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novembre - dicembre duemilaundici

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di Marica Rossi

PALAZZO GRIMANI a Santa Maria Formosa 4 luglio | 27 novembre 2011 Calle Grimani, 4041 Venezia

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Andar per. . . Biennale a Venezia, con la selva di proposte e kermesse che il pirotecnico Sgarbi fa uscire dalla sua manica di prestigiatore, non è semplice. E’come attraversare una foresta fitta di alberi intrecciati a teneri virgulti, sostando poi, fuori dai sentieri consueti, in radure ospitali dove grandi artisti di un recente passato sono a rinnovellare l’habitat della contemporaneità. E’ il caso dei Nudidi Fausto Pirandello a Palazzo Grimani, la mostra-evento aperta fino al 27 novembre e ora in coincidenza con questa oceanica Biennale di Arti Visive, presentata da Sgarbi stesso. Un nucleo (fra cui sei pastelli inediti) con venticinque creazioni rivelatrici del vocabolario e dei motivi ispiratori nella produzione di questo pittore talora sottovalutato, rivisitato vent’anni fa e oggi annoverato tra gli artisti più interessanti e singolarmente intrisi di zeitgeist del secolo scorso (Roma 1899 - Roma 1975). La mostra rientra anche nelle iniziative speciali per le celebrazioni dell’Unità d’Italia trattandosi del figlio di un premio Nobel che fu figura di riferimento per il Novecento Italiano, allo stessomodoincuilapitturadiFaustonerispecchiò inquietudini e sensibilità, i drammi e i volti. Entrando nel tema del nudo, specie il nudo femminile, va ricordato che fu coltivato da Fausto in tutta la sua produzione, concepito secondo una intuizione che raffigura il peso del corpo nel tormento del pensiero e della psiche umana. Sono corpi “spogliati” prorompenti, dirompenti, resi ancor più affascinanti da una matericità che non è mai greve e che a noi oggi è dato di ammirare in tutta la complessità del suo iter creativo perché arte molto inda-

Mostra a cura di Vittorio Sgarbi Mostra organizzata e prodotta da Arthemisia Group Iniziativa speciale promossa dal Padiglione Italia alla 54. Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia in occasione del 150° dell’Unità d’Italia INFO www.arthemisia.it

gata nel corso delle recenti mostre grazie a studi aggiornati. Il percorso espositivo si apre con Nudo in prospettiva del 1923, seguito dalla brillante composizione con Nudi e pantofole gialle dello stesso anno. Del 1928 è invece Nudo su fondo bianco, che tanto sarebbe piaciuto nella sua “grossa coscia” aLucian Freud, artista che Vittorio Sgarbi accomuna al Nostro fino a voler ipotizzarne il “dittico” con i nudi dei due pittori. Un dialogo che ne renderebbe palese la vicinanza in quanto tormentati da una situazione psicologica evidente nei nudi di ognuno, che sono una estrinsecazione del complesso di Edipo sia nell’eterosessuale Fausto sia nell’omosessuale Lucian, esprimendoaltresìilmalesseredeipatimenti sofferti da entrambi per la forza e la gigantesca personalità l’uno del padre Luigi, l’altro di Sigmunddicui Lucian eranipote.Analogie che pure il critico australiano Robert Hughes ha riscontrato nella fase pittorica che Fausto visse fra il 1923 e il 1940, dove la serie di nudi di uomini e donne possiedono nella materia, nella posizione e nell’intreccio dei corpi una straordinaria affinità con i nudi di Freud, drammatici, intensi, densi di consistenza pittorica come equivalente della carne. Io non so, ha detto Sgarbi al taglio del nastro a Palazzo Grimani in Santa Maria Formosa, se Freud abbia mai visto le opere di Pirandello. Né se le abbia viste senza essere consapevole che quelle suggestioni del profondo della memoria venivano da un pittore italiano poco conosciuto nel mondo. O se forse sia nel rapporto con il nonno o con il padre, l’ossessione del corpo femminile, di un corpo come grande madre, un corpo avvolgente, senz’anima, perché i corpi sono lascivi, pesanti, desideranti, erotici ed incombenti. Certo è che mentre un volto rivela l’anima, questi corpi la nascondono e non fanno dimenticare che al loro interno c’è una coscienza, una sensibilità tormentata che si riflette anche sulle deformazioni dei corpi. E allora, non una mostra di confronto tra i due, bensì un percorso fra i nudi di Pirandello. La rassegna, inoltre, documenta il passaggio di Fausto dal nudo in posa, singolo, alle bagnanti, che prelude ai nudi davanti al mare (il mare della Sicilia!), sulle spiagge che arriveranno fino alla scomposizione astratta e lineare delle opere della piena maturità negli anni ’50. Tra le creazioni degli anni ’30 e queste ultime, il colore manifesta una sua differente resa: emerge dalle prime una materia apparentemente più magra eppure sempre volta a dare il senso e quasi il sudore, l’odore della carne; nelle seconde le cromie sono a sottolineare effetti di nudi frantumati, feriti, come lo è il Nudo seduto del 1948 o il piccolo Nudo l’anno dopo, materico, compatto, o nel ’50 il corposo e pesante Donna con gli occhi azzurri. La vitalità della materia è poi straordinaria nel lussuoso Nudo su fondo rosso del ’51 e nella mirabolante Figura riversadel 1953, seguiti da dipinti sotto lo stimolo di un’estetica tracciata da Lionello Venturi che nel 1954 dedicò un saggio fondamentale alla pittura di Fausto Pirandello. Giusto notare che l’anatomia delle figure prevalentemente colte nella loro

fissità è così magistrale per quanto appreso all’accademia di nudo e prima ancora a quella scuola di scultura e dalle frequentazioni dello studio di Sigismondo Lipinskj cui il padre l’aveva avviato. Attività che Fausto dovette lasciare perché la polvere dimarmoelastessacretagliirritavanoipolmoni. Passando alla pittura, ecco la felicità del suo “alunnato” presso Felice Carena, unitamente alla scoperta di un luogo magico come Anticoli Corrado dove Carena teneva un atelier ben frequentato. Ed è stato proprio il ricordo del lungo dimorare in questo piccolo borgo, famoso per essere il paese degli artisti e delle modelle una delle quali, Pompilia D’Aprile, diventerà sua moglie, a diventare argomento principe nella breve rievocazione del figlio, il primogenito di Fausto invitato per l’occasione da Sgarbi. Quel PierLuigi cui il celebre nonno venuto a soggiornarvi per star lontano dai fastidi della notorietà da premio nobel,feceunritratto,perchéancheilfamoso drammaturgo amava la pittura. Ne è uscito un “interno” di famiglia a tinte vivaci, dove i litigi erano frequenti ma dove l’arte di Fausto poté esprimersi connotandosi di quelle peculiarità che le figure definite da Pierluigi “cremose”rappresentano con icastica fragranza.

h Nudo seduto 1954-55, olio su cartone, cm 72,5 x 52 collezione privata, Roma SOPRA

j Nudo seduto 1948, olio su cartone, cm 105 x 72 collezione privata, Roma IN ALTO

A SINISTRA

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Vittorio Sgarbi e Pierluigi Piarandello alla vernice davanti a Nudo in prospettiva del ‘23 ©Pierluigi Siena per Arthemisia Group


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di Marica Rossi Land Art, Body Art e Performance Art. Leo Castelli, figlio di un banchiere, era nato a Trieste nel 1907. Nel 1933 sposò Ileana. Nel ’35 si trasferirono a Parigi e, grazie alle generose sovvenzioni del padre di lei, Mihai Schapira magnate rumeno, vi aprirono nel 1939 una galleria proprio mentre scoppiava la guerra. Dal 1941 furono a New York dove nel 1957 Leo fondò l’omonima galleria che è un pezzo di storia dell’arte contemporanea. Tra i fiori all’occhiello, sempre con Ilea-

Due alla Guggenheim, casa museo veneziana di Peggy, gli eventi principi dell’estate 2011. Sono stati entrambi dedicati a Ileana Sonnabend: l’esposizione di opere scelte della sua celebre collezione; e il battesimo del libro Leo Castelli& Ileana Sonnabendedito da Johan&levi, tradotto per l’Italia da Manuela Bertone. Un dittico che la vede al fianco del primo marito Leo, giacché anche dopo il matrimonio di lei con Michael Sonnabend, i due rimasero soci inseparabili, come evidenzia-

to dal sottotitolo del volume “La leggendaria coppia dell’arte e la loro Venezia”. Della pubblicazione è autrice Annie CohenSolal intervenuta alla presentazione nei giardini di Palazzo Venier dei Leoni, con Nadia Bassanese, Attilio Codognato, Hantonio Homem. Aureolata ne esce soprattutto l’avventura di questi due rabdomanti che portarono alla luce da noi i talenti americani dell’Espressionismo Astratto, e di Pop Art, Minimalismo, Arte Concettuale, Fluxus,

na, è l’aver diffuso l’arte di Jasper Johns, sostenuto Robert Rauschenberg, che alla Biennale di Venezia nel 1964 vinse il Leone d’Oro, e Frank Stella. L’unica differenza tra i due agguerriti collezionisti è che Ileana, dopo il 1957, accentuerà la sua predilezione per gli artisti della nostra penisola, e per Venezia e i fasti della laguna (dove per anni trascorse le vacanze). Infatti la sessantina di opere della collezione di Ileana Sonnabend ora esposte

A Bordighera: Villa Bordighera, perla della riviera di ponente nell’odorosa terra della ligure Imperia, non è soltanto luogo di declivi e costiere inebriate di quella luce e di quei fiori che ispirarono Monet, ma un ambito di emozione evocativo, carico di storia e di poesia. A renderlo più ricco d’ora in poi è la serie di eventi culturali inaugurata per la riapertura di Villa Margherita, la residenza più amata dalla prima regina d’Italia. Situata lungo il percorso della Via Romana, è l’edificio in cui tra perle e rose la regnante trascorse gli anni della sua vedovanza continuando a proteggere le arti e ad eccellere in un mecenatismo illuminato come la scuola del merletto da lei avviata a Venezia e in onor suo riaperta per le celebrazioni dell’Unità. Il visitatore estivo di Bordighera, grazie al restauro della Villa appena ultimato, avrà avuto il piacere di farsi un giro per le stanze abitate dalla mitica sovrana, ammirando contemporaneamente due belle esposizioni: la permanente con la Collezione Terruzzie la mostra (chiusalo scorso 18 settembre) Margherita, Regina d’arte e cultura. La Villa fu progettata nel 1914 avendone la sovrana dato incarico a Luigi Broggi, (al-

lievo di Camillo Boito a Milano) che ne fece un gioiello settecentesco di ispirazione lombarda (resa però agreabile da comodità come ascensore e frigoriferi ), dove il giardino che lacircondafuornato conroserossediuna varietà rara omonima della regina perché a lei dedicata dai vivaisti lussemburghesi. Nata nel 1851, cresciuta nel clima eroico della Torino del Risorgimento, Margherita si spense nel 1926 proprio inquestosuonidoin riviera. Alla sua morte il figlio re Vittorio Emanuele III donò laproprietà(checomprendeva anche Villa Etelinda e un fondo rustico di tre ettari), all’Associazione Nazionale dei Caduti in guerra, che destinò le due dimore a casa di riposo per i congiunti dei caduti. Nel 2008 l’amministrazione provinciale di Imperia e la città di Bordighera

alla Guggenheim sono state estrapolate tra quelle che meglio rappresentano il suo rapporto con l’Italia, concorrendo a delineare un ritratto della mecenate che è insieme pubblico e privato. Pubblico per la valenza di scelte, che hanno dettato il passo al mercato del contemporaneo nella seconda metà del XX secolo. Privato, perché da questi lavori emerge vivida la personalità della Sonnabend: dura se necessario, ma generosa e molto intuitiva come per aver capito l’importanza della Transavarguardia e della Nuova Fotografia, e per aver voluto esercitare una continua ricognizione del nuovo mediante i canali di quel ponte da lei gettato tra gli Stati Uniti e l’Europa. La mostra si pregia di opere straordinarie quali fra le altre di Warhol, Twombly, Dine, Rosenquist, e degli italiani Manzoni, Festa, Schifano,Rotella,Merz,Zorio, Paolini, Pistoletto, Anselmo, Calzolari. Essendo concomitante alla Biennale, la visita si è dimostrata essere parte del tour e la rassegna rappresentare una occasione per meditare sulla analogia tra il talento e la grandezza delle due donne: la padrona di casa Peggy Guggenheim, con l’eccezionale permanente che ne sancisce i meriti e la protagonista della mostra temporanea. Due galleriste e collezioniste di gran vaglia, il cui operato fu determinante all’epoca, ma oltremodo sorprendente e influente anche oggi.

Margherita

acquistarono gli immobili siglando un accordo con la Regione Liguria e gli eredi dell’imprenditore Angelo Guido Terruzzi che diede vita alla Fondazione Famiglia TerruzziVilla Margherita. Il recupero del “roseto della regina”, come disse Philippe Daverio al momento inaugurale, è uno dei miracoli sortiti dal prodigioso restauro cominciato nel 2009 e affidato almecenatismodella famiglia Terruzzi con l’intento di fare dell’opera di Broggi un contenitoremusealepermanente(apertoalpubblico) della sua formidabile collezione. Un tesoro con cinquemila pezzi tra ori, mobili, arazzi, porcellane tra cui 381 capi del favoloso Servizio Minghetti, oltre alla pregiata quadreria di opere del Sei e Settecento veneziano. Da tale miniera in segui-

to ad un trentennale comodato, sono stati scelti 1000 pezzi tra i quali 170 dipinti di artisti (Assereto,Strozzi,Magnasco), perché a Villa Reale facciano bella mostra di sé per la gioia degli appassionati e dei turisti. Il tutto lungo un itinerario curato da Michelangelo Lupo dove sono stati recuperati mobili, stucchi, vetrate, ferri battuti e preziosi parquet che contribuiscono alla ricostruzione dell’ambiente di allora. Un’atmosfera che introduce bene alla monografica dedicata alla Regina, consentendo il giusto approccio alla visione di ritratti (tra cui di Gordigiani, lo stesso che effigiò Eleonora Duse) , suppellettili, abiti, scialli. Sono presenze che molto dicono dello stile della Regina, come ha evidenziato la direttrice della Fondazione Terruzzi dottoressa Annalisa Scarpa al taglio del nastro di questa prima mostra temporanea da lei ideata. Presenze davvero emblematiche della raffinatezza della quale la regina seppe circondarsi e di quei fasti che resero splendida per certi aspetti quella epoca per noi lontana. M.R. j Liugi Bistolfi Reginae Italicirum Praeces, gesso dipinto Patrimonio del Quirinale, Roma


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VANITAS : Roma

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di Marica Rossi

Palazzo Doria Pamphilj Le generazioni passano, “Vanitas” resta. E’l’ imperativo di una coscienza che è bene avere tenendo presenti le parole iniziali dell’Ecclesiaste: Vanità delle vanità. Tutto è vanità. Una saggia affermazione per ammonirci a non essere troppo facili prede delle vanità, le quali, radicate come sono in quasi tutti noi, possono conseguire effetti tanto perniciosi da irretire l’uomo in ben sei dei vizi capitali. Cioè tutti meno l’accidia, giacché le vanità sanno allontanarci da pigrizie e torpori. In alcuni secoli il concetto di vanità fu associato ad un effimero focalizzato sul senso della caducità terrena, della precarietà della bellezza, del potere, della gloria, e di ogni terrena seduzione. Specialmente nel Sei e Settecento, numerose furono le espressioni dell’arte figurativa raccolte nella categoria della “Vanitas”. L’immagine che la qualificava per lo più era il teschio, emblema della transitorietà della condizione umana, mentre da un punto di vista poetico, le fu peculiare il sentimento della malinconia, raffigurato nei santi solitari come la Maddalena Penitente o il San Girolamo, oppure, ma in maniera allusiva, in alcunenature mortedotate d’una fragranza apparentemente lontana da connotazioni di

h Andrea Sacchi Dedalo e Icaro SOPRA

A FIANCO g Caravaggio Maddalena Penitente

k Jusepe de Ribera San Girolamo traduce la Bibbia IN ALTO AL CENTRO

IN ALTO DESTRA k Guercino San Grirolamo con crocifisso

m Kessel Jan Van il vecchio Natura morta con fiori e frutta IN BASSO

a pagina 2 IN ALTO A SINISTRA, IN SENSO ORARIO

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Andy Warhol, Ileana Sonnabend 1973, acrilico e serigrafia su tela,

© Andy Warhol Foundation for Visual Arts

James Rosenquist, Sliced Bologna 1968, olio su mylar tagliato © James Rosenquist

Arman, Portrait of Mike (M.Sonnabend) 1968, accumulo di oggetti sotto teca © Arman

Mario Schifano, Tempo moderno 1962, smalto e carta su tela, © Mario Schifano

qualsivoglia mestizia. Ne sono esempio le composizionidelfiammingo Jan Van Kessel il Giovane, con fiori, frutta, ostriche, stoviglie e animali, dove però regna lo scompiglio,elementoche,comeipiattirottimessi in evidenza, ammonisce sulla finitezza delle cose. Sono quadri che appartengono alla collezione Doria Pamphilj, che con tanti altri della stessa raccolta, hanno dato vita ad una interessante mostra romana a firma di Massimiliano Floridi e Jacopo Cardillo, il cui filo conduttore è il tema della “Vanitas” (chiusa il 25 settembre scorso proprio al Doria Pamphilj; mostra corredata dall’utile catalogo di Silvana editoriale). L’esposizione romana vantava un’allestimento d’effetto, allineate alle pareti di auliche stanze nel bel Palazzo di via del Corso, le straordinarie nature morte venivano accostate ai ritratti di personaggi severi pervasi da una vena di malinconia ed a figure di anacoreti e di santi penitenti. Ecco allora i capolavori di Lotto, Caravaggio e Guercino (sui quali molto si sa e si continua a scrivere), e la Maddalena di Domenico Fetti, con la stesura franta del colore, la dolcezza del modellato, l’emergere della figura dall’ombra, tratti tipici delle composizioni dell’artista in quel periodo. Poi, oltre ai dipinti, c’erano i busti, e splendidi oggetti simbolici come gli orologi, emblemi del tempo che passa rendendo precari i beni di quaggiù. Una riflessione che diversi membri del principesco casato Doria Pamphilj fecero propria anche collezionando questi capolavori legati al concetto della natura effimera della vita a partire dalle sue origini cristiane. Piace infine osservare che l’esposizione presentava, quale “campione” famigliare al tema, il cardinale Benedetto Pamphilj, committente, mecenate di artisti e musicisti. Poeta egli stesso, compose, tra gli altri, il celebre oratorio Il Trionfo del TempoedelDisingannomusicato nel 1707 da Georg Friedrich Handel.


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di Ornella Fazzina

Versione integrale del suo “Manifesto etico”. O.F. Come proseguimento del progetto Terzocchio Meridiani di Luce, stai lavorando a un museo a cielo aperto a Librino. In cosa consiste quest’ultima tua idea? A.P. “Il Museo Internazionale della Fotografia” nasce non solo come un’operazione estetica di un’opera d’arte ma soprattutto per applicare un processo di identità attraverso la condivisione di un popolo di circa 30.000 persone e 40 giovani fotografi siciliani con i quali abbiamo creato una scuola di laboratori sperimentali, con vari linguaggi e contenuti, all’interno di una rete di 80 scuole di Catania di ogni ordine e grado dove i ragazzi hanno trasformato in linguaggio fotografico un articolo della Costituzione. 15.000 ragazzi hanno pure tradotto col linguaggio pittorico 500 bandiere installate sull’asse dei servizi. La Costituzione trova la sua applicazione nel linguaggio delle bandiere che in quello della fotografia. La rete sociale è stata implementata con circa 300 associazioni della città e volontariato e i giovani fotografi hanno raccontato la storia delle attività di queste associazioni. Una società civile che ancora si nobilita nella scelta etica di un valore del tempo non asservito al denaro. Bisogna sostenere oggi più che mai il volontariato che prima abbiamo chiamato romanticamente volontariato mentre oggi si potrebbe affermare come una scelta politica, anche della propria esistenza. C’è un mondo che vive e si muove solo attraverso il potere del denaro, c’è un altro mondo forse più silente che si muove non proprio asservito al denaro ma come scelta politica. Mi è sembrato doveroso dare voce al mondo del volontariato anche per dare esempio alle nuove generazioni. Poi abbiamo scelto 100 che hanno avuto come maestro Reza per i laboratori alla presenza anche dei 40 giovani fotografi come tutor. Tutto questo materiale fotografico d’identità di una città come Catania che attraverso Librino potrebbe trovare identità in un archivio storico-antropologico che nasce con 30.000 persone considerando anche la proiezione nel tempo di questo grande museo per Catania poiché potrebbe essere non solo un archivio di Catania ma di tutta la Sicilia; potrebbe diventare un processo estendibile a tutte le scuole, associazioni a creare una società civile. Archivio che fra le foto di Reza, delle associazioni, le foto di tutti i laboratori delle scuole dei bambini si arriva a 20/30.000 persone. O.F. Che funzione avranno le 30.000 persone? A.P. Le 30.000 persone rappresentano il popolo della Bellezza che si unisce al senso civile, di un valore di essere. Poi il linguaggio artistico verrà proiettato su delle installazioni monumentali che si stanno progettando e verranno messe a Librino, che si chiamano Le Porte della Luce opera di Pepi Morgia, lighdesigner importante (recentemente scomparso), e la notte di sabato e domenica scenderanno su queste dei teli bianchi sui quali verranno proiettate le immagini dell’archivio, insieme a quelle di Reza, di queste 30.000 persone. Si pensa come localizzazione delle “Porte della Luce” alte 15 m. la collinetta davanti alla Porta della Bellezza e/o altro sito. Proiezioni di immagini delle persone di Librino e della città ma con un contenuto etico, quindi non solo foto di bambini belli, ma dare Bellezza in quanto impegno sociale, civile e politico. Il Museo che nasce a Librino, dove le immagini ti portano a pensare alla Costituzione, alle associazioni, all’impegno civile, alla scuola di Reza, tutto questo dà il contenuto alle immagini. Bellezza in quanto impegno, legalità, futuro, non un discorso autoreferenziale di bellezza ma un valore di bellezza universale. Questo è il contenuto dell’archivio storico-antropologico di Librino da elaborare attraverso la rete sociale di città. Poi, un passaggio molto importante che ho scelto di fare rispetto al museo è questo: il popolo di 30.000 persone chiamerà il suo popolo, arrivando fino a 100.000 persone. Il popolo che arriva per assistere alla manifestazione della Bellezza dovrà chiedersi: “Sto vedendo il mio stesso popolo che sta diventando bello, un popolo che ha scelto la legalità, la bellezza e manifesta bellezza…ma io sono sotto che guardo, sono ancora popolo, mi devo ancora elevare come popolo. Allora, la bellezza che si manifesta attraverso l’archivio storico-antropologico farà una domanda al popolo, una istanza: Dov’è l’opera?. Quando il popolo ha avuto questa domanda scritta su tutte le guide, vorrà dare la risposta. Per dare la risposta, ho pensato in futuro come Fondazione di completare il museo attraverso un censimento di tutte le attività commerciali del quartiere di Librino, circa 140-150. Da queste mi sto facendo dare in comodato tutte le pareti libere che hanno. Partenership di questo grande Museo della Fotografia sono i più importanti al mondo, Natio-

nal Geographicper la rivista e il Museo di Arlesa Parigi per la Fotografia. La mostra visibile durante le notti prescelte sarà curata da Marco Pinna, fotografo della National Geographic, così come la scelta di grandi autori della fotografia. Le attività commerciali diventeranno gallerie fotografiche del “museo diffuso” nella vita di Librino, e il quartiere disporrà di apposite targhe del Museo e materiale inerente la comunicazione e il popolo al quale è stata posta la domanda “Dov’è l’opera?” dovrà trovare la risposta scegliendo un luogo tra queste attività con l’ausilio di una mappa. La persona si arreca in uno di questi luoghi a domandare “Dov’è l’opera?” per avere la risposta. Il signore di Librino, a modo suo, risponderà “Signora, lei cosa cerca ancora? Forse lo ha dimenticato! E’ lei l’opera, signora”. Attraverso questa risposta si crea una comunicazione emozionale, di simpatia con gli abitanti di Librino i quali cominceranno a spiegare il senso di quelle immagini che si trovano nel suo negozio come mostra fotografica, diventando lui stesso produttore e conduttore dell’opera d’arte, custode. Poi lascerò all’Amministrazione Comunale il Museo come Fondazione, con questo vincolo: tutte le opere del museo devono essere realizzate in futuro sempre da privati della Fiumara d’Arte, mai il pubblico deve intervenire (per la manutenzione è un altro discorso). Questa è la mission. Vorrei dopo affrontare come valore della contemporaneità la questione del pubblico. Per la mia esperienza, credo non devo giustificare più nulla a nessuno. Io voglio denunciare questo pubblico, penso che oggi ho l’autorevolezza per poterlo fare, e dico a questo pubblico dell’arte che se continua così, a me personalmente non interessa più perché è un pubblico passivo, inerte che ha consegnato nella responsabilità in nome della cultura il senso al nulla. E questa è una responsabilità, anche perché a prescindere dai soldi, dai tagli, la cultura, l’arte deve assumersi di nuovo la responsabilità. Quindi non mi rivolgo al mio pubblico ma parlo al popolo a cui voglio dare la possibilità di diventare pubblico, di elevarsi. Ma il popolo si può elevare a dignità di pubblico solo se si assume un impegno di res pubblica, e allora il mio popolo deve assumersi questo com-


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pito per Librino. Come Fondazione, nel continuare il progetto per Librino, parlerei in prima persona al mio popolo: “Senti, chi ti parla è il presidente della Fondazione Fiumara d’Arte, il signor Antonio Presti. Vorrei ricordarti, caro popolo, che noi come artisti, come utopia, è da dieci anni che ci impegniamo con onestà, senso etico ed estetico. Adesso che si inaugura un nuovo museo, la Fondazione deve scegliere di chiedere al proprio pubblico un biglietto d’ingresso d’entrata 10-15 €, una richiesta legittima. Ma per dare al popolo dignità di pubblico gli dico, e lo dirò pubblicamente “io rinuncio a un biglietto d’ingresso. Ora che tu hai avuto la risposta di “dov’è l’opera”, ora che tu sei opera devi azionare il valore dell’essere opera universale, hai quella possibilità semplice, minima di prendere quei 8-10 € e spenderli in una delle tante attività commerciali; così combatti e trasforma quel biglietto d’ingresso che dovevi dare alla Fondazione in un valore di li-

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bertà di bellezza, di dignità al popolo di Librino”. Se tutto il popolo che va a Librino assume questa questione morale di diventare pubblico, allora potremmo affermare nel tempo come in quel luogo, in quella periferia un popolo libera il suo popolo. Per me questo è molto importante, che attraverso questo processo che parte dalla fotografia fatta da un bambino, questa foto fa un giro largo, entra nella vita e chiama il suo popolo; arriva il popolo della Bellezza e restituisce Bellezza, restituendo al territorio un valore di dignità attraverso il lavoro. Questa è la risposta concreta quando l’arte, la cultura si manifesta con senso etico e di onestà, e questa cultura può riconsegnare all’arte l’autonomia: un grande museo del mondo dove il suo valore di essere futuro sarà consegnato sempre alla res pubblica. Io chiamo all’appello il pubblico che deve riprendersi il suo valore di dignità e di azione. Il pubblico di Librino non dirà che è bello o non è bello ma sarà un pubblico che conduce e porta bellezza. Questo è il messaggio più forte e autorevole che vorrei consegnare alla storia rispetto a quella periferia e rispetto al suo futuro, perché ho incardinato tutta la mission della Fondazione a compiere un’azione civile; si parlerà dell’emozione di ciò che hai provato guardando il museo. Librino non lo cambia Antonio Presti, lo cambia il pubblico, io do la responsabilità al pubblico, noi siamo strumenti ma è il pubblico che si aziona. O.F. Innestato il processo delle biennali, la sezione museale dei negozi che si chiama Magma a cura di Marco Pinna, la proiezione delle Porte della Luce come Museo Internazionale della Fotografia e l’Archivio, il futuro da lasciare a Librino con il museo è un futuro di bellezza. A.P. Quando si sceglie il valore della bellezza universale si passa da una sensazione di essere ultimi ad una in cui ci si sente i primi. Percezione ed educazione del futuro, mission della Fondazione. In un primo momento in un processo identitario Librino diventava centro rispetto a Catania. Questo non lo sostengo più perché ho scoperto in questi non luoghi una certa autoreferenzialità di quell’essere a rischio che porta l’abitante a porsi in quella condizione di vittima, di ghetto, di richiesta. Fare un luogo centro rispetto ad un altro è un atto di presunzione, cosa può oggi Librino centralizzarsi rispetto a Catania? Vorrei consegnare adesso un’altra mission: nelle pratiche artistiche future i bambini di Librino dovranno scegliere con affinità di impegno civile e impegno artistico un continente, una regione, un luogo del mondo (dove l’infanzia è intesa come futuro, un’infanzia che abbiamo negato uccidendo i loro sogni e per questo la società contemporanea non accetta il futuro perché ha ucciso l’infanzia). Vorrei dire, anche se sembrerà un po’ duro ma è reale e io con i bambini non posso essere ambiguo ma onesto e chiaro, voglio dire a voi bambini che la società vi nega il futuro e quindi vi dovete ribellare ma oltre a ribellarvi avete una occasione; con la Porta della Bellezza avete applicato la pratica del fare e l’avete trasformata, con le Porte della Luce avete applicato la pratica della manifestazione della bellezza e siete diventati belli, ora non potete essere più bambini di Librino ma dovete diventare bambini del mondo e per questo vi lascio una Fondazione dove voi bambini di Librino vi impegnate a vita, attraverso la Fondazione, le scuole, le chiese, sempre ogni anno a proteggere i bambini del mondo. Si tratta di una Fondazione dove i bambini proteggono i bambini e quando dico ciò è una responsabilità che gli adulti si devono prendere. E’ come se i bambini avessero compreso che per riconquistare quel senso di futuro, fino a quando un bambino di Librino proteggerà un bambino del mondo ci sarà il futuro. Ogni anno si sceglierà un luogo del mondo (Africa, Asia, Paesi dell’Est ecc.) e con le varie espressioni artistiche si denunceranno e difenderanno i loro problemi, captando i linguaggi artistici delle varie Nazioni. Librino così sarà visto come un luogo dove si protegge il futuro e dove la bellezza si manifesta come condivisione di quel futuro che si trova nella prassi dei bambini che proteggono i bambini. Allora penso che Librino non potrà più essere vista con gli occhi della periferia, della emarginazione, della devianza ma solo con gli occhi dellabellezza,dovetuttalamacchinauniversale sarà al servizio di questa bellezza e spero che il pubblico alla fine sarà il testimone e il sigillo del futuro della bellezza di Librino. Quando gli adulti vedranno che i bambini si proteggono tra di loro, sarà per loro un’altra occasione di grande riflessione. Facendogli conoscere i problemi reali degli altri bambini denunceranno loro stessi. Catania dovrà tanto al quartiere di Librino che sarà conosciuto nel mondo. O.F. = Ornella Fazzina A.P. = Antonio Presti A FIANCO E A PAGINA 2

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Restituzioni virtuali del progetto Terzocchio Meridiani di Luce


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“DEFORMAZIONI”

IPERREALISTICHE

Henri-Louis Bergson nel 1911 scriveva …idealismo e realismo sono due tesi egualmente eccessive, che è falso ridurre la materia alla rappresentazione che ne abbiamo, come pure è falso farne una cosa che produrrebbe in noi delle rappresentazioni ma che, rispetto a queste, sarebbe di natura diversa. Per noi la materia è un insieme di “immagini”. E per “immagini” intendiamo una certa esistenza che è più di ciò che l’idealista chiama “rappresentazione”,mamenodiciòcheilrealistachiama“cosa”, - un’esistenza situata a metà strada tra la “cosa”ela“rappresentazione”.Era un periodo, quelle delle avanguardie storiche, in cui si discuteva sul problema della rappresentazione e del rapporto tra la cosiddetta “realtà oggettiva” e la sua immagine “soggettiva”. Se per “realtà” si intende la kantiana cosa in sé che, distinta dal fenomeno, è per definizione preclusa alla conoscenza da parte del soggetto, questo non può fare altro che limitarsi alla cosa che appare, a ciò che vede e che tuttavia non coincide IN COLOUR

GIACOMO RIZZO SCULTURE SPAZIO CULTURA

Libreria Macaione 19 novembre | 6 dicembre 2011 via Marchese di Villabianca, 102 Palermo Mostra a cura di Ornella Fazzina Testi in catalogo di Ornella Fazzina Francesco Nucifora INFO tel +39 091 6257426 info@spazioculturalibri.it www.spazioculturalibri.it

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GiacomoRizzo

di Ornella Fazzina


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con la realtà noumenica, poiché quest’ultima può solo venire pensata. Lo scollamento tra le percezioni del soggetto e la realtà esterna indipendente da esse non è affatto un tema nuovo nella riflessione filosofica moderna; almeno da quando questa, con Cartesio, ha aperto lo iato che separa la realtà dalle immagini che di essa si hanno. Tutto il Novecento è attraversato da movimenti artistici che hanno recato un contributo decisivo alla storia della scultura moderna muovendosi tra linguaggio figurativo e astratto, per giungere fino ai giorni nostri dove l’avvicendarsi di movimenti ha modificato il principio stesso della scultura legato al rappresentare per mezzo della modellazione dei materiali, perdendo così ogni carattere specifico. Dopo la Conceptual Art la scultura non sarà più un’arte distinta dalle altre, intendendola anche come linguaggio di uno spazio mentale, per cui ogni operazione comunicativa ed espressiva costituirà un linguaggio globale. Senz’altro la scultura del ventesimo secolo ha delineato un percorso ampio e complesso che ha portato, di conseguenza, la scultura del ventunesimo secolo a non essere di facile prevedibilità e, nel caso di Giacomo Rizzo, questa si riappropria della figuratività che se può da una parte avere un retaggio con l’Iperrealismo dell’inizio degli anni ’70, dall’altra se ne affranca proprio per il fatto di non usare calchi diretti da modelli vivi e di non rispettare le reali dimensioni delle figure umane che vengono invece realizzateinunascalaridotta.Tuttociònonfaperdere minimamente l’effetto mimetico avvalorato dal colore, creando l’illusione della “cosa” reale. I suoi personaggi, completi di abiti e di accessori minuziosamente ricostruiti, sono bloccati nel momento in cui compiono gesti abituali della vita quotidiana; alcuni si muovono perfettamenteinuncontestochenonviene creato ma solo suggerito dai titoli, facendone quasi avvertire l’atmosfera e captare silenzi, voci e rumori. Questa sorta di realismo appartiene quindi ad una di-

NEWL’INK mensione dell’astrazione anche per il fatto di rendere manifesto il mezzo artistico e non voler dare l’illusione all’osservatore di trovarsi di fronte ad una copia della realtà, sfuggendo così alle norme iperrealistiche. Il percorso artistico di Giacomo Rizzo è teso verso un originale modo di intendere la scultura figurativa, in cui la ricerca sulla forma plastica porta a sperimentare soluzioni diverse che, grazie alla sua abilità manuale e tecnica, restituiscono morbidezza e fluidità nella solida costruzione formale. Il tutto è accentuato da una forte policromia formata da velature sovrapposte e mai coprenti, in modo da fare trasparire sempre la natura della materia in un rapporto armonico tra forma e colore. Il valore del fare artistico a favore del pezzo unico, tanto caro alla tradizione, mette in risalto l’esperienza e la concezione storica della scultura protesa a bloccare l’attimo, in un sottile equilibrio tra stasi e movimento, rappresentando un espediente per un maggiore coinvolgimento percettivo. Il lavoro di Rizzo concentra tutta la sua forza nel voler coniugare una cultura alta con una cultura bassa, la tradizione con la sperimentazione, attraverso un’indagine antropologica che analizza le tante sfaccettature del genere umano rappresentato in una quotidianità fatta di abitudini, vizi, angosce e atteggiamenti che rientrano nel comportamento comune. La plasticità per Rizzo non è solo un fatto di pura abilità tecnica ma soprattuttounaquestionementalechepermette al pensiero creativo di realizzare sia piccole che grandi cose. Le opere che compongono la mostra sono personaggi aventi un forte legame con la Sicilia come in U Fistinu che tra ironia e veridicità ritrae la coppia tipica palermitanadiestrazione popolare,mentre in Percorsi la dimensione frenetica del vivere viene raffigurata sempre da una coppia in attesa di attraversare le strisce pedonali. La terracotta è il materiale usato per dar vita a queste figure, con una particolare attenzione al dettaglio che

non va inteso come mero virtuosismo tecnico, ma assurge a valenza semantica,elementoessenzialeeanaliticoperuno sguardo attento e profondo sui fatti che ci circondano. A tal proposito è lo stesso Rizzo ad asserire che dal particolare scaturisce la bellezza, infatti il bellonon si trova attraverso canoni convenzionali, ma nella differenza formale e plastica delle morfologie della realtà. La differenza, la non omologazione, creano la bellezza della realtà che in sé è diversa, mutevole e non appartiene a falsi canoni di perfezione ai quali una certa cultura vuole sottometterci e assuefarci. Da qui, l’esigenza di una sottile ironia che è un modo efficace ed intelligente per affrontare tematiche sociali come

7 l’obesità o Sono sportivo che fa il verso agli italiani che si sentono sportivi guardando la partita dal proprio salotto di casa. E ancora, il grande problema che ci poniamo dell’apparire agli occhi altrui Polvere alla polvere Rizzo lo risolve con un mezzo ludico nel mostrare come nel cercare una perfezione estetica, non rimaniamo mai contenti di noi stessi e del nostro aspetto fisico. Condizionamenti sociali, psicologici, mediatici sono quelli su cui ci fa riflettere l’artista il quale nelle installazioni si rivolge a temi ancor più scottanti e di grande attualità come l’emigrazione, la clandestinità e il traffico di organi che, nel presentarsi quest’ultimo sotto forma di multipli,rafforzalapercezionedell’esseremerce restituendoci corpi usati al solo scopo di ricavarne profitto. Ma in tutti i suoi personaggi è sorprendente la accentuata caratterizzazione anatomica, l’intensità espressiva, il tratto segnico, la fisiognomica che riconduce lo studio del linguaggio artistico verso la scienza dell’anima attraverso uno strumento di indagine antropologica per una più profonda conoscenza dell’essere. Un’arte, questa, che tocca il campo sociale ed etico da cui emerge una ricca potenzialità di introspezione psicologica in cui corpo, volto e gesto ne sono la concreta testimonianza. Corpo prigione dell’anima, Barriere, Oltre già nel titolo racchiudono un significato di disagio e un anelito di sconfinamenti più mentali che fisici, poiché le prigioni sono un fatto culturale e non naturale; così notiamo corpi in equilibrio su strutture metalliche essenziali e su basi dal puro rigore geometrico o, ancora, I’m che, tra l’ironico e il perturbante, mette in mostra un uomo in camicia e cravatta che nasconde la propria identità dietro una sorta di passamontagna, in un gioco depistante tra l’essere e l’apparire.

j Barriere 2009, terracotta policroma, cm 250 x 200 x 150 IN ALTO

fj Dust to dust (installazione) 2008, terracotta policroma, h. cm 74 A PAG 6



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dalla madre terra: le profezie di

GIUSEPPECASSIBBA Giuseppe Cassibba, come tanti altri miei amici pittori, ha omaggiato mio padre con un ritratto, ad ottobre del 2008, per festeggiare il suo novantesimo compleanno. Un ritratto che prefigura già, in sintesi, nelle sue invenzioni coloristiche dell’ocra e dei rosa del bianco e dei neri, una prima insistita osservazione dei docili tratti del volto di mio padre, della sua bella pelle irrorata di rubino. L’intensità del disegno del viso, nella tecnica del pastello, gli perviene dalla lunga frequentazione fraterna, quasi quotidiana, avuta con me, tanto da segnalarne, appunto, subito una confidenza, se non addirittura un’intimità traslata, proiettata dal sentimento, quasi che l’osservatore ideale coincida con il mio sguardo privilegiato di figlio. Sembra proprio che la prospettiva si restringa sempre di più nel segno bavoso del pastello fino a dichiararne, così, con assoluta puntualità, quell’indice palpabile di tenerezza. Mi balzano subito alla memoria le tante cose fatte insieme, il quasi concomitante debutto di entrambi: io con il battesimo della Galleria degli Archi e lui con la sua prima personale di opere provenienti da Vienna, capitale dell’espressionismo; sorrette da un gusto primitivo, tutte concepite nella tecnica dell’olio, molto affinata e sotto l’influsso di Rainer Fetting e della Transavanguardia italiana. Giuseppe Cassibba, che possiede spiccate dotidiosservatore,hasemprestudiatolarealtà che ha, però, puntualmente sottoposto al suo esclusivo punto di vista, all’ineluttabile profilo di magia interpretativa che incarna il suo estro pittorico, paragonabile, per incanto e voce, alla poesia visiva di un Picasso ritornato volontariamente al disegno essenziale e inimitabile di un bambino. Non importa se Cassibba sia arrivato fin qui più per i propri limiti che per le naturali doti mimetiche di cui è padrone, quello che ci fa apprezzare incondizionatamente la sua forza espressiva lo si può cogliere - parafrasando Gesualdo Bufalino - nell’ossimoro della luce e del lutto delle sue opere, nell’alchimia istintiva dei primordiali colori mescolati, unti di una persistente malinconia esistenziale. Il suo guizzo solare, il segno apollineo e deciso che si risolve in superficie, in un afflato di primigenio vitalismo, viene profondamente trasfigurato dalla polvere fuligginosa ed effimera del pastello, tecnica in

cui eccelle, finendo per decretare, tra le saturnine pieghe del tempo, l’inconsistenza e immaterialità dell’arte stessa. Una condizione permanente che attraversa tutta l’arte contemporanea, avendo ormai la totale consapevolezza dell’incertezza dell’eternità. Ma, sull’avvertita lezione nichilista, Cassibba, ripartendo dalla frammentarietà dei linguaggi artistici o, perfino, dalla loro congenita balbuzie, destina la sua indagine formale al contemporaneo, ritenendola, non come conclusiva estetica dell’arte ma come sguardo estremo pronto a raccogliere le provedell’immanetragediachesistaconsumando nel perentorio presente, in bilico tra catastrofi naturali e disastri annunciati dall’infetto progresso. Egli diventa in definitiva profeta e testimone indifeso della presenza continua dell’angelo sterminatore, nel finale, biblico e disperato esodo dei popoli. Dalla periferia dell’impero, l’artista, risalendo il mediterraneo insieme ai nuovi «contadini del mare» - per usare un’espressione forte di Emanuele Crialese - lancia una sfida al sistema dell’arte stessa, declinando le peregrinazioni dei suoi raffigurati compagni di sventura fra i temi della solitudine e riconquistando, con le sue piccole mani, l’intimità perduta che finisce col diventare una speranza o, forse, una sorpresa di un non so che di trasgressione vera. Ci si ritrova inevitabilmente a decifrare, guardando con gli occhi di Giuseppe Cassibba, beffardi e attoniti nello stesso tempo o meglio confusamente spavaldi (di uno che vuole con orgoglio prepararci ad ascoltare l’urlo di un umanesimo rimasto) nel caleidoscopio di acquerelli e pastelli sulle carte stropicciate e grondantidimacchiesparsefraunapletoravociante di colori e bianche fibre di cellulosa, i codicidiumanitàfraitantivoltisolitariesgomenti d’immigrati clandestini. A Comiso, nella sua città, luogo di frontiera pacifica, oasi di accoglienze ma anche terra di sepolcri imbiancati, di tutti quelli che sono diventati ciechi o che non vogliono pensare achi sta divorandospietatamentelemontagnedipietra sul versante ibleo che guarda verso il mare. Il pittore chiuso nel suo studio, dietro lo storico arco di via Pace, si ritrova ad affastellare già da molti anni nient’altro che tele, carte e cartoni, ammassati in grandi cartelle, sopra pile di libri e di giornali, dispersi a terra fra foto e riviste, a bella vista, frammisti ad

icone abbozzate esibite sui cavalletti, a quadriappoggiati,inbilicotraloro,suimuribianchi di gesso. A starci, può sembrare di trovarsi, fra le tante affollate presenze, lì, spaesati nelle baracche di una periferia qualsiasi, là, esitanti alla vista di cani randagi, qui, una folla di personaggi (che l’artista predilige ritrarrenellalorocondizionediultimidellaterra) inclini a simulare, accalcati uno sopra l’altro, l’angoscia verosimile di quello che si prova al largo del mar di mezzo su un barcone di disperazione in cerca di soccorso, di un approdo finale, prima che Il mare di Lampedusa o di Punta Secca rigetti i corpi naufraghi sulle spiagge dei bagnanti vacanzieri. Sicché, tra i centri di accoglienza sparsi per la Sicilia e le sponde del mediterraneo ci si può imbattere, rimanendo profondamente scossi, dentro il paradigma contemporaneo dell’artista ibleo, in quelle figure emblematiche di madri smilze e afflitte, nere e gialle, olivastre o bianche con i bambini in braccio o in quei tanti volti ripresi in diverse pose, composti insieme, appositamente, in un manifesto coloratissimo che invita, ogni primo marzo, al noto sciopero degli immigranti, fino a diventarne il logo, appropriato, della giornata senza immigranti. Il movimento del 1marzoche promuove una mobilitazione antirazzista e per i diritti umani non poteva non trovare che nelle opere di Giuseppe Cassibba, il simbolo di un’umanità smarrita, desolata, ma pronta a rivendicare nella diversità la propria bellezza, a ritenersi indispensabile per la costruzione di un mondo più giusto. Una forte vitalità, infatti, pervade il continente dei colori rappresentati dall’arte di Cassibba; gli immigranti che appaiono, spesso, sconfitti e rassegnati sono mossi da un dirompente moto di ribellione. La stessa che si palesa nella sua ricerca artistica di pittore che non ama le superfici tatuate e fumettistiche della contemporaryart. Nelle sue diverse MigrantMother(per volere usare un titolo che nel 1936 Dorothea Lange diede a un’intensa foto, icona universale, ormai, di una madre assorta in un silenzio assordante, quasi autistico, mentre, le sue creature, accanto, si rifiutano di volgere lo sguardoall’imminentefuriacatastroficadellaguerrachesisarebbe,dalìapoco, riversatasulmondo) c’è la stessa intensità malinconica dei disperati consigli suggeriti dalla chiaroveggenza. Non c’è niente di eclatante, di para-

di Salvatore Schembari

gonabile al nazibambino baffuto in braccio ad una Madonna di Giuseppe Veneziano, laddove c’è una lingua che pare insegni una provocazione o uno scandalo mentre strizza l’occhio al fascino discreto della borghesia, alle sue esclusive consuetudini devote all’ipocrisia, ad una moda o alla più corriva omologazione dei linguaggi dell’arte contemporanea. Il linguaggio di Cassibba rimane coerente alla sua ricerca di atmosfere cariche di intensità cromatiche che, pare, si infiammino, fino a debordare dalle superfici dipinte, nella grammatica dei toni caldi del rosso e dei gialli, anche quando le carte bianche s’inzuppano in frastagliati acquerelli e perdono il loro vigore a favore dei toni più freddi o si tingono di nera tralucente fuliggine. La sua sintassi poetica, si scontra con le contraddizioni di un mondo che calpesta, spesso, la dignità dell’uomo, dichiarata anche dentro il perimetro delle sue tele, come Senza titolo, appunto, senza storia. Ecco, Il capolavoro che realizza ogni giorno somiglia molto, nel suo impianto formale, alle vertigini immobili e visionarie di una pittura metafisica, attraverso lo specchio sensuale e freddo, traballante e deforme, quasi anamorfico, di cui sono dotati i tanti occhi, della cieca realtà. Il suo piccolo miracolo, mai solo essenziale alla vista, si coniuga alle tensioni storiche dell’utopia, ad un vangelo scritto secondo Giuseppe che annuncia, in parabole e frammenti, diunaapocalisseoancoradiun’ultimasperanza: portare in salvo nella sua arca il segno dei luoghi, degli uomini, degli animali, di tutta la vita della madre terra, prima che siatroppo tardi, per assegnarne finalmente un nome con il suo necessario colore.


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Catania

Fondazione Puglisi Cosentino

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Il bosco d’amore interessante omaggio a

Renato Guttuso

17 SETTEMBRE / 5 NOVEMBRE 2011 di Ornella Fazzina

L’impegno profuso da Luca Scandura,editore della giovane rivista Nextl’ink(oltre che del tabloid L’ise da oggi anche della nostra testata Newl’ink) , il quale ha ideato e organizzato la mostra Il bosco d’amore. Omaggio a Renato Guttuso negli eleganti spazi della Fondazione Puglisi Cosentino di Catania, è il risultato concreto del sapere coniugare creatività, passione e deontologia per il raggiungimento di un alto obiettivo che vede premiarelosforzoonestodelsuoideatore,seppur nell’elargizione di un contenuto finanziamento (regionale). Un progetto che si avvale anche della cura scientifica di RoccoGiudicecon gli accurati e approfonditi testi in catalogo. L’idea è nata dalla volontà di esporre alcune opere del maestro del Realismo incentrando la tematica della mostra su una delle grandi opere, Il bosco d’amore(al quale è stato dedicato il n. 8, febbraio 2011, di Nextl’ink), facente parte dell’ultima fase artistica di Guttuso che può essere inclusa nell’arte “colta” o “anacronistica” che segnò il passaggio dagli anni settanta agli ottanta del secolo scorso. A questo tema, analizzato anche in senso più ampio in un rapporto uomo-natura, si sono ispirati ventisei artisti i quali, con linguaggi differenti, dialogano con le opere del maestro in un rimando con-


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tinuo di linee forme e colori che costituiscono un valore aggiunto alla bellezza e importanza dei lavori esposti. Nell’incessante confronto e convivenza della tematica affrontata, grammatiche visive tradizionali e linguaggi che appartengono alla visione contemporanea si sostengono l’un l’altro supportati anche dalla parola poetica. Allo sguardo del visitatore si apre un percorso rigoroso e ben studiato dove ogni opera, qualsiasi sia il linguaggio che comprende la pittura, la scultura, la fotografia, il video, le installazioni, mantiene una propria autonomia di lettura formale, cromatica, contenutistica, pur entrando in sintonia con le altre opere in mostra, in un ambiente che ben le accoglie grazie anche ad un allestimento attento ai valori

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della luce. In un rapporto dialogico che vede le opere di Guttuso aprirsi verso una concezione che si affranca da concetti precostituiti insieme alla Bagnantidi Fausto Pirandello, Bazan irrompe sulla scena con il suo segno fumettistico, Calderone con la metamorfosi dei generi, Calusca con un fuorviante interno/esterno, Cassibbacon la morbidezza del segno, Camillo Catellicon i suoi incastri scultorei, Giulio Catellicon una pennellata densa e asciutta, Ceccotticon il suo gioco erotico/sacrificale, Ceronicon delle vibranti pennellate, Cristaudocon il suo assemblagecitazionistico rielaborato, Difrancocon una fitta trama segnica, Fazekascon le sue palme di alta valenza simbolica, Ferlitocon tracce di immagini perdute o ancora da venire, Finocchiarocon l’inquietante immobilità dell’ambiente, Frangicon la sua tessitura di luci e ombre, Giovannonicon la forza di una sintassi compositiva, Grassocon le sue immagini visionarie, Guarreracon la plasticità scultorea delle sue figure, Lansing con la matericità dei paesaggi, Mitrovich con l’unire la realtà alla fantasia, Pennisi con il suo non-luogo, non-detto, mai visto, Provino con la personale forma di frottage, Reccacon la sua sintesi espressionistica, Saviniocon una fusione tecnica degli elementi, Tomasello con i suoi grafismi di stampo naturalistico eVinci con le sue sperimentazioni antropomorfiche e fitomorfiche. La Fondazione Puglisi Cosentino, nell’ospitare nel proprio aulico contenitore questa mostra che presenta nomi consacrati della storia dell’arte insieme ad

artisti contemporanei, dimostra di avere apprezzato una attenzione verso la qualità artistica del progetto proposto da Luca Scandura che ha selezionato una interessante carrellata di nomi, opere, stili e linguaggi. Questo percorso espositivo diventa oltre che motivo di godimento estetico, occasione di studio, di analisi, di ricerca attraverso la Sezione Didattica della Fondazione che ha offeto per tutto il periodo della mostra visite guidate e laboratori, in un’ottica di consapevolezza nell’attribuire alla formazione ed educazione un valore primario di crescita culturale e sociale.

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Una valida e necessaria iniziativa, questa, per il taglio datogli e l’idea che la sostiene da cui trae vantaggio la città in prospettiva di un reale coinvolgimento culturale che mette a confronto lo spessore dell’arte di Guttuso con le potenzialità espressive dell’arte dell’oggi. A SINISTRA f Renato Guttuso La spiaggia, 1955, olio su tela, cm 81 x 58.5 Collezione privata, Vittoria

h SOPRA E A PAGINA 10,11,12 Alcune visioni dell’allestimento

fotografie di Eloisa Paloschi e Sebastiano Pennisi



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Rosario Genovese:

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di Ornella Fazzina

FASCINAZIONI CELESTI to riferimento specifico alla massa e alla materia. E ancor di più, quando il suo interesse si è spostato sulle grandi costellazioni che rendono palese il concetto di distanza, è diventato indispensabile lavorare su una struttura non più piena, ma con intervalli di pieni e vuoti in cui lo spazio esterno potesse attraversare materialmente quello interno, facendo assumere all’opera una similarità spaziale, come in Due galassie in caduta. E’ evidente come il rapporto con la scienza abbia influito con forza sin dalla prima indagine astrale dell’artista, il quale con il suo modo di operare differenzia i due momenti dell’indagine: acquisisce i dati scientifici dell’oggetto astrale e poi avvia un nuovo dialogo con la forma e la materia che rappresentano e man tengono quei requisiti visivi che vengono accostati similarmente al corpo celeste. Una complessità della visione che lega metodo e passione e che emerge nell’intensità del pensiero di Rosario Genovese: …Si sviluppano composizioni armoniche che sembrano governate da una macchina a controllo numerico da cui scaturiscono coordinatefantastiche.Compromessadalmiosguardo, che diventa complice dell’innamoramento astrale cosmologico, la spazialità prende vita e si trasforma nell’illusione della terza dimensione spaziale. Attraverso l’osservazione le immagini vibrano scuotendomi dentro. Sono inquietanti, sono figure visionarie che mi guidano verso un pensiero transitorio, che mi porta e mi accosta al trascendentale, a una nuova visione dell’immaginario attraverso una similarità antropologica. Sono momenti in cui il pensiero si compenetra con forme primarie e primordiali diventando pura configurazione.

f Rosario Genovese con l’installazione Giove ed i satelliti galileiani, 2010, ROSARIO GENOVESE OPERE DAL 1979 AL 2011 PALAZZO DELLA CULTURA 29 ottobre | 20 novembre 2011 via Vittorio Emanuele Catania Mostra a cura di Demetrio Paparoni Catalogo in mostra Skira Testi in catalogo Demetrio Paparoni Marco Meneguzzo INFO tel +39 347 3212006 antologica@rosariogenovese.com

INF O

Tra numero e fantasia, tra ordine e caos, tra etica ed estetica, tra andate e ritorni dalla realtà, si è inaugurata il 29 ottobrela mostra antologica di Rosario Genovese, in permanenza fino al 20 novembre al Palazzo della Cultura di Catania (catalogo Skira con scritto critico di Demetrio Paparoni e una conversazione con Marco Meneguzzo), che copre un periodo che dagli anni settanta arriva fino ad oggi. Le opere presentate comprendono vari generi, la fotografia, il disegno, la pittura, l’installazione e la scrittura. Il “realismo fotografico” ha costituito il primo campo di indagine dell’artista che ha successivamente dato una svolta alla sua ricerca incentrata sullo studio delle costellazioni, utilizzando quindi un linguaggio attento alle misure, proporzioni, spazio, materia, colori, in una continua oscillazione tra la grandezza del mito e l’importanza della creazione, tra l’assoluto rigore matematico e la sconfinata libertà dell’immaginazione. Negli anni ottanta nuovi soggetti emergono da alcuni lavori in cui nelle campiture di base Genovese interveniva con un colore guazzato capace di suggerire una rappresentazione figurale, così come nelle recenti opere i flussi di pennellate assumono le sembianze di animali acquatici. La sua produzione è orientata verso l’immergersi in un immaginario fantastico di una configurazione libera ma mentalmente sempre controllata. Ma il suo studio scientifico parte dalla metà degli anni ottanta calcolando lo stato molecolare della materia e dei campi magnetici, in un processo di reinterpretazione degli elementi del creato che lo riconducono alle proprie origini molecolari, portando al generarsi anche di figure surreali e fantastiche che si fondono con quelle derivate dalla ricerca mitologica. Nulla sfugge all’occhio dell’artista-scienziato il quale avendo conoscenze di astrofisica esamina gli astri valutandone la magnitudine, il colore, il nome di antica appartenenza all’interno delle costellazioni. Un ulteriore passaggio è quello che vede l’interesse verso la parola poetica diventata quasi una necessità nelle sue ultime opere, intravedendo il bisogno di dare ordine al caos, mentre nell’ultima fase, quella di realizzazione dell’opera, dalla campitura del colore informe si origina una traccia figurativa di natura fantastica suggerita da macchie e da testi poetici. Sembra di assistere a un processo inverso che dall’ordine giunge al caos, nel regno dell’immaginazione creativa, a dimostrazione di una incessante alternanza tra poli opposti. Difatti, è proprio nell’atto creativo pittorico che Genovese partendo da una monocromia informe, seppur abbia concepito il supporto attraverso una costruzione matematica, transita il caos pittorico. Marco Meneguzzo nella sua conversazione in catalogo domanda: Insisti sull’approccio scientifico del tuo lavoro, ma poi a guardare la tua pittura recente a prevalere è una figurazione libera e di matrice postmoderna, che sul piano linguistico e stilistico mischia tutto ciò che è possibile mischiare: arrivi a definire certi pianeti come “tuoi” (mi viene in mente per esempio l’opera “la mia Venere”…), e ricopri le superfici di narrazioni i cui protagonisti sono figure che, avvicinate ai pianeti, non possiamo non pensare come mitologiche. Questo rivolgere lo sguardo al cosmo, alle stelle, mi sembra che denoti un bisogno di entrare in contatto con l’infinito, come se guardando col telescopio ti aspettassi di vedere qualche angelo. Ed ecco la risposta: Hai ragione. Ma non c’è contraddizione o antitesi tra l’interesse per la scienza e il bisogno di infinito. Cerco l’infinito, è vero, ma senza distaccarmi dalla realtà del quotidiano. La mia è una ricerca metodica e scientifica, ma anche passionale e poetica. Ognuno di noi possiede dentro di sé l’infinito, e ognuno di noi trova il modo di confrontarsi con esso a modo suo. Io lo faccio attraverso la mia arte. La sua arte lo ha condotto al superamento del materico per passare allo svuotamento delle strutture che definiscono nuove configurazioni spaziali. Nel mantenere la similarità visiva egli ha fat-


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Orazio Coco e L’ESERCITO DELLA

SPERANZA

Le diverse installazioni composte da una moltitudine di bambini di terracotta occupano i diversi spazi espositivi del Palazzo della Provincia e accolgono e conducono il fruitore attraverso le varie sezioni che l’artista catanese Orazio Coco gli ha voluto dedicare: la colpa, la purezza, la conoscenza, la fiducia, il perdono, il coraggio. Risulta palese che al centro della sua autentica ricerca pone la figura del bambino come maestro di vita che offre a noi adulti la possibilità di una profonda riflessione e di un vero riscatto dalle bas-

sezze e dai condizionamenti umani. Sono bambini che si consegnano in tutta la loro bellezza e potenza di fronte ai quali non puoi che star zitto. Occhi che ti guardano, ti scrutano, si abbassano, guardano lontano; espressioni gioiose, serene, turbate costituiscono la particolarità tecnica di questa mostra, essendo ogni forma lavorata singolarmente affrancandosi dal clichè, dallo stampo da cui si ricavano tutte le figure. Sono, queste, sculture che oltre ad avere una forte valenza semantica ed uno spessore che si schiude alla sfera esistenziale, la testimonianza di un incessante e paziente lavoro dell’artista che sa rendere anche la levigatezza delle pelle così come il fine tratteggio. Perizia e maestria contraddistinguono Orazio Coco il quale, lontano dal circuito ufficiale dei grandi eventi, dimostra come l’idea prende forma anche in contesti meno gettonati,

di Ornella Fazzina

mantenendo sempre la propria dignità e il valore artistico che va, però, alimentato e sostenuto dalle strutture ospitanti attraverso una maggiore visibilità, poiché è un peccato non permettere a chiunque di godere di quest’arte. L’arte è una responsabilità sociale che va incoraggiata principalmente quando si tratta di vera ricerca e quella di Coco corrisponde a determinati canoni etici ed estetici. Egli parla di consegnare il mondo alle nuove generazioni trasmettendo i giusti valori. Alcune virtù sono lontane dal modo di pensare e di agire degli adulti ed è giusto che queste siano rappresentate dall’esercito della speranza che ricordano l’esercito di Qin Shi Huang, entrambi monito e custodi di preziosi e fondamentali valori morali da recuperare. Palazzo della Provincia, Siracusa chiusa il 13 luglio

di Paola Tricomi

Un edonismo d’amore intimo :

Baccanti Timide|Enzo Tomasello Si è chiusa a Vittoria la mostra “ Baccanti Timide” oli su carta di Vincenzo Tomasello . Un titolo che racchiude già nella sua ossimoricità il significato del segno, del tratto dell’autore. La mostra infatti, pare rinviare ad una esperienza edonistico dionisiaca, ma di fatto questa si traduce in un velo, un improvviso scostarsi, una parentesi aperta ad un oltre, abisso quasi scavato, ma con dolcezza. La linea nera, a tratti sottile a tratti possente, ondulata e ricurva, ci accompagna - non solo attraverso corpi, forme, sinuosità della carne - ma anche dietro volti accennati per tratti veloci, non-volti: espressioni, movenze, ombre. Le forme non sono in realtà forme, ma ciò che vi è dentro. I corpi non sono in realtà corpi, ma gesti, calore. La stessa immagine rappresentativa della mostra ne diventa emblema: un contorno sinuoso di corpo di donna che non è altro se non una finestra. Così in Baccante all’alba, la più lirica forse delle carte, in cui la fisicità si fonde con la luce intensa d’un sorgere per esserne disintegrata e diventarne portavoce, pur mantenendo tuttavia un’ombra, un’ombra possente. Qui il colore e l’ombra si fanno protagonisti di un interscambio tra interiorità e mondo esterno come di vasi comunicanti. La linea tuttavia non è in nessuna opera linea di contorno, ma rappresenta la stessa mano dell’autore che sfiora, accarezza il corpo che ha in mente, nello stesso istante in cui lo traduce in segno e par di percepire il calore del tatto in quella scia carnale che a volte segue il tratto nero e ne rafforza le angolature, i punti. E’ una esperienza fisica quella che Tomasello pare voglia trasmettere, fatta di profumi, fruscii, sapori, ma che trova edonismo nel gesto, nel movimento che si fa espressione e raggiunge l’interiorità. Una sorta di plasticità del moto d’un attimo: del cenno, del sopracciglio o labbro che muta curvatura, di una ciocca che si sposta, d’una ma-

no che s’alza. Moto che aspira a rendersi tangibile nel segno di un foglio bianco e allo stesso tempo diventa moto dell’animo: come in ogni volto, dove s’intersecano talmente tante movenze che è impossibile raggiungere un’interpretazione, almeno un’unica visione. Il medesimo lirismo si riversa in paesaggi, contorni di crateri, in cui si percepisce lo stesso tocco-sfioro d’amore, del sensibile che diventa piacere intimo. Di tutte le baccanti par che l’Etna sia la vera amante prediletta, l’unica, e allo stesso tempo madre. Essa si erge imponente e nuda, senza veli, come in Etna-toGarbarek1, e rende un sentimento filiale che aspira a protezione, quasi un totem, una visione contemplativa. Emerge un attaccamento tutto terreno, di terra come genitrice, ma anche come fonte di energia propulsiva che diventa ispirazione artistica e vuole essere un richiamo. “Siediti e contempla” come un qualcosa di quotidiano e semplice, sembrano voler dire Etnaseduta-baroque1e Etnaseduta-baroque2, con il riferimento forte alla nostra cultura artistica monumentale. E pare un invito ad una scalata, o un racconto d’un’altra, anche Etna - to Garbarek 2, in cui viene reso il segreto edonistico del respirare al respiro della natura. Rappresentazione che vuole assurgere dunque ad esperienza mistica o ne vuole dare suggerimento. E’ proprio la quotidianità, semplicità del suo tratto che porta dietro una complessità di pensiero e profondità d’emozione, l’amore per il gesto, l’espressione, il corpo come riflesso di un intimo da accarezzare, trarre a nutrimento, nonché l’attaccamento alla terra, alla natura come esperienza mistica e salvifica, che rendono la mostra di Vincenzo Tomasello una mostra singolare. Una mostra che dice molto alla nostra contemporaneità. Enzo Tomasello, «BACCANTI TIMIDE», Otium - Wine Bar, caffè letterario, Vittoria (RG)

l’omaggio di NewL’ink

Scrivere di una collega d’Accademia e ancor più di una cara e stimata amica mette nella condizione in cui non sai se le parole usate sono quelle adeguate per descrivere la persona. Ma spostando in sottotono la parte puramente emotiva e affrancandomi dall’opinione comune che rende straordinarie le persone quando non ci sono più, ricorderò Elena così com’era, una donna forte e discreta che silenziosamente se ne è andata. E’ vivida l’immagine di una razionalità e di una analisi lucida sui fatti contingenti avvalorati

da una profondità di pensiero e di sguardo sia nel campo professionale sia durante il decorso della malattia, vissuta con coraggio e speranza. La sua presenza la si avvertiva in ogni contesto, per la oculatezza dei suoi interventi sempre basati sulla conoscenza circostanziata dell’oggetto in esame. Il suo coinvolgimento appassionato e rigoroso nello studio e nella ricerca, che ha trasmesso ai suoi studenti per i quali era un saldo punto di riferimento, lo si poteva riscontrare nel suo modo di essere, attento, serio e disponibile, sempre

protesa verso un’etica professionale e una pulizia mentale che, non solo nella mia opinione ma anche in quella di quanti hanno avuto la fortuna di conoscerla e frequentarla, fanno riflettere sull’importanza dell’unione fra le persone, sulla condivisione, sulla partecipazione costruttiva e sul raggiungimento di un alto obiettivo di crescita umana e culturale. Questa è l’ineguagliabile eredità che ci ha lasciato una persona di comune straordinarietà.. Ornella Fazzina


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di Livio Marchese

L’avvenire del cinematografo appartiene a una razza nuova di giovani solitari che gireranno di tasca propria fino all’ultimo centesimo senza farsi impastoiare dalle routines materiali del mestiere. (Robert Bresson, da Note sul cinematografo)

Agli inizi del decennio appena trascorso, l’avvento del digitale sembrava il passo decisivo verso la concretizzazione della profezia bressoniana. Riducendo drasticamente i costi di realizzazione e introducendo mezzi leggeri di ripresa, il digitale ha rappresentato almeno in teoria l’approdo ideale di quel processo di liberazione dalle briglie produttive e dagli ingombri tecnici della macchina-cinema avviato da Rossellini e proseguito dalle Nouvelles Vagues fino a Dogma. Ma se si scorrono i credits di gran parte delle produzioni in digitale che affollano le decine e decine di festival sorti come funghi in tutti gli angoli della penisola, ci si rende conto che questa libertà, nella pratica cinematografica, è solo un’illusione. La maggior parte dei giovani filmmaker appaiono desiderosi di “integrarsi” - al pari dei colleghi del cinema-spettacolo - in un sistema diverso ma altrettanto omologante, quello delle Film Commission regionali e dei finanziamenti erogati con eccessiva generosità a produzioni che potrebbero, con un certo margine di approssimazione, essere fatte-in-casa, ma che finiscono invece per ricreare, su scala ridotta, gli stessi vincoli del cinema industriale. Si tratta insomma di una falsa democratizzazione del fare-cinema. Se il digitale apparentemente rende il cinema alla portata di tutti, è anche vero che solo raramente viene utilizzato come naturale evoluzione della camera-styloteorizzata da Astruc, come tramite espressivo di una ricerca etica ed estetica personale. Fino a quando i nuovi autori saranno mossi dal narcisismo, dall’esibizionismo, dal desiderio di accaparrarsi una fetta di visibilità nel panorama “artistico” nazionale, piuttosto che dalla necessità espressiva di articolare un dialogo critico con la realtà, fondato su una pratica etica ed estetica coerente, quella del digitale continuerà ad essere una rivoluzione mancata. È un caso davvero sorprendente quello de La pivellina, girato in perfetta solitudine e con budget ridotto da Tizza Covi e Rainer Frimmel, peraltro in pellicola super16, formato certamente più ingombrante e impegnativo del digitale, a dimostrazione del fatto che ciò che conta non è lo strumento in sé, ma la coscienza di chi lo usa. La pivellina è l’esito della frequentazione più che decennale da parte degli autori dell’affascinante mondo, ormai sul viale del tramonto, dei piccoli circhi ambulanti a conduzione familiare. Tappe precedenti, intorno alla metà degli anni novanta, sono una lunga serie di lavori fotografici che ritraggono contorsionisti, clown, incantatori di serpenti e acrobati - i due citano Diane Arbus tra le maggiori fonti d’ispirazione -, e il documentario Babooska, realizzato nel 2005. Tra i tanti artisti incontrati in questo lungo percorso, Tizza Covi e Rainer Frimmel si sono imbattuti in Patrizia Gerardi e Walter Saabel, specializzati nel lancio dei coltelli, che vivono da oltre vent’anni in una roulotte di base nell’estrema periferia romana, per l’esattezza nella borgata di San Basilio. Costruita alla fine degli anni ‘20 per ospitare gli sfollati dei quartieri centrali in seguito agli sventramenti operati dalla politica urbanistica fascista, San Basilio veniva definita già all’epoca come borgata “semi-rurale”. Si trattava nei fatti di una zona di confine, né città, né campagna, dalla quale era estremamente disagevole ogni comunicazione con l’esterno. Dalle originarie capanne in muratura prive di servizi, ai lotti gialli o rossi disposti “in linea” o “ad arco” edificati intorno alla metà degli anni ’50, alle torri a sette piani rivestite di mattoni rossi risalenti agli anni ’60, il quartiere ha progressivamente mutato volto, ma non ha mai perso il suo carattere popolare e suburbano di terra di nessuno. Nel corso degli anni ’70 e ’80 San Basilio è stato teatro di aspre “lotte per la casa” e di occupazioni. In anni più recenti, in seguito all’arrivo dei migranti, la situazione si è ulteriormente complicata e la cronaca nera ha più volte riportato notizie relative a drammatiche vicende d’intolleranza e di violenza nei confronti dei rom accampatisi in baracche improvvisate in diverse aree del quartiere. La pivellina non è tuttavia uno di quei film di denuncia civile ipocritamente applauditi dalla critica “impegnata”. La storia travagliata del quartiere trasuda inevitabilmente dalle immagini - le scritte sui muri, ad esempio -, ma non è

l’obbiettivo primario dei registi, il cui interesse, molto più umilmente, è quello di fornire la testimonianza di una realtà marginale, di uno stile di vita “altro”. Ambientato in un campo-roulotte popolato da circensi e da artisti di strada, il film fa piazza pulita della percezione stereotipata che lo spettatore medio nutre nei confronti di chi vive in un contesto diverso rispetto a quello del quale ha esperienza diretta. Dal calduccio rassicurante delle nostre abitazioni borghesi, dotate di ogni comfort, si è portati a pensare che qualsiasi altro stile di vita che non assecondi i canoni ai quali siamo stati abituati sia da denigrare, in quanto specchio di costumi insani. Ma quelle convenzioni, che spesso vengono interpretate come sinonimo di “civiltà”, in realtà non sono altro che falsi bisogni, il prodotto della manipolazione dell’immaginario indotta da un sistema politico-economico-mediatico fondato sul consumo sfrenato e a tutti i costi e sull’imposizione della paura dell’“altro”. La pivellina racconta invece la tranche de vie di un microcosmo, popolato da artisti del circo appartenenti a diverse generazioni, che conducono, con pochi mezzi ma con grande dignità, uno stile di vita anarchico, basato sull’associazione spontanea per esigenze comuni. Oltre i confini familiari, superati da una pratica etica della condivisione tra uomini e animali che si esplica in un utilizzo non convenzionale, popolare e collettivo dell’ambiente, il film esplora una maniera non-borghese di concepire le relazioni tra gli esseri viventi e il loro spazio vitale. I due registi hanno cercato per anni uno spunto narrativo fittizio da inserire come detonatore di racconto all’interno di questo milieusocio-urbano anomalo. Ed eccoci alla sequenza d’apertura. La camera, dopo aver messo lo spettatore in condizione empatica di respirare lo spirito del luogo e di partecipare alla sua geografia, grazie a un pedinamento zavattiniano al seguito di Patti e del rossofuoco innaturale dei suoi capelli, lo conduce al parco-giochi dove avviene l’incontro che mette in moto la macchina narrativa. Patti non riesce a trovare Ercole, che presto scopriremo essere il suo cane, ma in compenso s’imbatte in una bambina di due anni, abbandonata su un’altalena, con un biglietto della madre che promette di tornare a riprenderla. La storia del cinema annovera numerose celebri opere incentrate sul tema dell’“ospite inatteso”, dell’“intruso” che s’insedia all’interno di un nucleo familiare per sconvolgerlo, facendone esplodere le tensioni latenti o, al contrario, risolvendone in positivo in contrasti. Niente di tutto ciò ne La pivellina. La famiglia che adotta temporaneamente la piccola Asia è già di per sé aperta, aliena dai meccanismi repressivi caratteristici di altri contesti. Patti, Walter, Tairo e gli altri, per scelta personale o per tradizione familiare, vivono di quel poco che ricavano esibendosi nelle feste di piazza o, talvolta, per la strada, di fronte a caseggiati popolari dai muri scrostati d’umidità, in spettacoli che spesso sono costretti a interrompere per mancanza di pubblico, perché al giorno d’oggi non c’è più nessuno disposto a stupirsi di fronte al fascino ingenuo delle prodezze di un saltimbanco o di un giocoliere. L’arrivo della “pivellina” - in gergo circense la “piccola bambina” - non fa che confermare la naturale disposizione alla solidarietà di questa gente, abituata a condividere pericoli e disagi di ogni sorta e a superarli grazie all’aiuto reciproco. Invece di dichiarare la presenza di Asia alle forze dell’ordine, Patti, consapevole dei rischi ai quali potrebbe andare incontro con la sua scelta, decide di prenderla con sé. La piccola in breve diventa quasi la mascotte del campo e tutti si prodigano ad aiutarla, comprandole pannolini o vestitini. Diventa anche la compagna di giochi preferita di Tairo, che ha quattordici anni, e che preferisce divertirsi con lei piuttosto che trascorrere il tempo insieme alla fidanzata. Le scene dei giochi “poveri” tra Tairo e Asia sono tra le più belle del film, come quella in cui lui aiuta la piccola a indossare degli enor-


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mi stivaloni per sguazzare nel fango. Questa e altre scene - la bambina che accarezza Ercole, la gita con Patti sulla spiaggia di Ostia, la giostra, la festa - sembrano quasi “rubate” e hanno la freschezza, la spontaneità e la vivacità di certi filmini di famiglia. La camera di Rainer Frimmel asseconda le derive dei protagonisti ed esplora traiettorie inedite ai margini della città, tra bidoni dell’immondizia, tir e macchine scassate, lamiere arrugginite che separano la baraccopoli dallo stradone, attraverso sterrati fangosi, sfasciacarrozze, enormi pozzanghere, lo squallido parco-giochi immerso in un verde opaco per lo smog, la baracca abitata da un contadino solitario, situata sotto un ponte della ferrovia dal quale i disperati decidono di porre fine alla loro esistenza. Sono spazi urbani scarsamente frequentati da un cinema italiano romano-centrico, ma sempre più cieco e sordo, incapace di accorgersi della straordinaria ricchezza di storie, volti e luoghi che popolano il sottosuolo, in attesa di uno sguardo pronto a coglierli e raccontarli. Alcuni recensori, rilevando l’uso della camera a spalla, l’esplorazione di un ambiente urbano e antropologico marginale, il tema dell’infanzia urbana e altre affinità meramente esteriori, hanno abbozzato il paragone con il cinema dei fratelli Dardenne. A ben vedere, siamo ben distanti dai film dei registi belgi. Soprattutto per quanto riguarda la dialettica tra “scrittura” - la sceneggiatura vincolante - e quella che si potrebbe definire come “oralità” - l’apertura all’imprevedibile, al caso, l’adesione a una realtà non programmata. Nei racconti di formazione dei Dardenne, la struttura narrativa è ferrea. La presa di coscienza dei protagonisti prevede il passaggio attraverso tappe obbligate, stazioni di una via crucis laica, decise dagli autori in sede di sceneggiatura, che conducono inevitabilmente a un finale che ribalta la condizione interiore iniziale del protagonista. Ne La pivellina il racconto è molto più libero e disposto all’improvvisazione. Come hanno dichiarato i due registi, le uniche sequenze scritte sono l’apertura - l’incontro con Asia - e la chiusura - la partenza della bambina. Tutto ciò che accade nei restanti ottanta minuti circa, è il risultato dell’ispirazione istintiva dei registi e dell’atmosfera empatica di condivisione, nata spontaneamente su un set che coincide con la realtà vissuta quotidianamente dai protagonisti e dai registi. Tizza Covi e Rainer Frimmel hanno vissuto per sei settimane nel campo-roulotte, sviluppando la storia insieme ai loro amici-attori “trovati” e lasciando i dialoghi alla loro improvvisazione. La regia in fin dei conti si è limitata a creare una “situazione”, inserendo un elemento estraneo - la tenera “pivellina” - all’interno di un microcosmo, per stupirsi di fronte a ciò che accade. Nel corpo centrale il film ha pertanto una struttura orizzontale e asinde-

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tica, una serie di sequenze che potrebbero anche essere cambiate d’ordine senza intaccare il senso complessivo dell’opera. Non esiste pertanto la progressione drammatica degli eventi tipica dei Dardenne. Manca anche l’atmosfera plumbea e oppressiva di film come Rosetta o L’enfant, che conduce lo spettatore, al termine della visione, quasi a un senso di spossatezza fisica. Caratteristica de La pivellina è invece la leggerezza del racconto, la levità nell’affrontare tematiche dolorose come quella dell’infanzia urbana. Come nei film dei Dardenne, lo spettatore è chiamato a partecipare emotivamente alle vicende dei personaggi, ma nonostante la sostanziale drammaticità della vicenda - una bambina abbandonata dalla madre per motivi che allo spettatore restano oscuri, ma sui quali ciascuno può fornire la propria interpretazione - la tragedia resta fuoricampo, confinata a un servizio televisivo sul doppio omicidio-suicidio di una ragazza madre e della propria creatura. Perfino i tentativi di suicidio di Tairo, che da bambino aveva sofferto la separazione dei genitori, sono rievocati da Patti con un sorriso affettuoso. Non tutte le infanzie sono felici, ma la stessa considerazione vale per l’adolescenza, la maturità e la terza età, ed è ammirevole la sensibilità, la delicatezza e il pudore mostrati dai registi nel limitarsi all’allusione, nel non volere indugiare o scavare morbosamente nei trascorsi personali dei protagonisti. La camera è al servizio della storia, pienamente disposta ad accogliere i personaggi e a seguirne i movimenti, in maniera tale da mettere lo spettatore nelle condizioni di partecipare al film alla giusta distanza, senza alcun giudizio, ma anche senza alcuna idealizzazione né tantomeno ideologizzazione. E senza nessun compiacimento artistico. Più che ai Dardenne, se si volessero individuare dei riferimenti cinematografici per La pivellina, bisognerebbe guardare al cinema italiano dell’epoca d’oro. La pratica del pedinamento, la predilezione per il quotidiano fanno pensare a Ladri di biciclette e a Umberto D., il tema dell’infanzia urbana rimanda a Sciuscià o a Germania anno zero, mentre il tema della solidarietà tra emarginati e l’ottimismo di fondo ricordano Miracolo a Milano; l’improvvisazione, l’attenzione per la realtà, l’osmosi tra fictione documentario, il rifiuto della bella immagine sono prettamente rosselliniani, così come la rappresentazione affettuosa del mondo circense, l’amore per gli umili e il senso di “grazia” fanno venire in mente il Fellini de La strada. Ma su tutto il film aleggia lo spirito del sodalizio tra Pasolini e Sergio Citti, che probabilmente avrebbero amato molto questo piccolo film, che commuove e stupisce non per la drammaticità del racconto, ma per la luminosa/numinosa presenza delle cose-in-sé.

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i Libri del m

EURIPIDE, BACCANTI a cura di Davide Susanetti Carocci | 2011 | pp. 300 Difficile pensare ad una tragedia classica più controversa delle Baccanti di Euripide. Rappresentate, postume, alla fine del V secolo a.C., sono state al centro di una delle controversie più vivaci e più significative della filologia classica degli ultimi cento anni. Vi è chi ha letto, nella vicenda del dio Dioniso che arriva a Tebe e pervade con il suo furore mistico le donne della città, un ripensamento della problematica religiosa da parte del poeta più razionalista ed “illuminista” dell’antica Grecia, e si è spinto fino a ipotizzare una conversione di Euripide al dionisismo; altri, invece, guardando soprattutto agli orrori che la follia dionisiaca provoca nel finale cruento (il re Penteo, che cerca di osteggiare Dioniso e dubita della sua natura divina, viene fatto a brani dalla madre invasata),vihavistol’ennesima,disperataprotesta del drammaturgo contro la superstizione religiosa o la crudeltà degli dei. Per non dire del carattere esemplare che la tragedia rivestì per Nietzsche, o delle riscritture che ha ispirato nel Novecento (come nell’ambientazione africana del premio Nobel Wole Soyinka). Su di un testo così profondamente e diversamente scrutato dire qualcosa che non rimesti i sentieri già battuti, rappresenta una vera sfida; sfida che appare decisamente superata in queste nuove Baccanti introdotte, tradotte e commentate da Davide Susanetti. Si tratta della prima uscita di una nuova collana dell’editore Carocci, che si distingue dal pur ricco panorama che l’editoria italiana offre sui classici greci e latini, per varie ragioni. In primo luogo, il testo greco non è una semplice fotocopia anastatica di una delle edizioni critiche correnti ma, partendo dalla più aggiornata, la ridiscute e la vaglia con accuratezza; in secondo luogo, la traduzione è immediatamente fruibile senza alcun

bisogno di note a piè di pagina, concepita per una dicibilità teatrale e leggibile anche da chi non è specialista e magari non sa nulla di greco antico. Infine, il commento ha un’ampiezza inusuale per una collana economica, non limitandosi a note esplicative sui dettagli della tradizione mitica, come a volte succede, ma comprendendo più dimensioni, da quella filologica a quella più strettamente esegetica ad una storico-antropologica, quanto mai necessaria per un testo assurto ad emblema del dionisismo, culto iniziatico che ricerca forme di alterazione della personalità mediante stati di trance o estasi. L’introduzione è unsaggiodensomacontenutoe,opportunamente, privodi note, che affronta tutti i nodi essenziali del testo e ne dà una interpretazione essenzialmente politica. Non i conflitti religiosi e neppure quelli psianalitici sono il vero centro del dramma, ma la città e le sue istituzioni,pronteadusareilsacrocomemaschera di legittimazione del potere, che esce alla fine completamente destrutturato lasciando Tebe (alias Atene) desolatamente vuota; un bilancio - amaro -sulla irrimediabile fine di un’epoca. Dino Piovan

DOVE SIAMO? Nuove posizioni della critica di AA.VV. Duepunti | 2011 | pp. 123 Anche se si continua a ripetere che la critica letteraria è in crisi, si fa fatica a convincersene guardando gli scaffali delle librerie, tra ristampe di nomi celebri, come La letteratura in pericolo di Tzvetan Todorov (Garzanti), che un po’ retoricamente invita a riscoprire il valore formativo della co- noscenza delle grandi opere sottraendole all’eccesso di analisi formali (detto da chi è stato un alfiere dello strutturalismo, sembra una vera palinodia); e saggi appassionati come Disumane lettere di Carla Benedetti (Laterza), che con prospettiva davvero ampia aspira ad una ri-

fondazione della cultura che superi il nichilismo dilagante e l’antropocentrismo che non affronta le sfide radicali poste al pensiero dalle scoperte scientifiche. Tra tante proposte rischia di passare inosservato un libro dal titolo più sommesso: Dove siamo?Nuove posizioni della critica , che racchiude interventi talvolta molto densi e sempre stimolanti di sei autori (Andrea Cortellessa, Stefano Jossa, Matteo di Gesù, DavideDalmas, GiancarloAlfanoe DomenicoScarpa), accomunati dall’appartenenza generazionale e dall’apertura ad una riflessione sul letterario non specialistica e dai forti accenti eticocivili. Ed è soprattutto la figura e la funzione dell’intellettuale, dall’università alla scuola, dall’editoria ai nuovi mezzi di comunicazione, ad essere al centro della loro attenzione. Cortellessa, in particolare, analizza con acutezza le trasformazioni del ruolo pubblico dello scrittore, che oggi rifiuta programmaticamente l’idea gramsciana dell’intellettuale partecipe alle vicende altrui in favore della propria singolarità ed irriducibilità al senso comune, salvo accettare di fare da comparsa, macchiettistica e ininfluente, nella società dello spettacolo: l’intellettuale “liquido”, per dirla alla Bauman. Jossa riflette sulla centralità che soprattutto in Italia, dal Risorgimento in poi, la letteratura ha rivestito nell’educazione scolastica, considerata come il fondamento di una vera e propria religione civile capace di fare gli Italiani e di dotarli di una identità etica e storica sopra le distinzioni regionali e di classe. Un ruolo preponderante della letteratura e del docente di lettere, assolto però più con gli strumenti della retorica che della prassi (intesa come partecipazione, discussione e dialogo), da cui Jossa invita a ripartire. Di Gesù si sofferma sulle insoddisfacenti definizioni correnti di letteratura italiana, Dalmas su strategie di rivitalizzazione dello studio letterario (quali la storia culturale e la scienza delle opere), Alfano sull’ambivalenza dell’insegnamento della letteratura tra trasmissione, ossia conservazione, ed invenzione, ossia appropriazione della tradizione, mentre Scarpa punta alla necessità di essere intransigenti sulla qualità del lavoro editoriale ma senza ignorare il pubblico. C’è da augurarsi che questo primo titolo di una nuova collana, spesso efficace nella pars destruens di smontare modelli culturali consolidati e sclerotizzati, sia presto seguito da altre proposte più puntuali ed altrettanto efficaci nella pars construens. Dino Piovan

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DEMETRIO STRATOS e il teatro della voce di Andrea Laino Auditorium | 2009 | pp. 160 La vita e l’opera di Demetrio Stratos è oggi ben raccontata in questo libro, pubblicato un paio d’anni fa dalla Auditorium, Casanova e Chianura Edizioni, nella collana Rumori.Non sono molti i personaggi che nel nostro panorama musicale del chiudere del secolo scorso hanno lasciato una traccia così persistente nella memoria collettiva al pari di quella di Stratos. Andrea Laino si è laureato al DAMS di Bologna con una tesi sul grande vocalista che è alla base di questo volume la cui struttura ruota intorno al secondo ampio capitolo Demetrio Stratos, performer nomade, che occupa più di un terzo del libro e che dallo stesso autore è indicato come il cuore dell’opera. Apre il volumetto una sintetica biografia che prelude a un breve testo d’apertura (Perché il teatro della voce?) e ai cinque capitoli. Vari sono gli spunti e i riferimenti, anche di carattere filosofico, oltre a quelli “obbligati” ad Artaud e Cage. È interessante l’opera perché tende a inquadrare il personaggio rileggendo criticamente il suo percorso. Che non è semplicemente quello di una grande voce ma di un artista di ricerca pienamente consapevole del suo ruolo. Ci dice Laino: Il motivo per cui si è scelto di usare la parola “teatro”, piuttosto che limitare il fenomeno a quello della performance o sperimentazione vocale, è perché l’opera di Stratos travalica i limiti di un ambito strettamente sonoro, musicale, per spingersi nei territori della performance, dove tutte le istanze vocali messe in gioco diventano assimilabili al gesto che l’attore compiein scena, carico di quel valore espressivo proprio del “simbolo”, che non ha bisogno della parola per esprimersi. Alessandro Finocchiaro



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PALIOdi SIENA

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Ogni anno solleva un’epopea di polemiche, ma rimane pur sempre l’appuntamento ippico più affascinante e storico di tutto il panorama sportivo italiano e forse mondiale: è il Palio di Siena, competizione fra le contrade di Siena che si articola nella forma di una giostra equestre dalle origini medievali. La “Carriera“, come viene tradizionalmente chiamata la corsa, si svolge normalmente due volte l’anno: il 2 luglio si corre il Palio di Provenzano (in onore della Madonna di Provenzano) e il 16 agosto il Palio dell’Assunta(in onore della Madonna Assunta). In occasione di avvenimenti eccezionali (come ad esempio nel 1969 la conquista della Luna) o di ricorrenze cittadine o nazionali ritenute rilevanti e pertinenti (ad es. il centenario dell’Unità d’Italia) la comunità senese può decidere di effettuare un Palio straordinario, tra maggio e settembre (l’ultimo si è tenuto nel 2000, per celebrare l’ingresso nel nuovo millennio). Ma quali sono le origini del Palio di Siena? Secondo alcuni, nacque in ricordo della memorabile battaglia di Montaperti (1260) tra le truppe guelfe, capeggiate da Firenze, e quelle ghibelline, capeggiate da Siena. La storia del Palio è però più articolata e complessa, e affonda le proprie radici in un’epoca ancor più remota. Nelle città italiane del XII e XIII secolo era usanza organizzare corse di cavalli tra i diversi allevamenti equini posseduti dai nobili cittadini. Parallelamente ai palii dei nobili, i cittadini di Siena cominciarono ad organizzare altre competizioni: Paliirionali(forma di palio corso nel territorio dei rioni cittadini di Siena), l’Elmora (una sorta di battaglia simulata combattuta con spade e lance di legno), Giochi delle pugna(combattimento a mani nude), Pallonate (non lontano dal Calcio “storico” fiorentino), Cacce dei tori (manifestazione popolare in occasione della quale per la prima volta il popolo senese compare in Piazza suddiviso per Contrade), Bufalate e Asinate (corse con bufale e asini). La corsa del Palio prende il nome, e non solo a Siena, dal premio: il Palio, dal latino pallium (mantello di lana), in genere un drappo di stoffa molto pregiata che veniva utilizzato per gli scopi più svariati. A Siena, in genere, era destinato alla parrocchia del rione vincitore che lo utilizzava poi come arredo per la chiesa come segno di riconoscenza e devozione. Un’altra possibilità era la restituzione del premio alla Comunità civica in cambio del suo valore in denaro. In questo caso l’importo poteva essere usato, ad esempio, per fornire di dote le giovani più indigenti della contrada o per altre spese di utilità comune. Dal Settecento si afferma però l’idea del Palio-dipinto(il più antico risale al 1719), e solo dopo la Seconda guerra mondiale, vengono chiamati a dipingerlo, oltre ai bravissimi artigiani, anche pittori di fama nazionale e internazionale. Tra i vari spettacoli e competizioni, nel XVI secolo si afferma il Palio alla tonda, quello attuale, differente dai palii alla lungadel 1500 (corsi in linea su un percorso che andava da fuori le mura della città sino al Duomo). Ma vero episodio “scatenante” del Palio moderno è probabilmente un fatto avvenuto durante l’occupazione fiorentina e spagnola della città. Verso la fine del Cinquecento una famosa Pietà conservata in un tabernacolo, che si diceva essere stata posta nella sua collocazione da Santa Caterina tre secoli prima, fu oltraggiata da un soldato spagnolo che tentò di sparargli rimanendo invece ucciso dall’esplosione del suo stesso archibugio. Era il 2 luglio e, per commemorare il miracolo fatto dalla Vergine protettrice di Siena contro gli occupanti, i cittadini cominciarono di anno in anno a celebrare con sempre maggiore sfarzo l’anniversario. Tra le varie celebrazioni, fu naturale inserire una corsa del Palio. Dal 1611 poi la Basilica di Provenzano custodisce quello che resta dell’immagine sacra oltraggiata. A questa corsa vi partecipavano le contrade (quindi il popolo) e non i nobili, e si correva in Piazza del Campo alla tonda e non attraverso le strade della città o in uno specifico rione. Nacque così il Palio moderno. Dal 1656 il Comune di Siena si prende in carico l’organizzazione del Palio di Provenzano e nel 1701 si comincia a correre, in maniera intermittente perché ancora spontanea, anche il Palio dell’Assunta. La data del 16 agosto venne scelta perché gli altri giorni canonici delle feste d’agosto, il 14 e il 15, a Siena erano già “occupati”, rispettivamente, dal Corteo dei Ceri e dei Censi e dalla festa dell’Assunta che culminava nel Palio alla lunga (abolito all’inizio dell’Ottocento). Questo nuovo Palio d’agosto rappresentava all’inizio un prolungamento dei festeggiamenti della Contrada vincitrice del Palio di luglio, che lo organizzava a proprie spese (quando economicamente possibile, di qui la sua saltuarietà). Dal 1802 segue la stessa sorte di quello di luglio, cominciando ad essere organizzato dall’ormai costituito Comune di Siena moderno. Nel 1729, la governatrice di Siena Violante di Baviera stabilisce i confini delle Contrade e a causa di incidenti occorsi negli anni precedenti, decreta che non possano partecipare più di 10 Contrade alla volta. Tutt’oggi è sempre il Comune di Siena ad organizzare il Palio, a gestirne l’aspetto economico (tranne le somme elargite dalle singole contrade ai fantini ingaggiati o per i patti con altre contrade) e quello della giustizia paliesca (eventuali sanzioni a fantini e/o contrade in caso di violazioni del regolamento paliesco). Il Palio infatti è autofinanziato dalla comunità senese e non prevede (né accetterebbe) alcun tipo di sponsorizzazione. Una scrupolosa organizzazione, che dura tutto l’anno quella del Palio che si compone di varie numerose attività che si svolgono all’interno di ogni Contrada. Le dirigenze infatti, sin dall’inverno, curano le strategie tenendo i contatti con i fantini e i proprietari di cavalli. Si entra pienamente nel clima paliesco a fine maggio, con l’estrazione a sorte delle tre contrade che affiancheranno le sette che corrono di diritto: con il quadro delle contrade delineato per intero si può iniziare a parlare di “monte” (ingaggio dei fantini) e di “partiti” (patti segreti per la vittoria), nonostante l’incognita del cavallo, che toccherà a sorte. Circa una settimana prima del Palio viene presentato il Drappellone (il trofeo da consegnare alla Contrada vincitrice dipinto su seta che il Comune ha commissionato ad un artista locale, nel caso del Palio di luglio, o di fama internazionale,

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di Davide Scandura

nel caso del Palio di agosto o di uno straordinario). Sempre in queste ore avvengono le visite preliminari dei cavalli che si intende presentare. Nel primo dei quattro giorni di Festa si tiene la tratta, l’estrazione a sorte e successivo abbinamento dei barberi (cavalli) alle contrade in gara. Sull’anello di pietra serena intorno alla Piazza, ricoperto da uno strato di terra composto da una miscela di tufo, argilla e sabbia, si corrono in tutto sei prove, durante le quali i fantini hanno la possibilità di conoscere meglio il comportamento del cavallo che monteranno e di farlo abituare alla Piazza, ai suoi rumori ed ai ritmi propri della corsa. Tra gli appuntamenti che segnano l’avvicanarsi della Carriera vi sono poi la cena della prova generale, la cosiddetta “Messadelfantino” e la benedizione di cavallo e fantino. Da diversi anni il Palio è oggetto di alcune proteste da parte delle associazioni animaliste. Tali proteste riguardano soprattutto gli incidenti di gara che provocano rovinose cadute e che, in alcuni casi, hanno portato alla morte del cavallo. Molte norme che regolano la salvaguardia degli animali sono state comunque sviluppate e attuate soltanto a partire dagli anni novanta: i dati, sia degli animalisti sia dei sostenitori del palio, sottolineano come la casistica si sia drasticamente ridotta e non esista differenza in termini percentuali tra incidenti nelle corse regolari e nelle corse storiche. Il protocollo equino è comunque ai massimi livelli nella tutela del cavallo e tra i provvedimenti presi vi sono la visita sanitaria obbligatoria del cavallo, alcol-test ai fantini, l’istituzione dell’Albo dei cavalli ed un Albo degli allevatori dei cavalli mezzo sangue a fondo arabo (ritenuti fisicamente più adatti alla corsa), la costruzione di una pista a Mociano, identica per forma e pendenza a Piazza del Campo per l’addestramento obbligatorio per i cavalli, maggiori protezioni lungo tutto il percorso e mantenimento dei cavalli non più in condizioni di correre il Palio (per l’età avanzata o per infortunio). Due palii particolari quelli di quest’anno, che hanno visto le vittorie delle contrade dell’Oca (2 luglio) e della Giraffa (16 agosto). Il primo un palio tutto tricolore, a tinte bianche, rosse e verdi, come il 150° anniversario dell’Unità d’Italia a cui era dedicato il drappellone ideato da Tullio Pericolinel quale diversi generi, miscelati con estrema cura, dimostrano un percorso creativo libero da stereotipi e carico di fascinazione, in grado di raccontare la bellezza del mondo attraverso un momento di storia e di vissuta umanità. Un “anacronismo sincronico” per i recuperi dalla memoria proiettati, abilmente, nella temporalità dell’oggi. Un Palio scritto invece quello di agosto per la Giraffa. Prima l’estrazione a sorte poi l’assegnazione con l’arrivo della big del lotto, la grigia Fedora Saura (cavalla già due volte vincitrice del Palio), ed infine la corsa, un autentico capolavoro firmato dal fantino Andrea Mari detto Brio. La Giraffa, la favorita della vigilia, si è aggiudicata il drappellone dipinto da Francesco Carone, vincendo il Palio del “3”. Tre come i successi di Brio, sempre più erede designato a raccogliere il testimone che tra qualche anno dovrà forzatamente passargli l’attuale imperatore della piazza Luigi Bruschelli (tra i fantini più vittoriosi nella storia del Palio di Siena con ben 12 vittorie); tre come le vittorie di Fedora Saura, la grigia. Non è mai facile vincere quando si è favoriti, ma la Giraffa lo ha fatto nel migliore dei modi, grazie ad una strategia ottima, ad un po’ di fortuna nell’assegnazione, ma soprattutto ad un’accoppiata costruita bene, con un fantino seguito da tempo che ha mantenuto le aspettative con una corsa praticamente perfetta. Polvere di tufo. solleone d’agosto. Gente, tanta. Odori, suoni, colori. La conchiglia di Piazza del Campo appare piena di umanità. Diversa, unita però, nello spasmo dell’attesa. Si allineano trai canapi Aquila, Lupa, Pantera, Bruco, Leocorno, Giraffa, Istrice, Torre, Chiocciola e Nicchio. Fremono quei cavalli amati come figli, unici protagonisti. Il fantino è un “mercenario”, si può “comprare”, loro no, sono natura pura. Con un primo San Martino girato in seconda posizione dietro al Leocorno la Giraffa sembra volare, poi una traiettoria più interna al Casato con il sorpasso di Scompiglio e Ivanov e infine due giri per- fetti fino all’arrivo a nerbo alzato. È il trionfodi una contrada che dimostra ancora una volta la sua eccezionale tradizione in fatto di vittorie (ultimamente una ogni 7 anni). Siena ha corso il suo Palio, dal mondo lo hanno guardato, con la forza dei sentimenti. Da tempo turisti e studiosi cercano di scoprire in questa festa le origini di una umanità oggi svenduta a valori che non trovano spazio nell’anima. Il popolo bianco/rosso della Giraffa intanto ha preso il suo cencio. Ora è al Duomo per cantare il Te Deum e ringraziare la Madonna Assunta in cielo. A lei è dedicato questo Palio di mezzo agosto. Strano popolo questi senesi. Capaci di sentimenti e comportamenti contrapposti. A loro ben si addice lo stemma della città. Uno scudo metà bianco e metà nero. Colori e non colori. Opposti e uniti. Immagine preziosa e singolare di come nel conflitto delle Contrade sia intrisa l’unione fondata sulla vivezza dei riti e fedeltà nei secoli. Un’apoteosi di senesità e di cultura poi il drappellone di agosto realizzato dall’artista Francesco Carone. “E’ un cencio bianco”. Così lo hanno visto le migliaia di persone nella Piazza quando è sfilato sul Carroccio. Dentro a quel bianco, però, è racchiusa la civiltà di una collettività. Carone, nel suo omaggio a Duccio di Buoninsegna che, sette secoli fa, dipinse una straordinaria opera per l’altare maggiore del Duomo, è riuscito a condensare tutta la sacralità della festa. Un’abile ricamatrice, Letizia Frosini, ha riprodotto, su disegno dell’artista, la Maestà del grande pittore trecentesco, e, in più, Carone vi ha inserito la sua creatività contemporanea. Il risultato: perfetto. Il suo lavoro, come il Palio di Siena non va solo visto, va guardato. Bisogna entrarci “dentro”. Solo così è possibile avvicinarci alla conoscenza, e provare a capire il perché di una Festa che ha superato, indenne, secoli di storia.

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Giuseppe Cassibba | Palio 2011, 2011, acquerello su carta, cm 43 x 28


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novembre | dicembre 2011

di Maurizio Scibilia

n un Regno sconosciuto e lontano, Re Ego affronta, con l’ausilio del proprio ga binetto di Stato, le ultime e più concitate ore di una rivoluzione in atto nel suo Regno Stanza del Re. Sul letto, di fronte ad un uditorio ridotto ai minimi termini, arringandoli come nei tempi andati durante i quali il consenso non gli era assegnato per blasone ma andava conquistato sulle ali della retorica, il Sovrano. Davanti a lui il Capo della Polizia ed il Sondaggista in Capo, gli sguardi comunque sognanti. Il Ministro delle Comunicazioni appena staccata. La Regina nelle retrovie. … quella che abbiamo vissuto fino ad oggi, sono le parole che pronuncia il Re, rapito dall’enfasi. Una storia importante, il sogno per un domani migliore. Le forze del male, che io non ho mai smesso di combattere né considerate vinte, come tutti continuavano a dirmi, si sono infiltrate in questo Paese e ne hanno intaccato i sentimenti piùpuri,quellichemierotantosforzatodipreservare. Pare davvero che i nostri nemici abbiano vinto questa battaglia. Passa in rassegna quel pubblico improvvisato, nello sguardo un incendio

implacabile. Poi aggiunge, il tono di voce fermo come una roccia. Ma non la guerra, ci potete giurare. Tuttiapplaudonoconforza;ilResmonta dal letto e stringe mani. La Regina si fissa le unghie, palesemente annoiata. Maestà,fa Merlino, che gli stringe la mano dopo essersi a lungo domandato se non fosse il caso di baciarla, un discorso commovente. Da quanto non si sentiva un’orazione del genere? Mmmh. Cicerone, Sire? Almeno, Merlino. Almeno. Porterò sempre con me il privilegio di aver potuto udire le sue parole in una circostanza tanto dolorosa, Altissimo, gli dice Rotten. Grazie, Rotten. Vi sono grato, lo sono a tutti quanti voi, di essere rimasti qui invece che tentare di mettervi in salvo. A quelle parole, Merlino e Rotten si rivolgono uno sguardo indagatore, che concludono con un impercettibile cenno di intesa. Semmai riuscirò a salvarmi, aggiunge il Sovrano, farò in modo che abbiate un posto di riguardo all’interno del mio stesso mausoleo. Che siate ricordati come degli eroi. Troppo onore, Sire. Non lo meritiamo, Maestà. Abbiamo scritto la storia, in questi anni. Io, di certo. Ma non avrei potuto farlo senza di voi. Ognuno di voi, per quanto insignificante, ha … La moglie continua a fare al Regale marito espliciti segni di tacere, ed Egli alfine se ne accorge. Staccandosi dai fidati consiglieri, muove un paio di passi in sua direzione, al contempo dicendole: Che c’è, cara? Staiparlandoininterrottamentedaun’ora. Ne manca solo una alla scadenza dell’ultimatum e tu … tieni discorsi celebrativi? Stringi mani? Prometti posti nel tuo mausoleo? Non credi sarebbe meglio pensare a come uscire vivi da questa situazione, invece che mettersi a tracciare il profilo storico dei tuoi anni da Re? La Regina ha perfettamente ragione, fa Eco, inserendosi nella conversazione. Non tutto è ancora perduto, Sire. Non tutto è perduto, domanda il Re. Ma le avete viste anche voi le immagini in televisione? Certo che le abbiamo viste. Tuttavia non tutto è ancora perduto. Credo dovremmo fare una riunione operativa, immediatamente, per decidere il da farsi.

Una riunione operativa?, fa il Re, guardandosi intorno. Ma … che fine hanno fatto Merlino, e Rotten? Credo siano scappati, Sire. Scappati … Non ci perdiamo d’animo. Ci siamo sempre io e lei, Maestà. La Regina, che ha osservato la scena con un’espressione sardonica sul volto, dice, alla donna: Beh, se lo goda per l’ultima volta. Subito aggiungendo a beneficio del coniuge: Vado a vedere che fine ha fatto tua figlia. Ed esce anche lei dalla stanza. Non capisco, dice il Re. Cosa potremmo fare noi due? A parte quello che … Spero non ti sia messa strane idee in testa. Non sono davvero dell’umore adatto per … Oooh, stai zitto! Zitto! Non ne posso più delle tue stronzate. Il Re la osserva basito, fa per dire qualcosa. Zitto! Ora tu te ne stai in silenzio mentre io parlo. Hai capito? Se hai capito fai di sì con la testa. Il Re fa di sì con la testa, come uno scolaretto. Bene. Credi davvero che io sia venuta a letto con te perché ti trovo … non lo so, sexy? Che non potessi resistere alle tue virtù di maschio latino? L’uomo la osserva a bocca aperta. Il naturale assenso alle domande della donna abortito nell’imbarazzo della poco gratificante alternativa. Non è stato affatto piacevole infilarsi nel tuo letto e cedere alle tue voglie. Che pensi? Che non avrei preferito farlo con qualcuno più giovane e più muscoloso … e più intelligente e più bello? Beh, ti sbagli. Ti sbagli proprio di grosso, guarda. La donna gli gira intorno, l’apparente vacuità dello sguardo di sempre dissolta; in sua vece la risolutezza di una fiera per troppo tempo in gabbia. Ti facevi chiamare … com’è che ti facevi chiamare? Ah sì: il mio guerriero invincibile. Dovevo sempre dirti che sei stato il migliore amante che abbia mai avuto. Che sei l’unicochemiabbiafattodavverosentireunadonna. Che avevo provato un piacere così intensoche…noneravero!Nienteeravero!Fingevo, sempre. Per alcuni istanti è come se persino il fracasso proveniente dal Reame si attenuasse; tutti lì, in pedante ascolto, attenti a non perdersi uno solo dei più intimi dettagli delle performance amatorie del loro Sovrano. E per la cronaca, aggiunge la donna

con uno sguardo beffardo, ti ho mentito anche sulla faccenda delle dimensioni. L’occhio sgranato del Vate, che teme di sapere quanto lei sta per dire. Contano, scandisce.Eccome,secontano. Ecco fatto. Un duro colpo presso le appena compromesse stazioni di autostima del Regnante. Le donne ne parlano, tra di loro. Ma … prova ad inserirsi l’uomo. Sssth, fa lei. Chiudi quella boccaccia per un attimo, ok ? Devo dirti qualcosa di importante. Ma tu sempre lì, a parlare … Egoabbassalatesta,econessalosguardo, in linea con il proprio umore stravolto dagli imprevedibili avvenimenti di quella giornata, ora incrinato dalle feroci confessioni della donna da lui condotta ad un ruolo di cotanta valenza.


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Cos’è che ti dovevo dire?, mormora la donna. Ah, sì. Ecco. Vuoi uscirne bene da questa faccenda della rivoluzione? Non c’è bisogno che parli, basta che fai di sì con la testa. Il Re fa di sì con la testa, dopo un’iniziale esitazione. C’è una sola cosa che puoi fare, allora. E non è trattabile. Nuovo regale cenno di assenso. Devi celebrare il matrimonio tra tua figlia e Donovan, il rivoluzionario. Devi farlo subito, prima della mezzanotte. In diretta tv. Il matrimonio tra … Tra tua figlia e Donovan. Loro sono d’accordo. Si tratta del segnale stabilito che accettilecondizionidellarivoluzioneetirimetti al loro volere. Per nessuna ragione al …

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Se non lo farai … beh, lo sai già come andrà a finire. Se invece acconsentirai, e ti mostrerai felice, radioso come quando tieni i tuoi discorsi alla Nazione, allora ti permetteranno di rimanere Re. Attraverso tuo genero, la Rivoluzione sostanzialmente ti terrà per le palle, ma tu potrai conservare tutti quanti i beni, il potere, e l’immagine, alla quale tieni così tanto. La gran parte dell’azione di governo rimarrà nelle tue mani; la Rivoluzione interverrà solo sulle faccende che le stanno a cuore. Non … Un’ultima cosa: la risposta che mi darai adesso è da ritenersi definitiva. Se rifiuti, non ti saranno offerte altre chance. Verrai messo a morte, non appena pronunciata la condanna. E la condanna è già scritta. Segue un lungo tempo di silenzio e cogitazioni. Eco si è fermata ed osser-

va il Re di lato, appoggiata ad una colonna di quella stanza che per troppo tempo l’ha veduta coperta soltanto dei pesanti ansiti del Sovrano. L’uomo, tra le nubi dei funesti presagi materializzatisi sin dalla prima mattinata, e che adesso può finalmente comprendere. Anchelei,dunque,scandisce il Re, il tono grave, è collegata alla rivoluzione? Sì. Da quando? Da prima che mi conoscesse, risponde la donna, il tono superbo. Da sempre. Quindi tutto ciò che ha fatto è stato … Una finta? Certo. Tutto ciò che io ho fatto per lei … E’ stato servirsi di me. Come io mi sono servita di lei. Mmmh.

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Allora? Il Re la osserva, il suo sguardo solo un giorno prima in grado di sciogliere le volontà più ferree ora ridotto al riflesso di uno specchio d’acqua limaccioso e incupito. D’accordo, dice. Bene. Faccio preparare tutto per la cappella. Il Ministro spergiuro della causa del bene Reale abbandona la stanza in un lampo, lasciando la carcassa del Sovrano immobile, tra saette e l’insopportabile sensazione di essere stato gabbato. SOPRA

j Giuseppe Tomasello

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H Giuseppe Tomasello

Piano B 14

Piano B 13, Piano B 12, Piano B 11 2010/11, t.m. su carta, cm 20,5 x 28


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novembre | dicembre 2011

­LETTURA Giuseppe Tomasello

Nasce ad Acireale nel 1963. Compiuti gli studi artistici, nel 1993 si trasferisce per qualche anno a Milano dove lavora come illustratore. Dal 1988 si dedica alla pittura. Ha esposto in mostre personali presso: la galleria La porta rossa e la Sala Neva di Catania; la Saletta TRAM.sito Artecontemporanea di Acireale (CT); Palazzo Pulvirenti di Pedara (CT) e lo Spazio Avicenna di Milano. Tra le collettive: galleria Le Ciminiere, La porta rossa, Novorganismo e Centro Culturale Voltaire di Catania; galleria Arté, Acireale (CT); Cantina Comunale di Viagrande, (CT); Chiesa dei Cavalieri di Malta, Siracusa; ARS NOVA e galleria Studio 71 di Palermo; Museo Civico Polivalente, Vittoria (RG); Castello Normanno,Paternò(CT);PalazzettodelleEsposizioni, Gibellina (TP); Castello Federiciano, Montalbano Elicona (ME); Fiumara d’Arte - Domestic Art, Pettineo (ME); Palazzo Duca di Santo Stefano, Taormina (ME); Palazzo del Monte di Pietà, Messina; Castello Biscari, Acate (RG); Fondazione Bufalino e Galleria degli Archi, Comiso (RG). Fondazione Puglisi Cosentino (CT). Hanno scritto di lui:Marzia Andronico, Francesco Gallo, Aldo Gerbino, Giovanna Giordano, Paola Gioioso, A. Greco Titone Di Bianca, Rocco Giudice, Giovanni Iovane, Anna Lombardi, Francesca Occhipinti, Annunziata Pani, Anna Maria Ruta, Ambra Stazzone, Lorenzo Taiuti, Vincenzo Tomasello. Attualmente vive ad Acireale dove lavora come docente presso il Liceo Artistico di Acireale e continua la sua ricerca artistica.

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Progetto editoriale, Concept, Direzione creativa Luca Scandura Hanno scritto e collaborato in questo numero G. Calderone, O. Fazzina (O.F.), L. Marchese, D. Piovan,M. Rossi, D. Scandura, S. Schembari, M. Scibilia, P. Tricomi Tiratura 6.000 copie Registrazione in attesa di registrazione

Direttore Responsabile Gianni Montalto Editore di Luca Scandura via Giuseppe Vitale, 29 95024 - Acireale (CT) Redazione www.new-link.it redazione@new-link.it via Giuseppe Vitale, 29 95024 - Acireale (CT) Progetto grafico LucascanduraDesigner Stampa Eurografica Srl S.S. 114 Orientale - Cont.da Rovettazzo 95018 - Riposto (CT) È VIETATA LA RIPRODUZIONE ANCHE PARZIALE ALL RIGHT RESERVED

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SPORT

COVER

L.S. + Giuseppe Cassibba (l’artista di Newl’ink) La copertina di questo primo numero di Newl’ink apre il ciclo di Cover realizzate dalla nostra redazione attraverso la diretta collaborazione e sinergia con l’operato dell’artista invitato a realizzare l’opera grafica che interpreterà il tema sportivo del bimestre. Il nostro Direttore Creativo interverrà così, manipolandola di volta in volta, sull’immagine di un’opera dello stesso artista per darle un significato nuovo, per renderla immagine di una libertà che è arte e contenuto.

Giuseppe Cassibba, Comiso, novembre del 1965. Nel 1990 consegue il diploma di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Dal 1993 al 1995 vive a Vienna, dove trova un clima congeniale alla sua pittura, influenzata, in un primo momento, da quella neo-espressionista. Nello stesso periodo ritorna per brevi soggiorni in Sicilia dove, assieme a Rosario Antoci, Sandro Bracchitta, Salvo Caruso, Giuseppe Colombo, Piero Roccasalva e altri artisti iblei, espone in una collettiva prima a Ragusa e poi a Catania. In seguito presenta la sua prima personale alla Galleria degli Archi di Comiso, con un testo di Aldo Cottonaro pubblicato su Belfagor. Nel 1995 espone sue opere a Klosterneuburg e poi a Vienna. Nel settembre del 1996 Franz Paludetto e Carolin Linding lo invitano a partecipare nelle sale del Castello di Rivara (Torino) a una collettiva internazionale di pittori emergenti, fra cui Francis Alys, Michael Bach, Bert de Beul, John Currin, Alberto Castelli, Daniele Galliano, Marco Neri e Pierluigi Pusole. Nella primavera del 1998 ritorna definitivamente nella sua città natale dove, dopo un breve periodo dedicato all’illustrazione, riprende a dedicarsi alla pittura. Nell’estate del 2000 viene selezionato tra i migliori artisti siciliani al di sotto dei trentacinque anni da una commissione di giovani critici d’arte per la mostra Onda

d’urto: un progetto per Fiumara d’arte. Nel marzo del 2002 presenta una selezione di pastelli presso la Galleria degli Archi a cura di Monica Demattè e Maurizio Giuffredi. Nel 2003 in occasione del Costaiblea Filmfestival presenta una serie di pastelli nella mostra La casa del nespolo. Da Verga a Visconti, con testi in catalogo di Luca Beatrice e Sebastiano Gesù. Del 2006 è la mostra Contaminazioni, a cura di Michele Romano, mentre è del 2008 la personale Africana, presso la Galleria degli Archi di Comiso. Nel 2009 ha preso parte alla collettiva Orme, dedicata al tema dei migranti, presso Le Ciminiere di Catania; ha inoltre partecipato alla mostra IMuri dopo Berlinopresso lo Spazio Tadini di Milano e alla collettiva a tre con Giovanni Iudice e Arturo Barbante I colori del Sud-Est.Attraversando Camarina, negli spazi del Sud-Est di Scoglitti. Nel giugno 2010 presenta una personale alla galleria Koinè di Scicli, nel gennaio 2011 è a Canicattini Bagni presso la galleria d’arte contemporanea Fabbrica dove presenta la personale Vicino oriente. È presente (fino al 5 novembre 2011), con un’opera, all’interno della mostra Il bosco d’amore - omaggio a Renato Guttuso, coordinata e allestita dal nostro direttore creativo, presso la Fondazione Puglisi Cosentino di Catania e a cura di Rocco Giudice. Vive ed opera a Comiso.

j Giuseppe Tomasello Piano B 14, 2011, t.m. su carta, cm 20,5 x 28 (particolare) SOPRA AL CENTRO h Giuseppe Cassibba Piccolo Tom, 2010, acquerello su carta, cm 46 x 38 (OPERA FORNITA PER COVER) SOPRA A DETRA, DALL’ALTO JGiuseppe Cassibba Palio 2011, 2011, acquerello su carta, cm 43 x 28 (OPERA REALIZZATA PER LA PAGINA SPORTIVA) Madre IV, 2010, carboncino e acrilico su carta, cm 120 x 110 (part.) IN ALTO

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