Newl'Ink N.3

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marzo - aprile duemiladodici free press

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marzo | aprile 2012

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01 | TELERO (versi) di Rocco Giudice

NEW L’INK 12 | LUCE E OMBRA IN sCIRPA di Ornella Fazzina

02 | fRANKO B. CONvERsAzIONE INTIMA 13 | GIACOMO RIzzO (opera) di Giuseppe Carrubba 14 | R. LEONARDI, CROCE/vIA 06 | A MILANO LE CROCI DELLA DUMAs di Michele Romano di Rossella Digiacomo

EDONè (segnaliamo)

0 18 | L’ARCHITETTURA DELLA CROCE di Luca Finocchiaro

19 | LA CROCE: TRITTICO (versi) di Maurizio Scibilia

20 | sULLE ALI DELLA vITTORIA di Davide Scandura

22 | MARTIRIO A TANGERI - CAP. 1 15 | ANDREA DI sILvEsTRO (opera) di Pippo Bella 24 | LIBRO DEL MEsE 10 | fORLì: L’ANIMA DI ADOLfO WILDT 16 | L’ARTE CRIsTIANA DI ANTONELLO di Rocco Giudice di Marica Rossi 24 | CD DEL MEsE 17 | ARCANGELO fAvATA (opera) 11 | DANIELE CAsCONE (opera) 25 | L’ARTIsTA 08 | LA CROCE NEUTRA DI DING yI di Monica Dematté

l’INDICE


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versi

Rocco Giudice in

Dialogo tra visioni e parole. Il primo Speciale Monografico: esposizione virtuale tematica di Newl’ink

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Bisogna arrivare lì, sotto l’altare. il brusio orante che lo lambisce ne sa meno del silenzio che l’invoca, parola giovannea per parola profana,

ogni sasso, più lieve di una piuma e della fioca luce che lo rumina senza riconoscerne la voce, nascosta in gola a chi non sa ascoltarla; l’erba è più arida di un’ossuta Cordigliera.

ogni suono o rumore è uno strappo sul tessuto, sulla stoffa inconsutile che la storia fa piena di rattoppi, ciascuno più doloroso di quelli che si sente qui. e il vento notturno contro cui inveiscono le fiere, assai più misteriose di chi le sfida.

venuto il nostro turno di sapere e prima ancora, di essere - nulla che sia un sermone, niente di più che aggiunga un particolare al paesaggio che ne fa degni.

Donne velate da scialli o chine sotto coltri di capelli, a braccia alzate; di spalle, uomini inerti, piatti e sghembi come ombre.

L’arco dell’orizzonte è una spalliera, un parapetto sbreccato cui reggersi per non precipitare; un cielo dove non si può volare; un livido ruscello, in bilico sulle pietre che lo reggono, che ha ingoiato tutte le sue gocce, non sfiorato neppure dalle tenebre.

La Figura che sembra sgorgare dallo spazio è una lacrima sul ciglio del mondo passato e di quello futuro: nessuna Croce potrebbe straziare più di questa che t’è data, Madre, per straziare Te come il panno che v’è stato appeso, più logoro del drappo in cui scolora.

Un groviglio di lampi scalda l’aria né scuote coloro che più immobili del vuoto vi stanno sotto un cielo di cremose nuvole barocche. La terra dirada come nebbia e tutto ciò che esiste vi galleggia;

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arte

Giacomo Rizzo in

Geometrie della passione (part.) 2012, resina, legno, carta, cm 250 x 170 x 60

Tutto è così, sempre, squallido, atroce, tutto quello che è amato per Chi sempre lo salva.

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(l’opera nella sua compiutezza è visibile a pag. 13)


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di Giuseppe Carrubba

no disagio e sensi di colpa, come le prigioni, gli ospedali, gli uffici per i disoccupati, per offrire la possibilità di dimenticare, per qualche attimo, la vita di “merda” e recuperare un’esperienza intima e contemplativa, abbandonandosi al gioco della fantasia. Da dove inizia tutto questo? La storia artistica di Franko B e con questa le sue scelte personali. Non c’è alcun confine a separare l’arte dalla vita nel suo universo poetico e prima di parlare dell’artista va considerato l’uomo, un uomo dallo spirito anarchico con una coscienza politica ben orientata, un terrorista visionario e radicale in tutto, uno spirito libero che ha cercato dignità e integrità per la sua persona e per le sue azioni, manifestando con spirito romantico sofferenza e opposizione alla repressione e al controllo delle vite, nonché al potere. Quale visione dell’arte adottare? Un’arte, in termini psicoanalitici, che è organizzazione del vuoto, dello spazio e dell’esistenza? Franko B sceglie un’arte dove il simbolico e l’immaginario sono reali e si intrecciano ad un’estetica che comprende una ermeneutica delle categorie linguistico-formali e dove l’opera, che riguarda il presente e quindi una vicenda non conclusa, nasce dalle pulsioni personali dell’artista ma può assumere una vita propria, offrendosi a diversi punti di vista che sfuggono al controllo stesso dell’artista; se il controllo fosse “forte” non sarebbe più arte ma propaganda. Non separo il lavoro dalla mia vita e dall’idea di libertà. Nel mondo in cui viviamo, postmoderno, bisogna essere romantici, bisogna non aver paura di credere in qualcosa, di amare. Cosa sarebbero Beuys, Rothko, Bacon senza il romanticismo? 1 Quando inizia questa storia? Forse inizia alla fine degli anni settanta quando l’artista lascia l’italia per non prestare il servizio militare, e

j franco B Oh Lover Boy | 2005, Glasgow University of Bristol Theatre Collection, Franko B archive (Photo: Hugo Glendining)

Franco B in

arte

arte, vita, azione, dissacrazione e interazione. Materia e spirito: la croce, il cuore, la casa come simboli dell’esistenza, di un tormento, di un vissuto emozionale, di un recupero quotidiano, disincantato, primario. il sangue e la questione del corpo, del proprio, intesi come materie prime originarie legate alla vita. il corpo come la tela e il sangue come il pigmento, come rappresentazione della maniera più democratica di pensare e realizzare il proprio lavoro. Che cos’è la croce per franko B? La croce nel suo lavoro e nella sua vita è il simbolo del corpo ed assume diversi colori in base al periodo; dal rosso che richiama il sangue, al nero considerato dall’artista un colore fortemente emozionale, un colore che annulla e contiene tutti gli altri colori. La croce come protezione e il cuore come equilibrio e amore. L’arte di franko B si afferma negli anni ottanta, con una poetica personale, all’interno di un percorso già tracciato in precedenza dalle neoavanguardie e dall’arte corporea, come lo sviluppo ed il proseguimento di un’arte dissacratoria legata all’uso del corpo e in qualche modo agli impulsi sadomasochisti, che negli anni sessanta ispirò l’Azionismo Viennese e la Body Art. Ho conosciuto Franko B nel maggio del 2009 in Toscana, a Prato, al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci in occasione della performance I’m Thinking of you, un lavoro in cui dalla centralità del corpo si passa all’oggetto dell’infanzia, l’altalena, e alla musica attraverso una visione surreale ed onirica, dove convergono romanticismo e fantasia, da restituire al mondo degli adulti. Nel pomeriggio, durante una conversazione pubblica, l’artista disse che l’altalena era la scultura dell’infanzia, arte pubblica da collocare in quei luoghi sociali che provoca-

dimostrare così il proprio dissenso e opposizione al sistema; oppure poco prima quando uscendo da un istituto comincia a porsi delle domande sul da farsi: lasciare l’italia per avere una possibilità di salvezza. si reca in inghilterra, nei primi anni del governo Thatcher, anni di protesta e di dura repressione nei confronti di tutte le rivendicazioni economiche e sindacali. La protesta e la ribellione della working class troverà espressione e sentimento nella musica punk che darà voce al disprezzo e all’insoddisfazione nei confronti della società. Questa storia inizia quando l’artista scopre affinità elettive con gli azionisti e con l’avanguardia. il suo background artistico e umano si lega ai linguaggi performativi e fattuali, alla rielaborazione di un’arte neooggettuale, di derivazione pop; quando i rifiuti diventano arte, parafrasando Lea vergine, insieme alle correnti concettuali di derivazione duchampiana, diventano i riferimenti semantici e mitici dell’artista. ed ecco che, man mano, emergono alcuni fantasmi come degli ex voto da inscrivere sulla propria pelle, come una croce e un’ossessione: Jackson Pollock, Mark Rothko, francis Bacon, Joseph Beuys, valie Export, Günter Brus, Rudolf schwarzkogler, Gina Pane, Marina Abramović, Ron Athey, vito Acconci, Mimmo Paladino, Patty smith, susan sontang. sono gli anni ottanta e Novanta, in cui Franko B si afferma come artista visivo e performer nei club di Londra e in spazi istituzionali; sono gli anni estremi e drammatici, tra edonismo e consumismo, in cui si diffondono l’aiDs e l’ignoranza, l’omofobia, ma anche i conflitti e le guerre nelle periferie del mondo. L’artista parlerà di tutto questo in un diario, per sette anni. Gli eventi bellici del secondo dopoguerra in vietnam, Medio oriente e africa hanno dato vita ad un’arte dura, istintiva, antiestetica, nel senso tradizionale del termine, e hanno determinato un linguaggio di rottura con il quale l’artista voleva sottolineare la libertà del proprio agire.

i conflitti in angola, albania e afghanistan e la Guerra del Golfo hanno rappresentano una lunga storia di supremazia, di potere e di violenza visiva dei corpi violentati, nel teatro del consumo degli orrori, reale e mediatico. Le performance di Franko B a vienna nel 2001, Aktion, e a Londra nel 2002 alla Tate Gallery, I Miss you, rappresentano un tributo agli azionisti viennesi degli anni sessanta e settanta, ma anche una reazione in quel momento al contesto storico, culturale e personale. il suo corpo nudo, monocromatico, bianco, il sangue: l’artista gioca con il mondo della moda, dell’arte e dell’esistenza, delle proprie pulsioni, crea immagini estetiche ossessive, per rendere sopportabile l’insopportabile attraverso un processo creativo purificatorio. Le immagini sono metafore delle nostre condizioni interne, sociali e personali, dove il corpo in gabbia è come una tela da circoscrivere; viene inciso, scritto, esposto attraverso il sangue in un processo di costrizione che suscita meccanismi di sopravvivenza. Il sangue è tutto, è la vita. Dal momento che nasciamo ci dicono che va bene dare il sangue per la propria Patria e per difenderla va bene uccidere altre persone. Vieni da un altro paese, ma il sangue è lo stesso! Ho donato il sangue a me stesso e all’arte per fare immagini, tableau vivant, ricordare il mondo, rispetto a ciò che ti piace o ti fa male; per tanti anni ho voluto usare il corpo, in senso fisico, e il mio sangue, ma il contesto con cui sono arrivato, negli anni Ottanta, a questo lavoro oggi non c’è più, così sono cambiate le mie necessità2 Franko B è nato a Milano, ma vive a Londra dal 1979. Ha lavorato, mescolando vari media, con il video, la fotografia, la performance, l’installazione e la scultura, in tempi recenti ha utilizzato anche il linguaggio pittorico. Negli ultimi anni è stato

Mamma I Can’t sing | 1995, London University of Bristol Theatre Collection, Franko B archive (Photo: Nicholas Sinclair)


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nominato professore di scultura all’accademia di Belle arti di Macerata. Ha realizzato performance, oltre che a Londra e a Liverpool, a Città del Messico, Milano, amsterdam, Copenaghen, vienna e Madrid, proponendo il suo corpo come linguaggio espressivo assoluto, distruggendo vergogne e pudori che la società impone, esorcizzandole attraverso la messa in scena delle proprie esperienze corporali: un corpo che diviene superficie simbolica di alterazione di equilibri psicofisici, il corpo sociale esposto, alterato, denunciato, che mostra il lato oscuro della natura umana. il suo sangue sgorgava, ed era un’esperienza viscerale, rituale, fisica, legata alla vita in maniera laica e pagana, lontana dall’idea di santificazione cattolica. il suo sangue poteva essere mischiato con altri liquidi corporali di cui la gente abi-

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tualmente ha vergogna, liquidi di scarto, come l’urina, la saliva, lo sperma che l’artista condivideva, attraverso l’arte, all’interno di un processo emozionale, catartico e liberatorio. il pubblico, in questo processo, non veniva considerato mai come un elemento passivo, ma interagiva grazie a momenti di intimità, come uno sguardo, un contatto personale, oppure tramite momenti collettivi di visibilità massima del lavoro in cui l’artista invitava a riflettere sulle vicende che riguardano gli essere umani, sulle regole e sui comportamenti imposti, anche mediante un lavoro traumatico. Non importa se si raccontava una storia dall’inizio alla fine, se alle domande non corrispondeva sempre una risposta, importante era cogliere l’istante, il contatto, la possibilità comunicativa attraverso immagini.

ancora oggi Franko B lavora con immagini concrete che diventano icone e simboli, immagini sindoniche in cui la tela è il corpo universale, così come un tempo il corpo era la tela e il sangue il colore. in questo lavoro di pittura c’è un processo di sintesi e se nel lavoro performativo c’era un tempo percettivo che si consumava tra orrore e seduzione, nell’attuale lavoro pittorico c’è un tempo in cui le immagini si fissano nella retina, emergono dal buio e si traducono in corpi sensualissimi, come due uomini che si baciano, oppure in scene di violenza e tortura che richiamano la prigione di abu Grahb, vicino Baghdad. immagini che destabilizzano la virtualità di ciò che arriva dall’universo di MTv e delle televisioni digitali che caratterizzano l’epoca contemporanea, immagini, come quella dei due ragazzi impiccati in irak, diffusa tramite inter-

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net, condannati dalla sharia la legge islamica che punisce con la morte la pratica omosessuale, che l’artista rappresenta su tela, contrapposte ad un altro universo parallelo, più luminoso, e “intrecciato”, che presenta in maniera, semplice e disarmante, i segni della natura, con farfalle, fiori e uccelli, anche questi disegnati su tela con filo rosso, di francescana memoria. Nella performance Love in times of pain, a Milano al Pac (2010), il corpo è nero, come i suoi quadri e gli animali impagliati. il nero, il colore della notte, nasconde ogni traccia personale dei tatuaggi: emerge un corpo che diviene luogo di utopia e di inesplorabili e misteriosi altrove (Michael Foucault). Un corpo maturo che va oltre lo stereotipo del rituale in passerella per comunicare, con delicata e inusitata poetica, la compassione universale del dolore, come gli animali imbalsamati, scelti dall’artista in un mercatino londinese, che vengono ricoperti di un nero bituminoso, e collocati, attraverso un processo di identificazione e di amore, nella dimensione dell’arte che li riattualizza con una nuova vita. L’arte è come un virus buono e non bisogna averne paura, anche se non sai come e quando ti ha contagiato, è per questo virus che ho la forza di alzarmi al mattino .3 Un virus sinonimo di libertà, memoria, forza e romanticismo. L’autore ringrazia franko B e Bex Carrington dell’Università di Bristol, UK, per la disponibilità e per la collaborazione.

franko B http://www.franko-b.com/ THe UNiversiTY oF BrisToL The franko B Archive

http://www.bris.ac.uk/theatrecollection/liveart/liveart_FrankoB.htm

j franco B Home Gallery: Home White Room| 2001, London University of Bristol Theatre Collection, Franko B archive (Photo: unknown) f franco B If you Love Me | 1999 University of Bristol Theatre Collection, Franko B archive (Photo: Jamie McLeod)

arte

Franco B in

Oh Lover Boy: on the knees 3 | 2000

University of Bristol Theatre Collection, Franko B archive (Photo: Manuel Vason) Incontro con Franko B, Centro per l’arte contemporanea Luigi pecci, 27 maggio 2009, prato 2 Ibidem 3 Ibidem 1

NOTE

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di Rossella Digiacomo

Non è una mostra che mette a fuoco solo i dilemmi del cristianesimo, ma anche la perdita di amore e le credenze che abbiamo abbandonato. Si tratta di tragiche vite e cadute in disgrazia. Si tratta di ritratti che svelano stati d’animo. Si tratta di persone che diventano fantasmi di se stessi (M.D.). L’immagine del Cristo crocifisso rappresenta il mistero della vita, la percezione di una sofferenza personale e universale ma rappresenta anche la capacità di agire, di prendere una decisione anche quando si è profondamente nel dubbio. Cristo ha scelto di essere un martire, di non arrendersi sotto il peso della pressione.

h veduta dell’allestimento a cura di Paolo Burinato e Rishi Sigurd Vlote

j Marlene Dumas Tree of life, 2011, olio su tela, cm 200x100 (coutesy Frith Street Gallery, Londra)

Marlene Dumas in

arte

Ecce Homo 2011, olio su tela, cm 200x100

(coutesy Frith Street Gallery, Londra)

MARLENE DUMAs sORTE fONDAzIONE sTELLINE

13 marzo | 17 giugno 2012 Corso Magenta, 61 Milano Mostra a cura di Giorgio Verzotti Catalogo Silvana Editoriale Orario tutti i giorni: 10 - 20 lunedì chiuso INfO +39 02 45462 411 +39 02 433403 press@stelline.it www.stelline.it

INF O

Da martedì 13 marzo al 17 giugno 2012, la Fondazione stelline ospita la prima mostra pubblica a Milano di Marlene Dumas dal titolo “sorte”, a cura di Giorgio verzotti. Nei suoi trent’anni di carriera, Marlene Dumas, artista sudafricana e olandese di adozione, ha creato lavori che raccontano soggetti diversissimi e ideologicamente complessi: l’apartheid, gli stereotipi razzisti, la maternità, la perversità in tutte le sue manifestazioni, l’amore e la religione con un’originalità ed una libertà espressiva uniche. L’artista è famosa per la sua pittura ambigua e inquietante, nella quale i suoi personaggi appaiono inermi e consenzienti rispetto al voyeurismo dell’osservatore. in realtà attraverso i temi del corpo e dell’identità, della violenza e dell’amore, il lavoro di Marlene Dumas manifesta, nonostante l’impietosa rappresentazione dell’inadeguatezza umana, comprensione ed empatia. i suoi lavori esprimono una visione capace di far emergere la dignità universale delle persone. per la mostra milanese si è partiti dall’antico ed eterno tema della pietas con l’omaggio della pittrice alla Pietà Rondanini di Michelangelo, per procedere poi, con ritratti di corpi, persone e di umanità del nostro tempo, dalla figura di pier paolo pasolini al luogo stesso dell’esposizione: l’ex collegio delle stelline. Tutto tra il mistero e il dolore del vivere. sentimenti che esplodono con maggiore intensità nelle sei grandi tele della crocifissione, tratte dalla serie “forsaken”. Marlene Dumas prende ispirazione dall’espressione disperata del Cristo morente: «e, verso l’ora nona,

Gesù gridò a gran voce: Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Matteo 27,46). L’artista sceglie l’immagine di Cristo abbandonato sulla croce per il suo valore universale, per il senso di conforto e smarrimento che si prova di fronte all’estremo. in Ecce homo, la Dumas esplora i sentimenti di disperazione esistenziale; è nell’oscurità stessa, fatta con ampi colpi di blu di prussia, quella in cui ci si perde. impiega l’opposizione del bianco-nero per impartire implicazioni spirituali: la purezza angelica di Cristo appare avvolta in un mondo di ombre depravate. Lo sguardo del Cristo è nascosto dietro un ciuffo di capelli ma il dolore si concentra in quei polpacci ritorti e ossuti e nei piedi attraversati dal chiodo a suggerire un corpo umano che freme. in Tree of life Marlene Dumas sostituisce la croce con un albero a forma di Y, esso non segna la rinascita ma ancora una volta lo stesso struggimento che porta alla condanna della carne stretta tra le ossa. insieme a queste grandi immagini, nello spazio milanese, sono presenti due piccoli ritratti di Amy Winehouse. il suo aspetto è gonfio di dolore; le labbra bulbose emettono grida senza voce. La sua vita caotica e priva di bussola morale dà l’idea di chi si è sbarazzato di Dio. Da Nietzsche a sartre si è ritenuto che la perdita della fede in un ordine morale è conseguente alla perdita della fede in Dio. Dio è stato dichiarato morto, ma la necessità di riempire lo spazio che ha lasciato, persiste. amy è stata glorificata. Le rockstar sono gli animali sacrificali della società. oggi l’uomo moderno consuma l’immagine di “sesso, droga e rock’n’roll” perché è troppo terrorizzato per viverla. partecipa per interposta persona. Un po’ come il Cristo, queste figure sono state variamente ripresentate e ripensate. i dipinti della Dumas sembrano voler essere esplorazioni del modo in cui le vite e le morti, i trionfi e le cadute, siano state mitizzate e oscurate. partendo dal grido di abbandono di Cristo e l’utilizzo di quel momento come una metafora per le nostre esperienze comuni di isolamento e di perdita, le crocifissioni iniziano una conversazione in grado di condurci più in profondità sia nell’esperienza che nelle conseguenze della morte di Cristo.


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di Monica Dematté

in un paesaggio naturale. e’ un primo apparire della componente “spontanea”, destinata a diventare fondamentale. visivamente i dipinti di questo periodo (siamo nel 1991) sono estremamente ricchi, complessi. La ripetizione di motivi e gesti crea un legame profondo, fisico, fra creatore e creatura. Ma presto Ding Yi sente di aver raggiunto una sorta di climax, una perfezione che lo gratifica ma non gli apre nuove vie. per ovviare a tale impasse decide di affrontare un nuovo punto di partenza. La nuova fase non significa però un cambio radicale di materiali e motivi. L’artista sceglie di abbandonare la geometrica suddivisione lineare e di dipingere a mano libera, pur non discostandosi dal motivo ”a croce”. Ding Yi opera un cambiamento forte, se pur conservativo, che lo riporta a un’arte di livello più umile e “preculturale”. Dopo qualche mese di pratica del nuovo stile, però, una disinvoltura facilmente acquisita pone nuovamente l’artista in una posizione di

stallo, che esige nuove difficoltà per mantenere sempre vivo, intenso, il suo rapporto con la materia. Così nel 1992 inventa la “croce al negativo”, motivo che vede affiorare il segno “+”, vuoto, all’interno di otto triangoli colorati per la cui esecuzione occorrono sedici piccole pennellate. Da allora fino al momento attuale, la maturità creativa permette all’artista di usare nello stesso dipinto più versioni dello stesso motivo: “positivo” e “negativo”, nonché altre leggere varianti, coesistono felicemente.

j Ding yi Appearance of crosses 2008, tecnica mista su carta A SINISTRA IN ALTO

Ding Yi in

arte

il primo esemplare della serie a croce di Ding yi, pittore nato a shanghai nel 1962, e oggi considerato uno dei più importanti protagonisti dell’arte contemporanea cinese, risale al 1988. si tratta dell’applicazione di un concetto astratto al medium pittorico: la ripetizione del segno serve nella tecnica della stampa per suddividere il foglio in superfici quadrate, uguali. e’ una garanzia d’esattezza e di oggettività, e può costituire un riferimento universale, privo com’è di riferimenti culturali elaborati. La tela è suddivisa in campiture verticali nei tre colori base: giallo, blu e rosso, definite all’interno da croci

nere. L’effetto è di estrema precisione geometrica, di asettica scientificità. L’artista lo sceglie a scapito sia della tecnica pittorica che dell’espressione individuale. inaugura così un periodo di dedizione assoluta allo sviluppo della “serie a croce”, scelta consapevolmente in contrapposizione sia alla tradizione della pittura cinese, che al mondo artistico contemporaneo. L’artista si concentra sulla sua ricerca con costanza esclusiva e quasi maniacale. Gli esperimenti di Ding Yi (a cui piace paragonarsi a un ricercatore, a un alchimista) si fanno via via più complessi. L’originario motivo “a croce” viene arricchito di diagonali, delineate con accurata precisione, che creano un senso prospettico di profondità. La scelta di associare la bidimensionalità all’astrazione sfocia ora in un effetto di trompe l’oeil in cui l’artificialità è mantenuta e esasperata. al rigido schema mentale che domina l’apparenza dei dipinti sfugge però la scelta dei colori: essi vengono accostati casualmente, come

A DESTRA DALL’ALTO

Appearance of crosses, 1991-4 1991, acrilico su tela, cm 90 x 110

Appearance of crosses, 2010-B4 2010, tecnica mista su carta, cm 55 x 380

Appearance of crosses, 1991-3 1991, acrilico su tela, cm 140 x 180


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di Marica Rossi La morte è una sfinge nera illuminata solo dal cero della pietà. La definizione che traduce plasticamente le opere di Wildt dedicate all’ineludibile tema, e che è dell’autore stesso, crea in noi una associazione di immagini con altri capolavori sull’effige del Cristo morto rievocata specie nel periodo di adesso che celebra la pasqua. ed è uno dei fili conduttori che ricongiungono le espressioni artistiche più antiche del cattolicesimo fino ai lavori del grande artista milanese, tanto osannato in vita quanto poi ignorato perfino dagli studiosi. a tale oblio ingiustamente sceso su Adolfo Wildt (1868-1931) pone riparo Forlì con la retrospettiva “Wildt. L’anima e le forme da Michelangelo a Klimt” che al san Domenico fino al 17 giugno mette in scena esemplari di una umanità inquietante con maschere ora drammatiche ora mistiche, ora dolcissime e delicate come la serie dei gessi e dei marmi di Filo d’oro e di Rosario. Facce e corpi che i curatori Fernando Mazzocca e paola Mola hanno accostato ad esemplari altrettanto pregevoli che influenzarono lo scultore: sia maestri del passato che contemporanei. perciò gli hanno affiancato Donatello, Michelangelo, Cosmè Tura, Durer, Bronzino, Bernini, Bourdelle, Canova (con la eBe in posto d’onore stabile al Domenico) e rodin fino a Klimt, Casorati, Fontana, Morandi. Due mostre in una dove Wildt la fa da protagonista per eccellenza e numero di opere tra cui la collezione permanente a Forlì grazie ai marchesi paulucci di Calboli.

j Adolfo Wildt La madre, 1921, marmo di Candoglia A FIANCO, DA SINISTRA

H Adolfo Wildt

Maschera del dolore, 1909, marmo Carattere fiero, anima gentile, 1912, marmo Maschera dell’idiota, marmo

Cross 2012, fotografia, cm 31,5 x 22

WILDT. L’ANIMA E LE fORME DA MICHELANGELO A KLIMT MUsEO sAN DOMENICO

28 gennaio | 17 giugno 2012 piazza Guido da Montefeltro, 12 47121 Forlì (FC) Mostra a cura di Fernando Mazzocca paola Mola Un luogo di idee, sogni e utopie che si proiettano nella realtà

INfO tel +39 0543 712606 / 609 fax +39 0543 712658 / 618 museosandomenico.forli@comune.forli.fc.it

INF O

Orario dal martedì al venerdì: 9.30 - 19 sabato, domenica e festivi: 9.30 - 20

arte

Daniele Cascone in


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di Ornella Fazzina

Tra reminiscenze naturalistiche, astrazione geometrica e arte ottico-cinetica, la ricerca condotta da paolo scirpa si è sempre contraddistinta per un taglio autonomo e indipendente che non è rientrato mai appieno in movimenti o tendenze dell’arte contemporanea, rispondendo principalmente a necessità interiori. Tutti i suoi lavori hanno una matrice comune e rispondono a istanze di natura etica, quasi fosse una religiosità insita nelle sue opere che si trasforma in “poetica della luce”, diventando metafora della spiritualità dell’uomo e di una luce come possibilità di una società per-

cettivamente migliore. Una profonda riflessione sulla condizione umana, da un punto di vista morale e sociale, ha quindi caratterizzato il campo d’indagine dell’artista, il quale ha affrontato il tema del dolore e della morte in croce per mezzo del disegno, della pittura e di opere tridimensionali, muovendosi tra figurazione e astrazione. Da un segno carico di tensione e capace di una sintesi formale nel restituire l’anatomia dei corpi, a oli e acrilici su tela che traducono il colore in funzione espressiva, scirpa arriva successivamente a strutture geometriche che diventano la sua singolare

cifra stilistica. i Ludoscopi costituiranno l’elemento di unione tra lo spazio reale e lo spazio illusorio, in un moltiplicarsi della forma che supera la sua stessa dimensione fisica. Questa percezione infinita dello spazio, ottenuta con il neon e superfici specchianti, suggerisce il bisogno di ampliare le proprie percezioni fisiche e mentali per tendere verso una dimensione ultraterrena, sovrannaturale, tanto agognata e sofferta. attraverso la ricerca della forma luminosa, la pesantezza si trasmuta nel suo contrario, in una leggerezza che è metafora di speranza e di fede, di riscatto da un dolore terreno, che si manifesta per mezzo di un elemento come il tubo al neon che assume forte valenza semantica: quella di concepire la luce come principio unificante della realtà. in tutti i suoi lavori che si rifanno all’ambito dell’arte cinetica, si intuisce che pur utilizzando strumenti facenti parte di quella tendenza, dalla stessa si affranca per una predisposizione mentale differente che non intende ricondurre tutto alla realtà effettuale della visione, piuttosto a un aspetto trascendentale della luce che diviene quindi il riflesso di quella reale. egli approda a una dimensione ideale che si serve di mezzi concreti per parlare del mondo e dell’uomo che abita il mondo, sottolineando che quei mezzi sono solo l’imitazione, il riflesso di un significato più ampio che lega il pensiero dell’artista al concetto di luce mistica, tanto celebrata nella cultura medievale. ed è così che tradizione e tecnologia attraversano il tempo senza soluzione di continuità, volendo esprimere con un diverso linguaggio artistico la stessa cosa e cioè che rappresentazione e presentazione non sono altro che l’ombra del visibile. sul tema della croce, oltre all’esplicito richiamo alla narrazione cristologica in alcune pitture, il rigore geometrico del ludoscopio che riprende, appunto, la perfetta forma a croce ci comunica un’idea di perfezione che oscilla tra il greve e il leggero, l’assoluto e il relativo, il trascendente e l’accidentale.

j Paolo scirpa Ludoscopio - Croce. Percorsi di spazi/luce comunicanti 2007, assemblaggio, cm 50 x 250 x 250 (Collocata sull’altare della Chiesa del Divin Pianto, Cernusco sul Naviglio, Milano) IN ALTO A SINISTRA

h Paolo scirpa Gesù crocifisso 1997, gessetto nero su carta, cm 53x42 (part.) SOPRA

arte

Giacomo Rizzo in Geometrie della passione

2012, resina, legno, carta, cm 250 x 170 x 60


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marzo | aprile 2012

di Michele Romano

Cupole cinquecentesche e serpenti peccaminosi sono i prodromi di un dedalo iconografico che configura il leitmotiv di questa artista polimaterica e outsider. La centralità di una croce-pugnale è la forza mistica e sacrificale di una comunicazione artistica, tra giubileo e controriforma, tra mistero ed evasione onirica. Una frammentarietà di eventi, che come tessere di un poliedrico mosaico simulano l’odeporica narrazione di un viaggio ascetico, corporalità e sacra iconografia dell’ essere. Ma... Donna in croce, pietà, sublime estasi e ascensionalità, esclusivi segni di una metamorfosi tra spiritualità e pura materia femminea. L’ermetico linguaggio visivo-plastico della Leonardi, invita ad una curiosità mediatica, alla proliferazione da un immaginario urbano, quella koinè contemporanea che rinvia alla storicità dell’arte, consimile al Giudizio Universale della sistina michelangiolesca, per poi tramutarsi in una babele corporale, erotica o quasi eretica. Un file rouge della mistica contemplazione metropolitana, quasi un voler riordinare i diversi stadi di una esistenzialità tra materia ed energia vitale. Quel ka/ba e akh, geroglifici che come personificazione sacra nilotica personifica lo slancio e la potenza vitale, quell’ibis, radice di luce dell’anima. Un linguaggio visivo che l’artista modella e ricompone come mandala pittografico di una incisione sacra a-temporale.

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Nel dicembre del 2010 apre “edonè arte viva club” - spazio culturale polivalente - grazie al carisma e la professionalità del collezionista Giovanni Bosco che dopo un’esperienza ventennale acquistata nell’ambito dell’arte moderna e contemporanea decide, già nel 2007, di creare un’attività di promozione divulgazione artistica denominata “arte viva”. edonè ha sede in un palazzo nobiliare nel bellissimo centro storico di vittoria, famoso in tutta la sicilia per il suo stile liberty, e si presenta come uno spazio dina-

mico, accogliente e soprattutto ricco di continue, interessanti proposte (mostre, concerti, conferenze) come l’attuale esposizione in corso sui Maestri del 900 italiano o come la precedente appena conclusa sugli artisti di Piazza del Popolo o le varie monografiche su sassu, Caffè, Dova, Guttuso, Clerici, pirandello. pertanto, detto tra noi, non resta che approfittarne.

j Rosalba Leonardi Ma.... donna in croce assemblaggio, (particolare) IN ALTO A SINISTRA

A FIANCO, DA SINISTRA

H

Renzo vespignani Crocifissione 1963, tecnica mista su carta riportata su tela, cm 141x87 veduta dell’ampio salone della galleria edonè di vittoria

via Cavour, 39 - vittoria (RG) tel. +39 0932 861621 | +39 0932 987522 info@arte-viva.org | www.arte-viva.org

Andrea Di Silvestro in senza titolo 2012, assemblaggio, cm 31,5 x 22

arte

Ingresso libero da martedì a domenica 10-13 | 17-20


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l’OSPITE 07


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l’ARTE

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L’arte

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marzo | aprile 2012

di Rocco Giudice

ristiana di

ANTONELLO

il Compianto su Cristo morto, di Giotto; la Crocifissione, di Masaccio; la Deposizione e la Trasfigurazione, del Beato angelico; la Flagellazione, di piero della Francesca; la Pietà e la Deposizione, di Botticelli; Cristo in scurto, di Mantegna; la Pietà, di Giovanni Bellini, quella di Brera, in particolare; la Sepoltura di Cristo, di raffaello: solo per limitarci a alcune delle opere che si potrebbero citare per bellezza, potenza drammatica, forza di sintesi e ampiezza di visione, “filosofia della composizione” e molteplicità e complessità che intreccia messaggio di fede, valori dogmatici e contenuti storici; modalità “narrativa” o carattere assertivo dell’assolutezza di un dato esaltato nella sua essenzialità epifanica; evocazione del fatto salvifico e/o speculazione/interazione, si vorrebbe dire, catartica, reliquiale, liturgica. Ci sono ragioni, concomitanti o antitetiche, per privilegiare la versione di uno o più Maestri (inclusi, ovviamente, quelli più vicini a noi dal punto di vista cronologico, compresi i contemporanei) rispetto all’interpretazione di altri. se ci colpiscono le opere di Antonello, è proprio per la intrinseca connotazione teologica che ci pare costituisca un dato imprescindibile in esse. a darci ragione rispetto a qualcosa di cui non doveva convincerci nessuno è stata anche la scelta dell’immagine del salvator Mundi di antonello posta - inedito totem/tofet sacrificale, chioserebbe rené Girard - al centro della piéce Sul concetto del Volto del Figlio di Dio, di romeo Castellucci, andata in scena al Teatro parenti, a Milano, il 25 gennaio di quest’anno. siccome si è più che disposti a non stare al gioco auto-promozionale della provocazione, non fosse altro per la ragione di ordine pratico che non avrebbe alcun senso cadere nelle polemiche suscitate da uno spettacolo che non vedremo; e perché non vorremmo negare a nessuno il diritto di non trovarci d’accordo con chicchessia tutte le volte che vuole, in particolare, se si tratta di provocatori che abbiano il buon gusto di non impancarsi a educatori; si constaterà, infine, che solo la mancanza di umiltà può indurre artisti che selezionano con tanta circospezione il soggetto delle dimostrazioni del proprio coraggio, a loro dire, civile a sopravvalutare il proprio talento (anche in questo speciale settore della speculazione pubblicitaria). proprio l’immagine del Salvator Mundi e con essa, l’Annunciata di palermo coLa luce di Caravaggio si impenna fino in cima alle cose e strappa i personaggi al mondo, alla storia, a loro stessi, in modo che Caravaggio sembra contendere all’aria, alla luce stessa e alla vastità del mondo quelle figure, quei volti, quei corpi, indicibilmente suoi, senza, perciò, privarli di una umanità che colma e rifonde quella stessa luce, la anima e esalta come immagine di Dio. 2 il confronto, per questo particolare, con opere di Maestri che precedono antonello o con cui egli era o poteva essere in rapporto non può sminuire il valore che assume in antonello l’azione, direi, l’interazione che nei suoi dipinti passa per quelle mani. Così relativamente a ogni rinvio al Cristo benedicente di Hans Memling - peraltro, il Cristo di antonello è del 1475, mentre quello di Memling risalirebbe al 1478 -, in cui la mano esprime una sorta di autenticità autografa di ciò che l’immagine di Cristo rileva – sono tornato, sono io, Cristo: ecce Agnus Dei. Mentre in antonello il gesto è oltre la storia di Colui che la ‘interpreta’ ossia ‘inscrive’ sé nella storia che Lo accoglie, come “Dio con noi”. vediamo ossia leggiamo in Memling la parola vivente come contenuto della vissuta verità di fede; mentre in antonello siamo noi a essere sfidati, a essere letti, l’annuncio diviene una chiamata in cui ciascuno è già compreso come parte della testimonianza che dovrà prestare. perciò, Cristo è l’immagine in cui si rispecchia quella stessa verità vissuta e viva perché è già nella nostra carne, è nostra carne, spazio della vita che ci è data e che è resa da Lui inscindibile dalla sua. La mano del salvatore, nel protendersi, fissando il limite fra noi e Lui, supera ogni confine frapposto dal tempo e dal peccato - Cristo è la via -; stabilisce e nello stesso istante, supera la profondità dello spazio in cui ci trova: fra Cristo e noi, fra la salvezza e noi non c’è distanza storica ovvero essa è colmata da una vicinanza quasi fisica, ‘faccia a faccia’. 3 Cfr. in Antonello, principato, 1953, pag. 22. 4 Così in Breve ma veridica storia della pittura italiana, sansoni, 1980, pag. 146.

NO TE

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stituiscono le opere di antonello in cui in modo più forte è affermata la valenza cristiana dell’arte del Messinese. a scanso di ogni riduzionismo all’ortodossia dell’occhio nudo, occorre partire dalla consapevolezza che l’arte nuova della prospettiva non è vuoto gioco di forme nello spazio, in antonello come negli altri Maestri, ma lo strumento che consente di articolare visivamente un discorso/percorso, come in questi due capolavori di antonello, di fede che esula dai limiti in cui si vorrebbero reperire i parametri per fissarlo (e giudicarlo, magari) in conformità ai nostri. se si riesce a non dimenticare di quale discorso partecipa/parteggia l’arte di antonello, se non si perde di vista la costruzione (nel senso di una retorica) delle sue opere, allora, essa ci apparirà come un’allusione e di più, adempimento quasi liturgico del messaggio che i suoi lavori non si limitano a illustrare. Tutte le opere di antonello sembrano svolgersi fra coordinate - esterno/interno; alto/basso, cielo/terra; sfondo/superficie - non semplicemente poste in relazione o chiamate in causa quali strumenti di una connessione dell’insieme: e lo spazio non è recipiente, contenitore di un episodio più o meno circoscrivibile: ma è corpo attraversato da linee che ne definiscono ampiezza, tensione, simmetria, ritmo. alla fine, come membra di un organismo, esse si ricompattano in una costruzione la cui “identità” è sempre funzione di un asse che ruota attorno a una figura, a un volto e a una vita: e per tutti i personaggi da antonello effigiati, a una persona, per quanto possa essere storicamente connotata e resa accessibile nel mistero della sua potenza in termini simbolici e quindi, umani (naturali, molto naturali). il ritratto, il volto, di un gentiluomo come di un paesaggio, di un ignoto peccatore come del salvatore, è la forma in cui antonello racchiude per intero l’immagine del mondo. solo le figure di Cristo e della vergine, nei suoi dipinti, varcano l’orlo di quel mondo, cui aprono il nostro. il gesto del Salvator Mundi e dell’Annunciata ha, perciò, il senso di un passaggio, il varco o il passaggio dal Mar rosso - di una pasqua di resurrezione, cioè -, attraverso cui lo spazio di allora e di adesso rientrano in un orizzonte sempre intimamente connesso ai nostri, vorremmo dire, eucaristicamente effuso. Manca, infatti, uno sfondo in cui collocare la Madre del salvatore: ovvero, il vuoto su cui l’annunciata si staglia assume densità e consistenza - fisica e storica - grazie alla presenza di Lei. Un’epoca buia, un’età delle tenebre si è chiusa: ora, la luce è scesa fra di noi. La figura della Madre assorbe l’intero contesto per giungere ai limiti del quadro, come se la cornice non la chiudesse, ma scaturisse dallo stesso spazio in cui l’immagine - che trova nel gesto la profondità, quasi questa fosse opera sua - si pone come visione: meraviglia nostra, cioè. allo stesso modo, la figura di Cristo non sussiste altrove che in quel luogo/condizione onnipresente che è il dramma da Lui vissuto e la sua gloria. Dove non c’è, perciò, alcuna distinzione fra spazio aperto e spazio chiuso, perché non possono contenerLo; fra interno e esterno, perché non possono delimitarLo; fra divino e umano, indissolubilmente e sovrumanamente congiunti nella persona divina di Cristo. Basta a convincercene la mano che vediamo protesa nel Salvator Mundi a scostare e segnare il velo d’aria o aprire la tela che fa da ostacolo perché lo sguardo di Cristo possa venirci incontro. siamo investiti, invasi dalla forza luminosa dello sguardo di Cristo in questo dipinto come in pochi altri casi. il volto di Cristo riceve, certo, la luce dall’alto, ma quella che riflette verso di noi sembra accresciuta dalla potenza di un volto che è già luminoso: Luce da Luce, Dio Vero da Dio Vero; Cristo, Luce del Mondo. in antitesi al gesto di Tommaso in emmaus, è Cristo che “porta” se stesso, qui, a testimonianza del Fatto che supera ogni annuncio, che spezza ogni limite storico (come sarà prepotentemente proclamato, annunciato da Caravaggio proprio nella Cena in Emmaus: tanto in quella alla National Gallery di Londra, in cui il gesto spartisce lo spazio come spezza il pane e fende il tempo, per inviare, dare il mandato con un gesto che si ripeterà sugli altari, sulle mense del signore; quanto nell’altra, a Brera, dove il pane è già stato spezzato, la luce 1, più diffusa, viene da sinistra e l’ombra è più incombente e Cristo sembra voler fermare, attirare e ricomprendere tutto nel gesto definitivo da cui tutto dipende e in cui tutto è già compiuto). Cristo travalica ogni ostacolo della ragione, sfida ogni esitazione e incredulità: e col suo tocco vuole, più che darci testimonianza di sé, darci certezza di noi stessi. È un Cristo trionfante Colui che antonello ci mostra in quest’opera sublime: nella piena gloria, ma, perciò, senza perdere nulla del suo e nostro senso umano: un senso ritrovato, risorto, salvato anch’esso con


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una presenza, rappresenta il vertice su cui è, piuttosto, la luce a inserirsi e così, a esserne, in un certo senso, illuminata, a emergere come cosa viva, con una intensità che spiana ed esalta le forme e, per la contenuta energia, fa di talune di esse la mano opposta alla luce oltre la superficie del quadro - il precedente più sbalorditivo della visione caravaggesca: così stefano Bottari3, cogliendo un aspetto decisivo di questo capolavoro. e roberto Longhi è altrettanto mirabilmente categorico nel rilevare … il gesto architettonico della Vergine che compie il miracolo, stirando con la sinistra il manto ad includersi in una piramide assoluta roteante sopra un perno cristallino invisibile, motore immobile fino ad incuneare verso di noi lo spigolo che iniziandosi nella piega sulla fronte sfila per lo spigolo facciale, discende oltre l’angolo chiuso del panneggio fino alla prominenza dell’inginocchiatoio. Ma la destra s’avanza inclinata a tentare cautamente il limite possibile del volume; trovatolo, s’arresta, mentre, contrapposto, il libro vibra nell’aria il fendente affilato del suo foglio candido. Nell’interno, sulla colonna del collo si depone lentamente l’avorio incluso del viso su cui virano come sopra un pianeta larghi diagrammi d’ombre regolari.4 parole da cui, nel ritornare all’opera di antonello, riesce difficile prescindere o di cui sarebbe bene non dimenticarsi.

j Antonello da Messina salvator Mundi (Cristo benedicente) 1465/75, olio su tavola, cm 38,7x29,8 ( National Gallery, Londra) i Hans Holbein il Giovane Cristo nella tomba (part.) 1521, olio su tavola, cm 30,5x200 ( Offentliche Kunstsammlung, Basilea) A PAGINA 16

arte

noi; che non può essere affermato senza di noi: e proprio la mano che ci è porta mantiene questo contatto e rende visibile e tangibile questa presenza2. Nell’Annunciata di palermo, la mano della Madonna è aperta e sospesa in un gesto che supera e salda i contorni che ne definiscono geometricamente la figura dalla luce che essa riceve - tessuto luminoso della inconsutile veste di gloria che la avvolge e ne emana quale icona della Chiesa come sposa Mistica -, dando equilibrio e misura umana al kerygma, all’annuncio, alla promessa cui la nostra umanità è sospesa, bensì essendovi già accolta e già amata. È nel gesto, che assesta verso di noi il piano di una visione che vede lievemente sbilanciato il tavolo col leggio e il libro aperto - che secondano gli occhi della vergine e istituiscono un’allitterazione formale con il velo che squadra il volto e cinge la figura: di cui vediamo solo il viso, con gli occhi che ci vedono anche se non ci guardano; esattamente come ci “vede” la mano - che lo spazio acquista risalto e la figura stessa s’inserisce e così, si impossessa anche fisicamente dello spazio che la accoglie, oltre che intervenire attivamente nell’accoglimento dell’annuncio che le è fatto. La mano non spezza, ma fissa il rapporto fra lo spazio attraversato o occupato dalla luce, anch’essa priva di limiti, di spessore, di determinazioni morfologiche; e le articolazioni interne della figura, che ne scandiscono l’immagine. Chiedendo alla luce di non escludere nulla, né una linea né una piega di quella che è una piena coerenza formale e teologale, l’immagine ne attenua l’“impatto” senza frangerne l’omogeneità, modulata secondo l’angolo di incidenza offerto dalla superficie che ne è rivestita. La trama prospettica in cui è inserita la Figura, in quanto determina dimensioni e funzione della cornice che la accoglie, facendo dell’immagine

(Arcangelo Favata)

Alicucio in

Aeternam Crucis 2012, rielaborazione digitale, cm 40x30


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l’ARCO

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marzo | aprile 2012

di Luca Finocchiaro

che e maestranze differenti tra loro. Nell’arco della sua travagliata storia la cattedrale di Nidaros è “morta” per poi rinascere in forme e dimensioni differenti ma pur sempre nel totale rispetto del suo impianto originario, quello di una croce latina. La grandezza della croce in architettura sta forse in qualche modo proprio in questo: nella sua assenza di una dimensione specifica. Contrariamente a quanto accade per figure geometriche compiute, come ad esem-

Non sono uno storico né tanto meno un teorico dell’architettura. semmai un tecnico. Forse anche per questo mi è particolarmente difficile scrivere della croce in architettura. Figura, quest’ultima, come poche, carica di valore simbolico. su di essa sono state costruite nei secoli piccole chiese ma anche maestose cattedrali, a volte intere città. Dal piccolo bow-window del mio appartamento di Trondheim, intravedo,tra le cime degli alberi innevati, l’esile torre che sovrasta il transetto della cattedrale di Nidaros (Nidarosdomen in lingua Norvegese). il volume della chiesa si erge maestoso su una distesa di piccole case lignee. il colore grigio scuro della sua pietra stacca il bianco della neve che la circonda. La costruzione di Nidarosdomen ha inizio nell’anno 1070 e dura circa tre secoli. Le sue mura vengono erette intorno alla tomba del santo re olav Haraldsson, morto nella battaglia di stikelstad del 1030. Fino al concilio lateranense del 1521 la cattedrale è meta di pellegrinaggi santi e sede di un arcivescovato che si estende ben al di là dei confini geo-

grafici della Norvegia includendo Groenladia, isole Faroe, orcadi e isola di Man. Nei suoi quasi mille anni di storia la cattedrale è più volte distrutta da incendi che la privano prima dell’ala ovest della navata centrale (1327), poi dell’intera copertura (incendi del 1708 e del 1719). parte di quest’ultima è presto ripristinata. La navata centrale deve invece attendere il più ampio e ambizioso progetto di ristrutturazione intrapreso nel 1869 e concluso solamente nell’anno 2001. in un secolo e mezzo di lavori viene completata la facciata principale ad ovest con la costruzione di due nuovi ordini di statue al di sopra dei due esistenti di epoca gotica. sono anche costruite le due torri campanarie e una copertura unica sopra la navata centrale. Transetto e abside vengono coperti con esili coperture piramidali il cui slancio è sicuramente più idoneo allo stile gotico della chiesa. all’interno della cattedrale è ancora possibile leggere la storia della sua costruzione nel taglio delle pietre e nei diversi ordini e apparecchiature costruttive che ci parlano di tecni-

pio il cerchio, quello della croce è un sistema aperto. Un intersezione tra due linee capaci di crescere all’infinito ma anche libere di cambiare natura o spessore. Questa caratteristica conferisce alla croce una qualità speciale, quella di poter continuamente reinventarsi, e, come tale, sopravvivere nel tempo.

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interno della Cattedrale di Nidaros i Cattedrale di Nidaros, esterno

QUI SOTTO

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(Fotografie di Luca Fonocchiaro)

Cattedrale di Nidaros, 1857, calcografia


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Ti mettono in croce e poi parlano bene di te. si battono il petto come se … giurano e spergiurano che … come se … Come se? Come se non fossero stati proprio loro a mandarti là. Qualcuno dovevano mandarcelo. Nemmeno uno che abbia parlato in mio favore. Quando contava. Che me ne faccio adesso delle loro lacrime. È che devono farlo. È tutta una recita. È tutto uno schifo. Non dirlo a me. Beh, tu non ti lamenti almeno. È perché non mi aspettavo granché. Tutto il tempo che ho preso è stato tempo guadagnato. Tempo sottratto alla morte. (Ride) Tu l’hai giocata diversamente. Che vuoi dire? Hai fatto confusione, almeno. Non lo so … ti sei divertito. e tu no? Macché. vedrai che si ricorderanno di te. e che me ne faccio? (Pausa, i due paiono assorti ognuno nei propri pensieri) Come credi sia, dall’altra parte? Nemmeno me la ricordo, l’altra parte. ah. C’è un’altra parte? Non lo sai? È che sono di umore nero. Beh, quello pure io. Che ho fatto in questo posto? Hai dei ripensamenti? sarebbe stupido non averli. Considerato com’è andata a finire. Non è ancora finita. No? No.

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versi

Maurizio Scibilia in

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allora? Ce li ho. i risultati? sì. Chi esce? Lui. Cazzo. Già. Non possiamo. Che? Non possiamo farlo uscire. i risultati sono questi. e anche piuttosto chiari. si ma noi non possiamo farlo uscire. Non possiamo. È tutto costruito su di lui. senza non so nemmeno se raggiungiamo la fine. secondo me la stai facendo più grave di quello che è. più grave di quello che è? Mhmh. più grave di quello che è? sì. Quando prendi la prossima busta paga, dai un’occhiata alla cifra che ti danno e ripetiti queste parole, queste precise parole. Non altre mi raccomando. Non facciamola più grave di quello che è. perché è esattamente per questa ragione che ti versano quella cifra, ogni mese, sul conto. perché la fai più grave di quello che è. Ci pagano profumatamente perché pensiamo anche la notte a quello che succede a quei balordi. e perché in qualche maniera li abbiamo convinti che lo facciamo con tutte le nostre energie, come se si trattasse di una … di una scienza, ecco. Hai qualche problema con questo? No. sicuro? sì. (Pausa, durante la quale lei lo guarda fisso) Lui non può uscire, questo è sicuro. Ma la gente non lo vuole. La gente non sa quello che vuole. sembri il capo adesso. il capo ha sempre ragione. Non lo sapevi? (Pausa) Com’è andato Tito? È quello che ha avuto più voti. Facciamo fuori lui. Non ha più niente da dire. Le persone lo amano. Tra una settimana non si ricorderanno nemmeno di chi sia. vive nella sua ombra ormai. sicura? sì. Falli chiamare per annunciare il risultato. ok.

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L’ha presa davvero male, eh? Beh, c’è da capirlo. Da capirlo? sì. È piagnucoloso. sta sempre lì a lamentarsi. Mettiti nei suoi panni. Mi permetto di farti notare che io e te ci siamo nei suoi panni. solo che nessuno si ricorderà di noi due. Questa è la differenza. Mmh. Mentre lui fa il suo show e si conquista tutte le telecamere. Non è per quello che lo sta facendo. ah no? È deluso. Quelli che credevano in lui l’hanno abbandonato. Quelli che credevano in lui … Certo. Quelli che credevano in lui. Non è come noi due. Crede in qualcosa. Crede in qualcosa … smettila di fare il pappagallo. Non serve a nulla. Non serve a nulla … smettila. Non importa nulla che creda in qualcosa oppure no. se alla fine il risultato è che ci troviamo tutti qua. Lui con la sua prosopopea e le sue amicizie importanti e noi due. Noi due non siamo uguali. ah no? Non mi sembri nemmeno così diverso, se non altro visto da qui. Ho una speranza io. Come ho fatto a non accorgermene prima? (Sorride, restando in silenzio) si può sapere che cazzo hai da ridere? Non credo manchi molto. e questo ti mette allegria? sì. Tu sei pazzo. (Continua a sorridere senza parlare) più pazzo di lui.

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epilogo

ragazzi. sì. siamo qui. Dove volete che andiamo. abbiamo i risultati. Li volete sapere? Certo. Cazzo di domanda … Come? sto uscendo pazzo, Chicca. Lo immagino. eeeh. Beh, ci siamo. allora ecco. sto aprendo la busta. Ho davanti a me i risultati. oooh, questa è davvero una sorpresa. parla, vacca. Come? Non sto più nella pelle, Chicca. allora, i risultati. il nominato che deve lasciare la croce è … (tutti restano in silenzio) È… (la tensione è palpabile sui loro volti) È… (persino il pubblico sembra trattenere il respiro) Lo scopriremo dopo una breve interruzione pubblicitaria. (I tre rimangono pietrificati) Non cambiate canale.


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l’AZIONE

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marzo | aprile 2012

di Davide Scandura

Un evento storico in tutti i sensi la prima volta dello zambia, con una cornice da romanzo. vincono i più deboli, perdono i più forti. il giocatore più titolato in campo sbaglia il rigore della vittoria nei novanta minuti, e infine, gli “Elefanti” della Costa d’avorio s’inchinano ai “Chipolopolo” dello Zambia dopo 18 rigori, una serie infinita, quasi commovente. venti anni fa, proprio sopra Libreville (Gabon), un aereo con su una squadra di calcio precipitava mentre era in viaggio verso Dakar per affrontare il senegal: era la nazionale dello Zambia, trenta morti (18 calciatori, 7 funzionari della federazione e 5 membri dello staff), nessun superstite, una “nazione” cancellata e distrutta; il mondo africano conosceva così la tragedia più grande che il suo travagliato corso calcistico ricordi. era il 27 aprile 1993. Quasi vent’anni dopo, ancora a Libreville, la storia del calcio chiude il cerchio di dolore nel modo più bello che lo sport possa regalare: lo Zambia alza al cielo la prima Coppa d’Africa della sua storia. Nella capitale del Gabon, paese organizzatore insieme alla Guinea, si affrontano la corazzata composta da tutti giocatori con esperienza internazionale, e la sorpresa di una squadra giovane, quella zambiana, trascinata oltre ogni sogno dal talento dell’attaccante Mayuka (classe ’90, cannoniere della squadra con 3 reti, unico a giocare in europa, con gli svizzeri dello Young Boys) e dall’abilità del tecnico Renard. Drogba e compagni si presentano in campo forti di un ruolino di marcia impeccabile, fatto di sole vittorie con nove reti all’attivo e zero subite, con i fratelli Tourè a comandare difesa (Kolo) e centrocampo (Yaya, pallone d’oro africano 2011), ed il tridente stellare KalouDrogba-Gervinho. Zambia con il 44-2 e l’appuntamento con la storia di un disastro da “cancellare”. La carica agonistica degli africani mal si concilia con il terreno di gioco ai limiti della praticabilità e tanti sono gli errori nel controllo e nella gestione della palla. Lo Zambia attende gli avversari per ripartire, riservando alla Costa d’avorio l’incombenza di costruire il gioco. al 69’ episodio chiave: Gervinho si invola verso la porta avversaria e viene steso a ridosso del limite d’area. L’arbitro indica deciso il dischetto: Drogba ha sul destro il match point ma spreca tutto incredibilmente calciando altissimo, con Mweene (portiere dello Zambia) che lo irride platealmente. si va ai supplementari e qui è lo Zambia ad avere l’occasione più ghiotta dopo cinque minuti: cavalcata di sinkala sulla fascia destra e palla al centro dove Christopher Katongo colpisce a due passi da Barry, che con il piede tocca in maniera impercettibile ma decisiva deviando

la palla sul palo. Le squadre sono sempre più stanche e non trovano il colpo del ko, si va ai calci di rigore: Bamba si fa parare il terzo rigore ma il penalty va ripetuto per un movimento anticipato di Mweene, la seconda conclusione è vincente e si prosegue senza altri errori a oltranza. Gervinho si rifiuta di andare sul dischetto per l’ottavo tiro, Kolo Touré lo sostituisce e Mweene para. Kalaba ha sui piedi il tiro della vittoria ma spara alto, ancora parità. Nessuno della Co-

sta d’avorio vuole andare a tirare, Gervinho ora non può esimersi, Drogba tenta di tranquillizzarlo parlandogli prima del tiro ma senza esito: palla altissima, e stavolta sunzu non fallisce. Zambia regina d’africa, alla Costa d’avorio le lacrime di una storia che si ripete dopo la sconfitta nel 2006 subita contro l’egitto, in finale, sempre ai rigori. Nella notte di Lusaka (capitale dello Zambia) impazza la festa con canti e balli che consumano un rito tribale che mai era stato applicato al calcio. Uno spettacolo di passione pura, lacrime, balli e preghiere. Lo Zambia realizza il suo sogno più grande e tornano a suonare le vuvuzelas di un popolo in estasi. Grandi elogi vanno all’allenatore francese Hervè renard, ma non va dimenticato che a portare lo Zambia alla Coppa d’africa 2012 era stato il tecnico italiano Bonetti, che allenava gli africani da diciotto mesi. il 10 ottobre 2011 l’allenatore italiano viene infatti esonerato nonostante la qualificazione per la fase finale del torneo continentale. il presidente federale Kalusha Bwalya decise però che Bonetti non fosse in grado di portare la squadra ai Mondiali in Brasile del

2014, al suo posto arrivò così renard, quarantatreenne che aveva già allenato la nazionale africana tra il 2008 e il 2010 prima di passare alla selezione dell’angola e poi al club del UsM alger. Una scelta dettata da idee particolari, visto che l’ex giocatore del Cannes venne scelto perché considerato una specie di “stregone” per la sua singolare attenzione all’aspetto psicologico (che in africa conta più della tattica) e la sua propensione al misticismo. La sua bravura è stata infatti quella di puntare sulle coincidenze. il primo incontro ad esempio, ha messo di fronte agli zambiani il senegal, ovvero lo stesso avversario contro cui stava andando a giocare quella nazionale scomparsa nel ‘93. La fase a gironi, i quarti e la semifinale sono stati giocati tutti in Guinea equatoriale, solamente arrivando in finale infatti, i ragazzi di renard sarebbero riusciti a giocare in Gabon, proprio dove accadde la tragedia del 1993. e poi il “segno” finale, con quel calcio di rigore fallito da Drogba durante la partita. Una serie di sincronicità che il commissario tecnico zambiano ha saputo “usare” al meglio per motivare i propri giocatori e che introduce renard nel ristretto club di francesi che hanno vinto la Coppa d’africa, un trio che comprende anche Claude Le roy (vincente nel 1986 con l’egitto e nel 1988 con il senegal) e roger Lemerre (che vinse nel 2004 con la Tunisia). Una menzione a parte, in questa storia, la merita Kalusha Bwalya, stella di quella nazionale “caduta” nel ‘93, che non viaggiava su quell’aereo ma su un altro proveniente dall’olanda, dove lui giocava nel psv eindhoven. alle olimpiadi di seul 1988 lo Zambia venne inserito nel gruppo B in compagnia di iraq, Guatemala ed italia, e, se le prime due compagini sembravano abbordabili per la selezione zambiana, gli azzurri apparivano un ostacolo insormontabile. Tradendo invece qualsiasi logica precostituita, lo Zambia diede una lezione di calcio agli azzurri in evidente stato confusionale: 4-0 il punteggio finale, con tripletta di Kalusha Bwalya. Una squadra che aveva cominciato a farsi notare quello Zambia. Un appassionato e vibrante gruppo di giocatori che stava conquistando la scena mondiale. poi la tragedia, con Bwalya che divenne il simbolo della rinascita del calcio dello Zambia. Da quel giorno di primavera del 1993, Bwalya ha dedicato la sua vita cercando di completare il viaggio che lui e i suoi compagni avevano cominciato insieme quasi due decenni fa. La sua angoscia lo ha proiettato nella missione permanente di portare lo Zambia ai

vertici del calcio africano fino ad arrivare alla carica, che occupa tuttora, di presidente federale. Dal 1993 il suo impegno è stato implacabile: ha condotto una decimata nazionale alla Coppa d’africa del 1994 pochi mesi dopo l’incidente; ha giocato fino a 40 anni, cercando disperatamente di aiutare lo Zambia a qualificarsi per la Coppa del Mondo; e poi la nazionale l’ha pure allenata. La decisione alquanto coraggiosa di esonerare Bonetti e richiamare renard alla vigilia del torneo è stata tutta sua, ed evidentemente ci ha preso. se c‘è una connessione tra la squadra 1993 e quella del 2012 lui l’ha trovata. Quel sogno di portare gloria all’intero Zambia ha legato le due squadre. Una generazione è stata persa, ora un’altra è finalmente pronta a prenderne il posto. Adesso le anime dei fratelli morti quel giorno potranno finalmente riposare in pace, sono le parole dell’attaccante Felix Katongo, che fanno capire quanto epico sia il significato di questa vittoria. “in memory of 1993, you are playing home” (“in memoria del 1993, si sta giocando in casa”), era il cartello mostrato dai giocatori dello Zambia nel ricordo della tragedia di un paese che da oggi per dimenticare il dolore avrà un trionfo da celebrare, arrivato al terzo tentativo dopo la sconfitta contro Zaire (1974) e Nigeria (1994). Un paese in cui la realtà simbolica acquisisce sempre un’importanza particolare. Una nazione in cui convivono circa settanta differenti gruppi etnici, con forte coscienza nazionale, basato sulla produzione di rame, il nome di “Chipolopolò” (letteralmente: “proiettili di rame”) viene proprio da questo, che sta provando a rilanciarsi pure grazie al turismo. Una vittoria scritta nel cielo che lega il “sacrificio” al trionfo. Le ali di quell’aereo caduto hanno sostenuto l’entusiasmo di atleti che hanno prevalso anche sulla superiorità tecnica dell’avversario. Una squadra senza grandi stelle internazionali, lo Zambia, un’esperienza catartica che ha lasciato pochi dubbi sul fatto che si possa vincere senza avere grandi qualità tecniche, ma semplicemente credendo in se stessi ed in un Dio, come palesemente mostrano i segni della croce e le preghiere durante ogni partita del torneo, che avrebbe restituito ad un intero paese ciò che gli era stato tolto. anche la tragedia del ‘93 ha svolto il suo ruolo nella vittoria, non solo di una squadra, ma di un intero popolo; forse è anche questo il segreto dello Zambia campione d’africa.

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i giocatori dello Zambia esultano stringendo l’ambita Coppa d’africa (immagine dal web) A PAGINA 21

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di Pippo Bella

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proposito di caccia, il caid mi disse che nei dintorni di Tetuan vengono spesso delle tigri e a volte anche leoni; quando uno di questi animali divora la vacca di un montanaro, questi non si dà pace finché non l’ha ucciso e mangiato. (J. potocki) simon Coen ha gli occhi socchiusi, le labbra curvate in una smorfia di sarcasmo; sissì, la chihuahua, si dimena tra le sue braccia emettendo uggioli di disappunto. “voi italiani, così affezionati ai vostri giornali… Li cercate anche all’estero. È un’abitudine provinciale, lei non crede?” dice simon rivolto a me, con voce esile. “È cosa buona in viaggio avere una pausa di oblio, lasciarsi le banali realtà domestiche alle spalle.” Mi rifugio, disarmato, in un sorriso; non ho la prontezza di ribattere a tono, adeguandomi alla svogliata casualità delle conversazioni che avvengono qui in giardino. simon Coen è persona colta; dirige l’albergo Caifa, un cinque stelle, sul lungomare di Tangeri. ebreo di nascita, parla e scrive in non meno di sei lingue. Ha imparato l’italiano da pochi mesi, spinto dal bisogno. Giancarlo, che con lui convive, viene da roma appunto. Giancarlo è il proprietario di questa villa, stile coloniale, primo Novecento, tutta bianca, abbagliante nel sole, un rigoglioso giardino la circonda. sediamo per colazione come ogni mattina non prima delle undici, all’aperto; tira una leggera brezza da giù, dalla marina. Mi ero alzato per primo dalla poltrona, gli altri ancora traccheggiavano e Giorgio, mio fratello, fumava fissando i cespugli d’ibiscus, i

plumbago rampicanti e la datura che si agitavano al vento con tutti i loro colori smaglianti. solo simon aveva fatto caso alla mia decisione di uscire in cerca di giornali; il resto del gruppo era rimasto indifferente, chi a fumare, come Giorgio, sperso nei suoi pensieri torpidi del mattino, chi a ciondolarsi tra bagno e sdraio, senza progetti. rivolgo un cenno di saluto a simon e scansando Brandy, il cane mite, mi imbatto in Maometto, che in uno dei suoi andirivieni attraversa in quel momento il semibuio del gran vestibolo. e’ il servo casigliano. Quando ride mostra un antico carbone di carie in bocca, due o tre molari gli pendono dalla mascella tutti storti. Conduce una vita esigua, più da cane che da servo. e ha infatti, come casa, un gabbiotto, un’umida cuccia di cemento aperta sul portone d’ingresso della villa. si muove sempre a occhi bassi; scrolla la testa di qua e di là, come se cercasse per terra qualcosa di se stesso, qualcosa di perduto; e quando risolleva lo sguardo è per scusarsi. Quest’uomo estremo mi è simpatico. riusciamo a capirci, sebbene lui usi un fitto marocchino e io con lui un siciliano stretto. Dunque, Maometto mi saluta interrompendo con un sorriso la sua inesausta quanto vana ricerca e, come ogni mattina, mi ripete il prezioso decalogo, le norme di condotta per evitare la peste dei rivenduglioli. sono ormai sulla porta quando dietro di me sento il rumore dei passi di Giorgio; ondeggiano. Non l’ho ancora notato bere, ma che sia già ubriaco? il mio breve incontro con

Maometto gli ha dato il tempo di raggiungermi, certo andrà a rinchiudersi in qualche stanza. Del resto ho rinunciato presto a insistere per averne la compagnia. Mai che abbia accettato di stare insieme con me, in questi giorni, di uscire per le vie di Tangeri; è come rinserrato nella sua indolenza, incline al malumore. ecco però che Giorgio mi chiama con voce inaspettatamente sicura e limpida, con l‘eco dell’entusiasmo di una volta. scolpiva; per circa dieci anni, dopo il diploma in accademia, aveva lavorato come un ossesso, ma di punto in bianco aveva smesso. Lo invidiavo per questa passione, ma anche perché non mancava un colpo con le donne. Mi dice di aspettarlo, che si cambia in un momento. Le bettole effondono nell’aria fumi di fritture e bolliture, odori di crostacei e di montoni; le mosche migrano a nugoli dove un altro miasma si levi più seducente. il traffico della strada è un cafarnao, uno sciamare di turisti e residenti che scansando il transito delle vetture, parte si avviano al souk lì in cima alla salita, parte entrano in certi angusti bazar stipati di robaglia. Noto che Giorgio in quel brulichio si muove disinvolto, ciò si spiega facilmente: vive a Tangeri da più di un anno. siccome né io né lui portiamo addosso i contrassegni del turista, la torma dei ragazzini, dei procacciatori di buoni affari nei bazar e dei prosseneti di amori misti, non ci degna di alcuna considerazione. Giorgio è più alto di me e cammina a vigorose falcate, molto presto

mi ha lasciato indietro; correndo mi riporto al suo fianco. Finora non ha aperto bocca. L’ho trovato ingrassato, al mio arrivo a Tangeri. in aeroporto, lo riconobbi subito per la statura svettante. La sua testa, dai riccioli di un biondo unto e grasso, stanco, di una opacità ramata, mi colpì con un senso quasi di dolore. siamo entrambi quarantenni. Gli sono maggiore di appena un anno. Tranne la statura, ci somigliamo parecchio. Ma quell’anno, quell’unico anno, ha scavato tra me e lui un solco profondo. Lontananza incolmabile: che tuttavia ho tentato di ridurre. eravamo, allora, intorno ai trent’anni. per un breve periodo, dopo la morte dei nostri genitori, Giorgio sentì il bisogno di starmi vicino. No; non per trarne conforto. era rabbioso, mi insultava, come se fossi stato colpevole della loro morte; poi si pentiva. L‘ombra di nostro padre si era allungata su di me fino a coprirmi. Giorgio disprezzava quell’uomo mite ma fazioso: ero stato il suo prediletto. per una settimana non uscimmo da casa. poi una mattina presto aprendo gli occhi notai che il suo letto sul lato opposto della stanza era vuoto. L’armadio mostrava le ante spalancate; mancava la sua roba. era d’inverno. Un’alba dello stesso colore livido del tramonto minacciava ancora pioggia; per lunghi giorni, ne era caduta sporca di un pulviscolo giallastro. A DESTRA

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l’APOSTROFO + l’ASCOLTO

L’IMMAGINE APERTA Motivi dell’incarnazione nelle arti visive di Georges Didi-Huberman Bruno Mondadori | 2008| pp. 308 Georges Didi-Huberman è storico dell’arte, critico e filosofo francese. il ventaglio dei suoi interessi e il numero e la qualità delle sue pubblicazioni ne fanno una delle figure più originali nel panorama culturale contemporaneo. i campi di filosofia, estetica, storia e critica d’arte sono contigui, e tutto sommato sconfinanti. Ma Didi-Huberman padroneggiandoli, tutti, con straordinaria perizia filologica ed interpretativa, riesce pure a rimescolarli, trasfigurandone i lineamenti in nuove costruzioni di senso. il libro che qui recensiamo è da questo punto di vista esemplare. esso contiene saggi scritti dall’autore (nato nel 1953) dal 1985 al 1990. in apertura della raccolta un’introduzione scritta dallo stesso Didi-Huberman per l’edizione originale del libro, pubblicato per la prima volta in Francia nel 2007, ci spiega qual è il filo condut-

a cura di Clap Bands Magazine

SOGNO N° 1 Fabrizio De André

London Symphony Orchestra diretta da Geoff Westley sony Music | 2011

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tore che li lega assieme. in breve, la sfida è quella di dare forma ad una antropologia delle immagini. per spiegarci meglio, le immagini che arrivano fino a noi sono sempre filtrate da una griglia visiva che è sempre già pregiudicata da una certa lettura univoca, limitante e forse anche rassicurante. esse sono per esempio valutate secondo una visione idealizzata (anche l’imitazione della natura è in fondo una idealizzazione, del “vero” naturale) oppure trascese in un immaginario metafisico (di tipo spirituale, filosofico o religioso). in questi saggi assistiamo, invece, al tentativo di “ridurle” alla loro condizione antropologica, che è poi quella che misura l’urto, l’impatto dello sguardo, il nostro, con la loro profondità corporale, con la loro nevrotica incarnazione di temi sacri e profani. per dirla altrimenti, l’autore ci invita a scavare oltre la superficie delle metafore, delle analogie, delle allegorie che fungono da semantica ufficiale, intenzionale delle immagini, per concentrarci piuttosto sulla metapsicologia carnale, umorale, indicibile della loro produzione. il libro dunque ha a che fare, ci dice l’autore in apertura, con la questione cruciale delle stigmate. e questo perché nelle immagini più spiritualmente ispirate, più metafisicamente toccate dalla grazia, proprio lì, l’autore vede agire un sintomo, un “chiodo isterico, nel quale la carne diviene essa stessa il mezzo della propria crocifissione”. ecco allora aprirsi una doppia visione delle immagini. Una visione metaforica, ideale, in cui è raffigurata “in presenza” una astrazione spirituale, trascendente, ed un’altra impensata perché inconscia, sintomale, aperta alla convulsione isterica. se si tiene conto di questo approccio, si capisce allora perché la simbologia della carne che passa

per le immagini di corpi crocifissi, martoriati, è quella che più porta in sé il suo controsenso, ovvero la carne pensata fuori dal suo referente simbolico. e dunque abbandonata alla pura isteria. seguendo questo filo, le piaghe cambiano di segno, e da metafisici segni dell’aldilà, si aprono al crudo accesso del “reale”, inteso questo come l’inassimilabile, il refrattario alla assunzione simbolica. in questo modo le ferite di Cristo in croce si trasformano in suppurazioni purulente che inghiottono il senso dell’immagine nell’informe, nel dissimile, portando lo sguardo avveduto in una precipizio dove la “logica” della visione si infrange nel delirio visionario (già san paolo parlava della follia della croce). Le stesse visioni mistiche, secondo questo movimento, questa metamorfosi, si intrattengono al di qua del divino in prossimità dei corpi, impastandosi di tenebra, erotismo, mortificazione dei desideri corporali e imprecazioni contro la concupiscenza della carne. per questa impresa Didi-Huberman prende a prestito da Georges Bataille il temine di “immagine aperta”. Questa è l’immagine inquietante, atroce del supplizio per scarnificazione di un giovane cinese, scattata a pechino agli inizi del secolo scorso e offerta a Bataille come “dono-veleno” dal dottor adrien Borel nel 1925. Bataille è ossessionato da questa immagine. in essa lo attrae il puro orrore senza scopo, senza redenzione, senza salvezza e significato. il supplizio del cinese è una sorta di crocifissione laica, disertata dalla speranza, disperata. senza resurrezione. il Figlio di Dio muore, non resuscita, il suo corpo resta per sempre chiuso nel suo sepolcro a decomporsi, a testimoniare una morte infinita. La dialettica teologica, ci dice Didi-Huberman “si blocca

La via di ogni croce Non temo di sembrare antiquata, se per parlare di croci scelgo quelle de La Buona Novella, capolavoro di Fabrizio De andrè del 1970. Due brani tratti da quest’album, Tre madri e Laudate hominem, fra l’altro, sono stati recentemente inseriti in sogno n.1, omaggio della London symphony orchestra al cantautore genovese, che ne rilegge in chiave sinfonica dieci. e’ anche grazie al musical messo in scena nella mente da questo disco se, tra le tante immagini con cui ti riempiono la testa sin da piccolo, personalmente adesso rimangono altre scene a narrare la vita del nazareno, che, a dirla tutta, è in realtà il grande assente nei testi delle canzoni, perchè questa è la storia di altre croci, come sempre nella poetica di De andrè, è la storia degli uomini, dei singoli, della varietà dei sentimenti umani e di un’uguaglianza senza tempo che è solo quella di trovarsi davanti a un cammino da aprirsi da soli e percorrere. in anni di rivolte e contestazioni, un disco ispirato da alcuni tra i vangeli apocrifi, così chiamati letteralmente perchè “nascosti” rispetto a quelli canonici e ritenuti non facilmente comprensibili, non era un messaggio di conciliazione o di ritorno al

passato, bensì un sottile e melodico rafforzamento del rifiuto delle “autorità”, del diritto alla diversità, della necessità di chiarire che la strada non è una sola e decisa dall’alto, ma anche di un sentimento di umanità. Così Maria accetta una strada da Parole confuse nella mia mente, svanite in un sogno, ma impresse nel ventre, andando sin da piccola, non senza sofferenze e confusione, fra l’altra gente che si raccoglie attorno al tuo passare in mezzo a una siepe di sguardi, così come il vecchio Giuseppe, “padre per professione” che, dopo quattro anni lontano per lavoro, al ritorno asciuga le lacrime di una moglie bambina col pancione; ma ciò non fa meno divine tutte le madri che, Femmine un giorno e poi madri per sempre nella stagione che stagioni non sente, vedono soffrire o morire un figlio. Piango di lui ciò che mi è tolto, le braccia magre, la fronte, il volto, ogni sua vita che vive ancora, che vedo spegnersi ora per ora, nient’altro che una madre spiega così alle madri dei due ladroni in croce che il loro dolore è lo stesso, che anche suo figlio è “vita morente”. Non riesco a non pensare all’immagine del corpo smunto e tumefatto di stefano Cucchi in un gelido sacco di obitorio, che morì solo mentre la madre cercava di raggiun-

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nel suo momento di antitesi, di ateologia”, nel suo negativo. L’aporia, il paradosso consiste nel fatto che Bataille vuole rivivere questa negatività, questa sospensione di senso, con una immedesimazione totale, cercando lo shock di una “esperienza interiore” senza mediazioni. rivivere l’impossibile è una aspirazione, un gesto eroico e furioso del pensiero, non una realtà. e dunque l’immagine resta aperta. aperta perché sempre visibile, lo sguardo la interrogherà in continuazione, ossessivamente, ma anche perché abissale nella sua mostruosità, nel suo statuto incomprensibile. in definitiva Didi-Huberman vuole dirci che le immagini non sono mai oggettive, vivono sempre di un incontro duale con lo sguardo che le coglie, le attualizza, le “forma”. esse, per utilizzare un suggerimento della psicanalisi, esprimono una domanda di riconoscimento, aspettano dallo sguardo una relazione con-validante. La convalida però resta sospesa a mezz’aria, perché l’immagine, se si procede oltre il visibile apparente, apre allo sguardo squarci inquietanti più che figure, fa intravedere l’informe più che la forma, il dissimile più che il somigliante, e fa più spazio al sintomo che alla clinica. Tutto questo Didi-Huberman ce lo espone con uno stile brillante, importanti illustrazioni ed una messe di esempi che mettono in campo una prodigiosa erudizione che va dall’arte degli antichi greci alle avanguardie artistiche del novecento, passando per i padri della chiesa e l’iconografia medievale. Mario Guarrera

gerlo, ogni volta che ascolto questa canzone. Ma è dal “den den” del martello che cava le tre croci dal legno che, come dal martello di un giudice, si leva il pensiero di un cantautore sull’essere uomini in mezzo agli uomini, in mezzo all’avidità di potere, al dolore, alla viltà, all’ipocrisia, a pochi affetti sinceri e duraturi e a farisei d’ogni fede, che sanno a memoria il diritto divino e scordano sempre il perdono.Èquesta la “via della croce”, quanto facilmente si dimentichi e si tradisca, come chi ti ama lo faccia nonostante tutto fino alla fine e come ogni uomo risponda per quello che riceve dal mondo in cui nasce, bene o male, ci sono leggi per giudicare e pietà per comprendere. Io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore, sono queste le ultime parole del “Testamento di Tito”, un umile ladrone che non ha rispettato le regole, che in punto di morte confessa quelle che ha seguito per non essere schiacciato da coloro che fingono di rispettarle e restano impuniti, ma che è rimasto fino alla croce un uomo. Nina Della Santa


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­LETTURA Nuccio Squillaci

Nasce a Catania nel 1961. Dopo aver conseguito la maturità artistica, ha frequentato l’istituto europeo di design a roma e si è laureato all’ accademia di Belle arti di Catania. il suo percorso professionale si divide in tre diversi filoni di ricerca: la grafica pubblicitaria, della quale è docente all’istituto statale d’istruzione superiore “v.e. orlando” sezione arte di Militello in val di Catania; l’illustrazione, è stato per diversi anni socio dell’ Associazione Illustratori di Milano che lo ha inserito in diverse pubblicazioni e ha partecipato a vari concorsi e mostre, in italia e all’estero; infine, la Pittura, che nell’attuale periodo di ricerca si divide in due ordini conseguenti: il primo di sapore intimistico ed il secondo caratterizzato dalla realizzazione di un personale tessuto informale. Ha esposto in diverse mostre collettive e tra le personali ricordiamo: Studio Nuccio Squillaci, 1985 , Catania; Con Arte, La porta rossa, 1993, Catania e Mos Multimediali officine sperimentali, Milano; Carte, Bottega delle arti, Bagheria (pa); Irripetibili ambiguità, Chimù Design, 2007, Casteldaccia (pa); Cosmogonie, 2007, palazzo aragona Cutò, Bagheria (pa), a cura di a. pes. Hanno scritto di lui: G. Brancato, G. Giordano, G. iovane, F. Gallo, a. Lombardi, p. Montana, i. palmeri, a. Greco Di Bianca Titone, M. Corsaro, M. andronico, G. Labbrosciano, M. palminteri, a. pes, s. Mangiameli, N. D’alessandro..

Errata Corrige Nel n. 2 (Gennaio/febbraio 2012) a pag. 12 nell’articolo Un incontro di Mario Guarrera, le fotografie a corredo sono di simone Paratore; ci scusiamo con l’autore.

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Progetto editoriale, Concept, Direzione creativa Luca scandura Hanno scritto e collaborato in questo numero

p. Bella, G. Carrubba, D. Cascone, N. Della santa, M. Demattè, r. Digiacomo, a. Di silvestro, o. Fazzina, a. Favata, L. Finocchiaro, r. Giudice, M. Guarrera, G. rizzo, M. romano, M. rossi, D. scandura, M. scibilia, N. squillaci

Tiratura 7.000 copie Registrazione

in attesa di registrazione

Direttore Responsabile Gianni Montalto Editore di Luca scandura via Giuseppe vitale, 29 95024 - acireale (CT) Redazione redazione@new-link.it via Giuseppe vitale, 29 95024 - acireale (CT) Progetto grafico LucascanduraDesigner Stampa eurografica srl s.s. 114 orientale - Cont.da rovettazzo 95018 - riposto (CT) è vIETATA LA RIPRODUzIONE ANCHE PARzIALE ALL RIGHT RESERVED

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COVER

La copertina di questo terzo numero “Speciale Mongrafico” di Newl’ink continua il ciclo di Cover realizzate dalla nostra redazione attraverso la diretta collaborazione e sinergia con l’operato dell’artista invitato a realizzare l’opera che interpreterà il tema sportivo del bimestre. Il nostro Direttore Creativo interverrà così, manipolandola (di volta in volta), sull’immagine di un’opera fornita dallo stesso artista per darle un significato nuovo, renderla immagine in libertà, emblematica attualizzazione di un contenuto nostro.

Luciano vadalà nasce ad acireale nel 1967. Nel 1995 consegue il Diploma all’accademia “Michelangelo” di agrigento. Nel 1997 realizza dei pannelli scenografici per il film Palombella Rossa di Nanni Moretti. Nel 2000 vince il Concorso Nazionale Opere d’Arte, indetto dal Ministero per i Lavori pubblici di palermo con permanente destinazione dell’opera presso l’aula Giudiziaria nel Complesso penitenziario di Bicocca (CT). vive e lavora ad acireale. Mostre personali 1991, palazzo di Città, acireale; 1996, palazzo di Città, acireale; 1996, Galleria d’arte Gnaccarini, Bologna; 2006, Luciano Vadalà. Il rosario della carne, Galleria degli archi, Comiso; 2010, La carne e l’anima, Galleria edonè, vittoria (rG). Mostre collettive 2002, Studi Aperti, Torino, acireale, Catania, strasburgo a cura di pio Baldi, anita Tania Giuga; 2002, premio di pittura villa s. Giovanni vi edizione, Hotel de la ville, villa s. Giovanni;

2003, Mappe dell’Arte nell’Isola - Sud Est, Castello dei principi di Biscari, acate, a cura di paolo Nifosì; 2004, Studi Aperti, acireale, Catania, a cura di anita Tania Giuga; 2004, 43 artisti per Kaos: la magnifica visione, Galleria degli archi, Galleria Lo magno, C.a.r. Bmw, Comiso, Modica, ragusa; 2006, I segnali dell’aurora – Nuova generazione artistica catanese, Galleria d’arte Moderna “Le Ciminiere”, Catania, a cura di angelo scandurra; 2007, 13x17 - www.padiglioneitalia, Berengo studio, Murano (ve), a cura di philippe Daverio; 2008, ContemporaneamenteViola, Galleria art’è, acireale, a cura di Calusca; 2008, GreenSplash, villa Di Bella, viagrande (CT); Galleria degli archi, Comiso, a cura di Calusca; 2008, Arte al Cubo II Edizione - Memorie del sogno, Chiostro ex Liceo Gulli e pennisi, acireale, a cura di antonio Di Giovanni, vanessa viscogliosi, alessandro Fangano; 2008, Vannino, novant’anni di minuti d’oro, a cura di salvatore schembari, Galleria degli archi, Comiso.

j Nuccio squillaci 001 - Momenti, 2012, pastello su carta, cm 31,5 x 22 (part.) SOPRA AL CENTRO h Luciano vadalà Crocifissione, 2012, olio su tavola, cm 52 x 37,5 IN ALTO

(OPERA FORNITA PER COVER)

J Luciano vadalà vittoria incrociata, 2012, tecnica mista su carta, cm 31,5 x 22 SOPRA A DETRA, DALL’ALTO

(OPERA REALIZZATA PER LA PAGINA SPORTIVA)

figuraletto 2, 2007, olio su tavola, cm 50 x 60 A PAGINA 24 A DESTRA f Louis Carpeaux supplizio di fou-Tchou-Li, 1905, fotografia

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