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Frutti di Mare

Io feci solo un lieve brontolio di assenso. Guardavo il mare, immobile verde, con la carcassa del veliero, che si vedeva in trasparenza, le punte delle alghe gialle che affioravano sotto la banchina, desideravo l’estate per essere disteso sul mare, braccia e gambe larghe, galleggiando così. E il fotografo mi sfiorò rispettosamente con il come si fosse dimenticato di comunicarmi qualcosa di essenziale e me ne volesse chiedere scusa: «Qui però il pesce migliore sono le cozze, perché il pascolo marino è più dolce, l’acqua è cheta. Qui ci sono cozze grandi come un pugno. Si mangiano crude: mezzo limone spremuto su ogni cozza, un pezzo di pane di casa e mezza bottiglia di vino. Stavolta però dev’essere bianco! Le cozze sono un cibo vigoroso, uno si mangia un piatto di cozze, poi prende una donna e la sconquassa. La prima notte di nozze, all’alba mia moglie mi disse: oh, e tu ti devi calmare, che ti sei messo in testa! Io sono stata sei anni nel collegio delle domenicane...!». La donnona rubiconda e ruffiana era a due passi, aspettava, aveva ascoltato e subito annuito, pensai che anche lei aveva mangiato cozze per la prima notte di nozze, il marito era sopravvissuto solo un paio di settimane. Poi morto o fuggito emigrante. Probabilmente ero un po’ ubriaco. La donna portò un chilo di cozze, venti limoni, un altro pane di casa e un litro di bianco di Pachino. Con piccoli gesti amorosi sbarazzò il tavolo dalle molliche, dai resti dell’altro cibo, i piatti, le bottiglie vuote. Il fotografo fece un gesto sacerdotale, si legò il tovagliolo attorno al collo. Cominciò ad aprire le cozze adagio con la punta del coltello, a spremerci mezzo limone, aveva già affettato il pane, riempito il bicchiere.

Io feci solo un lieve brontolio di assenso. Guardavo il mare, immobile verde, con la carcassa del veliero, che si vedeva in trasparenza, le punte delle alghe gialle che affioravano sotto la banchina, desideravo l’estate per essere disteso sul mare, braccia e gambe larghe, galleggiando così. E il fotografo mi sfiorò rispettosamente con il come si fosse dimenticato di comunicarmi qualcosa di essenziale e me ne volesse chiedere scusa: «Qui però il pesce migliore sono le cozze, perché il pascolo marino è più dolce, l’acqua è cheta. Qui ci sono cozze grandi come un pugno. Si mangiano crude: mezzo limone spremuto su ogni cozza, un pezzo di pane di casa e mezza bottiglia di vino. Stavolta però dev’essere bianco! Le cozze sono un cibo vigoroso, uno si mangia un piatto di cozze, poi prende una donna e la sconquassa. La prima notte di nozze, all’alba mia moglie mi disse: oh, e tu ti devi calmare, che ti sei messo in testa! Io sono stata sei anni nel collegio delle domenicane...!». La donnona rubiconda e ruffiana era a due passi, aspettava, aveva ascoltato e subito annuito, pensai che anche lei aveva mangiato cozze per la prima notte di nozze, il marito era sopravvissuto solo un paio di settimane. Poi morto o fuggito emigrante. Probabilmente ero un po’ ubriaco. La donna portò un chilo di cozze, venti limoni, un altro pane di casa e un litro di bianco di Pachino. Con piccoli gesti amorosi sbarazzò il tavolo dalle molliche, dai resti dell’altro cibo, i piatti, le bottiglie vuote. Il fotografo fece un gesto sacerdotale, si legò il tovagliolo attorno al collo. Cominciò ad aprire le cozze adagio con la punta del coltello, a spremerci mezzo limone, aveva già affettato il pane, riempito il bicchiere.

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Fece un sospiro: «Ad Acitrezza le cozze sono più piccole, però forse ancora più tradimentose, non so se mi spiego... Mi ricordo

quel giorno che due pescatori si erano perduti al largo per una tempesta. Una tragedia del mare, cose da Malavoglia...».

Dirimpetto al molo metallico di Pozzallo, questa specie di monumento della impotenza pubblica in Sicilia, si levavano dolci colline di pietra sulle quali pastori e mandriani portavano le bestie al pascolo, e quelle mucche pezzate e quelle capre che brucavano l’erba fin sulle rive, sembravano irreali. In verità, forse perché novembre è un mese senza stagione, ancora con il sole bianco dell’estate e l’erba dell’inverno che già cresce dovunque, tutta quella riva siciliana del mare d’Africa mi appariva irreale, i piccoli porti di pietra bianca. Samperi, Donnalucata, Marina di Ragusa, Scoglitti, dentro i quali velieri e barche si raccoglievano come nel cavo di una mano, e si sentiva, si capiva che essi erano ancora arnesi per la vita dell’uomo, le reti, gli scalmi, i remi allineati sulla riva, logori e lustri come le zappe, le falci, gli aratri di un tempo, infinite volte impugnati da generazioni di contadini.

Il viaggio stava per concludersi. Come già la sera avanti, il sole cominciò a calare velocemente, via via diveniva più grande e si accendeva di rosso, si fermò a un palmo dall’orizzonte, visibile e nitido come la lampadina di un’osteria, e tutto il golfo sul quale correvamo, di colpo si spogliò di voci e presenze umane, i gabbiani scomparvero misteriosamente e le colline s’illuminarono di una luce d’incendio.

Laggiù, all’altra estremità del golfo, si scorgeva un piccolo villaggio marino, aggrappato a una specie di duna a picco sulla riva, e centinaia di finestre riflettevano quel sole, pareva che le case stessero bruciando. Sull’arco sconfinato della spiaggia c’era solo una barca sfondata e, lungo il bagnasciuga, il puntolino minuscolo di un uomo che camminava adagio rasente al mare.

Pensai che non avrei mai saputo che viso avesse quell’essere umano e se era un vecchio o un bambino, e che pensieri avesse nella mente in quell’attimo, quale fosse cioè la sua fantastica sensazione di solitudine, in quella ultima luce, in quel golfo senza una sola voce umana, senza nemmeno più il fruscio di un gabbiano.