione, chiunque può entrare e partecipare liberamente lavorando alle attività dell’occupazione, il potere sovrano è affidato all’assemblea con il consenso, non andiamo mai ai voti. Comunque non stiamo lavorando all’affermazione dell’autogestione, ora siamo costretti a farla perchè siamo in una situazione di occupazione e inevitabilmente stiamo sperimentando delle pratiche che magari possono essere condivise, ma stiamo studiando e lavorando per far crescere il movimento, un movimento che possa cambiare alcune criticità di questo paese. E stiamo studiando per proporre un modello di Fondazione attuabile all’interno del Teatro Valle e in altri teatri italiani. S.M. Collegandomi alla domanda precedente, è un modello che può essere allargato e non rimanere legato solamente a singole situazioni? L.d.S. Ci piacerebe che la gente si riappropriasse dei propri spazi e cercasse di gestirli veramente, che li facesse diventare degli spazi condivisi, abitati dalla cultura, la riflessione, lo sviluppo di pensiero. Al Valle stiamo sperimentando la formazione del pubblico e questo ha aperto tantissimo lo spazio. Siamo convinti che se le pratiche si aprono veramente, senza risparmiarsi e andando incontro alle mancanze culturali della gente oltre che di condivisione, il posto diventa intoccabile da chi lo vuole far fuori e soprattutto portatore di nuove idee. Serve un confronto tra generazioni, vecchi, medi e giovani. Uno scambio di esperienze e nuove forme di pensiero. S.M. Nello specifico come si sta concretizzando la vostra autogestione? L.d.S. Siamo in parecchi, stiamo all’interno del Valle 24 ore su 24 dandoci dei turni. Si sono creati diversi gruppi che si occupano di specifiche diverse che vanno dalla logistica, alla programmazione, al pensiero politico, alle azioni da mettere in atto, alla comunicazione. Settimanalmente facciamo assemblee interne che durano anche 10 ore dove portiamo tutte le problematicità legate al luogo, al movimento, ai problemi di logistica, programmazione e gestione, alla fondazione. Andiamo avanti per consenso, questo vuol dire grande ascolto e predisposizione a starci. Siamo esasperati dalle criticità di questo paese e questo ci dà le energie di affrontare questo drago. S.M. Secondo voi il vero problema è la privatizzazione o l’incompetenza delle istituzioni e di chi ci governa? L.d.S. Sono due cose separate e che si influenzano allo stesso tempo. C’è sicuramente una logica basata sull’individualismo che ormai è dilagante e preponderante, l’accecamento delle istituzioni riguardo alla fascinazione del potere ha portato sempre di più ad un appiattimento del pensiero, alle strade più corte e di conseguenza ad una dilagante incompetenza che è diventata imbarazzante e verso la quale proviamo vergogna, non ci riconosciamo, e invece crediamo che noi italiani possediamo una grande intelligenza e competenza che ci vengono negate a priori. Vogliamo dire basta e riaffermare le nostre competenze, mettendo al bando l’individualismo e la vanagloria. S.M. Sono stati fatti passi avanti? A che punto siete con la vostra lotta? L.d.S. Stiamo scrivendo uno statuto di fondazione Teatro Valle Bene Comune. Abbiamo presentato la prima bozza il 20, proprio oggi abbiamo pubblicato sul sito lo statuto partecipato, non ci siamo ancora confrontati con le istituzioni, perchè tutto ciò che propongono sono gli stessi giochi di sempre. Continueremo a studiare e a praticare per apportare qualcosa che abbia un senso non solo per noi ma per tutti coloro che credono nella nostra lotta. Continueremo la lotta.. S.M. = Sisco Montalto L.d.S. = Lavoratori dello Spettacolo

INFO

www.teatrovalleoccupato.it www.facebook.com/teatrovalleoccupato?sk=info


gennaio | febbraio 2012

NEWL’INK

MIGLIORISI e la piccola orchestra VINCENT

primavera

Pensando a cosa scrivere per introdurre l’intervista a Vincent Migliorisi, mi sono chiesto se parlare di artista sotterraneo non fosse troppo riduttivo per un uomo che ha fatto molto per la musica, quella della nostra Sicilia, quella di un certo spessore. Poi ho pensato che per sotterraneo, almeno a noi piace pensarla così, si intenda qualcosa che è lontana dai cliché, dalle mode. Un grande artista è soprattutto colui che va sempre per la propria strada, cercando di migliorarsi e non cadendo nel facile divismo vuoto e immotivato. Insomma credo che Vincent sia l’immagine del vero artista sotterraneo, che è prima di tutto un uomo, vero, sensibile. Una storia, la sua, impregnata d’arte e di musica; chi non lo ricorda con La Casbah, che nei ‘90 fece ballare, al ritmo di melodie etniche, ragusani e non, con più di 150 concerti in giro per l’Italia e l’estero. Vincent non si è fermato dopo lo scioglimento della band e, sebbene la sua grande passione sia sempre stata la musica popolare, ha cominciato un’esplorazione artistica che è andata ben oltre la musica (sonorizzando corti, spettacoli teatrali, documentari, lavorando con importanti figure del panorama musicale e non, italiano, vincendo premi e ottenendo numerosi riconoscimenti). Nel 2007 ritorna al genere popolare con i Talèh, e nel 2010 nasce il nuovo progetto chiamato Piccola Orchestra Primavera: un mix di musicisti marchigiani e siciliani, un mix di suoni e melodie, il tutto confluito in un album, Prima V’era, tutto nuovo, una sorta di raccolta di dieci anni di musica firmata Vincent Migliorisi...

G.D.S/S.M. Sei stato protagonista di numerosissimi progetti, ma quello più importante che stai portando avanti è senz’altro la Piccola Orchestra Primavera: come è nato e come si fa a coniugare musicisti provenienti da influenze sia musicali che geografiche così diverse? V.M. L’idea di un’orchestra nasce dalla necessità di riprodurre nella maniera più fedele possibile il disco, che comunque è ricchissimo di partecipazioni e soprattutto arrangiamenti che credo siano la cosa che mi riesce meglio...Almeno così dicono. Mi piacerebbe avere sempre gli stessi musicisti, ma il fatto di vivere in 2 regioni diverse non me lo consente sempre. Diciamo che l’idea è quella di avere un collettivo che si muove in base alle mie esigenze geografiche, in tutto i musicisti sono 10, però la metà non si conoscono nemmeno tra di loro. Ovvio poi che io ho le mie preferenze, ma spesso cachet inadeguati e spostamenti difficili non mi fanno avere accanto le persone che vorrei...Ciò che conta è il risultato, ovviamente. G.D.S./S.M. Come nascono e da cosa nascono le tue canzoni? V.M. I brani nascono spesso da un’intuizione, un riff oppure un suono, per poi evolversi in un racconto che in quel preciso momento fotografano un’emozione, spesso legata al mio stato d’animo ma anche a un immagine, una sensazione, una frase. Anche se spesso minimalista e semplice all’ascolto in 3-4 minuti, in ogni brano tendo sempre a delineare un percorso, che ha quindi un suo inizio e una fine. G.D.S./S.M. Grazie alla P.O.P. ti sei spesso esibito in teatro: qual è la differenza dal punto di vista emozionale fra suonare in un teatro o in un piccolo locale?

di Giulio Di Salvo e Sisco Montalto

V.M. Direi che il teatro predispone all’attenzione e quando la gente è attenta i musicisti danno il massimo. Un fine non ultimo della P.O.P. è quello di sdoganare la musica strumentale dagli ambienti a lei più consoni, cioè i teatri e gli auditorium, e quando mi capita di suonare in un locale e riesco a coinvolgere la gente la cosa è ancor più gratificante. Per me è importantissimo educare gli ascoltatori, e poi, che dire, mi piacciono le sfide? G.D.S./S.M. Sei sempre attorniato da tanti musicisti e tu stesso ami accompagnarti con numerosi strumenti così diversi tra loro...qual è il tuo preferito e quale quello con cui ti è capitato di comporre le cose migliori? V.M. Sicuramente la mia passione per gli strumenti acustici ha un po’ condizionato la mia produzione, ma negli anni ho anche provato a sperimentare nuove sonorità. Io mi considero fondamentalmente un chitarrista, la chitarra è lo strumento con cui compongo, ma ho sempre un orecchio di riguardo per il signore degli archi che, non a caso, è presente in tutti i miei brani: il violoncello. G.D.S./S.M. Che esperienza deve prepararsi a vivere chi viene a vedere un concerto della P.O.P.? V.M. Rispondo con un estratto della presentazione del progetto che secondo me sintetizza perfettamente le finalità e le aspettative che ho con la P.O.P. e cioè: Aprite un atlante e provate a tracciare una linea immaginaria che dalla punta estrema della Sicilia tocchi le coste Maghrebine, poi passi per le banlieues parigine risalendo per la Manica fino al Regno Unito, e giù ancora dritto per i deserti della Cappadocia e poi per la Grecia culla della civiltà , dove ancora una volta il mare vi farà approdare sulle coste Salentine. Ecco, se siete riusciti a delineare quest’ipotetico perimetro, siete ancora lontani dal circoscrivere la musica della Piccola Orchestra Primavera.. G.D.S./S.M. Che rapporto hai con i tuoi brani? Ce ne sono alcuni che non puoi più sopportare, che hai cancellato dalle scalette, che hai stravolto? E mischi mai i tuoi progetti? V.M. L’umiltà di un artista consiste pure nell’avere il coraggio di accantonare dei progetti, dei brani, non perché non funzionino, ma solo perché in quel particolare momento non ti rappresentano. Io ho scritto e composto un centinaio di brani tra canzoni e musiche, folk, rock, strumentali, colonne sonore. Dovrei avere 10 progetti o la possibilità di suonare 4-5- ore a concerto. La diversità, la contaminazione fa parte di me, eppure, se ascolti un brano dei Talèh oppure uno de La Resa Dei Conti, riconosci la mia produzione, e questa, per un musicista, è la cosa più importante. I brani, tutti, sono figli miei, e anche se non li suono da anni, rimangono sempre dei frammenti che ho disseminato durante un determinato momento, probabilmente, anche perché qualcuno, col tempo, li raccogliesse... G.D.S./S.M. Secondo te la musica, le canzoni possono cambiare le cose? V.M. Oggi come mai le parole non possono accontentarsi di riempire già malconce strofe aspettando un bridge antifona del solito ritornello. Chi canta ha il diritto ma soprattutto il dovere di fotografare la realtà. E questi sono tempi che non si lasciano ritrarre facilmente. Questo è il motivo per cui sto lavorando ad un nuovo progetto rock che si chiama La resa dei conti, che suona quasi come una minaccia ma che in realtà è una presa di posi-

l’INTERVISTA

15

zione: è la dichiarazione di insofferenza di chi, con lo sguardo lucido, a volte ironico ma spesso amaro e tagliente, ha vissuto attraverso la musica il declino culturale del Belpaese degli ultimi 10 anni. La musica non può cambiare le cose, però ti può fare pensare, e pensare può cambiare le cose; non a caso il singolo si chiama Le cose cambieranno... Ma ti eri informato vero? G.D.S./S.M. Naturalmente si! Da tutti i tuoi lavori emerge il fatto che dai molta importanza al rapporto musica-immagini: secondo te chi in questo connubio ne esce maggiormente valorizzato? E’ la musica che aiuta le immagini ad essere più evocative o viceversa? V.M. Quando penso a un tema, ho in mente delle immagini, condizionate dallo stato d’animo di quel momento irripetibile: il segreto è farle emergere, e per me è un processo davvero spontaneo. L’ultimo inverno è diventato una chicca nel suo genere, molti video per cui ho composto la colonna sonora hanno avuto importanti riconoscimenti, secondo me è più facile comunque, abbinare delle musiche a un video che un video a delle musiche e sicuramente, la musica aiuta più le immagini del contrario, ma questa è la mia esperienza personale ... Sarò un po’ di parte? G.D.S./S.M. Giusto un po’? Dicevamo dei tuoi numerosi progetti, viste le tue influenze...hai mai pensato ad un disco in inglese? V.M. Sicuramente la musica inglese è stata molto importante nel mio percorso, però penso nella mia lingua e credo sia più efficace. D’altra parte non ho mai pensato al mercato internazionale, come dico sempre non mi interessa emergere, ma non affondare, e di questi tempi, credo sia già difficile fare questo. G.D.S./S.M. Sono sicuro che i tuoi genitori, quando hanno scelto il tuo nome, saranno stati ispirati dall’arte... sei cresciuto in mezzo all’arte o mi sbaglio? Insomma di cosa ti occuperesti se non ti chiamassi Vincent? V.M. In effetti sono sempre costretto a specificare che Vincent non è il mio nome d’arte. Mi chiamo così in omaggio a Van Gogh e non ringrazierò mai abbastanza i miei per avermi scelto questo nome che, chissà, forse in parte ha condizionato la mia vita. Probabilmente avrei fatto il musicista anche se mi fossi chiamato Giuseppe (non me ne vogliano i Giuseppe) ma stranamente la mia famiglia non ha niente a che vedere con la musica e per anni mi sono chiesto da chi avessi ereditato questo gene anomalo. Solo da poco ho scoperto che un vecchio zio, mai conosciuto, suonava il mandolino. Verso i 12 anni ho cominciato a strimpellare la vecchia chitarra parlante che mia sorella teneva appesa al muro (era “parlante” perché la cassa era sempre aperta e più la riparavo più si apriva). Poi, per la licenza media, mia madre finalmente mi regalò una chitarra vera e da lì è iniziato tutto. Lei ovviamente non ha fatto altro che pentirsene… G.D.S./S.M. Stai lavorando attualmente a qualcosa di nuovo? V.M. Ti ho già risposto prima quando parlavo de La Resa Dei Conti, per cui sto scrivendo molte canzoni attingendo anche a qualcosa di inedito già composto, ma in cantiere ho dei brani per il primo disco a nome della P.O.P. che sarà decisamente più movimentato rispetto ai miei precedenti lavori così non avrò problemi a suonare a teatro così come nei locali, e soprattutto perché mi piace sperimentare e...coinvolgere?” G.D.S./S.M. Grazie per la tua disponibilità e in bocca al lupo per tutto! www.myspace.com/vincentmigliorisi www.facebook.com/pages/Piccola-OrchestraPrimavera/213812821981749

INFO


16

l’ALTROVE

NEWL’INK

aMerICa!

gennaio | febbraio 2012

di Rocco Giudice

on the road again Chiuse gli occhi. Aveva sonno e cercava da tutto il giorno di dormire, senza riuscirci. La notte precedente, dopo aver bevuto e chiacchierato, se n’era andato a letto convinto che lo aspettasse una dormita epica. Invece, aveva tardato a prendere sonno, un sonno intermittente, che s’accendeva e spegneva su immagini che, alla fine, lo avevano svegliato, lasciando nella sua vita un vuoto che non si sarebbe rimarginato nemmeno per colmarlo col riposo di notti più fortunate. L’ordinaria crudeltà dei sogni non lo turbava, mentre quelli che sembravano meno lontani dalla vita diurna lo angosciavano: gente che non aveva mai visto si rivolgeva a lui con grande familiarità - facce che, districandosi da un fondale ombroso che ne invischiava i lineamenti, pretendevano più coraggio che certezza nel sottoporgli fisionomie in cui individuare o decifrare un messaggio che lui era implicitamente accusato di aver sempre eluso e in un modo assai più subdolo di quello in cui nel sogno gli era affidato accompagnandolo a nuovi quesiti… Siccome non lasciavano indovinare in che modo potessero esistere, sembravano tutti pronti, più che a profittarne, a invidiargli anche questa sventura… Sogni minuziosi e quietamente deformi per la miriade di particolari germinati dall’insonnia e che deturpavano tutto il resto. Neal gli gettò addosso una delle sue domande a freddo, improvvise, insensate e gratuite: “Qual è la frase che ti colpisce di più, quando pensi al nostro Paese, Jack?” Jack: “Vuoi che pensi al nostro Paese?” N.: “Per me, già ci pensi. Che hai una missione. Anche questo Paese pensa di averne

una. Sei una potenza mondiale tutto da solo. Anche se non hai l’atomica e ancora non hai capito quale il messaggio di libertà di cui fornirai l’esempio pratico, ci pensi, eccome!, alla missione. Come pensi a una cosa sporca, però.” J.: “L’amicizia e il patriottismo ti ispirano, come sempre, nobili sentimenti e belle parole.” N.: “Dimmi le tue. Tutto lo spirito americano in un motto.” J.: “Tutto? Lo spirito, lo sprint di un’azione. Che non è interrotta perché è lo spirito che la pervade mentre stai pronunciando la parola magica. Esso attraversa te e parla in te, senza alzare la voce, senza disturbarti.” N.: “Se non la fa così lunga, okay. Allora? Una frase per l’America. Voglio vedere se ce la fai a ficcarla dentro una parola e a lasciarcela, perché non ne esca più.” A volte, Neal parlava proprio come un fottuto comunista. “Non ci riuscirei neppure col Rhode Island. L’America è imbucata per sempre dentro il nome che le hanno dato.” N.: “Sei già sulla buona strada.” J. ci pensò: “Servendo Dio e la Patria.” N.: “Vuoi arruolarti nei marines?” J.: “Sei tu che vorresti cambiare i pannolini alla giovane nazione.” N.: “Una frase igienica per una cosa più pulita, per piacere. Questo Paese apprezza sempre i pensieri gentili che fai su questo Paese.” J.: “Be’, per me è quella.” N.: “Servabo? O non servabo?” J.: “Servabo. Dio e la Patria. Proprio perché non posso credere che servire la Patria sia servire Dio, che siano, cioè, la stessa cosa. Sono cattolico per questo.” N. ridacchiò: “E perché, io, no?” Jack ci teneva a fare la persona seria. Colpa del caldo e della birra fresca. N.:“Va’, va’ a fare il marine, allora, prete. Sai come fregarmi anche con le mie stesse parole, se non puoi fregarmele. Peg-


gennaio | febbraio 2012

NEWL’INK

gio di un prete spogliato è un prete mancato. Va’ in convento.” J.: “Ecco la missione cui ti riferivi. Siamo vagabondi dell’Ordine.” L’impianto di aria condizionata era guasto. Faceva un caldo infernale. In lontananza, fluttuava la Mesa Verde. Doveva fare più fresco, lassù, ma, per il momento, si potevano accontentare di vederla ergersi sullo sfondo, un trampolino di lancio o una morbida pista d’atterraggio per la Luna. Le frollose colline bianche intorno si sgretolavano come fango rappreso, ma le rocce laviche, lassù, ci mettevano secoli a sbriciolarsi in polvere, la Mesa aveva bisogno di più tempo di quello che c’era voluto per vederla emergere e prender quota così, prima di atterrare in picchiata a motore spento, là, da dov’era scaturita. La pelle del mondo disfatta in scorie accecanti ombreggiate dalle piante di ocotilla, maguey, dasilirio, yucche, prati di opunzie spinose, venute a prosperare e artigliare quel friabile avanzo di un deserto che si era arenato nei paraggi, per deviare altrove il suo corso, come se a segnarne le direttrici di marcia fosse stato il letto d’un immenso fiume o d’un lago che aveva lasciato ovunque le sue tracce mnestiche, glosse geologiche chiarissime dei cataclismi lì avvenuti. Ma la Mesa era un mondo a sé, le rocce fiorivano di piante d’alta quota o sfoggiavano le sfumature inverosimili di una profondità ipogea che affiorava solo a grandi altezze, in gara con l’arcobaleno che diventava il cielo all’alba e al tramonto - l’anima del mondo, a strati, risaliva dalla notte e balzava solidificata con le fiamme che l’avevano generata, fra colori rivelati, talvolta, agli indiani dal peyote. Deposte in basso le sue spoglie, come ferite cosparse di sale, sul fondale d’un antico mare interno che ci aveva messo millenni a pro sciugarsi, sembrava che la terra fosse stata scavata e modellata a propria immagine da empirei visibili solo da quelle cime. N. riattaccò: “Non ti facevo così ecclesiastico, figlio dell’America. Avresti dovuto dirle prima, certe cose.” J.: “Prima, quando? Lo dici perché sei invidioso anche di questa virtù teologale.” N.: “Non invidio mai complessi e virtù del mio prossimo. Posso invidiargli le auto, in certi casi. Dovresti conoscermi almeno quanto sei intimo di San Paolo… Diciamo, un tessalonicese del New Jersey.” J.: “Solo che tu non hai scritto ancora qualcosa come l’Inno alla Carità.” N. sbadigliò: “Io? Sei tu quello che scrive poesie. In un Paese che ha l’atomica!” J.: “Non capisco se e a cosa alludi. Stai alludendo, per caso?” N.: “Io, alludo? E tu, che scrivi poesie, allora?” J.: “Non ti piacciono?” N.: “È per questo che le scrivi, Jaaack?” J. non rispose, dondolandosi sull’amaca e finendo la lattina che aveva stappato prima che iniziasse quella conversazione. “Insomma, vuoi sentirti piacevole senza lavarti più di adesso. Una forza della natura e un prodigio della cultura, al cui confronto l’atomica fa la figura di un semplice dettaglio estetico” continuò. “Ammettilo, su. Tu non scrivi per consolarti di non essere un uomo felice o per compiacerti di un attimo di felicità. Scrivi per espiare la colpa di non essere Shakespeare o qualche altro balengo genio della letteratura. Ecco cosa fanno i poeti.” J.: “I migliori, sì. Mi pare giusto. Essendo il sublime oltre ogni vanità, si scrive per farsi perdonare un’audacia inutile.” N.: “Non scantonare. Scrivere per infoltire il parco-morti illustri della nazione o di qualcuna delle sue fazioni letterarie è degradante. E peggio dell’essere dimenticati da vivi è essere ricordati da morti.” J.: “Credevo il contrario. Comunque, non ci tengo a pensare a me come morto. Non mi aspetto che lo facciano gli altri.” N.: “Finché dagli altri non ti aspetti nulla, direi che puoi fidarti della tua verginità.” J.: “Non mi fido neppure della tua. Meglio perderla che trovarla, di questi tempi.” N.: “Tutta invidia.” Le braccia dietro la nuca, N. rimase a osservarlo: “I poeti per grazia di chi è più grande di loro - ciò che vale per tutti, compresi i più grandi -, non dovrebbero presentarsi in pubblico, fare vita sociale, non credi? E invece, ci tengono a mostrarsi pubblicamente riservati. O fanno i professori universitari. Bruciarsi o andare al ceppo non è indispensabile, non gli è più richiesto. Non è contemplato dagli statuti accademici. Gli artisti pop come te, con le loro disgrazie come status-symbol, li assolvono dall’obbligo di assumere condotte moralmente e socialmente riprovevoli. Sei un pilastro del sistema, Jack. Mettitelo bene in testa. E visto che i governi, dalle nostre parti, se ne disinteressano, dell’estetica, non delle atomiche, ecco che gli esteti di cattedra e di strada si sentono inutili e cercano di rendersi utili a se stessi lamentandosi un pochino: bisogna capirli, con tutti i premi in dollari che gli tocca ritirare o che non gli danno per farci sapere che esistono.” Tacque. Lo divertiva punzecchiarlo. Vedeva distintamente i bozzi ustionargli la faccia livida: “Appena possono, i tuoi colleghi recitano se stessi come nessun altro. Li hai mai sentiti leggere, i poeti?” J.: “Li hai mai sentiti scrivere?” N.: “Ma ripetere sciocchezze inaudite come questa, sì. Sono un uomo molto semplice, io.” Si alzò, aprì il frigo scassato e prese una birra, la stappò e cominciò a berla. “Dimmi una cosa, Jack. Perché la gente continua a drogarsi, se sa che la droga l’ammazza? Sinceramente. Da drogato a drogato.” J.: “Perché sa che morirà comunque.” N. bevve un sorso di birra: “E ora, questo cosa vuol dire?” J.: “Cosa vuol dire ora, cosa, questo?” N.: “Che la gente sa che deve morire comunque? Che vuol dire?” J.: “Comunque? Quello che vuole

l’ALTROVE

17

la gente. La gente comunque.” N. diede un’occhiata fuori, come aspettandosene conforto o certezze: “Non ho ancora capito perché ti droghi. Perché tu debba farlo. Non è da te, una cosa tanto assurda.” J.: “Vorresti farla diventare una cosa perfettamente sensata?” N.: “No, è che non ti facevo così contemplativo. Non devi disprezzarmi, se mi prendo pena per te, stronzo. Faccio le stesse cazzate anch’io.” J. scosse il capo: “Non ti disprezzo per una cosa che non serve a nessuno dei due. Fai come vuoi. Rinunciare alla virtù non può essere un esercizio di virtù nemmeno per te. Quello che rimane, alla fine, è buono per un esame di coscienza. Io non ho bisogno di una cosa tanto borghese per sentirmi meglio di te.” N.: “Non parlare come me, allora. Poi, per fare finta che parli da solo, lo chiami scrivere, sperando ci sia in mezzo un po’ di poesia… Il cuore non figlia sempre sentimenti teneri. E c’è poesia anche nel mirare ai soldi, anche se i tuoi colleghi non ce la vedono, ufficialmente, nel vil denaro.” J.: “Diceva quel tizio che mi somiglia tanto, come si vede benissimo dagli yacht che ha intestato a sua moglie… La ricchezza non è mai stato un problema,

fotografia di Lia Indelicato Scandura

per me.” N.: “Quella degli altri, nemmeno per me. Non sei così male, come morto di fame, Jack. Non sottovalutare la depressione che metti addosso e che esprimi imbattibilmente. E beato te che hai questa voglia di scherzare. Io ho solo un lavoro. E non ce l’ho sempre.” J.: “Non fare il disoccupato con me, finché ci sono auto da rubare. Contribuisci all’incremento delle polizze d’assicurazione. Sei una colonna dorica del capitalismo americano, Neal. Dimmi che lo fai gratis.” N.: “Aspetto sempre la sacra ispirazione, per i soldi. Per la poesia, basta il sussidio, che se ne va in birra. Come l’auto va a benzina.” In auto andarono alla stazione di rifornimento. Mentre uscivano dallo spaccio reggendo ciascuno una cassetta di birra, un paio di vecchi indiani rugosi, nel gruppo non ancora sbozzato che, a poca distanza da dove cresceva un saguaro glorioso come un salmo, stava sdraiato all’ombra come un branco di cani nella polvere, in attesa di vendere crotali vivi e morti e cinture di pelle di crotalo e ninnoli vari, si avvicinò verso di loro: “Usted tiene cerveza para los hombres?” Avevano voci che cantilenavano nelle bocche rinsecchite e lunghi, folti e sudici capelli d’argento. Loro fecero finta di non capire e lo stesso fecero gli scaltri vecchietti, che gli vennero dietro, l’uno, zoppicando e l’altro, strascicando una gamba irrigidita, con le facce ingarbugliate nei loro inesplicabili arzigogoli di maschere azteche. Proprio in quel momento, la signora uscì dalla baracca che divideva col suo uomo. Indossava una camicia bianca fresca di bucato annodata ai fianchi sui blu-jeans e un passo afrodisiaco con cui apriva il cammino verso il paradiso dell’amore, emanando radiazioni di sensualità talmente forti da risvegliare l’aria morta per miglia e miglia di raggio. La signora, mentre snodava muovendosi sui fianchi la pompa per irrigare le aiuole, fece in tempo a notare i due, con cui il giorno prima aveva scambiato poche frasi senza incrociarne gli sguardi. Girandosi da un’altra parte prima che l’auto svoltasse per la pista, fece intendere chiaramente di averli riconosciuti; e loro, lanciato uno sguardo con la speranza s’incastrasse dentro gli occhi della donna, se non fra le gambe di lei, rimasero agganciati alla figura fino allo strappo della virata con cui il mezzo imboccò la strada polverosa, lasciandosi alle spalle un paese che stava tutto intero dentro lo specchietto retrovisore, un paese non molto più grande dell’area di rifornimento, rimasto a torcersi nell’aria con tutto quel sole. “Hai visto, Jack? Una vita semplice. Che volere di più? Una moglie e una casa o un camper per viverci.” “Hai trovato il motto che cercavi per il nostro Paese” approvò solennemente Jack. Poi, pensò a sua madre e a suo padre.



gennaio | febbraio 2012

NEWL’INK

l’AZIONE

19

di Davide Scandura

Un’astinenza che durava da due anni (per l’esattezza 749 giorni). Tanti, troppi, per uno come lui, ex numero uno al mondo, abituato a lasciare agli avversari soltanto le briciole. L’urlo di Tiger Woods dopo aver infilato in buca la pallina della vittoria al Chevron World Challenge, torneo del PGA Tour riservato a soli 18 giocatori selezionati, disputato sul percorso dello Sherwood Country Club (par di 72 colpi), è di quelli liberatori. Il 5 dicembre scorso in California, Tiger, con un giro finale in 69 (-3) colpi e il punteggio di 278 (69 67 73 69), ha superato zach Johnson (279 - 73 67 68 71), che lo sopravanzava di un colpo dopo 54 buche. Woods ha iniziato il torneo al secondo posto con tre colpi di ritardo dal coreano K.J. Choi, poi, nel secondo turno si è portato in vetta con tre colpi di margine su Matt Kuchar e sullo stesso Choi, ma nel terzo ha trovato una giornata decisamente storta ed è stato superato di un colpo da Zach Johnson. Il giro conclusivo è stato una sorta di match play. L’ex numero uno mondiale ha annullato subito lo svantaggio e i due sono transitati alla pari sulla buca 9, poi Woods è andato avanti con due birdie (cioè con un colpo in meno di quelli previsti), ma un suo bogey (cioè un colpo in più di quelli previsti) alla 12 e un birdie di Johnson alla 13 hanno ristabilito la parità. Alla 16 Johnson ha segnato un birdie, cosa che non è riuscita a Woods. A quel punto è riapparso, all’improvviso, il Woods vecchio stampo, quello che concretizzava esattamente tutto ciò che gli occorreva: servivano due birdie e due birdie sono arrivati. Alla 17 ha messo la palla a quasi tre metri dall’asta e ha centrato la buca, mentre alla 18 ha piazzato la pallina con il secondo colpo a due metri dalla bandiera dopo che Johnson l’aveva posta a poco più di quattro. Quest’ultimo ha mancato il difficile putt (colpo in cui la pallina rotola solamente, senza essere alzata) e Woods non l’ha perdonato conquistando il titolo e un premio di 1.250.000 dollari, mandando in visibilio il pubblico presente. Riparte da qui la scalata di Tiger all’olimpo del golf: un primo salto che porta Woods dalla posizione numero 52 alla numero 21 (adesso la 28) nel ranking mondiale. Nulla in confronto agli anni trascorsi come migliore della classe, ma è un inizio che può fare morale e dare il via ad un rilancio in grande stile della “Tigre”. Ha dovuto attendere di ritrovare la forma ed allenarsi a pieno ritmo, ma sotto la guida di Sean

Foley, il suo coach, Woods è tornato agile nello swing (il movimento classico del golf, utilizzato in tutti i tipi di colpi per far partire la palla) e “meccanico” nella costruzione del gioco, colpo su colpo. Inizia a giocare a golf da bambino

e viene ben presto ritenuto una sorta di bambino prodigio della specialità, il piccolo Eldrick Tont (Tiger) Woods. Sotto la guida del padre (un ex “berretto verde”che combatté nella guerra del Vietnam), perfeziona costantemente la sua tecnica e sviluppa un perfetto autocontrollo psicologico. Nel 1990 poi, a quindici anni, diventa il più giovane golfista a vincere i Campionati nazionali juniores, successo ribadito anche nei due anni seguenti con la conquista di tre titoli di campione statunitense dilettanti consecutivi (dal ’94 al ‘96). Poi, il passaggio al professionismo e la vittoria del torneo The Masters nel 1997, a 21 anni e 3 mesi, lo fanno diventare il più giovane vincitore nella storia del torneo. La conferma arriva negli anni successivi, con la conquista di ben 14 grandi tornei Majors (i quattro principali tornei della stagione del golf professionistico), che lo portano a “soli” quattro titoli dal mito del golf per eccellenza: Jack Nicklaus. Il ragazzo di Cypress diventa così una vera e propria macchina per fare soldi e

gli sponsor di tutto il mondo fanno a gara per accaparrarselo. L’ultimo successo di Woods risaliva al 15 novembre 2009, quando si era imposto nel JBWere Masters, prima che, a novembre dello stesso anno, deflagrasse lo scandalo legato alle sue ripetute infedeltà nei confronti della moglie, la svedese Elin Nordegren, ed al successivo divorzio. Poi, la rottura col suo storico caddie (la persona incaricata di portare la sacca fornendo inoltre consigli sulla strategia di gioco e supporto morale), Steve Williams, l’abbandono da parte degli sponsor, e l’accanimento dei media, hanno costretto Tiger al momentaneo ritiro. Poi, dopo un’efficace terapia riabilitativa, è arrivato il tanto atteso rientro (ad aprile del 2010). Da lì, tante delusioni, con 26 tornei giocati senza mai vincere, fino allo Chevron World Challenge di dicembre, appunto, che ha segnato il ritorno definitivo di Tiger Woods. Che sia davvero il primo di una nuo-

va e lunga serie come ci ha abituato a vedere dal 1997 al 2009? Il Tiger Woods stella inattaccabile del green e dominatore pressoché assoluto di quegli anni (nonché sportivo più ricco del mondo), avrebbe anche potuto scegliere di smettere e ritirarsi ed invece, con una caparbietà da campione, con qualche mese di duro lavoro, niente lamentele e niente media, è tornato ad essere un esempio sportivo come pochi. Tutte le vittorie sono belle e non è semplice comprendere quanto sia difficile vincere un torneo di golf, soprattutto per chi è abituato a vincerli tutti. Una delle qualità che mantengono Tiger ad alti livelli è proprio la sua umiltà e la sua abitudine a lottare per ottenere il successo, anche quando da numero 1 incontrastato del mondo si ritrova oltre il 50° posto. Tiger tornerà a vincere, difficilmente con la continuità del periodo d’oro, ma tornerà a vincere di sicuro, e questo è solamente l’inizio.

h

Tiger Woods in azione (immagine dal web)

f

a pagina 18

Riccardo Badalà | Tiger Woods Slam V2, 2011, pastello ad olio su carta, cm 29,7 x 21


20

l’IDEA

NEWL’INK

gennaio | febbraio 2012

di Maurizio Scibilia n un Regno sconosciuto e lontano, Re Ego, trovatosi a dovere affrontare la minaccia di una rivoluzione che ne metteva a repentaglio la testa oltre che il trono, ha dovuto acconsentire a celebrare le nozze tra la figlia e il rivoluzionario Donovan. La grande sala dei ricevimenti è vuota; nemmeno un allestimento frettoloso, giusto un paio di cestelli con delle bottiglie tenute in fresco, e i bicchieri. Quel luogo appare intriso dei lazzi e dell’allegra baldanza di chi il potere l’ha cavalcato con forza per quasi un ventennio. I rigidi protocolli istituzionali prima, che il Re, spirito libero e burlone per eccellenza, sapeva sciogliere con il proprio turgore iconoclasta. Le feste dopo, sempre più licenziose, e stanche. E ora, dopo che tutto sembra passato, in una circostanza come questa? Voci da fuori, prima lontane poi più chiare, un contenuto fracasso gioioso perlopiù e perlopiù sollevato. Poi le porte si aprono, nemmeno un servitore che si sia impiegato in quella mansione: è Merlino, il primo a entrare, come uno dei tanti eppure allegro. Con lui sfilano Rotten ed Eco, dopo il Re e la Regina, infine, passati alcuni istanti, accolti dal battimani e dalle felicitazioni degli astanti, Mitilla e Donovan, a braccetto. Lui indossa ancora la maglietta sporca di sangue, lei ha sistemato il trucco alla bell’e meglio. Rotten si muove verso il tavolo, afferra una bottiglia e fa saltare il tappo che esplode verso l’alto. Versa il liquido paglierino nei calici e li passa agli astanti. Evviva gli sposi, fa Merlino. Evviva. Elevate i calici, e bevete, che oggi è un giorno di festa. Avanzi, la gioventù; si eclissi, la vecchiaia. Oggi questo Regno sta fissando l’asticella per nuove altezze che nuove generazioni saranno chiamate ad affrontare. Merlino e Rotten, commossi dal clima, o magari solo sollevati di non essere già infilati in un sacco e diretti al mausoleo di famiglia del Re, accanto alla mai abbastanza compianta Regina madre, si stringono attorno all’amato So-

vrano. Maestà, dice Merlino, una cerimonia toccante. Davvero, Sire, gli fa eco Rotten. Sebbene io non sia un sentimentale, devo dire che … Il Re, che li osserva con gli occhi fuori dalle orbite, li interrompe, il tono di voce alterato ma attento a non farsi udire dal resto della compagnia, per dire: Che cazzo dite, tutti e due! Toccante? Ho dovuto cedere a uno sporco ricatto dei comunisti e, per farlo, ho dovuto infilarne uno nel letto di mia figlia. Che ci vedete mai di toccante, in questo? Sire, prova a inserirsi il poliziotto, volevamo dire che … Siete scappati, prima! Mentre vi promettevo un posto nel mio mausoleo. Mi avete lasciato da solo nelle mani di quella … di quella serpe travestita da agnellino. Li osserva, come una maschera di cera esposta al sole di un mezzogiorno assolato in piena estate. I due sono paralizzati. Quella donna possiede due anime, aggiunge il Sovrano, a sé stesso più che ai due tapini. Che cosa ho sempre detto io? Mai fidarsi dei comunisti. Ma è davvero sicuro che si tratti di comunisti, Sire, domanda, timidamente Merlino. Sììì. Sono loro. Sono sempre loro. Si possono fare chiamare come gli pare, ma non cambiano. Tramano, cospirano, brigano. Si travestono. Dice che lo ha scelto lei, di diventarlo, Sommo?, fa Rotten, lo sguardo su Eco, che ride con gli altri. Non possiamo saperlo, fa il Re, cattedratico, come chi abbia dedicato gran parte della propria esistenza a studiare il fenomeno. Hanno le loro scuole. I loro apparati di formazione. Combatto da sempre contro di loro. Non li si può dare mai per vinti. Seguono istanti di pausa, durante i quali ognuno pare seguire il flusso dei propri pensieri, come se l’euforia della sala li avesse ingabbiati in quel muto stupore. Però, dice Merlino, una specie di smorfia compiaciuta sul volto. Bravi, eh? Voglio dire, se non fossero degli acerrimi nemici, ci sarebbe da ammirarli. Effettivamente, fa Rotten. Il Re li guarda come se non credesse a ciò che vede. Come ha fatto a

promuoverli a impegni di tale portata, pare domandarsi. Effettivamente? Vi siete bevuti il cervello? Sono bravi, sì. Ma si tratta della bravura del diavolo. Sono io, quello da ammirare, in questo momento. Sono venuto fuori dalla crisi peggiore della storia per il nostro Paese, e non solo. E sono ancora il Re. Com’è la situazione, ora? Ottima, Sire, fa Rotten, messosi sull’attenti per l’occasione. La gente è tornata nelle case, ed ha seguito la cerimonia in televisione. Tutto sembra essere tornato come prima, si accoda l’altro. A parte che … per lui. Lo sguardo dei tre è rivolto alla figura del rivoluzionario, che sta baciando la mano di Mitilla e sfoggia l’espressione dei giorni di festa. Non vinceranno Merlino. Non riusciranno a portarmi via questo Regno. Ehm Sire, fa Merlino, ma non l’hanno già fatto? Il Re mantiene un’espressione cogitabonda, ma non parla. Qualcuno spara dei fuochi d’artificio verso il cielo, di fuori. Lentamente, con un sorriso forzato stampato sul volto, il Sovrano preleva una bottiglia piena per metà e si avvicina al rivoluzionario. Te lo rubo per un brindisi, sono le parole che rivolge alla figlia. Tutti lo guardano, Eco di sottecchi; la moglie lo scruta con sospetto; la figlia fa un minuscolo cenno di assenso. Donovan lo raggiunge, mantenendo il sorriso di prima. Il Re versa del liquido nel bicchiere del genero. Bevono. Sembra tu abbia vinto, dice il Re all’uomo. Già. Hai giocato bene. Non sia detto che non mi congratulo con qualcuno che mi ha battuto. Il Sovrano prende sottobraccio Donovan. Lo sai che la partita non è finita, vero? Non penserai mica che ti sia bastato entrare in questa famiglia per sistemarti. Lo sapevo che eri solo un … ladruncolo da quattro soldi. Il rivoluzionario mostra un’espressione sorpresa. Ti sei approfittato di me. Mi hai costretto a darti mia figlia. Gli altri brindano ancora. Il loro vociare cresce d’intensità. I due si allontanano di qualche altro passo.

Beh, goditela. Non durerà per molto. E io che credevo che i complimenti fossero sinceri, commenta l’altro.. Aspetta soltanto che questa faccenda della rivoluzione sia dimenticata. Questo palazzo … Lo adorerai. C’è un milione di modi diversi per morire, qui dentro. Ma … la gente … La gente è di memoria corta. Come pensi possa avere creduto a tutte le balle che gli ho raccontato, in questi anni. Donovan si produce in un lieve cenno di assenso col capo. Li avete circuiti, dice il Sovrano, attento a mantenere il sorriso sulle labbra, stringendo il braccio dell’uomo. Bene. Gli avete fatto spegnere le televisioni. Ok. Ma domani torneranno a lavoro. La sera saranno stanchi. Guarderanno bene quelle culone delle loro mogli e si vorranno rifare gli occhi. E lì entreremo in campo noi. Li faremo sognare. E tutta questa storia della rivoluzione … scoppierà, come una bolla di sapone. Il Re ha terminato la frase mimando l’esplosione della bolla con la mano libera, apparendo per la prima volta sinceramente divertito. L’altro ha mantenuto la caricatura di un’espressione preoccupata per tutto il tempo. Senza mutarla, dopo aver atteso che il Sovrano porti a termine il proprio show, dice: Ma immagina che … come ipotesi, eh? Le cose non stiano esattamente come credi. Che vuoi dire, domanda il Re. Non saprei. Flistio, ad esempio. E se non fosse mai esistito? Certo che non esiste. L’hai detto tu prima. Se nessuno l’avesse mai nominato, voglio dire. Se la gente nemmeno sapesse della sua esistenza. Se, semplicemente, avessimo alterato l’esito del sondaggio. Come potresti mai venirlo a sapere, tu? L’orologio della sala inizia a rintoccare la mezzanotte e con essa un nuovo giorno che prende avvio. Pago Merlino, fa Ego, indicando l’ometto con un rapido cenno del capo, proprio per questo … Già, Merlino, commenta Donovan. E lui è un servitore fedele della Corona. Non ti tradirebbe mai. Guarda, lascia stare. Immagina che tutta la storia dello sciopero non fosse vera … Certo che era vera, fa il Re, interrompendolo. Me l’ha riportata Rotten, il


gennaio | febbraio 2012

Capo della Polizia. E lui non ti mentirebbe mai, vero? Lo osserva: l’espressione immutata, ma qualcosa si è infiltrato nel meccanismo del suo buonumore. Non ha la benché minima idea di ciò di cui Donovan parla, ma è assalito da un desiderio impellente di prenderlo a pugni. Che vuoi dire? Quello che voglio dire è che se abbiamo potuto far sì che tu nominassi una ragazza di campagna Ministro, avremmo anche potuto inventarci una rivoluzione che non esiste. Ma … è mancata la luce. Davvero difficile procurare un blackout, dato lo stato delle nostre centrali. Ho visto gli scontri. E tu sei un cinefilo. Non ti sfuggirebbe mai che le scene proiettate sul tuo tele-

NEWL’INK

visore sono prese da qualche film. Dio, che sagoma. Credevo che la scena della carrozzina fosse troppo, anche per te. È come se ci fossero solo loro due, in quei momenti. Il sospetto inaccettabile di essere stato gabbato nei pensamenti del Re. Vuoi dire che … Voglio dire che quando si governa una Nazione dai piani alti, bisogna avere dei buoni collaboratori, gente della quale ci si possa fidare. Se no … ti possono convincere di qualsiasi cosa. Anche del fatto che c’è una rivoluzione in un Paese addormentato. Addormentato? Mhmh. Cosa ti fa credere che non ti farò eliminare, seduta stante? Mi hai appena unito a tua figlia: non lo farai. E comunque, a chi mai potresti da-

re l’ordine di farmi fuori? Dovresti stare attento. Ognuno di loro potrebbe essere un altro … figlio della Rivoluzione. E quella è gente che non scherza. Se scoprissero che fai il doppio gioco, è capace che una rivoluzione la scatenano per davvero, questa volta. Il Re serra i denti, abbandonando il sorriso fin lì mantenuto, nello stesso momento nel quale Rotten, dall’altra parte della sala, fa tintinnare un calice per richiamare l’attenzione degli astanti. Signori, vorrei proporre un brindisi. Tutti alzano i calici, quello del Re portato in alto dalla mano di Donovan, il cui braccio è ora poggiato sulle esauste spalle Reali, in quello che fino a un’ora prima sarebbe stato un eccesso di confidenza da pena capitale.

l’IDEA

21

Al Re. Che possa regnare per altri cento anni ancora. In pace, e armonia. Brindisi strano, fa il rivoluzionario ora genero, per un poliziotto. Al Re, fanno gli altri, in coro. Donovan osserva il Sovrano, ancora paralizzato in quel bagno di stupore che l’ha intrappolato dalla sua confessione. Poi, lentamente, prima di portare il bicchiere alle labbra, commosso, lo chiama: Papà. FINE soPra

j Giuseppe Tomasello

Piano B 15

in aLto e a PaGina 22

H G. Tomasello

da Piano B 1 a Piano B 14 2010/11, t.m. su carta, cm 20,5 x 28 (ciascuno)



gennaio | febbraio 2012

NEWL’INK

viso, attento agli interessi di tutti tocca i temi e le tappe di una vita, con un’ottica politica che è quella di un lucido e appassionato testimone del nostro tempo. Alessandro Finocchiaro

MARIO DONDERO a cura di Simona Guerra Mondadori | 2011 | pp. 216 “Per me l’Europa è, prima di tutto il resto, la fine della guerra e il desiderio di non farla più.” Sono parole, toccanti, di Mario Dondero, da i viaggi di Mario da Fermo, penultimo capitolo del volumetto qui segnalato che parte dagli esordi del grande fotografo milanese, dalla sua passione per la scrittura e per Robert Capa all’amicizia con Mulas - a cui diede i primi rudimenti di fotografia - dal periodo vissuto a Milano fino agli anni di Parigi e Londra, poi Roma e ancora Parigi, ai reportage, ai pensieri, all’attuale stabilirsi a Fermo… anche se fermo Dondero non sa davvero starci! Mario Dondero, classe 1928, lo conobbi un paio d’anni fa, a Bergamo, alla Galleria Ceribelli: scattava fotografie in occasione di una mostra di Ruggero Savinio e dei suoi amici pittori. Scambiai due parole con lui al ristorante, sugli anni parigini. Sorrideva, simpatico e cordiale, sempre garbato. Ogni tanto si guardava intorno, veloce, con uno sguardo che ho ritrovato nella bella foto di lui, ancora giovane, a bordo di una feluca, tra l’Iran e gli Emirati (qui a pag. 208). Questo libro, a cura di Simona Guerra, che avevamo già apprezzato in Mario Giacomelli. La mia vita intera, è scritto dallo stesso Dondero in maniera diretta, confidenziale, così come lo sono le sue fotografie - il testo si intervalla con brani della Guerra evidenziati in corsivo e ha una breve, ma densa, prefazione di Massimo Raffaeli. Molte sono le foto, e bellissime, riportate lungo il testo: di personaggi (Jean Seberg, Willy Ronis, Pasolini, un magnetico ritratto della Callas con Visconti e Bernstein), di reportage (Contadino del distretto di Setùbal, Portogallo 1962, Una scuola nel Pashir che opera in condizioni di estrema precarietà. Afghanistan 2005, il celebre paesaggio urbano Berlino Est vista dalla sommità del Reichstag due giorni prima della caduta del muro). Il racconto, limpido, avvincente anche - come nell’ultima parte dove vorrebbe un mondo più condi-

Molo 2. Questo progetto editoriale è scaturito da un’ idea di Antonio Coco (Facoltà di Lettere della Università di Catania) e dalle sollecitazioni di alcuni docenti universitari e critici teatrale e comprende anche interventi e testimonianze di Franco Battiato (musicista), Sara Cabibbo (Università di Roma III), Giovanni Calcagno (attore), Juri Camisasca (musicista), Antonio Coco (Università di Catania), Giuseppe Condorelli (critico teatrale), Elena De Luca (Accademia di Belle Arti di Catania), Donatella Finocchiaro (attrice), Riccardo Mondo (psicologo), Pina Salomone(psichiatra), Sergio Sciacca (critico teatrale), Galatea Ranzi ( attrice). Ornella Fazzina

IL TEATRO DEL MOLO 2 Diario di bordo di Gioacchino Palumbo Bonanno | 2011 | 2 volumi Gioacchino Palumbo racconta e documenta, in questi due libri, la sua multiforme attività scenica con il Teatro del Molo 2, dalla sua fondazione, nel 1981, fino ad oggi. I due volumi raccolgono quindi riflessioni, appunti di regia, note di drammaturgia, racconti e testimonianze su una ininterrotta attività di produzione e di ricerca sull’arte drammatica e i suoi sconfinamenti fecondi in territori e ambiti che le sono vicini e nei quali trarre nuovi impulsi, verificare scoperte e intuizioni, snidare imprevedibili urgenze espressive. Nel primo libro si ripercorre il filo rosso che collega segretamente gli spettacoli realizzati, alcuni basati su testi originali dell’ autore, altri su rivisitazioni del teatro greco, altri sugli autori del Novecento, altri sui classici senza tempo. Nelle librerie dal dicembre 2010, questo libro è stato presentato alla Università di Catania, Facoltà di lettere, da Franco Battiato, Antonio Di Grado, Enrico Iachello, Fernando Gioviale, con letture di Giovanni Calcagno e Donatella Finocchiaro. Il secondo volume, nelle librerie dal maggio 2011, è dedicato ai laboratori, agli studi drammatici, agli spettacoli di laboratorio, alle attività pedagogiche e ai progetti di ricerca e sperimentazione teatrale del Teatro del

LEO & C. Storia di Leo Castelli di Annie Cohen-Solal Joan & Levi | 2010 | pp. 463 Il libro racconta la vita di Leo Castelli, grande mercante d’arte e grande innovatore del mercato dell’arte. L’autrice è Annie Cohen-Solal che, consigliere culturale all’ambasciata di Francia a New York, conobbe e frequentò Castelli dalla fine degli anni ’80 in poi. Il gallerista morirà nel ‘99. Tralasciando la prima parte, incentrata sul passato più o meno remoto della famiglia Castelli e su Leo molto giovane, la narrazione si fa via via più coinvolgente a motivo dell’avvicinarsi del nostro protagonista alla meta cruciale di arrivo. E questo avviene attraverso un tragitto che parte da Trieste, sosta a Bucarest e via Parigi arriva a destinazione: New York. Il viaggio è quello tragico dei tanti perseguitati che negli anni intorno allo scoppio della seconda guerra mondiale fuggono da un’Europa devastata dalla guerra e dallo sterminio razziale. In questo frangente di pericolo, Leo insieme alla facoltosa famiglia della moglie Ileana Schapira si rifugiano in America, poiché ebrei. I Castelli, marito e moglie, arrivano nel “nuovo mondo” con un bagaglio di raffinata cultura del vecchio con-

l’APOSTROFO

23

tinente, che a contatto con il contesto d’oltreoceano produrrà risultati a dir poco eccezionali. Il quarantenne Leo inizia a frequentare il MoMa, intraprendendo una sorta di apprendistato con Alfred Barr, direttore del museo e formidabile cultore della moderna arte europea. Forte di una sua prima esperienza parigina ma soprattutto di una fitta trama di relazioni, nel 1957, a 50 anni suonati, Castelli aprirà la sua prima galleria nel proprio appartamento newyorkese con una mostra dedicata al rapporto tra artisti delle due sponde, americani ed europei. Tra i primi troviamo pittori del calibro di Pollock e de Kooning, tra i secondi ci imbattiamo in nomi quali Mondrian, Picabia, Leger, Giacometti. Da questo momento in poi la Castelli Gallery mieterà successi e fortune fino ad arrivare a giganteggiare nel sistema dell’arte internazionale, affermando un proprio stile e rivoluzionando le strategie di vendita e di promozione e sostegno dei propri artisti. Nel 1964 Rauschenberg, cavallo di razza della galleria, trionferà alla Biennale di Venezia. Il libro è naturalmente indicato a tutti i curiosi dei retroscena ma anche delle ribalte del mondo dell’arte, però in particolar modo ci permettiamo di consigliarlo: agli artisti, per corroborare ciò che loro già sanno bene, vale a dire che quasi sempre è importante trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Proprio il polo magnetico della città di New York unito alla rete di conoscenze e all’infallibile intuito di Leo Castelli hanno fatto la differenza per gli artisti entrati nell’orbita della sua galleria (Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Roy Lichtenstein, Cy Twombly, ecc.); ai galleristi, per “studiare da vicino” il genio mercantile di Castelli, diviso a metà tra il fiuto del formidabile scopritore di talenti (insieme alla moglie Ileana a dire il vero) e la stoffa impeccabile dell’europeo affabile e colto negli affari, che in America saprà sempre cogliere l’occasione di fare dialogare i due continenti. A riprova di questa abilità sta la creazione di un vero e proprio network di gallerie tra l’America e l’Europa, che implementerà la circolazione degli artisti della sua scuderia da Torino, con la galleria di Gianenrico Sperone, a Parigi, con la galleria della ormai ex moglie Ileana Sonnabend, solo per fare due esempi; infine ai collezionisti, per apprezzare le scelte di quelli che ebbero per primi la lungimiranza di puntare sulla nuova arte americana. Mettendosi pazientemente in lista d’attesa alla Leo Castelli Gallery, fecero, col senno del poi, affari favolosi. Mario Guarrera


24

l’ASCOLTO

MORKOBOT Morbo

Supernatural Cat Records | 2011 Se il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) dovesse avere una fantomatica promozione mediatica sociale, lo spot ipoteticamente realizzato, potrebbe avere come colonna sonora l’ultimo rito di venerazione dei seguaci di Morkobot: Morbo è infatti tra di noi. Dopo i due già imponenti lavori: Mostro (2005) e Morto del 2008. Usciti tutti per la Supernatural Cat Records, label che si occupa, solo per citarli, di: Ufomammut, Lento ed OvO. L’ultimo messaggio che Morkobot e suoi adepti (Lin, Lan e Len) vogliono lasciarci, suona come una trivella di bassi e batteria, che vuole scavare nei meandri della nostra mente e rimanerci. Il messaggio è magmatico e roccioso, ma anche coraggiosamente diretto, impastato di psichedelia-noise-progressive-space rock-sludge e coadiuvato da massicci riferimenti ad altre band, penso agli Zu, Zeus! e Lightning Bolt. Riferimenti ed etichette che possono apparire terribilmente vuoti, se confrontati con l’impatto sonoro che l’album possiede, perchè quello che arriva alle nostre orecchie potrebbe essere qualcos’altro. Credo, infatti, che i Morkobot si spingano verso questo “altro” con una miscela direi quasi infernale, dove la parola “osare” ha come vicino di casa “avanguardia”, ma dove tutto, però, è dannatamente Rock. Dunque, Morbo, forse, rivuole schiacciare l’occhio alle sonorità del precedente Mostro, segnato da visioni più dirette e lancinanti. Ma tutto qui è ag-

NEW L’INK

giornato, più maturo, più alto. Un lavoro, ripeto, alto (ma non intellettualistico) e raffinato da potersi candidare come una delle migliori uscite nel campo musicale indipendente italiano nel 2011. Infine, il messaggio, dopo aver vagato errabondo negli spazi siderali delle menti degli autori, atterra barocco e coraggioso qui da noi. Morbo vaga, quindi, come un fantasma alla ricerca dei suoi figli. Io consiglierei di accoglierlo a braccia aperte e senza paura. Così, quasi, come se fosse un profetico manuale di viaggio, nel futuro del suono della musica di qualità di questo nostro disgraziato paese. (http://morkobot.wordpress.com) Paolo Finocchiaro

rica e l’energia espressa dal basso elettrico (ma anche pianoforte) di Lorenzo Masotto, la batteria di Bruce Turri e il violino di Laura Masotto. Anamorfosi risplende delle nobili citazioni della musica classica che permea in profondità tutti i brani dell’album. Attinge linfa dalle radici del rock progressivo e psichedelico, dal doom dei settanta (l’Essenza e Piombo), dalla seminale scena rock italiana degli ottanta e dei novanta (Sonata in re minore, Porpora e Vienna dorme) fino ad arrivare alle suggestioni dell’indie rock d’avanguardia contemporaneo. Impreziosisce l’opera la collaborazione di Nicola Manzan dei Bologna Violenta, offrendo ulteriore distorta profondità nei brani Acheronte e Piombo. Il primo ascolto dei brani non basta a fornire un’idea chiara della pregiata ricerca indie-prog messa in gioco dai L.M.D.C., necessita di un’attenta assimilazione che a tratti può lasciare spiazzati sulla direzione di questo intrigante multiverso creativo. Anamorfosi dei L.M.D.C. colpisce come un piccolo big bang sonoro che esplode con la violenza delle continue variazioni di colore, calore, freddo, buio e luce che illumina la fuliggine primordiale. (http://www.lemascherediclara.com) Denny E.

LE MASCHERE DI CLARA Anamorfosi L’Anamorfosi è l’arte di creare figure alterate prospetticamente che prendono forma se guardate da un’altra angolazione, sfidando la loro realtà bidimensionale, per presentarsi in una profondità impensabile. Non a caso nel lavoro dei Le Maschere di Clara si percepisce un movimento cangiante nella ricerca musicale che accomuna il rock, la musica classica, la cultura e la pittura, nell’intento di fornire nuove e originali tinte artistiche. Ho scoperto una tremenda legge che lega il colore verde, la quinta musicale ed il calore. Ho perduto la gioia di vivere. La potenza mi fa paura. Non scriverò più nulla!. E’ proprio nella traccia “Gustavo Roll” che i L.M.D.C. mettono in chiaro il loro manifesto artistico cercando di raggiungere sinesteticamente l’arte pitto-

GIANMARIAVOLONTè Polaroid Primo album tra Rock e Noir

Colpo basso!Un gruppo che si chiama Gianmariavolontè manda a quel paese tutte le mie migliori intenzioni da buon recensore di approcciarsi in modo distaccato ad una band mai sentita! Quel Gianmaria fra i più grandi attori italiani di sempre, manifesto di immensi film di denuncia e non solo, il suo modo di recitare da brivido sulla schiena, il suo immenso carisma...stop!! Ma cosa sto facendo? Cerchiamo di ripartire, di rior-

gennaio | febbraio 2012

ganizzare i pensieri… Band lucana, proveniente da Venosa (PZ), attiva dal 2009, capitanata dal frontman e autore dei brani David Lotito, con Marco Pacella alla batteria, Rocco Spriuoli al basso e Rosanna Martello alla chitarra, i Gianmariavolontè si sono messi in luce all’ Italia Wave Festival piazzandosi tra le prime posizioni, e sono finalmente arrivati quest’anno al loro esordio sulla lunga distanza intitolato Polaroid. La scelta del nome è un manifesto eloquente delle atmosfere del disco, un pop d’autore dal respiro cinematografico, debitore di atmosfere morriconiane, melodie malinconiche figlie di un nostrano modernariato pop mescolate ad un’attitudine indie moderna, che richiama alla mente il sussidiario dei Baustelle e i primi Pulp con la loro new wave da liceali, i nostri anni ‘80 intelligenti (Battiato Garbo) e un certo decadentismo acido dell’immenso Serge Gainsbourg. La musica va di pari passo con le nitide immagini che riesce a creare, così si passa da l’omaggio ai poliziotteschi anni ‘70 di A mano armata, in cui sembra di scorgere Alain Delon a bordo di uno “squalo” o Maurizio Merli incazzato su un’ alfetta, a certe pop song anni ‘60, in cui si rimpiangono i tempi passati, con una malinconia dolce, condita dalle tastiere e i synth dell’ex-Baustelle Fabrizio Massara, che incontreremo durante l’ascolto di tutto il disco e che sono il valore aggiunto di questa interessante proposta musicale. E la title-track è il manifesto poetico del gruppo, accompagnata anche da un videoclip, in cui Francesco Bianconi e il mio adorato Amerigo Verardi sembrano camminare a braccetto. Sprazzi d’amore adolescenziale, corse infinite su prati verdi, eyeliner sbavato, gitanes arrotolate, pantaloni a tubo, Marcello Mastroianni, Ainouk Aimee e Francoise Hardy a fare da improbabili spettatori. Disseminati in tutto l’album non mancano poi ritornelli da classifica, chitarre aggressive, malesseri da adolescenti, e l’immancabile tappeto di tastiere vintage ad inacidire un po’ il tutto, a buttare un po’ di sale sulle nostre ginocchia sbucciate. Cosa voglio di più? In questo momento vorrei passeggiare in Via Veneto, tra attricette straniere, viveur, paparazzi, night club, ballare il twist e prima di tornare a casa....fare un bagno nella fontana di Trevi. (http://www.diavolettolabel.com/d20.html) Salvatore La Cognata


NEWL’INK

gennaio | febbraio 2012

l’ARTISTA

25

LETTURA Giuseppe Tomasello Nasce ad Acireale nel 1963. Compiuti gli studi artistici, nel 1993 si trasferisce per qualche anno a Milano dove lavora come illustratore. Dal 1988 si dedica alla pittura. Ha esposto in mostre personali presso: la galleria La porta rossa e la Sala Neva di Catania; la Saletta TRAM.sito Artecontemporanea di Acireale (CT); Palazzo Pulvirenti di Pedara (CT) e lo Spazio Avicenna di Milano. Tra le collettive: galleria Le Ciminiere, La porta rossa, Novorganismo e Centro Culturale Voltaire di Catania; galleria Arté, Acireale (CT); Cantina Comunale di Viagrande, (CT); Chiesa dei Cavalieri di Malta, Siracusa; ARS NOVA e galleria Studio 71 di Palermo; Museo Civico Polivalente, Vittoria (RG); Castello Normanno,Paternò(CT);PalazzettodelleEsposizioni, Gibellina (TP); Castello Federiciano, Montalbano Elicona (ME); Fiumara d’Arte - Domestic Art, Pettineo (ME); Palazzo Duca di Santo Stefano, Taormina (ME); Palazzo del Monte di Pietà, Messina; Castello Biscari, Acate (RG); Fondazione Bufalino e Galleria degli Archi, Comiso (RG). Fondazione Puglisi Cosentino (CT). Hanno scritto di lui:Marzia Andronico, Francesco Gallo, Aldo Gerbino, Giovanna Giordano, Paola Gioioso, A. Greco Titone Di Bianca, Rocco Giudice, Giovanni Iovane, Anna Lombardi, Francesca Occhipinti, Annunziata Pani, Anna Maria Ruta,AmbraStazzone,LorenzoTaiuti,Vincenzo Tomasello. Attualmente vive ad Acireale dove lavora come docente presso il Liceo Artistico di Acireale e continua la sua ricerca artistica.

02 anno II

gennaio - febbraio 2012

Progetto editoriale, Concept, Direzione creativa Luca Scandura Hanno scritto e collaborato in questo numero

G.Calderone, G.Carrubba, DennyE.,R.Digiacomo, G. Di Salvo, O. Fazzina, A. Finocchiaro, P. Finocchiaro, R. Giudice, M. Guarrera, S. La Cognata, S. Montalto, M. Romano, M. Rossi, D. Scandura, M. Scibilia

Tiratura 7.000 copie Registrazione

in attesa di registrazione

Direttore Responsabile Gianni Montalto Editore di Luca Scandura via Giuseppe Vitale, 29 95024 - Acireale (CT) Redazione redazione@new-link.it via Giuseppe Vitale, 29 95024 - Acireale (CT) Progetto grafico LucascanduraDesigner Stampa Eurografica Srl S.S. 114 Orientale - Cont.da Rovettazzo 95018 - Riposto (CT) È VIETATA LA RIPRODUzIONE ANCHE PARzIALE ALL RIGHT RESERVED

02

SPORT

COVER

La copertina di questo secondo numero di Newl’ink apre il ciclo di Cover realizzate dalla nostra redazione attraverso la diretta collaborazione e sinergia con l’operato dell’artista invitato a realizzare l’opera grafica che interpreterà il tema sportivo del bimestre. Il nostro Direttore Creativo interverrà così, manipolandola di volta in volta, sull’immagine di un’opera dello stesso artista per darle un significato nuovo, per renderla immagine di una libertà che è arte e contenuto.

Riccardo Badalà, Catania, 22 marzo 1976. Nel 2008 si laurea in Scienze dell’Educazione con una tesi in Estetica: Riflessioni sul vedere tra psicologia e arte, intrecciando i propri studi e la personale filosofia pittorica con gli scritti di H. Gombrich e R. Arnheim, celebri storici dell’arte. Durante la discussione della tesi presenta un inedito autoritratto in trittico, sviluppato da una serie fotografica di autoscatti in movimento. Nel 2009 ha prestato alcune opere per la rappresentazione della commedia brillante Da giovedì a giovedì di Aldo De Benedetti, messa in scena dalla compagnia C.A.F.. Nel 2009 ha svolto un laboratorio pittorico per bambini presso le scuole “Chiostri” e “Don Minzoni” di Bologna, curandone la relativa mostra a fine corso, intitolata Dei piccoli. Lavora in Italia e in Spagna. Mostre personali 2008 Reciclaje de mi, Cafè Infinito, Valencia 2008 Ineffabile conforme, Accademia Abadir, S. Agata Li Battiati (CT), a cura di Calusca 2008 Ineffabile conforme, Galleria Art’è, Acireale (CT), a cura di Calusca 2010 ReinCatarsi, Arterìa, Bologna 2010 Ri/Deposizione, Galleria Montoro, Roma

2010 About the Love: Un Infinito, V&S Art Space, Trento 2011 Absentia, Accademia, Trento 2011 Riccardo Badalà - sul segno degli artsiti #10, Galleria degli Archi, Comiso (RG) a cura di Salvatore Schembari Mostre collettive (recenti) 2007 Nuovi artisti, Galleria Arethusa, Napoli, a cura di Giovanna Ciccolella e Mimmo Puddu 2008 Contemporaneamente Viola, Galleria Art’è, Acireale (CT) a cura di Calusca 2008 Green Splash, Villa Di Bella, Viagrande (CT), Galleria degli Archi/Fondazione Bufalino, Comiso (Rg), a cura di Calusca 2008 Quadrato d’arte. Ricordando Umberto Boccioni, Galleria L.I.B.R.A., Catania a cura di Vitaldo Conte 2009 12 Movimenti, Chiostro Ex Collegio Gulli e Pennisi / Palazzo Pennisi di Floristella - Temporary Art Space / Galleria Art’è, Acireale (CT), a cura di Marco Di Capua 2011 Unità d’Italia, Galleria Capricorno, Bolzano a cura Juan Saravì Platero 2011 Drawing Connections, Siena Art Institute, Siena 2011 Stop allo 048 degli oggetti, Galleria d’arte Le Ciminiere, Catania a cura di Daniela Aquilia in aLto

www.riccardobadala.it

Piano B 15, 2012, t.m. su carta, cm 20,5 x 28 soPra aL Centro h Riccardo Badalà Interprete dispari 7 , 2006, olio su tavola, cm 67 x 54 (part.) (OPERA FORNITA PER COVER)

J Riccardo Badalà Tiger Woods Slam V2, 2012, pastello ad olio su carta, cm 29,7 x 21 soPra a detra, daLL’aLto

(OPERA REALIZZATA PER LA PAGINA SPORTIVA)

Involuzione, 2004, olio su tela, cm 80 x 40

Pubblicità, marketing, grafica pubblicitaria, ideazione e organizzazione eventi, editoria +39 340 5919260

j Giuseppe Tomasello

www.new-link.it eventi@new-link.it pubblicita@new-link.it



Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.