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Quando esisteva il fotogiornalismo

Nadia Furnari - pubblicato sul .72 LeSiciliane

Le sue fotografie sono entrate nelle nostre vite senza saperlo; Franco Lannino, Studio Camera di Palermo, una agenzia fotografica che ho conosciuto grazie alla fotografa Grazia Bucca con la quale ho anche condiviso questa intervista. Anche lei ha puntato i suoi obiettivi verso le tante storie che ogni giorno noi vediamo senza osservare. Quando sono entrata nella ex sede di Studio Camera sono rimasta senza fiato: ogni parete ti catapultava in pezzi della nostra storia.

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Franco Lannino, da dove partiamo?

Partiamo dalla mia nascita. Francesco Paolo Lannino, sono nato a Palermo ed il primo approccio con la fotografia risale a 11 anni, quando feci la comunione, perché ricevetti la mia prima macchina fotografica, una bellissima Kodak Instamatic “occhio d’aquila”, che ancora tengo e conservo gelosamente, formato 126, un formato che usava le “compattine”, diverso dal 35mm. Da lì cominciai a fotografare, prima i parenti durante la festa della comunione, poi andai a far sviluppare il rullino dal fotografo e rimasi affascinato da questa cosa. La fortuna è stata avere un fratello anche lui fotografo e per essere sincero tecnicamente molto più bravo di me; lavorava all’agenzia Publifoto a Palermo. Un’agenzia all’epoca molto famosa. Dopo il diploma spesso accompagnavo mio fratello Giuseppe, erano gli anni ’70, scalpitavamo per vivere da soli ed essere economicamente indipendenti. Abbraccio questo bel mestiere, prima fotografo di base, però con specializzazione in cronaca ed attualità e quindi il mestiere di fotoreporter. Con il servizio militare obbligatorio mi trovo costretto a mettere da parte la fotografia. Quando sono arrivato in caserma il sottufficiale mi chiese che mestiere io facessi, risposi “il fotografo”, lui mi guardò sorridendo poi guardò il mio fascicolo personale, ed apponendo un timbro sul foglio disse ad alta voce: “Bravo, allora da ora in poi puoi guidare i carri armati”. Svolto il servizio militare, nel 1980, sono tornato a Palermo e sono stato assunto alla Publifoto. Da lì ho cominciato a lavorare, ricordo che stampavamo tantissimo in camera oscura.

Era un periodo molto complicato?

Sì, il periodo era molto complicato. La guerra di mafia era quasi sul finire, c’erano decine di morti al mese, quasi uno al giorno. La Publifoto collaborava con tanti giornali, tra i quali il giornale L’Ora. Nel 1982 ebbi il primo incarico di fotografo; si

trattava dell’omicidio del fratello e di un nipote di Masino Buscetta avvenuto alla Vetreria Buscetta. Buscetta stava collaborando con la giustizia e gli sterminarono la famiglia. Giunto in vetreria, ho visto la scena di questi due morti e cominciai a scattare, poi tornai in agenzia e le stampai ed il titolare le vendette ai giornali.

Da quel momento cominciai a fare puntualmente foto di cronaca

Quella di fare cronaca è stata una scelta? O volevi fare un altro tipo di fotografia?

Diciamo che sono contento di essere capitato in questa agenzia, perché l’alternativa sarebbe stata fare il fotografo di cerimonia (matrimoni, battesimi) perché Palermo come fotografia di cronaca non offriva molto. Non eravamo né a Milano né a Roma, non c’era gossip, non c’era moda. Ricordo poi l’attentato a Carlo Palermo, in cui morirono i gemellini Asta e la loro madre.

Tu sei arrivato a Pizzolungo? Sì, andai. A Palermo arrivò la notizia di questo attentato, si seppe che il magistrato non era morto, mi precipitai lì. Di fronte a quella scena ho provato la stessa sensazione di distruzione provata a Capaci.

Come si riesce a fotografare l’orrore?

Per quello devi avere abbastanza sangue freddo e non pensare che sia orrore, ma pensare che sia il tuo lavoro e la tua missione. Oggi, a fine carriera, mi dico che più che un lavoro ho svolto una missione. Come fotoreporter, la mia missione, era di rendere partecipi i lettori che sfogliavano i giornali cartacei (a quei tempi non esistevano i giornali online). Tutti avevano il diritto di vedere esattamente quello che i miei occhi stavano vedendo. E quindi io ho

sempre messo da parte le emozioni personali ed ho sempre mirato al cuore della questione.

Hai mai pensato di mettere da parte la macchina fotografica e decidere di non fotografare anche momenti di dolore che non davano niente alla cronaca, che oggi invece avrebbero fotografato? È vero che noi fotoreporter

puri dovremmo registrare solamente senza mettere alcuna emozione su quello che potrebbe essere il nostro punto di vista: alla fine potrai essere estremamente cinico, o al contrario se sei troppo sensibile, potresti omettere delle cose che purtroppo devono essere viste, come appunto quelle dell’orrore, che io ho visto ed ho documentato spessissimo. L’ideale sarebbe restare equidistanti e registrare solamente. Però è chiaro che in una carriera lunga 43 anni esattamente, ho visto delle cose orribili e ci sono anche stati dei momenti di défaillance miei, davanti ad alcune scene. Un esempio: al tempo in cui Bernardo Provenzano era latitante, dopo l’arresto di Riina, i parenti di Bernardo Provenzano tornarono a Corleone e noi fotografi e giornalisti avevamo il compito di andare a “caccia” di immagini sia dei parenti di Riina che di Provenzano. I figli di Provenzano erano piccoli, se non ricordo male 14 e 16 anni. Si seppe il nome della scuola dove andava uno dei figli. I giornalisti, i fotografi (fotoreporter e televisioni), assediarono la scuola alla ricerca di questo ragazzo. Ricerca che fu difficilissima, proprio perché tutta la scuola di Corleone, dagli insegnanti agli alunni, cercò di fare quadrato intorno a questo ragazzo per non darlo in pasto ai media…

Oggi i minorenni non si possono fotografare

Infatti. E mi ricordo una scena veramente brutta e anche pietosa che mi ha messo di malumore. Io ed un paio di altri giornalisti e fotografi, avevamo individuato, più o meno, quale fosse quella classe. Abbiamo scavalcato un muro e ci siamo nascosti cercando di “catturare” l’immagine di questo ragazzo. Lui stava uscendo dalla porta dell’aula, vide noi e tornò indietro e, aiutato da un suo compagno di scuola, addirittura scavalcò la finestra sul retro, cercando di scappare. Noi lo abbiamo inseguito come si insegue una preda, una selvaggina. L’ho fotografato. Subito dopo aver scattato la foto ho pensato: “Ma che cazzo stiamo facendo? Stiamo dando la caccia ad un ragazzo?”. Sì vabbè, il figlio di Provenzano, bla bla, il figlio di un mafioso, ma sempre un ragazzo è.

La foto ce l’avevamo io ed un altro fotografo. Ci telefonarono dalla redazione: “Ce le avete le foto?” “Sì le abbiamo.” Tornando verso Palermo, però, abbiamo deciso di non darla la foto di questo ragazzo. Quando in redazione chiesero: “Ma come, ma tu non l’hai fotografato”, ho risposto: “Sì, ma non te la do la foto perché non mi sembra giusto: primo perché è un essere umano, secondo è stato braccato come un coniglio, terzo è pure minorenne e quarto non

me la sento, perché mi ha rotto il cuore, mi ha ferito molto vedere questo ragazzetto dato in pasto ai giornali”. La grande contraddizione.

Peppino Impastato, figlio di mafioso non veniva giudicato in qualità di figlio di mafioso perché faceva l’opposizione, Rita Atria la evitavano perché i genitori degli altri ragazzi dicevano di non frequentare Rita perché era la figlia di don Vito…

Lo sai che la foto della copertina del libro di Sandra Rizza su Rita Atria l’ho fatta io? Quella fototessera me la diede la madre. Tornando al figlio di Provenzano, a livello nazionale successe un putiferio, perché ovviamente gli editorialisti si scatenarono. C’era chi ad un certo punto ci diede ragione e chi era contro.

Correvate dei rischi? Tu lavoravi al giornale l’ora e il fatto di fotografare l’orrore non era molto digerito dalla mafia, cos’è che temevano?

Allora, torniamo un attimo indietro, per semplificare. Io finisco di lavorare per la Publifoto nel 1988/inizi 1989 se non ricordo male. In quel periodo L’Ora aveva interrotto la collaborazione con Letizia Battaglia a causa di impegni sempre più di respiro nazionale e internazionale di Letizia. Al giornale c’era l’esigenza di avere fotografi che lavorassero su tutto, persone che potessero essere mandate dappertutto. Venimmo perciò convocati in redazione io, Michele Naccari e Salvo Fundarotto. Ci dissero che avevano bisogno di fotografi e che se noi avessimo costituito una società, ci avrebbero

assunti. Fu così che noi tre fondammo Studio Camera ed immediatamente dopo venne stipulato un contratto con il giornale L’Ora. Cominciammo a fotografare a ritmi forsennati perché erano tempi terrificanti… poi L’Ora chiuse il 9 maggio del 1992, salutando i lettori con quell’“Arrivederci”. Ma questa è un’altra storia.

E cosa succede dopo?

Dopo la chiusura dell’Oraci concentriamo di più sulle cose importanti di respiro nazionale, affidando il nostro lavoro ad agenzie fotografiche di Roma e di Milano per vendere il più possibile. E piano piano, ce l’abbiamo fatta.

Il 1992 è l’anno delle stragi

Sì. Quell’anno si comincia prima con l‘omicidio dell’onorevole Salvo Lima, poi si passa alla strage di Capaci e poi a quella di via D’Amelio. Abbiamo fotografato di tutto e di più, andando addirittura sulle piazze di Milano a vendere, fisicamente noi perché le fotografie non erano digitali e per venderle quindi bisognava stamparle per farle vedere.

Che significa “andare a Milano”?

L’editore se non le vedeva non le comprava. Quindi all’indomani della strage di via D’Amelio presi il primo aereo per Milano verso le 8 del mattino, con tutto il materiale fotografico della strage. Io sono stato tra i primi ad arrivare sul posto.

Come hai saputo della strage di Capaci e via D’Amelio? Com’è che sei arrivato tra i primi?

Il 23 maggio, giorno della strage di Capaci, dovevo fare le foto all’inaugurazione della Fiera del Mediterraneo e ad un certo punto un poliziotto che conoscevo mi disse: “Franco vattene a Capaci perché c’è un casino. È successo un casino”. Io non chiesi neanche di che casino si trattasse, perché era un poliziotto che conoscevo bene e sapevo che la dritta era giusta, e quindi andai a Capaci. Per la strage di via D’Amelio invece stavo andando a San Martino delle Scale (paesino in collina nel palermitano) con la mia famiglia per prendere un gelato, all’altezza di Baida mio figlio mi dice: “Papà, guarda, c’è un sacco di fumo là”; io rallento guardo e vedo questa colonna di fumo che si alzava dalle parti del porto, quindi pensai fosse successo qualcosa ai cantieri navali, l’esplosione di una nave, perché la zona era quella. E quindi faccio inversione immediatamente. Con me portavo sempre una macchina fotografica e almeno due o tre pellicole in tasca. All’altezza di via Marchese di Villabianca (vicino a via D’Amelio, ndr.), lasciai la macchina, abbandonai proprio la macchina con i miei familiari e di corsa sono andato a scattare le foto.

Ma nessuno vi ha mai fermato? Cioè ha transennato? fisicamente nessuno poteva arrivare. Però due foto su corpi dilaniati… distrutti fatti a pezzi, io li ho visti e li ho fotografati ed erano gli agenti di scorta. (Silenzio, ndr).

Di Emanuela Loi è stato trovato un lembo di seno

Sì. Io l’indomani, prima di andare a Milano ritrovai una mano, la sua mano. Era una mano piccola piccola. La

ricordo sotto una specie di cartone bruciacchiato mentre facevamo un po’ di foto di maniera, si chiamavano così.

Passano gli anni e scopri che quella foto fatta per immortalare una contraddizione diventa centrale per le indagini

Finisce tutto lì, le foto, abbiamo venduto. Dopo 12 anni circa negli anni 2000, c’è l’avvento del digitale, nelle agenzie fotografiche si digitalizzavano gli scatti, dei negativi, delle diapositive, per averli più a portata di mano, per venderli più agevolmente, per catalogarli più facilmente. Ed in quel momento io mi catalogai tutta la strage, prima quella di Capaci, poi quella di via D’Amellio, ovviamente non tutte le fotografie, ma scansionando quelle che potevano essere più interessanti ai fini di una eventuale vendita ed archiviazione rapida. Mi ricordai della foto fatta al Tenente. E quando guardo con il lentino mi rendo conto che ha una borsa in mano e mi viene un flash. A quei tempi si era cominciato a parlare della sparizione, c’era un’agenda, c’era una borsa, e lì ebbi proprio una specie di sussulto, chiamai il mio collega e gli dissi: “Michele, guarda questa foto, ha una borsa in mano, la borsa, tutti cercano la borsa di Borsellino, non è che è questa?”, e lui mi rispose: “Mah, in effetti potrebbe essere”. Era una borsa di cuoio.

Allora cosa succede?

Comincio a chiamare i giornali, parlo con i direttori dei giornali e chiaramente propongo una cifra alta, ricordo che chiesi 50 milioni. La cifra era molto alta e inizia la trattativa con le testate nazionali. Succede che un giornalista lo viene a sapere e lo dice al procuratore Messineo della procura di Caltanissetta. Che

ovviamente mi sequestra la foto. Quella foto la Procura avrebbe potuto acquisirla anche dopo, non c’era nessun segreto investigativo. Anzi, in questo modo l’avremmo reso noto a tutti. Dopo si è dovuto aspettare l’istruzione del processo, sono stato chiamato in procura.

E quindi siccome era un atto del fascicolo, l’hanno preso e non te l’hanno più restituito?

No no. Io infatti dissi al Procuratore Messineo: “Senta dottore, facciamo una cosa, la foto l’avete voi, ok, sono d’accordo. Ma se questa esce da qui, io vi denuncio e mi date 50 milioni perché la foto è mia”. Ed infatti poi la Procura si impegnò per iscritto che la foto sarebbe stata utilizzata solo per il fascicolo senza altri fini. Ed in effetti non uscì. Poi ci fu il processo, gli atti sono stati resi pubblici, io sono riuscito a vendere la foto, però l’ho venduta ad un prezzo irrisorio rispetto a quella che sarebbe stata l’aspettativa. Ricordo che gli stipendi dipendevano dalla vendita delle foto e quella mancata entrata fu un danno serio per tutta l’Agenzia. Tu hai raccontato con il tuo lavoro pezzi di storia. Tu davanti a quell’orrore hai usato l’obiettivo come “filtro” di sopravvivenza e immagino che lo sviluppo in camera oscura non era sicuramente uno scherzo emotivo. Quando sei in guerra non hai troppo tempo per pensare. Prima però di chiudere questa intervista mi corre l’obbligo chiederti: che fine sta facendo il fotogiornalismo? Perché Studio Camera ha dovuto lasciare la sua sede. Oramai c’è così tanta offerta, ce ne sono così tante in giro, che non puoi controllare tutto. Prendono le foto sul web e non si preoccupano neanche di capire di chi sono. Il Domani si è persino preso la foto di Arcangioli senza permesso. Li ho contattati e ho fatto notare che non potevano farlo. Ma ci sono tante fotografie di Studio Camera in giro e noi non abbiamo mai dato il permesso. Studio Camera non poteva più reggere l’assenza di domanda, ormai le testate prendono le foto dal primo che capita o su Facebook.

Fotografia autorizzata da Franco Lannino - coprytight Franco Lannino

Fotografia autorizzata da Franco Lannino - coprytight Franco Lannino

Perché non pensare ad un museo?

Noi siamo aperti a qualsiasi proposta. Da soli non possiamo farlo.

L’intervista si interrompe qui… con la consapevolezza che la storia del fotogiornalismo volge al finire, uccisa da un mercato che non distingue più le immagini ma che vuole solo creare suggestioni accontentandosi della moltitudine di fotografi “digitali”. Queste agenzie fotografiche sono il nostro patrimonio culturale e dovrebbero essere protette dalla soprintendenza ai beni culturali. Le nuove generazioni non possono perdere questo patrimonio di immagini che hanno fatto la storia di questo Paese. Grazie Franco Lannino.

Si ringrazia Grazia Bucca per la collaborazione.