LeSiciliane n.72

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Le Siciliane - CASABLANCA N.72/ novembre – dicembre 2021 SOMMARIO

A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare? Pippo Fava

3 – Editoriale Buone notizie dal Cile Graziella Proto 5 – Nuova letteratura processuale Graziella Proto 7 – No alle politiche razziste e disumane Alex Zanotelli 8 – Quando il sistema è killer Yasmine Accardo 10 – Le parole che costruiscono muri Fulvio Vassallo Paleologo 16 –La Travesìa por la vida Mimma Grillo 21 – Italia sempre più suddita Antonio Mazzeo RICORDANDO GIUSEPPE FAVA

24 – Frutti di Mare Giuseppe Fava 30 – Un Maestro umano sognatore e ribelle Elena Brancati 31 – Il nostro Pippo Fava Fabio Tracuzzi 34 – Quando esisteva il fotogiornalismo Nadia Furnari 42 – Il mio egastolo Natya Migliori 45– Una truffa contrattuale Aaron Pettinari Dieci anni senza Sen 47 – Ha ancora senso essere femministe? Sen 50 – Tuttavia presente Demetra Barone

Un grazie particolare a: Mauro Biani, Amalia Bruno, Eliana Como, Franco Lannino e Chiara Lucanto Direttora: Graziella Proto – protograziella@gmail.com Direttora Responsabile: Giovanna Quasimodo Redazione tecnica: Nadia Furnari – Simona Secci – Vincenza Scuderi LeSiciliane Web: Nadia Furnari - http://www.lesiciliane.org LeSiciliane Social Media: Graziella Proto, Stefania Mulè, Eliana Rasera Registraz. Tribunale Catania n.23/06 del 12.07.2006 –-

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Editoriale: Buone notizie dal Cile

Buone notizie dal Cile «El pueblo unido jamás será vencido», non è nostalgia, non è retorica. Ci abbiamo creduto, sognato sopra. Adesso a poco a poco ritorna la speranza... e viene ancora da lì, dal lontano Sud America. Una buona notizia. Grazie al popolo cileno, grazie a Gabriel Boric per questo un ottimo inizio di anno nuovo. Il neo presidente cileno Gabriel Boric, 35 anni è il più giovane e il più votato nella storia del Paese candidato di Apruebo Dignidad, dalle piazze della rivolta studentesca è passato direttamente al Palazzo della Moneda. Dichiara la deputata comunista Camila Vallejo al Manifesto: «Premiato il lavoro sul territorio». Gabriel ha dichiarato che sarà un governo che vorrà ascoltare tutti, una mossa strategica avviata nel momento in cui il neo eletto presidente aveva capito che nel prossimo Senato l’alleanza col centrosinistra non poteva garantire alla sinistra la maggioranza. Ha aggiunto inoltre che guiderà «un governo aperto, perché un governo non avanza da solo. Con noi, la gente

entra a La Moneda… andremo avanti a passi brevi ma decisi». Una dichiarazione chiara, una comunicazione per includere anche gran parte di quel centrosinistra che dopo il primo turno era stato lasciato fuori dai giochi. Un'occasione d'oro per Boric e la sinistra cilena che dovranno lottare contro un neoliberismo intransigente. Un'occasione per garantire giustizia sociale, sanità soprattutto ai più deboli, dimostrare che una istruzione di qualità

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accessibile a tutti non è un'utopia. Abbattere le abissali differenze socioeconomico e soprattutto realizzare la riforma economica, per rompere con le ideologie neoliberiste e con i Chicago Boys - un gruppo di economisti cileni che intorno agli anni ‘70 e ‘80 avevano studiato presso l’università di Chicago o la Pontificia università cattolica – che puntavano a smantellare e distruggere tutto ciò che era statale per fare spazio al privato, in nome di un'economia dinamica. Come se la disuguaglianza e l’ingiustizia sociale non esistessero. Certamente lungo il percorso c’era stata tanta incertezza, la paura di non farcela, ma dalle prime notizie che arrivavano dai seggi elettorali tutto è cambiato . I risultati finali non potevano mutare drasticamente,


Editoriale: Buone notizie dal Cile al punto di ribaltare la situazione e quindi giù per strada per brindare, cantare tutti insieme. Gabriel Boric con la sua vittoria ha scatenato un ciclone di gioia. ha superato di oltre undici punti l'avversario di estrema destra José Antonio Kast. La

gioia ha inondato le strade. Un oceano di persone festose si è snodato lungo le strade principali di Santiago, tutti volevano esserci sembrava l’atmosfera di tanti anni addietro, quando il 4 settembre 1970 Salvador Allende ringraziando la folla

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disse “Vayan a sus casas con la alegría sana de la limpia victoria alcanzada” Tornate a casa con la sana gioia della netta vittoria ottenuta.


Per un simbolo pericoloso

Nuova letteratura processuale Graziella Proto 904 pagine. Tante sono le pagine con cui vengono spiegate le motivazioni della sentenza che ha condannato Mimmo Lucano a 13 anni e due mesi: queste motivazioni ci dicono ancora una volta che questo è un processo politico. Già tutto ciò era emerso durante il processo e prima ancora durante le indagini, ma nessuno poteva pensare che si arrivasse a tanto.

«A leggere le 904 pagine delle motivazioni della sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, e dei suoi soci e collaboratori, c’è da trasecolare – scrive Luigi Manconi, politico e sociologo – Il testo e la sua scrittura costituiscono un documento chiarificatore su come NON si dovrebbe giudicare e sanzionare all’interno di uno stato di diritto. Un esempio di letteratura processuale perversa, dove abbondano i giudizi morali e quelli moralistici, le considerazioni politiche, le riflessioni sociologiche, le analisi di natura generale (proprio quando entra in vigore il decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza)».

Un orientamento condiviso dalla magistratura giudicante e dalla magistratura inquirente, cose strabilianti, strane, forse audaci e stravaganti. Tutto l’opposto di ciò che è la legge. O almeno dovrebbe essere. Per quelli di sinistra leggere o sentire dire «la legalità è un valore di sinistra» è senz’altro una botta di orgoglio. Ma tutti coloro che di sinistra non sono saranno contenti? Soprattutto magistrati. «Quando è stata letta la sentenza assurda di Mimmo Lucano, ero lì e ho pianto», ha commentato padre Zanotelli. «Si è capito subito che si trattava di una condanna politica, è ovvio che a qualcuno non andava giù che ci fosse un sindaco antiLeSiciliane - Casablanca 5

’ndranghetista come Domenico, che ha fatto rinascere il piccolo borgo di Riace, da cui buona parte dei calabresi era andata via come in altri posti della regione, ripopolandolo di migranti – aggiunge Zanotelli – Oggi di quella esperienza resta poco, per questo siamo ancora qui, come siamo stati in tanti qualche settimana fa nella grande mobilitazione che si è svolta giù a Riace, a indignarci ancora contro una sentenza che ha devastato non solo il sindaco ma una intera comunità». Mimmo Lucano – si legge e si evince spesse volte nelle motivazioni – è onesto, è integerrimo, non ha rubato un centesimo, non ha intascato nulla di nulla ma.. non è


Per un simbolo pericoloso questo il problema. «Ha strumentalizzato il sistema dell’accoglienza a beneficio della sua immagine politica», è tutta una messa in scena, una strategia, «una apparenza». MIMMO LUCANO COME DANILO DOLCI Tutto il suo operato è proiettato sulla sua immagine politica, si arriva all’inverosimile pur di colpire l’obbiettivo. Ma anche il procuratore di Locri avesse ragione, l’ex sindaco di Riace quale danno ha apportato ai migranti, al paese, allo Stato? Per tanti, in Italia e nel mondo, ha solo dimostrato che l’accoglienza non è un business, che l’accoglienza può essere umana, solidale, integrante. Tutte le persone hanno diritto di dignità, di asilo, assistenza sanitaria, diritto al lavoro. Tutto ciò utilizzando le stesse somme

di coloro che invece hanno creato lager, miseria, umiliazioni e morti pur di arricchirsi. Mimmo Lucano non si è appropriato di un solo euro, anzi, nel costruire quel «mondo nuovo che lui ha saputo creare» era spinto dalla sua «pura passione» per la politica solidale, umana e giusta, ma tutto ciò era una banale apparenza, il modello Riace riconosciuto e invidiato da tutto il mondo come simbolo di integrazione era solo un volgare mezzo per nascondere la vera caratura di un uomo molto furbo che si adoperava solo per arricchire la sua immagine politica. Insomma solamente per consensi elettorali. Quindi, alla fine, per i giudicanti rimane «un quadro probatorio di elevata conducenza». Una parola che non è contemplata nella lingua italiana. Dettagli creativi e fantasiosi

per attribuirgli il reato associativo, far schizzare la richiesta della accusa da 7 anni e 11 mesi di pena a 13 anni e due mesi, di reclusione, una pena pecuniaria di un milione di euro, gli sono state negate le attenuanti di particolare valore sociale e morale. Una condanna “esemplare” per un soggetto pericoloso. Non si può non ricordare che in passato le attenuanti sono state negate anche a un altro grande personaggio, Danilo Dolci, il Gandhi della Sicilia. Dolci è stato un sociologo, un attivista non violento, un educatore. Per le sue politiche non violente dal governo siciliano è stato ritenuto soggetto pericoloso quindi non meritevole di attenuanti, ha dovuto fare due mesi di carcere. Danilo Dolci guidava i contadini, i disoccupati, i poveri, gli ultimi, a ribellarsi alle condizioni misere e miserevoli alle quali i governanti li costringevano. Era veramente un soggetto pericoloso perché era molto seguito dal popolo. Una similitudine straordinaria. Un fatto molto grave anche adesso.

*Disegno di Iliana Como

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No alle politiche razziste e disumane

No alle politiche razziste e disumane Alex Zanotelli Il Digiuno di giustizia è un gesto di protesta contro le barbarie che ogni giorno i nostri governi perpetuano contro inermi esseri umani: i rifugiati. E dato che la Questura di Roma ha negato, anche per questo mese, l’autorizzazione a manifestare davanti al Parlamento, a Montecitorio, saremo davanti alla Prefettura di Napoli il 4 dicembre dalle ore 17 alle 18, 30 per un sit-in contro le politiche razziste italiane e europee, in nome anche di quanti digiuneranno nelle loro case o nei monasteri. E’ disumano quello che sta avvenendo sul confine tra Polonia e Bielorussia. Uno spettacolo feroce, ripreso dalle televisioni di tutto il mondo, un macabro gioco sulla pelle di profughi, soprattutto bambini che alla loro richiesta di water, sono stati spazzati via da potenti e gelidi gettiti di idranti. E’ stato ritrovato nel bosco un bimbo di un anno , morto assiderato alle porte dell’opulenta Europa. E’ disumano che quest’anno, nel tentativo di arrivare in Europa, ben 3017 profughi abbiano perso la vita: 2868

nel Mediterraneo e nell’Atlantico e 149 invece nel tentativo di raggiungere l’Europa per terra. Una media di 300 persone al mese, frutto amaro del nostro egoismo. E’ disumano che i profughi siano sempre più forzati ad utilizzare la micidiale “rotta atlantica” (la via delle isole Canarie). Recentemente è stato trovato un altro barcone alla deriva, per oltre un mese nell’Atlantico, con più di trenta persone morte. E’ disumano che il 17 novembre scorso, durante un salvataggio, i volontari di MSF(Medici senza Frontiere) con la nave Geo Barents, abbiano ritrovato nella stiva 10 cadaveri , morti per esalazioni da idrocarburi. E’ disumano che nell’Egeo la Guardia costiera greca respinga violentemente i profughi in fuga: sequestrano il motore dell’imbarcazione , e se arrivano sul territorio ellenico li caricano su una scialuppa affidandoli alle onde del mare. E’ disumano che quest’anno su 135.772 profughi giunti in Europa, ben 136.437 siano stati riportati al punto di partenza da varie nazioni LeSiciliane - Casablanca 7

finanziate dalla UE. Il primato spetta alla Guradia costiera libica con ben 37.957 profughi ripresi e riportati in Libia. E questo grazie ai soldi del governo italiano e della UE ! E’ disumano che siano periti almeno 27 profughi (di cui tre bambini) nel tentativo di attraversare la Manica per arrivare in Inghilterra. Londra ha dato più di 62 milioni di euro a Parigi perché sia raddoppiato Il numero degli agenti addetti a pattugliare le coste francesi. Dall’inizio dell’anno si è intensificato il flusso migratorio in quel tratto di mare. E’ disumano che la UE e l’Italia continuino nelle loro politiche migratorie razziste e disumanizzanti. E’ disumana la condanna inflitta a Mimmo Lucano, che ha fatto solo del bene, spendendo la sua vita ad accogliere i profughi e dare loro dignità e speranza, facendo rinascere Riace ,un paese calabro semiabbandonato. Chiediamo che Mimmo venga assolto.


L’accoglienza dell’umana Europa

Yasmine Accardo Ad accoglierli non è mai un sistema caldo e accogliente. La sensazione deve essere quella del rifiuto come minimo di non essere gradito. Per i migranti le spietate frontiere non sono solo muri e fili spinati. Breve storia di un giovane tunisino arrivato vivo e morto suicida dopo poco tempo di fredda accoglienza in Italia. E non è l’unico esempio purtroppo. Oggi 20 Dicembre 2021, dopo oltre due settimane riusciamo finalmente a conoscere il nome dell’uomo che si è suicidato nel CPR di Gradisca d’Isonzo tra il 5 ed il 6 Dicembre. Si chiamava Anani Ezzedine, cittadino tunisino di 44 anni. Non conosciamo le ragioni che lo hanno portato ad un gesto di tale estrema e definitiva rivolta contro un sistema che in ogni modo si accanisce per annullare chiunque sia “altro”. Ezzedine si è suicidato a pochi giorni dalla morte orribile di Wissem Ben Abdel Latif, giovane tunisino di 26 anni. Wissem ha subito sulla sua pelle il girono infernale che riguarda tutte le persone che arrivano in Italia: prima l’hotspot sovraffollato di Lampedusa, dove è giunto il 2 Ottobre, poi la detenzione sulla nave quarantena Atlas

dal 3 ottobre al 13. In nessuno di questi momenti, come da copione, non è riuscito ad accedere al diritto di richiedere protezione internazionale. Il 14 ottobre insieme ad alcuni compagni di viaggio era già al CPR di Ponte Galeria, da dove denunciava la paura e la necessità di poter parlare con un avvocato. Qui chiedeva finalmente la protezione internazionale, ma per lui nessuna accoglienza. Come prevede infatti la normativa vigente, i richiedenti asilo possono essere trattenuti al CPR. Una volta entrati al CPR eventualmente si esce attraverso tre strade: il rimpatrio, un foglio di via e raramente con un permesso di soggiorno in tasca. Nel caso di Wissem non c’è stata LeSiciliane - Casablanca 8

nessuna di queste strade. Il 23 Novembre entrava all’Ospedale Grassi di Ostia e quindi al reparto psichiatrico dell’ospedale San Camillo di Roma dove è morto legato al letto, dopo 4 giorni, il 28 Novembre alle 4.20. Non conosciamo i fatti accaduti all’interno del CPR, ancor meno quanto avvenuto nei reparti psichiatrici. Sappiamo soltanto che il sistema che lo ha “accolto” dall’arrivo fino alla sua morte è un sistema violento ed umiliante. Un sistema killer in questo caso. La famiglia è venuta a conoscenza della morte soltanto il 2 Dicembre e diversi giorni dopo è anche stata informata che l’autopsia era stata già effettuata, senza che loro ne sapessero nulla. Un’ atto atroce, insostenibile tanto che il padre non


L’accoglienza dell’umana Europa riusciva a crederci ed avrebbe voluto venire in Italia per vedere il volto del figlio, cosa che non è stata possibile, poiché la normativa vigente Covid prevede tempi di quarantena lunghi. Rania, la sorella di Wissem appena avuta notizia della morte è entrata in sciopero della fame per chiedere verità e giustizia per il fratello. Le madri tunisine, attiviste contro le frontiere in cerca di verità per i figli dispersi o morti in mare, hanno voluto con forza lanciare un messaggio di solidarietà alla famiglia, in supporto: combattere insieme contro le frontiere per la verità. La famiglia di Wissem ha nominato come legale di fiducia l’avvocato Francesco Romeo del foro di Roma. I periti di parte sono al lavoro per comprendere i fatti avvenuti tra CPR ed ospedale. REPRESSIONI RESPINGIMENTI E MORTE In una dichiarazione dell’avvocato Romeo si legge che la procura di Siracusa aveva stabilito che dovevano essere sospesi sia il trattenimento che il rimpatrio di Wissem, il 24 Novembre. Quel giorno Wissem era nel girono dell’ospedale psichiatrico. Wissem doveva essere liberato. Vivo e libero. Qualsiasi cosa sia accaduta vi è un unico fatto: Wissem è arrivato in cerca di una vita migliore in un posto che gli ha “regalato” solo sofferenza e morte. Un sistema lucido, chirurgico e spietato. Wissem avrebbe dovuto

avere accesso alla richiesta di protezione internazionale fin dall’arrivo, nell’hotspot di Lampedusa o sulla nave quarantena, come dovrebbe essere per tutte le persone che sbarcano in Italia. Sarebbe dovuto entrare in accoglienza ed attendere l’esito della decisione della Commissione, magari seguendo un corso di lingua italiana od ascoltando la musica con i suoi compagni. Sarebbe stato, se questo fosse un paese diverso e l’Europa un’altra cosa. Ma non è stato così. Non lo è mai, perché l’Europa ha scelto una politica di repressione, respingimento e morte. Non accogliamo più, noi poniamo in detenzione chiunque arrivi: uomini, donne e bambini, utilizzando strumenti sempre più “efficaci” per identificare, controllare ed uccidere. Un esempio è l’agenzia Frontex, ingaggiata dall’Europa per questo e che si sta dotando di potenti mezzi artificiali per “Il controllo e la sicurezza” utilizzando milioni e milioni di euro: soldi per uccidere ed umiliare. Wissem ed Azzedine, come Vakhtang e Moussa sono morti a causa di un sistema che nega l’uomo e che su questo ha costruito una propaganda di orrore che è diventata LeSiciliane - Casablanca 9

“normale, quotidiana”. Un sistema inespugnabile fatto di muri altissimi, recinzioni, detenzione. Nei tribunali sc cercheranno le cause della morte, degli omicidi per noi; ma il tempo dei giudici e delle aule è un tempo lungo ed insopportabile per coloro che vivono la violenza quotidiana (al secondo) di ogni frontiera. Per noi restano morti di Stato e di frontiera. Chi risponderà all’urlo della madre di Wissem? All’urlo della madre di Azzedine e di tutte le madri? Quando smetteremo di sentire quelle urla? I CPR vanno chiusi subito. Le navi quarantena vanno dismesse, come il sistema hotspot che rappresentano luoghi di trattamenti inumani e degradanti e di fine del diritto di asilo. Oltre che la fine di ogni diritto degli uomini.


Le parole che costruiscono muri

Le parole che costruiscono muri Fulvio Vassallo Paleologo I temi dell’immigrazione, in particolare dei soccorsi in mare e dell’accoglienza, hanno costituito per anni il terreno privilegiato per diffondere la retorica dell’insicurezza e polarizzare il dibattito pubblico fino al rovesciamento del rapporto tra fatto e menzogna: lo stesso meccanismo applicato alla pandemia per aumentare la paura e fomentare l’odio verso il diverso. A proposito di immigrazione e soccorsi in mare, il potere della parola è stato utilizzato non solo per diffondere disinformazione ed odio, ma per orientare il consenso politico ed incidere sulle decisioni degli organi della giurisdizione. Una polarizzazione che ha investito il sistema di governo, le decisioni degli apparati amministrativi e i procedimenti davanti all’autorità giudiziaria. L’uso scorretto delle parole o il ricorso a termini evocativi di

nuovo conio, come “taxi del mare” e acronimi poco verificabili, come FRONTEX, Agenzia dell’Unione europea per il controllo delle frontiere esterne, hanno sovvertito il rapporto tra sistema delle fonti del diritto, organi giurisdizionali, decisioni dei ministri, opinione pubblica, consenso elettorale, un fatto che ha reso il processo penale sensibile alle maggioranze di governo. In tempi più recenti, la stessa polarizzazione del discorso LeSiciliane - Casablanca 10

pubblico si è concentrata sui temi della pandemia, con la stessa crisi di razionalità che si era già evidenziata in passato di fronte all’emergenza permanente dei “flussi migratori” e degli “sbarchi o ingressi di clandestini”, La paura del diverso, se non l’odio verso la persona straniera, riemerge non appena il tema dell’immigrazione si collega alle nuove emergenze dettate dalla pandemia. L’immigrato – ma anche, con sfumature


Le parole che costruiscono muri diverse, chi risiede stabilmente da anni e tutti coloro che cercano di fare ingresso nel nostro paese, nella maggior parte dei casi perché costretti da situazioni intollerabili nei propri paesi o nei paesi di transito – vengono visti come i nuovi untori, i diffusori di nuove varianti del virus, o come quella parte di popolazione che rimane libera di circolare, mentre la maggior parte degli italiani deve subire periodicamente limitazioni alla propria libertà di circolazione. Ritorna così in auge la parola clandestino, che non esiste nel lessico delle norme in materia di immigrazione ed asilo, le quali anzi riconoscono espressamente allo straniero «comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato […] i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti» (art. 2 del Testo Unico Immigrazione, d.lgs. n. 286/1998). Anche se i giudici riconoscono la natura discriminatoria del termine, il suo uso ritorna a diffondersi come in tutti i momenti di crisi in cui non si trovano soluzioni efficaci e condivise e si cerca di ricorrere alla

figura del capro espiatorio. Il Testo Unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998) utilizza i termini «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato», «cittadini stranieri in

soggetto al quale vanno riconosciuti i diritti fondamentali della persona. Dunque nessuna persona è “clandestina” o “illegale”Tuttavia la materia della protezione delle

posizione di irregolarità», «immigrazioni clandestine» (art. 12 d.lgs. cit.). Lo “straniero” destinatario dei provvedimenti di respingimento, espulsione o trattenimento in un centro di permanenza per i rimpatri (CPR) rimane pur sempre un

persone in fuga è stata inquinata con l’uso strumentale di termini che hanno prodotto la stigmatizzazione delle persone che arrivavano nel nostro paese dopo partenze forzate da eventi bellici, da persecuzioni di vario genere,

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Le parole che costruiscono muri disastri ambientali o condizioni di sopravvivenza ridotte al minimo. Il sistema di accoglienza è stato descritto come una “pacchia” alla quale porre fine e si è smantellato un sistema di accoglienza che fino al 2018 era ampiamente strutturato e che oggi non sembra in grado di fare fronte alla ripresa degli arrivi, pure in tempi di pandemia, che colpisce anche i paesi di origine e transito, aggravando le condizioni di impoverimento e di crisi sanitaria. IN-SICUREZZA DI PAESI TERZI Eppure, malgrado questa situazione si vada aggravando giorno dopo giorno, si sommano gli ostacoli procedurali per le domande di protezione internazionale, ad esempio con l’utilizzazione di una lista di “paesi terzi sicuri”, con le “procedure accelerate in frontiera“ e con le nuove misure che si stanno prospettando a livello europeo contro le nuove “invasioni di massa”, si sta realizzando la cancellazione sostanziale del diritto di asilo e alla protezione internazionale o umanitaria. Funzionale ad una narrazione contraria al riconoscimento delle istanze di protezione si diffonde così la distinzione tra richiedenti

asilo e “migranti economici”, per i quali l’unica soluzione praticabile sembra il respingimento o l’espulsione con accompagnamento forzato, anche se poi, la mancata collaborazione dei paesi di origine e di transito rende i rimpatri una prospettiva residuale. Sovente però la differenza non dipende da una diversa situazione delle persone nei paesi di origine, ma dalle procedure amministrative alle quali sono sottoposte al loro arrivo in Italia. La diffusione della pandemia da Covid 19 sta inoltre chiudendo molte vie di ingresso legale per soggiorni brevi, che in passato costituivano la via più ampia per fare ingresso nei diversi paesi europei, anche in assenza di un contratto di lavoro, e di restarvi poi in una situazione irregolare, come overstayers. Sembra quasi che, quanto più fondate siano le possibilità delle persone di ottenere asilo in Europa, maggiore risulti la violenza applicata nei loro confronti per impedire che varchino la frontiera. La prima violenza deriva dall’uso di termini impropri come assalto ai confini esterni dell’Unione europea se non sostituzione etnica, che sono del tutto smentiti dalla dimensione reale del fenomeno e dalle LeSiciliane - Casablanca 12

storie personali che riferiscono i pochi giornalisti che riescono ad avere accesso in queste zone di frontiera, ormai del tutto militarizzate e trasformate, come ai confini polacchi e ungheresi, in terra di nessuno. Dove si muore per il freddo o per la mancanza di cibo. Sul fronte penale interno anche la parola “scafista” è stata spesso utilizzata a sproposito, magari con la pretesa di tranquillizzare l’opinione pubblica dopo i rituali arresti che di solito vengono eseguiti dopo gli sbarchi autonomi o le operazioni di soccorso. Ma anche in questo caso si tratta di un termine che viene usato in maniera impropria, sia perché si può trattare di “scafisti per necessità”, come hanno accertato alcune sentenze dei giudici, sia perché possono essere membri di una organizzazione criminale transnazionale, come pure smuggler, che operano in autonomia, conseguendo un profitto ingiusto e facilitando l’ingresso irregolare, oppure ancora soggetti in fuga o in condizioni di vulnerabilità, come minori stranieri non accompagnati. Si sono invece definiti come esponenti della sedicente Guardia costiera libica personaggi che


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risultavano da anni coinvolti nel traffico internazionale di persone e che sono pure finiti sotto inchiesta da parte del Tribunale Penale internazionale e delle Nazioni Unite, dopo avere partecipato a corsi di formazione in Italia ed essere rimasti al comando delle motovedette donate dal nostro paese per intercettare in acque internazionali i migranti in fuga dalla Libia. MURI DI PAROLE Per molti la Libia, seppure priva di unità territoriale e politica, con un governo ancora provvisorio e con un difficile percorso elettorale ancora tutto da svolgersi,

rimane un paese nel quale, malgrado evidenti violazioni dei diritti umani che le autorità non riescono ad impedire, se non sono direttamente complici, è lecito contribuire a bloccare e ricondurre con la forza persone migranti che cercano di fuggire. Già usare il termine “Libia” o l’altro di “Guardia costiera libica”, nell’attuale situazione di contrapposizione di governi e milizie, costituisce un espediente linguistico che allontana da scelte razionali ed efficaci, che tengano conto della persistente situazione di frammentazione politica e militare, nonché LeSiciliane - Casablanca 13

delle reali condizioni delle persone, libici compresi, che si trovano su quel territorio o vi transitano. Il campo nel quale il senso comune e persino alcune decisioni giudiziarie sono stati influenzati dalle parole che fanno muro, pur non avendo alcuna funzione normativa nella costruzione del sistema dei controlli di frontiere e nell’esercizio della sovranità nazionale, è quello del diritto europeo ed internazionale. A questo riguardo si sono sprecati i richiami a scelte dell’Unione Europea che avrebbero dovuto risolvere i problemi derivanti dalla incapacità di trovare soluzioni razionali, efficaci e rispettose dei diritti umani a livello nazionale. Adesso si arriva a parlare di “attacco ibrido” per descrivere la nuova “emergenza” che si è creata al confine tra la Polonia, la Lituania e la Bielorussia, e si discute addirittura di sospendere il regime di libera circolazione interna Schengen, con la scusa della pandemia, ma in realtà per contrastare i numerosi movimenti secondari, dai paesi del Mediterraneo verso il centro ed il nord Europa. Molte persone che sbarcano in Italia proseguono infatti il loro viaggio verso nord. Negli ultimi anni l’Unione


Le parole che costruiscono muri Europea è stata sottoposta ai ricatti dei paesi a guida sovranista o nazionalista e non è riuscita ad adottare nessuna nuova normativa generalmente condivisa, come il Patto sull’immigrazione e l’asilo del 2020, sia sul piano degli ingressi che delle politiche di asilo, e si è ridotta a mero finanziatore delle operazioni più oscure di sorveglianza dei confini, delegate all’Agenzia FRONTEX, di accordi con i paesi terzi e di esternalizzazione dei controlli di frontiera, la cd. dimensione esterna della politica europea. La vicenda degli accordi (rimasti un “preaccordo”) di Malta del 2019 è esemplare, sia per come è stata gestita a livello mediatico e politico, sia per le ricadute vicine al nulla sul piano della controversa distribuzione delle persone migranti sbarcati nei paesi costieri europei. Si è giunti al punto di invocare questi accordi per giustificare scelte politiche e prassi ministeriali di chiusura dei porti sottoposte al vaglio della magistratura, come nel caso del processo nei confronti del senatore Salvini sul caso Open Arms, attualmente in corso a Palermo. La Corte di Cassazione, con sentenza del 20 febbraio 2020 (ud. 16 gennaio 2020), n.

6626, ha tuttavia ribadito che il soccorso in mare, fino allo sbarco in un porto sicuro, è un dovere da adempiere, e non una scelta discrezionale, da rimettere agli orientamenti politici. ANCORA LA DIFESA DEI CONFINI Per la Corte di Cassazione, «Non può quindi essere

qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti

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fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave». Gli operatori umanitari che salvano decine di migliaia di persone abbandonate in


Le parole che costruiscono muri mare, dopo il ritiro dei mezzi statali, non possono essere definiti dunque “complici dei trafficanti”, o come “fattori di attrazione (pull factor)”, definizioni spregevoli in contrasto con la realtà, oltre che con i dati normativi, che adesso, dopo i principi affermati dalla Corte di cassazione, dovrebbero essere spazzate via. Dietro la retorica della “difesa dei confini nazionali” e dei “Memorandum d’intesa con i paesi terzi” si è così nascosto il tentativo di precludere l’ingresso nel territorio di persone soccorse in mare, e di accedere dunque al territorio nazionale a potenziali richiedenti asilo, in violazione della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e delle Direttive e dei Regolamenti europei in materia di protezione internazionale, oltre che della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo (art. 14) e della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, che (con il Quarto Protocollo allegato, art. 4) vieta i respingimenti collettivi sia in frontiera che sul territorio nazionale. Dai cd. “decreti sicurezza” adottati dal Governo “giallo-verde”, solo parzialmente modificati nel 2020, fino ai più recenti provvedimenti per contrastare la pandemia (Decreto interministeriale del

7 aprile 2020) si è fatto anche un uso strumentale di termini adottati nelle Convenzioni internazionali di diritto del mare. In particolare, si è giunti a qualificare come “non inoffensivo” ( alla stregua dell’art. 19 della Convenzione di Montego Bay, UNCLOS del 1982) l’ingresso nel mare territoriale (12 miglia dalla costa) di navi che hanno effettuato operazioni di soccorso in acque internazionali e quindi chiedono lo sbarco in un porto sicuro o place of safety (POS), come prescritto dalle stesse Convenzioni internazionali. Un obbligo che gli Stati costieri non possono eludere trincerandosi dietro il rifiuto frapposto da quegli Stati che sarebbero più direttamente responsabili LeSiciliane - Casablanca 15

perché, come nel caso di Malta, titolari dell’area di responsabilità per i soccorsi definita come SAR zone (Search and Rescue Zone). Un’area nella quale gli Stati non possono eludere gli obblighi di soccorso imposti a loro carico dalle Convenzioni internazionali, obblighi che non possono essere delegati né a paesi terzi che non rispettano i diritti umani, né ad organizzazioni non governative che non hanno i mezzi per sostituirsi agli assetti aero-navali statali ed europei, soprattutto in tempi nei quali continua nei loro confronti una diffusa ed odiosa stigmatizzazione, che viene alimentata anche da procedimenti penali tuttora in corso.


La traversìa por la vida

LA TRAVESÌA POR LA VIDA UNA MONTAGNA IN MEZZO AL MARE Mimma Grillo Momenti e passaggi della costruzione di percorso che dal Chiapas, Messico, ha fatto rotta verso la nostra Europa rinominata Slumilk’ Ajkemk’ Op (Terra Indomita o che non si rassegna). Un documento sullo stato della vita sul pianeta. Un giro di incontri per l’Europa passando per la Sicilia. Due delegazioni di uomini e di donne esempio di grandissima serietà e attenzione. La grande capacità di ascolto e di racconto ma anche la capacità di sorrisi, di condivisioni, di stupori (il vulcano… il mare), la promessa di ritrovarci in Chiapas, o in altri luoghi del Pianeta. Il 6 dicembre si è conclusa a Madrid la Gira Zapatista por la Vida che ha attraversato l’Europa accompagnata dal grande lavoro fatto da tutta l’Assemblea Europea, della quale è stata parte rilevante, fin dall’inizio, l’Assemblea italiana LAPAZ (Libera Assemblea Pensando Praticando Autonomia Zapatista), composta a sua volta dalle Assemblee delle 11 macroaree della penisola, tra cui Siciliezapatiste, l’Assemblea siciliana. Tutto è cominciato più di un anno fa, con i comunicati (lanciati sempre sul sito

enlacezapatista) dell’EZLN che, così come la rotta seguita in mare dalla prima delegazione, controcorrente e in senso opposto rispetto alla rotta dei “conquistadores” di 500 anni fa, vanno al contrario, cominciano col n. 6 e finiscono col n. 1. È del 5 ottobre 2020 il primo comunicato, il n. 6: Una Montagna in mezzo al Mare (così come sarà chiamato il veliero che il 3 maggio salperà dal Messico con la prima delegazione a bordo) è il titolo e del Sub Moisés la firma, destinatari sono il Congreso Nacional Indigena, la Sexta Nazionale e LeSiciliane - Casablanca 16

Internazionale (cioè gli aderenti in tutto il mondo alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona), e le Reti di Resistenza e Disobbedienza in tutti gli angoli del Pianeta. Il documento passa in rassegna lo stato della vita sul Pianeta: “ - Osserviamo e ascoltiamo un mondo malato nella sua vita sociale, frammentato, sotto l’oppressione di un sistema pronto a tutto pur di placare la sua sete di profitto, un mondo in cui l’aberrazione del sistema coesiste con una realtà criminale che ha nel femminicidio la sua massima espressione; - Osserviamo e ascoltiamo la Natura ferita a


La traversìa por la vida morte che avverte l’umanità del fatto che ogni catastrofe definita “naturale” annuncia la seguente ed è causata dall’azione di un sistema umano; - Osserviamo i potenti che si nascondono nei cosiddetti Stati nazionali e nelle loro mura seguendo un padrone che non ha altra nazionalità se non quella del denaro. Mentre le organizzazioni internazionali languono; - La pandemia Covid 19 non solo ha mostrato la vulnerabilità dell’essere umano, ma anche l’avidità e la stupidità di diversi governi nazionali e delle loro presunte opposizioni. Mentre il grande capitale vuole che si torni nelle strade in modo che le persone possano riprendere lo status di consumatori; Ascoltiamo e osserviamo resistenze e ribellioni che rifiutano di seguire il sistema nella sua veloce corsa al collasso e che capiscono e insegnano a noi zapatisti che le soluzioni potrebbero

essere negli angoli del mondo, che ci mostrano come mentre quelli che stanno in alto rompono ponti e chiudono confini, a noi non resta che navigare fiumi e mari per ritrovarsi. In tutti questi anni abbiamo ricevuto l’abbraccio di tante persone del nostro paese e del mondo. Abbiamo pensato a tutto questo cuore collettivo e al fatto che ora è tempo per noi zapatisti di rivolgere l’ascolto a tutti questi mondi, vicini e lontani nella geografia. - Così abbiamo deciso che diverse delegazioni zapatiste viaggeranno nel mondo, cercando non la differenza, non la superiorità, non lo scontro, tanto meno il perdono e la pietà, per andare ad incontrare ciò che ci rende uguali…; che la prima destinazione di questo viaggio planetario sarà il continente europeo, che arriveremo a Madrid il 13 agosto, 500 anni dopo la presunta conquista di quello

che oggi è il Messico, e che parleremo al popolo spagnolo non per rimproverare né per domandare di chiedere perdono”. Seguiranno altri 5 comunicati, l’ultimo, il sesto, ma numerato come primo, sarà diramato il 1°gennaio 2021, avrà come titolo “Una Dichiarazione per la Vita” e sarà diretto alle persone che lottano nel continente Europa, che sarà il primo ad essere raggiunto. Da quel momento si moltiplicano le riunioni in tutta Europa, in Italia con particolare partecipazione, da parte di movimenti, collettivi, individualità, per cominciare ad organizzare la Gira. È un grande lavoro che attraversa davvero tutti i territori. IL SINGHIOZZO DELLA TERRA Ad aprile giunge a LAPAZ, da parte del Coordinamento della Travesìa por la Vida, una lettera con cui si ringrazia l’Assemblea italiana per

Il 14 dicembre è arrivato, sul sito https://enlacezapatista.ezln.org.mx il “Grazie” da parte del Sub Moisés, per il Coordinamento della Travesìa, a nome della delegazione “Extemporanea” zapatista appena rientrata in Messico: “Vi salutiamo dalle montagne del Sudest messicano e vi informiamo che le compagne e i compagni della delegazione aereo-trasportata che, nei mesi di settembre, ottobre, novembre e dicembre di quest’anno 2021 vi hanno visitati nelle vostre geografie, sono ormai nei rispettivi villaggi e località. Siamo arrivati tutte e tutti in buone condizioni, interi e sani. Anche se siamo tutte e tutti emozionati e commossi dai giorni e dalle notti che ci avete permesso di condividere con voi. Torniamo con una ferita nel cuore che è di vita. Una ferita che non lasceremo che si chiuda. Ora dobbiamo rivedere i nostri appunti per informare la nostra gente e le nostre comunità di tutto quello che abbiamo imparato e ricevuto da voi: Le vostre storie, le vostre lotte, la vostra resistenza, il vostro indomito esistere. E soprattutto l’abbraccio di umanità che abbiamo ricevuto dai vostri cuori. Tutto ciò che vi abbiamo portato proveniva dalla nostra gente. Tutto ciò che abbiamo ricevuto da voi è per le nostre comunità. Per tutto questo, per la vostra ospitalità, per la vostra fratellanza, per la vostra parola, per il vostro ascolto, per il vostro sguardo, per il vostro cibo, per le vostre bevande, per il vostro alloggio, per la vostra compagnia, per la vostra storia, per l’abbraccio collettivo del vostro cuore, vi diciamo GRAZIE. Comunicheremo di nuovo con voi presto, perché la lotta per la vita non è finita. Abbiamo ancora molto da imparare da voi e molto per cui abbracciarvi”. LeSiciliane - Casablanca 17


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l’invito a visitare i propri territori. La lettera porta la firma del Sub Moisés e del Sub Galeano: “Abbiamo ricevuto con piacere il vostro invito affinché nel corso della ‘travesìa zapatista por la vida’ possiamo incontrarci, discutere, ascoltarci reciprocamente su quella che è la nostra storia, i nostri sogni, i nostri incubi, le nostre rabbie e le nostre lotte. Sappiamo che questa che ci proponiamo è una lotta che appartiene ad ognuno. Ad ognuno nella sua geografia e nel suo calendario. Ad ognuno che la fa. Non stiamo senza far niente a guardare le sventure o ad ascoltare, con rassegnazione e conformismo, di ingiustizie e crimini. Sappiamo bene che, tra tutti i lamenti vicini e lontani, c’è un fremito che scuote il mondo intero: il singhiozzo della terra. E non la Terra come polvere o come il colore che siamo, ma come

la Terra tutta: le vallate, i mari e i fiumi, le piante, gli animali, le persone. Ma la Terra non si rassegna, resiste e si ribella a questa morte. E allora capiamo che la Terra non singhiozza, ma che ci sta chiamando, ci chiama a lottare contro la morte e per la vita. Per noi zapatisti è un grande piacere venire a discutere personalmente di queste cose. E anche di altre. Però soprattutto di questa nostra lotta, quella vostra e nostra”. Nella seconda parte della lettera si chiede a Lapaz di fornire una proposta precisa e circostanziata sull’organizzazione della visita nei vari territori. Ed è così che, dopo innumerevoli riunioni, tutte le macroaree costruiscono le loro proposte: una per ogni singolo territorio. È un lavoro di cui tutti sono orgogliosi e che sarà inviato integralmente ai compas. Una versione ridotta sarà in LeSiciliane - Casablanca 18

seguito consegnata al Coordinamento Zapatista a Vienna, il 14 settembre, quando arriverà la delegazione aereotrasportata, la “Extemporanea”, composta da 177 delegati, dal Comando Palomitas (11 tra adulti e bambini), da 13 componenti del Congreso Nacional Indigena, dal Fronte dei Popoli in Difesa della Terra e dell’Acqua di Tlaxcala Puebla e Morelos, dalla squadra di calcio femminile di 36 miliziane (che giocheranno la loro partita contro squadre locali a Roma e poi a Madrid) e dal gruppo di Coordinamento guidato dal Sub Moisés. La prima delegazione, l’Escuadròn 421, arrivata con il veliero “La Montagna” che ha attraversato l’Oceano in senso opposto rispetto al viaggio dei “conquistadores” di 500 anni fa, era invece arrivata nel porto di Vigo, in Galizia, il 20 giugno. Ne facevano parte 4 donne, 2 uomini e una “otroa”, Marijose, che per prima ha calpestato il suolo d’Europa rinominandola Slumilk’ Ajxemk’ Op, che significa Terra indomita o che non si Rassegna. L’Escuadròn 421 ha partecipato ad eventi a Parigi e poi a Madrid, il 13 agosto. A settembre è ripartita per il Messico. La seconda delegazione, la “Extemporanea”, si è suddivisa, subito dopo l’arrivo, in 28 gruppi di “Escucha y Palabra” (così denominati per esprimere la disponibilità di ogni gruppo ad ascoltare ma anche a


La traversìa por la vida raccontare) che hanno intrapreso la Gira dividendo l’Europa in 3 Zone. In Italia (parte della Zona 2) la Gira è iniziata il 12 ottobre e si è conclusa il 6 novembre. Tutte le macroaree hanno ospitato uno o più gruppi. Nella nostra macroarea Sicilia l’Assemblea di Siciliezapatiste ha scelto di costruire iniziative che ricalcassero le 7 tessere del rompicapo mondiale neoliberista che frammenta e distrugge l’Umanità: si sono riattraversate le riflessioni che già nel 1997 il Sub Marcos, oggi Sub Galeano, proponeva in un documento intestato “La quarta guerra mondiale è cominciata” (quarta perché successiva alla terza, la cosiddetta Guerra Fredda). LA SICILIEZAPATISTE PALERMO E CATANIA Abbiamo ospitato due gruppi, uno maschile e uno

femminile. A Palermo, il 25 ottobre, si sono organizzati due incontri con la delegazione maschile: il primo all’ex Cinema Edison (oggi Dipartimento Giurisprudenza Università di Palermo) con organizzazioni di studenti e con tante realtà di resistenza della nostra città come per esempio l’Associazione Cledu - Clinica legale per i diritti umani (che da anni porta avanti un servizio di orientamento legale a richiedenti asilo, migranti e minoranze) e l’Associazione Sbaratto (che sta cercando di organizzare e salvare il lavoro dei “mercatari” di Ballarò); il secondo alla Casa della Cooperazione con gli equipaggi delle navi delle ONG che salvano vite nel Mediterraneo, ma anche con varie comunità straniere che vivono in città. Si è raccontato della

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particolare condizione della Sicilia, immersa nel Mediterraneo che costituisce il confine d’acqua dello spazio Shengen, dove si vive, ogni giorno, l’immensa tragedia del Mare Nostrum che, piuttosto che ponte di collegamento, è diventato cimitero per tutti i migranti che non ce la fanno a portare a termine la fuga da continenti oggetto dello sfruttamento neoliberista. Sempre a Palermo, il 29 ottobre, con il gruppo zapatista femminile, si sono organizzati incontri con realtà di donne (da NonUnaDiMeno a UDI-Palermo), ma anche con realtà sociali antagoniste che lottano per creare organizzazione e diritti (Ambulatorio autogestito nel quartiere Borgovecchio). Ad Alcamo e a Partinico si sono raccontate esperienze di agricoltura portate avanti con dinamiche alternative rispetto a quelle del capitale e dello sfruttamento. A Cinisi si è ripercorsa la storia di Peppino Impastato, a Casa Memoria, e a Portella della Ginestra si è ripercorsa la storia delle lotte contadine e delle repressioni di cui sono state oggetto. A Niscemi si è spiegato ai compas zapatisti il “megaprogetto” MUOS, simbolo del potere


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militare nordamericano e terribile arma di guerra, che tiene sotto controllo non solo il bacino mediterraneo ma tutto il Medioriente, fino al Golfo Persico. A Catania si è parlato di marginalità attraverso incontri con realtà antagoniste che lottano dal basso per la difesa dei diritti (quartiere San Berillo e altri). A Siracusa si è parlato delle politiche “scellerate” di sviluppo, portate avanti negli

anni passati nella zona (Petrolchimico di Marina di Melilli). In tutti gli incontri si è cercato di raccontare ed ascoltare, secondo il principio di “Escucha y Palabra” che ha guidato tutta la Gira: le delegazioni zapatiste hanno ascoltato e preso appunti, ma hanno sempre fatto, in maniera precisa e rigorosa, il racconto dei 5 punti della storia zapatista (la vita dei popoli originari nella prima metà del

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’900 ma anche dopo, prima del levantamiento, la clandestinità e l’organizzazione dell’EZLN negli anni ’83/’94, i Municipi Autonomi Ribelli Zapatisti e la costruzione dell’autonomia, le Giunte di Buon Governo dal ’93 ad oggi, Resistencia y Rebeldìa durante tutto il tempo). Di ognuno dei compas e di ognuna delle compas delle due delegazioni oggi ci rimane sicuramente l’esempio di grandissima serietà e attenzione nei momenti in cui, anche se stanchissimi, ci ascoltavano o ci raccontavano, ma anche la capacità di sorrisi, di condivisioni, di stupori (il vulcano… il mare), e poi gli abbracci scambiati con la promessa di ritrovarci in Chiapas o in altri luoghi del Pianeta. Il seguito della Gira è tutto da costruire. Foto dal profilo facebook: https://www.facebook.com/SicilieZapatiste-103979095004260/


Sicilia schiava di logiche USA-NATO

ItalIa sempre pIu’ suddita Antonio Mazzeo Colpo di acceleratore sugli espropri per trasformare Sigonella in hub dei maxi-aerei cisterna della NATO. Fra i proprietari di terreni Mario Ciancio Sanfilippo attraverso la SATER srl società composta esclusivamente dalla famiglia Ciancio a cui va un fortunato indennizzo che passa da 1.800.000 a 2.500.000 euro. Tutto come prima, anzi peggio di prima. Dopo la sospensione dell’iter espropriativo di un centinaio di ettari di terreni nei comuni di Lentini (Sr) e Catania per ampliare la stazione aeronavale USA/NATO di Sigonella, imposta per l’inchiesta della Procura della Repubblica etnea su un presunto “tentativo di istigazione alla corruzione” da parte di due ufficiali dell’Aeronautica militare, con decreto del 6 dicembre 2021 il Ministero della Difesa ha ordinato “l’occupazione immediata degli immobili individuati, finalizzata all’esproprio degli stessi e necessaria per l’esecuzione delle opere”. Così, nonostante i gravi incidenti di percorso su cui

sono ancora aperte le indagini dei magistrati e della Guardia di finanza, le forze armate italiane tirano dritte, anzi schiacciano l’acceleratore sul progetto approvato e finanziato in sede NATO (Capability Package 9A1301

Air-to-air refeuelling assets)

generale ispettore Giancarlo Gambardella, aveva affermato “che in analogia a quanto regolarmente avviene in occasione dell’avvio di una indagine giudiziaria sui comportamenti della pubblica amministrazione”, era stata disposta la

per trasformare la base di Sigonella nel principale hub per le operazioni dei grandi velivoli cisterna destinati al rifornimento in volo dei cacciabombardieri e degli aerei cargo dell’Alleanza, in transito nel Mediterraneo o diretti verso il Medio oriente e il continente africano. Lo scorso 30 novembre, il responsabile della Direzione dei Lavori e del Demanio del Ministero della Difesa,

tutela degli interessi pubblici e privati coinvolti”. Atto dovuto, non fosse altro che dalle indagini della Procura di Catania era emerso che gli ufficiali del 3° Reparto Genio dell’Aeronautica di Bari incaricati di seguire le procedure di esproprio, avevano “ritoccato” (al rialzo) la superficie dei terreni da

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sospensione del procedimento di esproprio dei terreni a Sigonella “a


Sicilia schiava di logiche USA-NATO annettere alla base e il loro valore, a beneficio dei proprietari e a danno dei contribuenti. Adesso giunge il colpo di spugna della Difesa e si riparte come se nulla è accaduto: l’area da espropriare resta la stessa anzi forse si aggiunge qualche ettaro in più - mentre per gli indennizzi si rimanda a tempi migliori. “L’indennità spettante agli aventi diritto per l’occupazione d’urgenza, calcolata sulla base dell’esatta superficie utilizzata e il tempo di possesso dalla data di presa in possesso all’ablazione definitiva sarà

successivamente calcolata e liquidata dall’Amministrazione della Difesa in base alle normative vigenti”, recita il decreto del 6 dicembre a firma, ancora una volta, del generale ispettore Giancarlo Gambardella. L’ultimo atto amministrativo della Difesa certo non eccelle in trasparenza e completezza dati. A differenza del decreto di esproprio del 12 ottobre (quello poi “sospeso”), nella tabella allegata al provvedimento non viene riportata l’estensione delle superfici dei terreni ma solo il numero delle particelle

catastali e le generalità dei titolari. Ciononostante è possibile comparare gli espropri “di prima” con quelli “di oggi”: nulla viene tolto ai massimi beneficiari dell’affaire (la Sater – Società Agricola Turista Etna Riviera S.r.l. di Catania); spariscono due particelle in territorio di Lentini (quelle indicate con i numeri 102 e 229 per poco più di 0,1 ettari – categoria seminativo irriguo), ma se ne aggiungono quattro, sempre nel comune lentinese (n. 317, 319, 286, 287), le prime due nella titolarità di “Roberto Brignone – proprietà effettiva Az. Agricola Sigonella S.S.”, le altre due della “Cassa di formazione della piccola proprietà contadina – proprietà effettiva ISMEA”. L’Azienda agricola Sigonella ha sede a Catania in via Galermo 156 e scopo sociale “l’acquisto, vendita e gestione di fondi rustici e di aziende agricole, la conservazione e vendita di prodotti agricoli, ecc.”. L’ISMEA è invece l’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare, ente pubblico economico che realizza servizi informativi, assicurativi e finanziari per le imprese agricole. UN FORTUNATO INDENNIZZO Doveroso soffermarsi ancora una volta sulla Sater S.r.l. di Catania che si vede confermare dal decreto di “occupazione urgente” del 6 dicembre la superficie dei terreni per l’espropriazione, censiti con la provvidenziale revisione introdotta con la

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Sicilia schiava di logiche USA-NATO relazione ispettiva del 23 marzo 2021 a firma dei due ufficiali dell’Aeronautica Militare indagati a Catania (nello specifico la società è stata premiata con l’incremento da 60 a 76 ettari dei terreni sotto esproprio e del relativo indennizzo da 1.800.000 a 2.500.000 euro). Costituita nel dicembre 1962 con oggetto sociale l’acquisto

o la vendita di terreni agricoli e/o l’assunzione della gestione della conduzione diretta degli stessi e l’esecuzione di opere di bonifica e di trasformazione agricola e forestale, la Sater –

Società Agricola Turista Etna Riviera ha un capitale sociale di 1.300.320 euro. I suoi soci sono il noto editore-direttore de La Sicilia, Mario Ciancio Sanfilippo (777.612 euro di capitale sociale), i due figli Rosa Emanuela e Domenico Natale (entrambi con 260.580 euro di capitale) e la moglie Valeria Guarnaccia (1.548). Dell’impresa, l’anziano patròn di alcuni dei maggiori media siciliani è anche amministratore unico e

rappresentante. Il 24 settembre 2018 la Sater S.r.l. è stata sottoposta a sequestro dal Tribunale di Catania su richiesta della Direzione distrettuale antimafia nell’ambito del maxi-sequestro per svariati milioni di euro delle aziende e dei beni di Mario Ciancio Sanfilippo, imputato dell’accusa di concorso in esterno in associazione mafiosa e successivamente assolto dal GIP del Tribunale di Catania “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”. Anche la confisca dei beni è stata annullata il 24 marzo 2020 dalla Corte d’Appello poiché non sono state provate né “l’esistenza di alcun attivo e consapevole contributo arrecato dal Ciancio in favore di Cosa nostra catanese”, né “alcuna sproporzione tra redditi legittimi e beni mobili o immobili di proprietà”. Il dissequestro è divenuto definitivo il 21 gennaio 2021 con sentenza della quinta sezione della Cassazione. In attesa di conoscere

l’ammontare del denaro che lo Stato sborserà per ampliare di cento ettari la base Sigonella, si spera almeno che gli enti locali investiti dal nuovo progetto NATO facciano pesare in sede politica e amministrativa l’assenza di valutazioni dell’impatto socio-ambientale e per la sicurezza delle popolazioni che deriverà dall’aumento esponenziale del traffico aereo militare e soprattutto dagli atterraggi e dai decolli degli aerei cisterna giganti come ad esempio i KC-10 “Extender” che trasportano sino a 154 tonnellate di gasolio. Di certo nulla ci si potrà attendere dal Presidente della Regione Siciliana, l’on. Nello Musumeci, che proprio un paio di giorni fa si è recato in visita ufficiale a Sigonella per incontrare i comandanti dei reparti USA, NATO e italiani schierati. Un atto di sfacciata subalternità alle logiche che hanno trasformato l’intera Sicilia in piattaforma di guerra, ulteriormente peggiorata dall’impegno del governatore di “farsi carico in sede regionale delle problematiche idro-geologiche che interessano la grande stazione aeronavale”.

Sigonella uber alles, prima cioè di mettere mano ai devastanti dissesti del territorio che emarginano economicamente l’Isola e i suoi abitanti.

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Ricordando Giuseppe Fava – Frutti di mare

Frutti di mare Giuseppe Fava Pomeriggio di quel giorno di mezzo novembre. Ora non ricordo se fosse Pozzallo o Scoglitti, oppure Marina di Ragusa o Samperi, quel pomeriggio era così vasto, così splendente che tutti i luoghi di quella straordinaria riviera sembravano racchiusi come nel cavo di una mano dalla identica luminosità, i medesimi incredibili colori autunnali, il giallo della rena, il verde argento delle colline, il bianco del cielo, il medesimo vento tenue, con l’odore delle alghe. Davvero non so quale fosse quel luogo, e quale l’ora, il sole sembrava immobile da ore, sempre nel punto più alto del cielo. L’acqua del porto era

verde e immobile, un veliero vi avanzava lentamente in mezzo e pareva lo lacerasse in due, trascinandosi due lembi lunghissimi e morbidi come la seta. Il fotografo fece un piccolo cenno malinconico indicando una bettola quasi dirimpetto al mare. Stava proponendo di mangiare. Il mio fotografo è basso, tarchiato, con la testa rapata, gli occhiali scuri, due grandi orecchi e una piccola bocca di pesce. Questa inchiesta lo sta esaltando, ci si sente dentro da protagonista, viaggiando in macchina parla ininterrottamente di mangiare, non ho conosciuto un uomo capace di parlarne con tanta amorevole serietà, attenzione e LeSiciliane - Casablanca 24

scienza. Come taluni uomini normali ricordano alcuni giorni memorabili della loro vita, oppure occasioni strane, o tragedie familiari, e persino eventi storici, al suono nostalgico di una musica o motivo di canzonetta (io sento “Ma l’amore no!” e subito ricordo la polvere dei bombardamenti aerei) così egli è capace di rievocare la sua vita, la prima donna che conobbe, il matrimonio, la morte di sua nonna, al semplice annusare di un odore di cibo, un fumo, uno spiraglio di arrosto, un sentore di pizza, un alito estivo di fichi maturi. Così viaggiando, fumando, ridendo, odorando, mi


Ricordando Giuseppe Fava – Frutti di mare ha raccontato quasi tutta la sua vita. Ordunque, in quel piccolo porto del mare d’Africa, mi propose di mangiare. Scegliemmo proprio quell’osteria dirimpetto al mare, con i tavoli sul marciapiede, il pergolato sulla testa.

Dinnanzi a noi c’era soltanto il mare, e cinque metri più in basso, la carcassa di un veliero affondato in mezzo alle alghe. Ogni tanto su vecchie biciclette passavano adagio vecchissimi marinai vestiti di blu. Padrona era una donna grassa, rubizza, con un

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grembiule rosso e bianco, una faccia contenta, la risata un po’ sguaiata, due bande di capelli grigi, aveva una dentatura da pescecane ma le mancava un dente in mezzo alla bocca e, parlando e ridendo, faceva sempre un flebile fischio. Subito fra questa donna


Ricordando Giuseppe Fava – Frutti di mare e il mio amico fotografo si stabilì un’intesa quasi spirituale. Trattando il cibo da portare a tavola non si parlarono nemmeno, si guardavano soltanto, facevano piccoli gesti, una specie di transfert, come accade misteriosamente a due cani che non si conoscono e per qualche minuto si identificano odorandosi, solo che qui non si trattava di

eros ma di buon mangiare. Capirono subito di essere della stessa razza, si piacquero, in un certo senso si amarono. Il fotografo guardava un tipo di pesce e la donna faceva un’impercettibile smorfia, il fotografo alzava un dito lievemente verso un altro pesce e la donna faceva un riso come un sospiro. Fu una mangiata memorabile!

Anzitutto frutta di mare, cioè polipi minuscoli e teneri come molliche, occhi di bue arrostiti sulla brace, con olio, prezzemolo, limone e peperoncino rosso. Poi la donna ci portò gli spaghetti con la salsa delle vongole. Il fotografo mi guardò, alzando un dito, come si vede nelle statue di San Paolo dinnanzi al Filisteo. Disse: «Ecco, questi sono

buoni spaghetti!». Ne arrotolò lentamente una forchettata e la intinse adagio nel sugo, poi con un pezzettino di pane ci sistemò sopra alcune grosse vongole e, con una mossa piena di garbo, se la portò alla bocca. Al primo assaggio di ogni pietanza egli è solito chiudere gli occhi per concentrarsi sul sapore, e così infatti eseguì. Concluse LeSiciliane - Casablanca 26

infatti: «Buoni, solo a Milazzo ne ho mangiato di così buoni. Un giorno a Milazzo conobbi una donna, una straniera, mi pare un’austriaca o una svizzera, sembrava allupata. Che notte! Sai, una di quelle donne che poi ti lasciano segni di morsi in tutto il corpo... Avevamo mangiato spaghetti con le vongole, le fecero un effetto strano, questo è un mangiare molto afrodisiaco. Ah, ora mi ricordo, si chiamava Magdalena, era rossa di capelli, molto pelosa, dice che le svizzere pelose sono molto sensuali!». La padrona dell’osteria ci aveva portato almeno trecento grammi di spaghetti a testa, con le vongole grosse come tuorli d’uova, e li mangiammo tutti, e ci bevemmo sopra almeno mezzo bicchiere ad ogni immane forchettata. L’aria si era fatta greve e immobile, quel sole sembrava piantato con i chiodi in cima al cielo, pareva davvero che fosse tornata l’estate, a picco sul mare si scorgevano le


Ricordando Giuseppe Fava – Frutti di mare rovine di un edificio, forse un vecchio castello, o un fondaco. Pensavo: alla fine mi andrò a stendere lassù, in mezzo all’erba, voglio stare un’ora coricato a gambe larghe a fumare e guardare il mare! La donna venne con quel suo sorriso misterioso, e così camminando e sorridendo, lei e il fotografo si guardavano negli occhi come due che si apprestassero a fare all’amore. Ci portò due grandi porzioni di tonno, con salmeriglio di olio, limone, origano, aglio e pepe nero. Un’altra bottiglia di vino e pane bianco. Il il fotografo fece un minuscolo sorriso adescante, spalancò un occhio solo ed ebbe proprio la voce dell’amante che propone una audacissima variante erotica. Sussurrò: «Non ci sarebbero anche gli spiedini!». La donna restò qualche istante a dondolarsi adagio sui suoi cento chili, con il medesimo sorriso della femmina

la quale sta per concedersi, ma ancora gioca un poco, vuole farla pagare cara. Fischiò dolcemente qualcosa fra i denti, io istintivamente pensai che fosse soltanto un gemito di concupiscenza. Non avevamo ancora finito quella fetta di tonno, che ci portò infatti gli spiedini, il cui solo odore era tramortente.

tratta di scoprire dov’è il buon mangiare. Questa osteria con la padrona che, ridendo, fischia, oppure un’altra. Se vi aggrada, io posso prestarvi il mio fotografo per condurvi. In realtà quel giorno mi accadde una cosa stupefacente, cioè più mangiavo e più mi veniva fame. Gli spiedini erano sottili listerelle di legno,

Ora voi, leggendo, liberi di pensare che io mi stia inventando questo pranzo. Del resto questa riviera sul mare d’Africa, queste immense spiagge gialle, con le rocce rossastre che improvvisamente tagliano la vastità, con i piccoli porti d’acqua autunnale, verde e immobile, sono sempre quaggiù, si

lunghe una trentina di centimetri, alle quali erano stati infissi giganteschi gamberoni, l’uno separato dall’altro da fettine di limone intinte nel sale e in un lieve pulviscolo di pepe rosso. Così erano stati lentamente rosolati sul fuoco. Il fotografo volle il vino rosso, e poiché obiettavo che trattandosi di pesce sarebbe stato meglio il

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Ricordando Giuseppe Fava – Frutti di mare bianco, mi volse un sorriso di tenero disprezzo: «Balle! Dove c’è il peperoncino e il fuoco, il vino deve essere rosso! Il giorno che morì mia zia ci portarono un “consolo” di gamberi e vino dell’Etna, diomenescansi, mio zio il quale prima piangeva e si voleva sparare, alla fine cominciò a raccontare barzellette, ci fece morire tutti dalle risate, il prete diceva: vade retro... ma rideva anche lui come un pazzo!». Con quella piccola bocca fece una smorfia: «La morte del gambero è questa! Però il legno dello spiedino doveva essere di abete. E’ più morbido e fa profumo!». Io feci solo un lieve brontolio di assenso. Guardavo il mare, immobile verde, con la carcassa del veliero, che si vedeva in trasparenza, le punte delle alghe gialle che affioravano sotto la banchina, desideravo l’estate per essere disteso sul mare, braccia e gambe larghe, galleggiando così. E il fotografo mi sfiorò

rispettosamente con il dito, con due occhi come si fosse dimenticato di comunicarmi qualcosa di essenziale e me ne volesse chiedere scusa: «Qui però il pesce migliore sono le cozze, perché il pascolo marino è più dolce, l’acqua è cheta. Qui

ci sono cozze grandi come un pugno. Si mangiano crude: mezzo limone spremuto su ogni cozza, un pezzo di pane di casa e mezza bottiglia di vino. Stavolta però dev’essere bianco! Le cozze sono un cibo vigoroso, uno si mangia un piatto di cozze, poi prende una donna e la sconquassa. La prima notte di nozze, all’alba mia moglie mi disse: oh, e tu ti devi calmare, che ti sei messo in testa! Io sono stata sei anni nel collegio delle domenicane...!». La donnona rubiconda e ruffiana era a due passi, aspettava, aveva ascoltato e subito LeSiciliane - Casablanca 28

annuito, pensai che anche lei aveva mangiato cozze per la prima notte di nozze, il marito era sopravvissuto solo un paio di settimane. Poi morto o fuggito emigrante. Probabilmente ero un po’ ubriaco. La donna portò un chilo di cozze, venti limoni, un altro pane di casa e un litro di bianco di Pachino. Con piccoli gesti amorosi sbarazzò il tavolo dalle molliche, dai resti dell’altro cibo, i piatti, le bottiglie vuote. Il fotografo fece un gesto sacerdotale, si legò il tovagliolo attorno al collo. Cominciò ad aprire le cozze adagio con la punta del coltello, a spremerci mezzo limone, aveva già affettato il pane, riempito il bicchiere. Fece un sospiro: «Ad Acitrezza le cozze sono più piccole, però forse ancora più tradimentose, non so se mi spiego... Mi ricordo quel giorno che due pescatori si erano perduti al largo per una tempesta. Una tragedia del mare, cose da Malavoglia...». Dirimpetto al molo


Ricordando Giuseppe Fava – Frutti di mare metallico di Pozzallo, questa specie di monumento della impotenza pubblica in Sicilia, si levavano dolci colline di pietra sulle quali pastori e mandriani portavano le bestie al pascolo, e quelle mucche pezzate e quelle capre che brucavano l’erba fin sulle rive, sembravano irreali. In verità, forse perché novembre è un mese senza stagione, ancora con il sole bianco dell’estate e l’erba dell’inverno che già cresce dovunque, tutta quella riva siciliana del mare d’Africa mi appariva irreale, i piccoli porti di pietra bianca. Samperi, Donnalucata, Marina di Ragusa, Scoglitti, dentro i quali velieri e barche si raccoglievano come nel cavo di una mano, e si sentiva, si capiva che essi erano ancora arnesi per la vita dell’uomo, le reti, gli scalmi, i remi allineati sulla riva, logori e lustri come le zappe, le falci, gli aratri di un tempo, infinite volte impugnati da generazioni di contadini. Il viaggio stava per

concludersi. Come già la sera avanti, il sole cominciò a calare velocemente, via via diveniva più grande e si accendeva di rosso, si fermò a un palmo dall’orizzonte, visibile e nitido come la lampadina di un’osteria, e tutto il golfo sul quale correvamo, di colpo si spogliò di voci e

e, lungo il bagnasciuga, il puntolino minuscolo di un uomo che camminava adagio rasente al mare. Pensai che non avrei mai saputo che viso avesse quell’essere umano e se era un vecchio o un bambino, e che pensieri avesse nella mente in quell’attimo, quale fosse cioè la sua

presenze umane, i gabbiani scomparvero misteriosamente e le colline s’illuminarono di una luce d’incendio. Laggiù, all’altra estremità del golfo, si scorgeva un piccolo villaggio marino, aggrappato a una specie di duna a picco sulla riva, e centinaia di finestre riflettevano quel sole, pareva che le case stessero bruciando.

fantastica sensazione di solitudine, in quella ultima luce, in quel golfo senza una sola voce umana, senza nemmeno più il fruscio di un gabbiano.

Sull’arco sconfinato della spiaggia c’era solo una barca sfondata LeSiciliane - Casablanca 29


Ricordando Giuseppe Fava – un Maestro umano sognatore e ribelle

Un Maestro umano sognatore e ribelle Elena Brancati Capelli folti e lunghi, jeans, maglietta, e Nazionale sempre accesa tra le labbra. Tanta autoironia. Parlata affascinante. Un uomo diverso dai suoi coetanei. Entusiasmanti ricordi di una ragazzina oggi donna e madre ricordi che si mischiano con gli avvenimenti quotidiani della vita, diventano percorsi umani e professionali. Giuseppe Fava stato un maestro che ha insegnato a sognare e ribellarsi Luglio o agosto 19… ? Che anno era? Boh, non ricordo. Taormina, bar Mocambo e un festival del cinema in corso. Mio padre, mia madre, Pippo e Lina Fava. Ed io, adolescente. Risate, sfottò, sigarette accese e donne eleganti e raffinate. Ed io, felice ma non tanto, a quell’età si vorrebbe passare l’estate fra coetanei e non con genitori e amici loro. Ma era bello passare una settimana a Taormina e vedere film, noiosi ma anche interessantissimi (chi se lo scorda “Non si uccidono così anche i cavalli”?) e che dovevano segnare la mia grande passione per il cinema che mi avrebbe portato a scriverne per anni sulla “Gazzetta del Sud” e poi su “I Siciliani” e a trasmettere le storie della Settima Arte ai miei alunni? Insomma, le prime immagini che mi vengono in mente di Pippo Fava sono proprio queste. Quest’uomo tanto diverso dai suoi coetanei, capelli che gli sfioravano il collo, jeans, maglietta e

Nazionale accesa. Lo sentivo parlare e mi affascinava, mi divertiva e sfotticchiava mio padre dicendogli che avrebbe dovuto lasciarmi un po’ più libera (ma chissà com’era con sua figlia che portava il mio stesso nome…). Un salto di più di un decennio ed eccomi dentro la redazione del quotidiano che Fava era stato chiamato a dirigere. Mi ero presentata portandogli alcune cose che avevo scritto su Andy Warhol per l’Università e i tre, dico tre, articoli che mi avevano pubblicato su La Sicilia. Tre, il numero perfetto per capire che lì era meglio non metterci più piede. E mi ritrovai a lavorare alla redazione spettacoli del Giornale del Sud. E certo non per il lavoro su Andy Warhol o per i tre, dico tre, articoli sulla Sicilia. Ma perché Fava aveva compreso che il suo entusiasmo, la sua voglia di verità e giustizia la poteva trovare solo in quei carusi che avevano il suo stesso spirito in una città indolente e LeSiciliane - Casablanca 30

malandrina. Il licenziamento di Fava dalla Gazzetta del Sud, la creazione della cooperativa Radar e la nascita de “I Siciliani” accesero le mie e dei miei compagni d’avventura speranze di un giornalismo libero, crudo, rivelatore di ingiustizie e anche di grandi bellezze che la stampa di regime negava per complicità, connivenza, ignoranza e tornacontismo. Anni faticosi ma entusiasmanti con un Maestro, un vero Maestro, umano e sognatore, ribelle e controcorrente. (quanto tempo è passato? Tanto. Ma per me è sempre lì a farmi compagnia e ad emozionarmi, a rendermi soddisfatta della scelta e che, anche per insegnare, mi ha dato molto di più della maggioranza dei noiosissimi e tromboneschi corsi d’aggiornamento). Il resto della storia la conoscete tutti. Non la voglio ricordare. Fa ancora male.


Ricordando Giuseppe Fava – Il nostro Pippo Fava

Il nostro Pippo Fava 5 gennaio 1994 – 5 gennaio 2021 Fabio Tracuzzi Per raccontare una persona cara ci vuole un amico. L’amico. Il complice delle risate. La condivisione dell’ironia. Le battute anche sciocche tanto per ridere anche se si fa quel lavoraccio di raccontare le cose tristi e truci. Giuseppe Fava, Pippo, sarebbe felice di essere raccontato con tanta leggerezza e allegria. Squilla la suoneria del cellullare e sul display appare il nome di chi chiama: Graziella Proto. E come si fa a non rispondere a Graziella. Ci sentiamo di rado e ci vediamo ancora meno. Tutte e due, però, abbiamo in comune i cuori capricciosi e ci lega un filo invisibile e che non può essere tagliato da niente e da nessuno. E quando ci sentiamo o vediamo è come se fosse successo anche il giorno prima. Perché? Forse per i mesi passati nella redazione (un enorme garage in verità) a Sant’Agata Li Battiati de I Siciliani a quando c’era ancora Pippo? Si certo, ma soprattutto per i mesi passati dopo la morte di Pippo quando lei, insieme al povero Lillo Venezia, si prese sulle spalle tutto il fardello, pesante fardello (e non era tenuta a farlo) di carte e

pratiche della cooperativa Radar, editrice de I Siciliani, con enormi sacrifici personali e non solo in termini di tempo. E senza che nessuno, quasi nessuno, si preoccupasse di quanto stava facendo per la cooperativa, il giornale e la memoria del suo direttore. Ma questa è un’altra storia e chissà, magari un giorno ci andrà di raccontarla. “Fabio, gioia, come stai?”. E io: “tutto bene, dimmi”. “Mi devi scrivere un articolo su Pippo”. Quasi un ordine. Non chiedo per chi e per come ma presumo sia per il numero di gennaio della sua rivista on line “Le siciliane Casablanca” nel mese dell’anniversario della morte di Pippo Fava ucciso dalla mafia il 5 gennaio del 1984 di fronte al Teatro Stabile di Catania, quella strada chiamata oggi via Fava. Una LeSiciliane - Casablanca 31

lapide, anzi due (una istituzionale, una meno ufficiale ma più significativa) ricordano il vigliacco gesto dei mafiosi, uomini da niente che sanno sparare solo alle spalle contro uomini disarmati. Non ho mai capito perché li hanno sempre chiamati uomini di panza o peggio ancora uomini d’onore. Cosa c’è di onorevole nell’ammazzare un altro umo sparando a tradimento e per giunta disarmato. Esecuzioni mafiose le chiamano. Direi solo esecuzioni di uomini vigliacchi appartenenti a organizzazioni di vigliacchi. La mafia è vigliaccheria. E non vuole essere riduttivo. E lì in quell’angolo di via Fava dove Pippo è stato colpito nella sua auto mentre aspettava la nipotina (oggi donna fatta) che usciva dal


Ricordando Giuseppe Fava – Il nostro Pippo Fava teatro, fa bella mostra di sé un pornoshop con tutta la sua singolare mercanzia in bella mostra. Ci pensi bene chi ha conosciuto davvero Pippo: sarebbe il primo a ridere di questa situazione. E soprattutto nel giorno dell’anniversario della sua morte quando due vigili urbani in alta uniforme pongono una corona d’alloro sotto la lapide istituzionale ma sembra che la posino accanto all’ingresso del pornoshop. Lo vedo Pippo col suo mozzicone di

esportazione senza filtro, mai una sigaretta diversa (chissà cosa fumerebbe oggi che non esistono più, certo non una sigaretta elettronica) che guarda e ride. Ma torniamo alla telefonata di Graziella. Chiedo solo quanto deve essere lungo l’articolo. E, spiazzandomi ancora di più, mi dice: “Fabio quanto vuoi tu, non ti preoccupare”. Chiusa la telefonata mi scappa subito, nel pensiero, una imprecazione: cazzo, ma cosa si può scrivere su Pippo Fava 37 anni dopo la sua

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morte. Tutto è stato detto di lui, cose vere e cose non vere e cose parzialmente vere alle quali hanno contribuito, e non poco, le due fiction realizzate una su La 7 e una su Rai uno. Gli autori? Lasciamo stare non è questo l’articolo che vuole fare polemiche. La disperazione, i pianti davanti all’ospedale la notte dell’agguato, la notte in redazione per mettere a punto il numero speciale con Riccardo Orioles, grande Riccardo dal cuore grande grande, che saltellava di


Ricordando Giuseppe Fava – Il nostro Pippo Fava tavolo in tavolo con la sua pipa cercando di organizzare ma facendo più confusone, lui direbbe casino, che altro. Ma quella notte nessuno avrebbe potuto fare meglio di lui. La notte del 5 gennaio 1984 e la mattina seguente. RADAR- LA COOPERATIVA DELLA LIBERTA’ Sulla scrivania di Pippo la sua macchina da scrivere una stecca delle sue esportazioni e un mazzo di fiori messo chissà da chi e chissà quando E un via vai gente la maggior parte con facce di circostanza e inviati delle varie televisioni nazionali. Io e Antonio Roccuzzo dovemmo rispondere alle interviste. Cazzo: cosa si può dire di Pippo Fava che non sia stato già detto in tutti questi anni? Quando fu licenziato dal Giornale del Sud ci fu uno solo dei suoi redattori che si dimise e andò via insieme al lui. Uno solo. Io, Fabio Tracuzzi. Tutti gli altri restarono sotto la direzione di un certo Umberto Basso (O Bassi non ricordo ma ha poca importanza) a far continuare la vita di un quotidiano ormai inutile tant’è che dopo pochi mesi fermò per le sempre la rotativa. E cominciammo a vederci quasi ogni giorno io e Pippo. La sua idea, la sua grande idea, ere di fare una cooperativa di giornalisti che

potesse editare un giornale tutto suo senza padroni e senza censure. Ma bisognava fare in fretta. Cominciammo a cercare il locale giusto, anche Lillo Venezia partecipò alla ricerca, ma soprattutto c’era da mettere in piedi la cooperativa. Sarebbero passato mesi. Ma Pippo ebbe una grande idea: esisteva già una cooperativa della quale lui era anche socio insieme ad altri uomini di spettacolo e che, nello statuto, prevedeva anche le iniziative editoriali. Presto fatto: tutti tranne

Pippo si dimisero e subentrammo i nuovi soci: quelli che diventarono i carusi di Pippo Fava che è bene sottolineare non erano solo quattro. E per Pippo erano tutti uguali. Nessun preferito. Orioles, durante una delle tante riunioni notturne, con un pennarello verde chiaro abbozzò il logo che, tra l’altro, non è mai cambiato. Il più era fatto. Avevamo la nostra cooperativa, la nostra redazione e con i contributi dell’Istituto regionale delle LeSiciliane - Casablanca 33

Cooperative comprammo macchine da stampa che a noi sembravano bellissime ma in verità erano rottami. Eravamo pronti. La prova generale fu un giornale tutto in inglese “WT (walkie talkie) che veniva distribuito gratuitamente alla base di Sigonella. Anche questa idea fu di Pippo. Del resto la cooperativa doveva mantenersi con i lavori di tipografia normale ma chissà perché ogni commessa che prendevamo alla fine era un disastro economico. Ecco, la matematica non ea proprio il punto forte di Pippo. Sbagliava tutti i conti e non c’era modo di contraddirlo. Ma poi Pippo decise: facciamo il mensile. E il primo numero de I Siciliani fu in edicola il 1 gennaio del 1983. In copertina la fotografia di Graci, Finocchiaro e Rendo che brindano sorridenti e il titolo: I cavalieri di Catania e la mafia. E l’artico all’interno firmato Giuseppe Fava, aveva per titolo “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”. Fu un grande successo e furono necessarie tre ristampe. Un anno dopo, il 5 gennaio 1984 Pippo Fava, il direttore, veniva ucciso. Graziella, scusa, ma cosa posso dire di Pippo Fava che già non si conosce?


Quando esisteva il fotogiornalismo

Quando esisteva fotogiornalismo

il

Nadia Furnari Le sue fotografie sono entrate nelle nostre vite senza saperlo; Franco Lannino, Studio Camera di Palermo, una agenzia fotografica che ho conosciuto grazie alla fotografa Grazia Bucca con la quale ho anche condiviso questa intervista. Anche lei ha puntato i suoi obiettivi verso le tante storie che ogni giorno noi vediamo senza osservare. Quando sono entrata nella ex sede di Studio Camera sono rimasta senza fiato: ogni parete ti catapultava in pezzi della nostra storia. Franco Lannino, da dove partiamo? Partiamo dalla mia nascita. Francesco Paolo Lannino, sono nato a Palermo ed il primo approccio con la fotografia risale a 11 anni, quando feci la comunione, perché ricevetti la mia prima macchina fotografica, una bellissima Kodak Instamatic “occhio d’aquila”, che ancora tengo e conservo gelosamente, formato 126, un formato che usava le “compattine”, diverso dal 35mm. Da lì cominciai a fotografare, prima i parenti durante la

festa della comunione, poi andai a far sviluppare il rullino dal fotografo e rimasi affascinato da questa cosa. La fortuna è stata avere un fratello anche lui fotografo e per essere sincero tecnicamente molto più bravo di me; lavorava all’agenzia Publifoto a Palermo. Un’agenzia all’epoca molto famosa. Dopo il diploma spesso accompagnavo mio fratello Giuseppe, erano gli anni ’70, LeSiciliane - Casablanca 34

scalpitavamo per vivere da soli ed essere economicamente indipendenti. Abbraccio questo bel mestiere, prima fotografo di base, però con specializzazione in cronaca ed attualità e quindi il mestiere di fotoreporter. Con il servizio militare obbligatorio mi trovo costretto a mettere da parte


Quando esisteva il fotogiornalismo la fotografia. Quando sono arrivato in caserma il sottufficiale mi chiese che mestiere io facessi, risposi “il fotografo”, lui mi guardò sorridendo poi guardò il mio fascicolo personale, ed apponendo un timbro sul foglio disse ad alta voce: “Bravo, allora da ora in poi puoi guidare i carri armati”. Svolto il servizio militare, nel 1980, sono tornato a Palermo e sono stato assunto alla Publifoto. Da lì ho cominciato a lavorare, ricordo che stampavamo tantissimo in camera oscura. Era un periodo molto complicato? Sì, il periodo era molto complicato. La guerra di mafia era quasi sul finire, c’erano decine di morti al mese, quasi uno al giorno. La Publifoto collaborava con tanti giornali, tra i quali il giornale L’Ora. Nel 1982 ebbi il primo incarico di fotografo; si

trattava dell’omicidio del fratello e di un nipote di Masino Buscetta avvenuto alla Vetreria Buscetta. Buscetta stava collaborando con la giustizia e gli sterminarono la famiglia. Giunto in vetreria, ho visto la scena di questi due morti e cominciai a scattare, poi tornai in agenzia e le stampai ed il titolare le vendette ai giornali.

Da quel momento cominciai a fare puntualmente foto di cronaca Quella di fare cronaca è stata una scelta? O volevi fare un altro tipo di fotografia? Diciamo che sono contento di essere capitato in questa agenzia, perché l’alternativa sarebbe stata fare il fotografo di cerimonia (matrimoni, battesimi) perché Palermo come fotografia di cronaca non offriva molto. Non eravamo né a Milano né a Roma, non c’era gossip, non c’era moda. Ricordo poi l’attentato a Carlo Palermo, in cui morirono i gemellini Asta e la loro madre. Tu sei arrivato a Pizzolungo? Sì, andai. A Palermo arrivò la notizia di questo attentato, si seppe che il magistrato non era morto, mi precipitai lì. Di fronte a quella scena ho provato la stessa sensazione di distruzione provata a Capaci.

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Quando esisteva il fotogiornalismo Come si riesce a fotografare l’orrore? Per quello devi avere abbastanza sangue freddo e non pensare che sia orrore, ma pensare che sia il tuo lavoro e la tua missione. Oggi, a fine carriera, mi dico che più che un lavoro ho svolto una missione. Come fotoreporter, la mia missione, era di rendere partecipi i lettori che sfogliavano i giornali cartacei (a quei tempi non esistevano i giornali online). Tutti avevano il diritto di vedere esattamente quello che i miei occhi stavano vedendo. E quindi io ho

sempre messo da parte le emozioni personali ed ho sempre mirato al cuore della questione. Hai mai pensato di mettere da parte la macchina fotografica e decidere di non fotografare anche momenti di dolore che non davano niente alla cronaca, che oggi invece avrebbero fotografato? È vero che noi fotoreporter

puri dovremmo registrare solamente senza mettere alcuna emozione su quello che potrebbe essere il nostro punto di vista: alla fine potrai essere estremamente cinico, o al contrario se sei troppo sensibile, potresti omettere delle cose che purtroppo devono essere viste, come appunto quelle dell’orrore, che io ho visto ed ho documentato spessissimo. L’ideale sarebbe restare equidistanti e registrare solamente. Però è chiaro che in una carriera lunga 43 anni esattamente, ho visto delle

cose orribili e ci sono anche stati dei momenti di défaillance miei, davanti ad alcune scene. Un esempio: al tempo in cui Bernardo Provenzano era latitante, dopo l’arresto di Riina, i parenti di Bernardo Provenzano tornarono a Corleone e noi fotografi e giornalisti avevamo il compito di andare a “caccia” di immagini sia dei parenti di LeSiciliane - Casablanca 36

Riina che di Provenzano. I figli di Provenzano erano piccoli, se non ricordo male 14 e 16 anni. Si seppe il nome della scuola dove andava uno dei figli. I giornalisti, i fotografi (fotoreporter e televisioni), assediarono la scuola alla ricerca di questo ragazzo. Ricerca che fu difficilissima, proprio perché tutta la scuola di Corleone, dagli insegnanti agli alunni, cercò di fare quadrato intorno a questo ragazzo per non darlo in pasto ai media… Oggi i minorenni non si possono fotografare Infatti. E mi ricordo una scena veramente brutta e anche pietosa che mi ha messo di malumore. Io ed un paio di altri giornalisti e fotografi, avevamo individuato, più o meno, quale fosse quella classe. Abbiamo scavalcato un muro e ci siamo nascosti cercando di “catturare” l’immagine di questo ragazzo. Lui stava uscendo dalla porta dell’aula, vide noi e tornò indietro e, aiutato da un suo compagno di scuola, addirittura scavalcò la finestra sul retro, cercando di scappare. Noi lo abbiamo inseguito come si insegue una preda, una selvaggina. L’ho fotografato. Subito dopo aver scattato la foto ho pensato: “Ma che cazzo stiamo facendo? Stiamo dando la caccia ad un ragazzo?”. Sì vabbè, il figlio di Provenzano, bla bla, il figlio di un mafioso, ma sempre un ragazzo è.


Quando esisteva il fotogiornalismo La foto ce l’avevamo io ed un altro fotografo. Ci telefonarono dalla redazione: “Ce le avete le foto?” “Sì le abbiamo.” Tornando verso Palermo, però, abbiamo deciso di non darla la foto di questo ragazzo. Quando in redazione chiesero: “Ma come, ma tu non l’hai fotografato”, ho risposto: “Sì, ma non te la do la foto perché non mi sembra giusto: primo perché è un essere umano, secondo è stato braccato come un coniglio, terzo è pure minorenne e quarto non

me la sento, perché mi ha rotto il cuore, mi ha ferito molto vedere questo ragazzetto dato in pasto ai giornali”. La grande contraddizione. Peppino Impastato, figlio di mafioso non veniva giudicato in qualità di figlio di mafioso perché faceva l’opposizione, Rita Atria la evitavano perché i genitori degli altri ragazzi dicevano di non frequentare Rita perché era la figlia di don Vito… Lo sai che la foto della copertina del libro di Sandra Rizza su Rita Atria l’ho fatta io? Quella fototessera me la

diede la madre. Tornando al figlio di Provenzano, a livello nazionale successe un putiferio, perché ovviamente gli editorialisti si scatenarono. C’era chi ad un certo punto ci diede ragione e chi era contro. Correvate dei rischi? Tu lavoravi al giornale l’ora e il fatto di fotografare l’orrore non era molto digerito dalla mafia, cos’è che temevano? Allora, torniamo un attimo indietro, per semplificare. Io finisco di lavorare per la Publifoto nel 1988/inizi 1989 se non ricordo male. In quel periodo L’Ora aveva interrotto la collaborazione con Letizia Battaglia a causa di impegni sempre più di respiro nazionale e internazionale di Letizia. Al giornale c’era l’esigenza di avere fotografi che lavorassero su tutto, persone che potessero essere mandate dappertutto. Venimmo perciò convocati in redazione io, Michele Naccari e Salvo Fundarotto. Ci dissero che avevano bisogno di fotografi e che se noi avessimo costituito una società, ci avrebbero LeSiciliane - Casablanca 37

assunti. Fu così che noi tre fondammo Studio Camera ed immediatamente dopo venne stipulato un contratto con il giornale L’Ora. Cominciammo a fotografare a ritmi forsennati perché erano tempi terrificanti… poi L’Ora chiuse il 9 maggio del 1992, salutando i lettori con quell’“Arrivederci”. Ma questa è un’altra storia. E cosa succede dopo? Dopo la chiusura dell’Ora ci concentriamo di più sulle cose importanti di respiro nazionale, affidando il nostro lavoro ad agenzie fotografiche di Roma e di Milano per vendere il più possibile. E piano piano, ce


Quando esisteva il fotogiornalismo l’abbiamo fatta. Il 1992 è l’anno delle stragi Sì. Quell’anno si comincia prima con l‘omicidio dell’onorevole Salvo Lima, poi si passa alla strage di Capaci e poi a quella di via D’Amelio. Abbiamo fotografato di tutto e di più, andando addirittura sulle piazze di Milano a vendere, fisicamente noi perché le fotografie non erano digitali e per venderle quindi bisognava stamparle per farle vedere. Che significa “andare a Milano”? L’editore se non le vedeva non le comprava. Quindi all’indomani della strage di via D’Amelio presi il primo aereo per Milano verso le 8 del mattino, con tutto il materiale fotografico della strage. Io sono stato tra i primi ad arrivare sul posto. Come hai saputo della strage di Capaci e via D’Amelio? Com’è che sei arrivato tra i primi? Il 23 maggio, giorno della strage di Capaci, dovevo fare le foto all’inaugurazione della Fiera del Mediterraneo e ad un certo punto un poliziotto che conoscevo mi disse: “Franco vattene a Capaci perché c’è un casino. È successo un casino”. Io non chiesi neanche di che casino si trattasse, perché era un poliziotto che conoscevo bene e sapevo che la dritta era giusta, e quindi andai a Capaci. Per la strage di via D’Amelio invece stavo andando a San Martino delle Scale (paesino in collina nel palermitano)

con la mia famiglia per prendere un gelato, all’altezza di Baida mio figlio mi dice: “Papà, guarda, c’è un sacco di fumo là”; io rallento guardo e vedo questa colonna di fumo che si alzava dalle parti del porto, quindi pensai fosse successo qualcosa ai cantieri navali, l’esplosione di una nave, perché la zona era quella. E quindi faccio inversione immediatamente. Con me portavo sempre una macchina fotografica e almeno due o tre pellicole in tasca. All’altezza di via Marchese di Villabianca (vicino a via D’Amelio, ndr.), lasciai la macchina, abbandonai proprio la macchina con i miei familiari e di corsa sono andato a scattare le foto. Ma nessuno vi ha mai fermato? Cioè ha transennato? Certo, tutti ti fermano, però io scavalcavo e correvo; andavamo avanti più possibile. Non ti nascondo che abbiamo preso anche LeSiciliane - Casablanca 38

“legnate” per questo nostro andare oltre. Dalla Polizia, dai mafiosi, da qualunque cretino, dai familiari, da chiunque. La nostra missione era di andare lì e fotografare. Torniamo alle stragi. Hai fatto scatti su dettagli che gli altri non hanno notato? Ci sono degli scatti che sono serviti agli organi inquirenti? Ci sono alcuni scatti che altri non hanno o certe volte gli altri li hanno e tu no. Un particolare che è servito agli organi inquirenti è stato il fotogramma sulla borsa del Giudice Borsellino tenuta in mano dal carabiniere Giovanni Arcangioli. Quando sono arrivato in via D’Amelio lo scenario era di guerra. In questi casi il fotografo cammina e scatta, cioè tu cammini con la macchina fotografica e scatti a raffica. Quando ho visto l’allora tenente (che io conoscevo bene perché era sempre presente nei casi di omicidio


Quando esisteva il fotogiornalismo ricordo sotto una specie di cartone bruciacchiato mentre facevamo un po’ di foto di maniera, si chiamavano così. Passano gli anni e scopri che quella foto fatta per immortalare una contraddizione diventa centrale per le indagini

per mafia) allontanarsi con la borsa iniziai a fotografare. Lui veniva verso di me, ricordo che mi rimase impressa la sua maglietta, uno smanicato azzurro, non era in divisa. Io feci quello scatto giusto per farlo, per immortalare quella stranezza, quella stonatura di colori tra uno scenario di guerra e lo smanicato azzurro. Pensai: “Gli faccio ’sto scatto, poi alla fine quando ci vediamo in caserma, glielo regalerò e gli dirò, cacchio, la prossima volta che vai su una strage mettiti una cosa seria”, questa era l’idea. Ma finisce lì, perché dopo qualche secondo che faccio questa foto, mi trovo davanti brandelli di carne, kerosene, fiamme e fuoco. Ovviamente mi dimentico di questa foto. C’era anche il cadavere mutilato e carbonizzato del giudice Borsellino che per fortuna nessuno, con il senno del poi, è arrivato a cogliere, perché era stato sbalzato al di là di una ringhiera di un asilo e quindi

fisicamente nessuno poteva arrivare. Però due foto su corpi dilaniati… distrutti fatti a pezzi, io li ho visti e li ho fotografati ed erano gli agenti di scorta. (Silenzio, ndr). Di Emanuela Loi è stato trovato un lembo di seno Sì. Io l’indomani, prima di andare a Milano ritrovai una mano, la sua mano. Era una mano piccola piccola. La

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Finisce tutto lì, le foto, abbiamo venduto. Dopo 12 anni circa negli anni 2000, c’è l’avvento del digitale, nelle agenzie fotografiche si digitalizzavano gli scatti, dei negativi, delle diapositive, per averli più a portata di mano, per venderli più agevolmente, per catalogarli più facilmente. Ed in quel momento io mi catalogai tutta la strage, prima quella di Capaci, poi quella di via D’Amellio, ovviamente non tutte le fotografie, ma scansionando quelle che potevano essere più interessanti ai fini di una eventuale vendita ed archiviazione rapida. Mi ricordai della foto fatta al Tenente. E quando guardo


Quando esisteva il fotogiornalismo ovviamente mi sequestra la foto. Quella foto la Procura avrebbe potuto acquisirla anche dopo, non c’era nessun segreto investigativo. Anzi, in questo modo l’avremmo reso noto a tutti. Dopo si è dovuto aspettare l’istruzione del processo, sono stato chiamato in procura. E quindi siccome era un atto del fascicolo, l’hanno preso e non te l’hanno più restituito?

con il lentino mi rendo conto che ha una borsa in mano e mi viene un flash. A quei tempi si era cominciato a parlare della sparizione, c’era un’agenda, c’era una borsa, e lì ebbi proprio una specie di sussulto, chiamai il mio collega e gli dissi: “Michele, guarda questa foto, ha una borsa in mano, la borsa, tutti cercano la borsa di Borsellino, non è che è questa?”, e lui mi rispose: “Mah, in effetti potrebbe

essere”. Era una borsa di cuoio. Allora cosa succede? Comincio a chiamare i giornali, parlo con i direttori dei giornali e chiaramente propongo una cifra alta, ricordo che chiesi 50 milioni. La cifra era molto alta e inizia la trattativa con le testate nazionali. Succede che un giornalista lo viene a sapere e lo dice al procuratore Messineo della procura di Caltanissetta. Che

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No no. Io infatti dissi al Procuratore Messineo: “Senta dottore, facciamo una cosa, la foto l’avete voi, ok, sono d’accordo. Ma se questa esce da qui, io vi denuncio e mi date 50 milioni perché la foto è mia”. Ed infatti poi la Procura si impegnò per iscritto che la foto sarebbe stata utilizzata solo per il fascicolo senza altri fini. Ed in effetti non uscì. Poi ci fu il processo, gli atti sono stati resi pubblici, io sono riuscito a vendere la foto, però l’ho venduta ad un prezzo irrisorio rispetto a quella che sarebbe stata l’aspettativa. Ricordo che gli stipendi dipendevano dalla vendita delle foto e quella mancata entrata fu un danno serio per tutta l’Agenzia. Tu hai raccontato con il tuo lavoro pezzi di storia. Tu davanti a quell’orrore hai usato l’obiettivo come “filtro” di sopravvivenza e immagino che lo sviluppo in camera oscura non era sicuramente uno scherzo emotivo. Quando sei in guerra non hai troppo tempo per pensare. Prima però di chiudere questa intervista mi corre


Quando esisteva il fotogiornalismo l’obbligo chiederti: che fine sta facendo il fotogiornalismo? Perché Studio Camera ha dovuto lasciare la sua sede. Oramai c’è così tanta offerta, ce ne sono così tante in giro, che non puoi controllare tutto. Prendono le foto sul web e non si preoccupano neanche di capire di chi sono. Il Domani si è persino preso la foto di Arcangioli senza permesso. Li ho contattati e ho fatto notare che non potevano farlo. Ma ci sono tante fotografie di Studio Camera in giro e noi non abbiamo mai dato il permesso. Studio Camera non poteva più reggere l’assenza di domanda, ormai le testate prendono le foto dal primo

che capita o su Facebook.

Perché non pensare ad un museo? Noi siamo aperti a qualsiasi proposta. Da soli non possiamo farlo. L’intervista si interrompe

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qui… con la consapevolezza che la storia del fotogiornalismo volge al finire, uccisa da un mercato che non distingue più le immagini ma che vuole solo creare suggestioni accontentandosi della moltitudine di fotografi “digitali”. Queste agenzie fotografiche sono il nostro patrimonio culturale e dovrebbero essere protette dalla soprintendenza ai beni culturali. Le nuove generazioni non possono perdere questo patrimonio di immagini che hanno fatto la storia di questo Paese. Grazie Franco Lannino.

Si ringrazia Grazia Bucca per la collaborazione.


Io che amavo la mia libertà

Il mio ergastolo Natya Migliori Donne coraggio, donne resilienti, donne simbolo di una vita strappata che, a brandelli, può essere ricucita. Tante, in Sicilia e non solo. E troppo spesso dimenticate. Chiara Frazzetto è una di loro. Nel 1996, a Niscemi, la mafia stermina la sua famiglia. Sono le 18,30 di lunedì e Chiara si trova a Catania, dove frequenta l’Università. Un po’ a malincuore aveva salutato la famiglia, quell’inizio settimana. Non avrebbe voluto lasciare i sorrisi della madre, l’affetto del padre, le coccole del fratello Giacomo. Ma il dovere, le lezioni universitarie l’avevano fatta salire sul solito pullman, per tornare alla solita routine. Una routine che probabilmente le ha salvato la vita, ma gliel’ha anche cambiata per sempre: da quel lunedì, Chiara mai più rivedrà il padre e il fratello. I fratelli Infuso, Salvatore e Maurizio, entrano nell’attività di famiglia, un negozio di abiti da sposa, per chiedere il pizzo. Salvatore Frazzetto

tiene un’arma in negozio, probabilmente perché non è la prima volta che riceve questo genere di visite. Ma la pistola è troppo lontana da lui. Troppo vicina a uno degli Infuso. Salvatore cerca il pulsante per dare l’allarme al comando di polizia che dista solo 200 metri dal negozio. Infuso cerca il grilletto. E la sua mano è più veloce. Gli altri colpi sono per Giacomo, mentre la madre Agata, in preda al panico, corre fuori per cercare aiuto. Solo un caso, la pistola inceppata, risparmia la vita ad Agata, che non può far altro che veder morire il marito e il figlio. La sopravvivenza diventa per lei maledizione. Al dolore sopravvive solo per cinque mesi. Il suicidio della madre lascia Chiara da sola. Definitivamente. Disperatamente. Chiara è disperata, annientata, Non molla. Resiste. È forte. Si riprende i brandelli di vita e la ricuce con tenacia. LeSiciliane - Casablanca 42

Una legge di solidarietà che porta il suo nome, le permette di trovare un lavoro, di cambiare città, di farsi una famiglia. É mamma adesso, di due figli “grandi”, diciotto e vent’anni, entrambi studenti. Ed è mamma che non dimentica e continua a raccontarla la sua storia. Per le scuole, ai giovani, ai minorenni in carcere. Perché cambiare si può, perché resistere si deve. E non può essere la paura ad averla vinta. “L’onorevole Piero Grasso racconta sorridendo Chiara Frazzetto a Le Siciliane- una volta mi disse che sono “tosta”, nel senso siciliano del termine. E in effetti lo sono, alla mia maniera. Collaboro con Libera, con la Fondazione Progetto Legalità ed ho preso parte a tanti progetti, come il film Io ricordo, di Ruggero Gabbai. Ma soprattutto mi sono prefissa l’obiettivo di girare l’Italia per raccontare la mia storia ai giovani, a scuola o nelle carceri minorili. Le nostre storie devono passare da lì. È lì che occorre portare


Io che amavo la mia libertà la nostra testimonianza, spronare al cambiamento e a continuare sulla via della legalità.” Avevi solo ventun anni quando la mafia ha massacrato la tua famiglia. Chi era Chiara prima del delitto e chi è diventata dopo? Il 16 ottobre 1996 la mafia ha distrutto la mia famiglia uccidendo mio padre di soli quarantasei anni e mio fratello di soli ventidue. Mia madre è rimasta viva solo perché la pistola si è inceppata. Io ero una ragazza spensierata prima del duplice omicidio, una ragazza piena di sogni che vedeva il mondo tutto roseo. Frequentavo l'Università e abitavo a Catania dal lunedì al venerdì. Il sabato e la domenica ritornavo a Niscemi per stare con la mia famiglia. Dopo il tragico evento ho lasciato l'università per occuparmi del negozio, del processo e per stare vicino alla mia mamma rimasta sola. Il mio sorriso si è spento di colpo e mi sono sentita catapultata nel mondo dei grandi. Tua madre ti ha lasciato una lunga lettera in cui ti pregava di allontanarti dalla Sicilia, da Niscemi, da questa terra che non merita nulla. Cosa ti ha spinto a restare e ad andare avanti? Mia madre mi lasciò questa lunga e tristissima lettera dove esprimeva tutto il suo dolore e la paura che aveva per la mia incolumità,

pregandomi di andare via. Ma io, un po’ per incoscienza un po’ per orgoglio, ho deciso di rimanere. Non potevo scappare, al solo pensiero mi sentivo una codarda e così decisi di rimanere. Ho sempre amato la Sicilia, terra bellissima e martoriata. La forza di andare avanti mi è stata data dall'alto, dai miei cari, mi è stata data da mio marito e da miei figli, da quella sete di giustizia... Hai anche rinunciato alla scorta. Perché? Ho rinunciato alla scorta perché non mi sentivo libera, mi sentivo prigioniera. Ogni qualvolta avevo la necessità di uscire dovevo chiamare, avvisare...non si può privare

una ragazza così giovane della libertà. Ho sempre amato la mia libertà, non potevano privarmi anche di questo. Era chiedermi troppo. Decisione che il procuratore della repubblica di Caltagirone non ha condiviso, ma ha accettato per mia volontà. Oggi, con il senso del poi, ritengo che è stata una decisione alquanto azzardata. LeSiciliane - Casablanca 43

Nel 2003 i due assassini vengono condannati: Salvatore Infuso a 28 anni per duplice omicidio, il fratello Maurizio a 17 per concorso. Ma nel 2018 incontri per strada l’uomo che ha ucciso la tua famiglia, fuori per buona condotta. Dopo allora, quanto e come è cambiato il tuo concetto di giustizia? Quando il criminale che ha ucciso i miei cari è stato scarcerato il mondo mi è crollato addosso. Avevo rinunciato a girare per le scuole, per la forte delusione. Non ci credevo più. È stata Tina Montinaro a farmi ritrovare la forza e la voglia di continuare. Una sera al telefono, prima mi ha fatto sfogare, poi mi ha detto: “E adesso? Cosa vuoi fare,

piangerti addosso? E tutti questi anni li vuoi sprecare così? Così gliela dai vinta. Pensaci stanotte”. Ci ho pensato e mi ha convinta: aveva ragione. Con la sua liberazione però ho preso coscienza di una cosa che mi fa tanto male: l'ergastolo è mio e non suo. Ho preso coscienza che mi sento intrappolata in un dolore grande che riuscirà a


Io che amavo la mia libertà spegnersi solo quando il mio cuore cesserà di battere e miei occhi si chiuderanno per sempre. Solo quando la mia anima si incontrerà nuovamente con quella dei miei cari.

piangere, eh?” Da allora non l’ho mai vista far trapelare all’esterno le sue emozioni. Ha una corazza fuori, ma dentro una sensibilità straordinaria. È per me amica ed esempio.

L’amicizia con Tina Martinez, la vedova di Antonio Montinaro, capo della scorta del giudice Giovanni Falcone, è un altro importante capitolo della tua vita.…

Niscemi è un piccolo paese, da sempre costretto a guardare in faccia la mafia. La tua storia e la tua determinazione sono state esemplari, persino una legge di solidarietà porta oggi il tuo nome. Come ha reagito la gente di fronte al tuo coraggio? Hai avuto sostegno o sei rimasta ancora più sola?

Tina è una persona vera, di cuore e di “pancia”. Ha una grande forza e una grande sensibilità e mi ha insegnato a non piangermi addosso. Lei per prima non l’ha mai fatto. Quando il marito è stato ucciso, Tina ha dovuto prendere in mano le redini

della vita sua e dei suoi figli, da sola, lontana dal paese di nascita. Ha avuto grande coraggio e lo ha trasmesso anche a me. Solo una volta l’ho vista piangere, quando, da sole, ho finito di raccontarle la mia storia. Mi ha dato un buffetto sulla guancia, sorridendo tra le lacrime, e mi ha detto: “Ce l’hai fatta alla fine a farmi

All'inizio, a parte i pochi rimasti attorno a me, c'è stato il vuoto. La gente aveva paura di quella ragazzina sotto scorta che aveva deciso di costituirsi parte civile al processo penale contro gli autori del crimine, avevano paura di quella ventunenne che aveva deciso di alzare la testa contro la mafia. Ma a distanza di anni e soprattutto adesso mi rendo conto che la ragazzina che ero ha lanciato un messaggio di coraggio, di forza, di amore. E quel messaggio ha convinto molte altre persone a dire di no alla mafia. È cambiata la Sicilia rispetto ad allora? Venticinque anni di storie come la tua sono serviti a creare una coscienza antimafia? Negli ultimi venticinque anni, la Sicilia è cambiata, la mentalità è cambiata, storie come la mia sono riuscite a cambiare la mentalità e a dar forza a chi magari aveva paura di denunciare. Ne ho prova tangibile nelle centinaia di messaggi e di LeSiciliane - Casablanca 44

lettere che continuo a ricevere. Un imprenditore un giorno mi ha detto: "Se tu a ventun anni sei riuscita a dire no alla mafia, io a quarantacinque ho il dovere di farlo.” Questi sono segnali che ti fanno capire che hai piantato tanti semini buoni e che il tuo tempo, i tuoi sacrifici, il tuo dolore non sono stati vani. Quando senti qualcuno che per legittima difesa impugna una pistola ed uccide, cosa pensi? È giusto difendersi a costo di un'altra vita? Una legge sulla "legittima difesa" Chiara Frazzetto come la farebbe? Non sono una giurista, ma in linea di massima sono d'accordo con la legittima difesa, purché proporzionata all'offesa. Oggi si parla poco di racket. È davvero finita? Non penso sia finita, ma penso che la gente abbia meno paura perché le istituzioni sono più vicine al cittadino onesto. Il mondo dell'antimafia ha aiutato molto, riesce a stare accanto alla gente che si sente sola, che molte volte dice "ma chi me l'ha fatto fare?". Dire di no alla mafia è una strada tutta in salita, scomoda, tortuosa. Ma vale la pena percorrerla, per i nostri figli e per le generazioni future. Le leggi antimafia sono d'aiuto per i cittadini, anche se credo bisogna migliorarle. Ritengo che ci siano dei buchi legislativi che è doveroso colmare. Un dovere morale verso chi non ha chinato la testa.


Una truffa contrattuale – nulla di nuovo nella Milano del Sud

Una truffa contrattuale Nulla di nuovo nella

Milano del Sud Aaron Pettinari Una vicenda che si trascina da decenni, senza pensare che si tratta della vita delle persone. Una vicenda scandalosa, possibili speculazioni, opportunismi che mettono in evidenza un sistema di malagiustizia, un perverso ingranaggio che ha già fatto una vittima che però non si arrende. La signora Maria Pia Abramo non ci sta, querela e chiede aiuto. Una condanna civile per il pagamento di una parcella per un progetto su un terreno di cinque ettari a Gravina di Catania, «non vidimato, improponibile e mai approvato». Il passare degli anni che farebbe lievitare il suddetto “onere” con il rischio concreto di rimanere senza casa e vedere dilapidato un intero patrimonio. Sullo sfondo, l'ombra di possibili speculazioni ed alti interessi imprenditoriali. Una richiesta di giustizia che viene disattesa da tempo, nonostante gli esposti e le proteste pubbliche compiute nel corso degli anni. È la storia di Maria Pia Abramo, ultrasettantenne ex collaboratrice del giornale La Sicilia, la quale si batte per una vicenda che rischia davvero di mettere in

ginocchio la sua famiglia. «Sono indignata – dice oggi – non ho nulla da perdere e ciò che mi interessa è far conoscere questa vicenda scandalosa, di silenzi ed opportunismi, che mettono in evidenza un sistema di malagiustizia, nonché gli interessi di certi sistemi di potere». È da questi presupposti che la signora, nell'aprile 2018, ha presentato una denuncia querela in Procura, attraverso l'avvocato Antonio Ingroia, come possibile vittima di una «truffa contrattuale» al fine di ottenere una sospensione della procedura esecutiva, «frutto di un perverso ingranaggio giudiziario». Allo stato, però, tutto sarebbe fermo. Nel maggio 2019, un esposto è stato presentato dall'avvocato Antonino LeSiciliane - Casablanca 45

Pastore all'allora Prefetto di Catania Claudio Sammartino «per garantire la legalità e la salvaguardia della propria assistita, la cui vita rischia di essere definitivamente sconvolta, insieme a quella del fratello, dalle spregiudicate manovre politiche e affaristiche, purtroppo avallate dalle sentenze della magistratura civile». Un documento in cui vengono messi in evidenza alcuni elementi che quantomeno dovrebbero indurre le autorità competenti ad approfondire alcuni aspetti che, al di là delle sentenze, restano opachi. Ma procediamo con ordine in questo calvario giudiziario che è iniziato nel lontano 1993. Uno dei protagonisti della vicenda è l'ingegnere


Una truffa contrattuale – nulla di nuovo nella Milano del Sud Armando Laudani, volto noto della politica. in quanto nel 1994 ricoprì il ruolo di Assessore all'Urbanistica nella Provincia di Catania al tempo retta da Nello Musumeci (oggi Governatore), descritto dal legale come «presunto creditore», legato alla politica e portatore di voti e contiguo a un comitato d'affari. Nel corso del tempo, i legali della signora Abramo hanno cercato di evidenziare le note dolenti di alcune sentenze, definite come “scandalose”, che non solo legittimano una parcella all'ingegnere per un progetto mai approvato, ma si avvia una procedura esecutiva che sottopone alla vendita forzata il patrimonio, nonché la casa di abitazione della donna in cui, tra l'altro, vive da oltre cinquant'anni anche il fratello, con il rischio di far diventare i due come dei senza tetto. PRESSIONI PER VENDERE Spiega l'avvocato nell'esposto che la famiglia Abramo ha due proprietà, quella di 5 ettari a Gravina, ed un immobile in via De Felice, a Catania. Entrambe, nel corso del tempo, hanno assunto un grandissimo valore, attirando l'interesse di imprenditori, speculatori e non solo. Infatti l'area interna dello stabile in via De Felice per anni era stato utilizzato come uscita di emergenza dei locali del cinema Excelsior. E la donna ha denunziato una serie di pressioni ricevute per la vendita di quell'immobile.

Pressioni a cui ha sempre resistito. Adesso però, senza l'intervento delle autorità preposte, è costretta a vendere tutto. «La situazione è grave - dice oggi la signora Abramo – perché per pagare il debito con gli eredi del Laudani, che nel frattempo è cresciuto per gli interessi, mi viene imposta la vendita delle proprietà a cifre assai modeste rispetto il reale valore. Non solo. Qui vive mio fratello, Michele Abramo, del tutto estraneo ai fatti. E un'eventuale vendita lo danneggerà in maniera grave, non gli garantirà alcuna sopravvivenza. Fermo restando che io contesto formalmente la decisione del giudice, nel momento in cui si parla di un progetto ritenuto improponibile e mai approvato, essendo in contrasto con le normative urbanistiche del tempo e rimaste tali fino al luglio 2005». A tal proposito vale la pena ricordare come, nel 2002, il Consiglio Comunale di Gravina, alla cui guida vi era il primo cittadino Fabrizio Donzelli, aveva approvato uno schema di Massima del Prg con diverse opere di riqualificazione. In tale progettazione il terreno di 5 ettari della signora Abramo era destinato ad edilizia scolastica, essendo, da svariati anni, in zona F, soggetta ad esproprio. Con il successivo sindaco Bonfiglio non si tennero in LeSiciliane - Casablanca 46

nessun conto le già approvate disposizioni e nell'adozione del Prg, nel 2005, si è arrivati ad un progetto per nuove lottizzazioni. Ed è in questo contesto che si svilupperebbero gli interessi di ulteriori comitati d'affari in un intreccio tra politica ed imprenditoria senza scrupoli. Una storia che nella «Milano del Sud» (così è considerata Catania), sembra ripetersi in un infinito loop. A tal proposito viene in mente l'intervento in Commissione Parlamentare antimafia, nel dicembre del 2000, del mai dimenticato Presidente del tribunale per minorenni di Catania, Giovambattista Scidà. In quell'audizione, desegretata solo nel 2005, denunciava proprio l’intreccio tra poteri, nonché la poca trasparenza all'interno del Palazzo di giustizia. Nelle sue parole veniva tratteggiato il volto di una città in cui sgomita una borghesia affarista che si muove nell'ottica del profitto e che vuole raggiungere gli obiettivi economici più importanti. Una diapositiva che, evidentemente, non si è affatto sbiadita nel tempo e che trova sempre nuovi dettagli.


Dieci anni senza Sen: Ha ancora senso essere femministe?

Ha ancora senso essere femministe? Sen Queste righe sono per quelle donne che non hanno ancora smesso di lottare. Per chi crede che c’è ancora altro da cambiare, che le conquiste non siano ancora sufficienti, ma le dedico soprattutto a chi NON ci crede. A quelle che si sono arrese e a quelle convinte di potersi accontentare. A coloro i quali pensano ancora che il “femminismo” sia l’estremo opposto del “maschilismo”: non risulta da nessuna parte che quest’ultimo sia mai stato un movimento culturale, né, tanto meno, una forma di emancipazione! Cominciando con le battaglie inglesi delle suffragette del primo Novecento e passando per gli anni ’60 e ’70, epoca dei “femminismi”, abbiamo conquistato con le unghie e con i denti molti diritti civili che ci hanno permesso di passare da una condizione di eterne “minorenni” sotto “tutela” a una forma di autodeterminazione sempre più definita. Abbiamo ottenuto di votare e, solo molto dopo, di avere alcune

rappresentanze nelle cariche governative; siamo state tutelate dapprima come “lavoratrici madri” e, solo dopo, riconosciute come cittadini. E mentre gli altri parlavano di diritto alla vita, di “lavori morali” e di denatalità, abbiamo invocato il diritto a decidere della nostra sessualità dei nostri corpi. Abbiamo denunciato qualsiasi forma di

LeSciliane - Casablanca 47

“patriarcato”, le sue leggi, le sue immagini. Pensavamo di aver finito. Ma non è finita qui. Abbiamo grandi debiti con le donne che ci hanno preceduto. Il corpo delle donne, ad esempio, in quanto materno, è ancora alieni iuris per tutte le questioni cosiddette bioetiche (vedi ultimo referendum), che vorrebbero normarlo sulla base di una pretesa fondata sulla contrapposizione tra creatrice e creatura, come se fosse possibile garantire un ordine sensato alla generazione umana prescindendo dal desiderio materno. Di questa mostruosità giuridica sono poi antecedenti arcaici la trasmissione obbligatoria del cognome paterno, la


Dieci anni senza Sen: Ha ancora senso essere femministe? perdurante violabilità del oppure non può appellarsi a Stato racconta quasi di soli corpo femminile nessun diritto perché legata uomini e non racconta nell’immaginario e nella da vincolo matrimoniale al dunque la verità. Da nessuna pratica sociale di molti uomini suo carnefice. Inoltre, la parte viene nominata la e, infine, quella cosa società fa passare pubblicità presenza femminile come apparentemente ineffabile sessiste o che incitano allo necessaria e questo, che è la lingua con cui stupro; pornografie e probabilmente, è l’effetto di parliamo, quel tradimento immagini che banalizzano le una falsa buona idea: le linguistico che ogni donna violenze alle donne. donne e gli uomini sono registra tutte le volte che uguali, per cui è cento donne e un ragazzo Per non parlare di quanto il perfettamente indifferente sono, per esempio, andati al patriarcato resti ancora che a governare sia un uomo mare. Tutto, molto spesso, profondamente radicato nella o una donna. Ecco il perché di inizia nell’educazione sfera pubblica, nella forma un’eclatante assenza delle giovanile in cui è facile stessa dello Stato. donne nei luoghi di potere. rilevare la disuguaglianza tra Ci siamo fatte imbrogliare bambino e bambina: diversi i Uno Stato si racconta ancora. Ma può un paese di giochi, la partecipazione ai attraverso le sue leggi, libere donne e uomini liberi lavori casalinghi, le ore attraverso i suoi luoghi essere governato e giudicato permesse fuori casa. Tutto simbolici e di potere. Il nostro da soli uomini? La risposta è viene fatto per NO. condizionare le ragazze all’interno Donne e uomini sono e i ragazzi diversi per biologia, all’esterno. per storia e per Pensiamo poi ai esperienza. problemi sul lavoro e, dunque, ai datori Dobbiamo, quindi, Piccoli mondi a parte che temono le trovare il modo di assenze, i congedi Essenze della terra pensare a per maternità, le un’uguaglianza carica Siamo preziose, come candide perle non malattie di figli e delle differenze dei ancora scoperte congiunti vari, corpi, delle culture, Siamo incostanti, come il volo di leggiadre cosicché le donne ma che uguaglianza farfalle spesso scelgono un sia, tenendo presente Siamo fragili, come foglie in autunno impiego a tempo l’orizzonte dei diritti Abbiamo cuori profondi, come oceani parziale, universali e penalizzando la valorizzandone l’altra immensi propria carriera. faccia. Ricordando, In grembo portiamo la vita ad esempio, che la Siamo fiori, all’ombra di possenti querce Un altro problema, famiglia non ha e lottiamo ogni giorno, frementi di vedere il spesso dimenticato, alcuna forza sole. è quello delle endogena e che è violenze (specie in retta dal desiderio Sai, l’altro giorno ho incontrato Dio. famiglia). Malgrado femminile, dal grande Non oso dirti com’è. i risultati ottenuti, sforzo delle donne di Non ci crederai, è DONNA. ancora nel 2005, organizzarla e una donna mantenerla in vita Ti parrà impossibile, ma è Nera. violentata “avrà attraverso una rete di avuto le sue colpe”, relazioni parentali, Sen “se l’è cercata” mercenarie, amicali

DONNE

LeSciliane - Casablanca 48


Dieci anni senza Sen: Ha ancora senso essere femministe? ancora quasi del tutto femminili; ricordando che l’autodeterminazione della sessualità e della maternità sono OVUNQUE le UNICHE vie idonee alla tutela delle relazioni familiari di fatto o di diritto che siano; ricordando che le donne sono ovviamente persone di sesso femminile prima ancora di essere mogli, madri, sorelle e quindi, che nessuna donna

può essere proprietà oppure ostaggio di un uomo, di uno Stato, né, tanto meno, di una religione.”

Stefania Noce L’amore e la Rivoluzione http://lesiciliane.org/casablanca-n-33 Stefania Noce è stata ammazzata dall’ex fidanzato. Era ancora

molto giovane, ma è bastato per rimanere nella memoria di tanti donne e uomini, giovani e non. Le femministe datate, per esem-

pio, alle quali spesso si rivolgeva con rispetto per spronarle ulteriormente nelle loro battaglie, perché le ragazze della sua età ne

avevano bisogno. Non approfondiremo l’orrore. Non faremo i cesellatori. Riflessioni accademiche. Stefania, ragazza intelligente, colta, impegnata nel sociale e in politica. Ribelle e libera. Dolce

ma non remissiva. È stata scannata dal suo fidanzato abbandonato. Sognava un amore felice, e la rivoluzione. Noi vogliamo

collocarla fra “le siciliane”, quelle donne che contano, che meritano di essere ricordate perché magari senza saperlo hanno

fatto la storia del nostro paese. Per il loro impegno, le loro idee, i loro comportamenti, il loro quotidiano.

“Ci ha massacrato tutti”, dice la voce disperata al telefono e riattacca. Sono le ore 10 del 27 dicembre 2011. La persona che riceve la telefonata è Rosa Miano che in quel momento si trova

negli uffici dei carabinieri di Licodia Eubea per fare una denuncia. Durante la notte ignoti (ma mica tanto ignoti) si sono introdotti

nel suo garage al pianterreno della sua abitazione ed hanno sabotato la sua macchina. A proposito degli ignoti la signora aveva fatto presente che sospettava di Loris Gagliano, ex fidanzato di sua figlia che non accettava la rottura del rapporto…. [continua su http://lesiciliane.org/casablanca-n-33]

LeSciliane - Casablanca 49


Dieci anni senza Sen: Tuttavia Presente

Tuttavia, presente Urla Janis La tisana fuma Letti i giornali aspettano i nostri commenti Il mondo aspetta i nostri pensieri i nostri dibattiti le nostre rabbie le nostre gioie gli amori nostri. Cosa ne pensi dell’ultima riforma del governo? Hai sentito che buon profumo il bagno schiuma che ti ho regalato? Parlare di tutto e dell’essenziale Nel breve tempo della durata di un album di una tisana che si raffredda. Il mondo e l’umanità ci interessano Sappiamo Che questa è politica: sentirsi del mondo e dell’umanità partecipi Sentirsi al mondo e all’umanità appartenenti Sentirsi per il mondo e per l’umanità responsabili Chiudo gli occhi Premo play Metto su l’acqua Ti aspetto ancora seduta a un tavolo C’è la musica di un artista nuovo una nuova calda bevanda nuova casa Stesso desiderio di mondo e di umanità stessa responsabilità Non arriverai, lo so Tuttavia Sarai presente

La mia Amica Stefania Stefania è stata scannata. È una vittima di

femminicidio. Ma pur non essendoci fisicamente può continuare a vivere, non solo nel ricordo di chi le è

stato accanto, ma nella memoria di tutti coloro che in qualche modo si sentono toccati dalla vita di questa Donna.

Prima che qualcuno si arrogasse il diritto di strapparle la vita, Stefania era una donna libera, che ricercava la libertà ma allo stesso tempo era pronta a metterla in

discussione in quei casi in cui lo riteneva necessario... Continua su http://lesiciliane.org/casablanca-n-33

Demetra Barone LeSciliane - Casablanca 50


Buon Anno

dalla redazione de

LeSiciliane Vi auguriamo un 2022

R-Esistente

Le Siciliane.org – n.72


“A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare?” Pippo Fava

Le Siciliane.org – n.72


Articles inside

Una truffa contrattuale

5min
pages 45-46

Il mio ergastolo

9min
pages 42-44

Le parole che costruiscono muri

11min
pages 10-15

Quando il sistema è killer

5min
pages 8-10

Un Maestro umano sognatore e ribelle - LeSiciliane n.72

3min
page 30

Il nostro Pippo Fava

7min
pages 31-33

L A T R A V E S Ì A P O R L A V I D A

12min
pages 16-20

Quando esisteva il fotogiornalismo

14min
pages 34-41

Frutti di Mare

5min
pages 24-29

Italia sempre più suddita

6min
pages 21-23

Nuova letteratura processuale

4min
pages 5-6

Dieci anni senza Sen

1min
pages 47-50

Buone notizie dal Cile

3min
pages 3-4
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