Luzer!#8

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L U ZE R!

#8

CULTURE PATHOS NULLA


www.luzer.it Index of #8 (83) --------3- Idle of the month 4- Retro-spektiva 5- Pro-spektiva 6- Movie playlist 8- 10 dischi in 10 righe 9- Luzer! Tube 10 - Just 1 min with ...Thieves like us 11- Patty Music Cunsultant 12- Zoom On: Niccolo’ Fabi 15- Clubbing corner Ep.8 16- Hits in the Box 17- Meteore 18- Morte al fescion 20- Lo potevo fare anch’io 21- Garage filosofico 22- Le cronache di Marcolino

LUZER! è reperibile presso: Brescia random: Pride bar, Arte in te, Fabbrica di cacao, Boteguita, Frisco, Viselli’s, Bazaar wear, Kandinski records, Kosmo (vintage), Lio bar, Boys loft, Magic bus, Stilemio, Ivan bar, Oslo, la bicicletta, il telegrafo, Latteria Molloy, le tits, bar da Franco, Nave di Harlock, Minoia store, Franci e Marco, atenei universitari & many more… Morya (Cellatica), Maybe (Travagliato), Romano (Villachiara), Barbel, Forbice shop, Pacorock cafè, La crisalide (Orzinuovi), Bazaar wear, Coffee’n’television (Bergamo), certi negozi, certi clubs, certi atenei ....a seconda delle nostre gite…Milano...

LUZER! (free press) Direttore responsabile: Elia Zupelli (direttore@luzer.it) Hanno scritto e collaborato: Michele Boselli, Paul Bhn, Michele Boselli, Enrico Ludovico Decca, Phil Delcorso, Maria Emelianova, Stefano Garbagnati, Erika Greco, Marco Guagni, Francesca Martinelli, Giovanni Mensi, Sami Nakari, Marco Stizioli, Francesco Torchiani, Federico Urietti, Patty Valsecchi, Elia Zupelli Grafica e impaginazione: Stefano Garbagnati (garba2@inwind.it), Marco Stizioli Webdesigner: Ludovico Per contatti, opinioni e collaborazioni : redazione@luzer.it Account facebook: luzer rezul


idle of the month

Un piccolo spazio per ripercorrere le vicende, lo spirito, il messaggio, ( i miracoli?) di personaggi degni di essere chimat idoli.

ALEXANDER

Ogni tanto il corso delle cose

sembra volerci ricordare alcuni dei suoi postulati sacri e santi dietro ai lustrini e alle confezioni patinate, negli armadi dei protagonisti di quell’enorme di quell’enorme circo scintillante che si chiama “cosstume” traballano gli scheletri più tormentosi. Quelli che non t’aspetti. Sembra suggerirci questo, il gesto estremo col quale un pugno di giorni fa il designer albionico Alexander McQueen ha scelto di mettere un punto (senza a capo) ai suoi tempi da queste parti. C’è un’eccezione che conferma la regola però, specie di questi tempi: nessuna aria da maledetto, niente esibizione di stravizi edonistici, trasgressione (termine demodè quanto il suo significato) lasciata alle creazioni per la passerella più che agli atteggiamenti sociali. McQueen aveva la faccia ruspantona di un inglese della lower-middle class che ce l’ha fatta, sorta di versione arty e perbene di uno sbronzomane che non vorresti mai incontrare al bancone di un pub (o allo stadio: hooligan lo chiamavano). Tradotto: puro e riservato, ma anche impulsivo e poco ortodosso. Come la sua moda: obliqua e provocatoria, fuori dalla righe, con sprazzi di genio deliziosamente coatti. Formatosi alla snobissima Saint Martin’s e diventato totem stilistico della Cool Britannia (quella di Hirst e del britpop, quando Camden era il centro dell’universo), McQueen approda presto ai palchi delle grandi maison che contano (leggasi Gucci e Givenchy) sfruttando l’effetto mina vagante. Perché il grosso sistema della moda, e anche dell’arte per certi versi, impone

MCQUEEN

oggi ad alti livelli di essere degli abili manager capaci di incastrare ogni rotella dell’ingranaggio al posto giusto, prima ancora che essere talenti visionari e illuminati. Viceversa Lui, prima designer dalle intuizioni lungimiranti, poi tutto il resto: in questo era sovversivo. In una contemporaneità che ha già visto tutto, che si scandalizza per molto e niente, rompere le righe è sempre un’operazione in bilico tra elevazione e conformismo (paradossalmente, l’effetto contrario). Alexander McQueen e di seguito la sua moda - così autentica e contemporanea, controversa e priva di stilemi classici - è per questo un manifesto di moderna non omologazione, di sfuggenza costruita sullo spirito piuttosto che sui gesti debordanti e megalomani. Ribellione, non sensazione. Perché forse è proprio la sensibilità, il filo rosso che unisce eccentricità e silenzio. E Lee (come lo chiamavano gli intimi) McQueen ha dimostrato coerenza fino in fondo, nella tragedia della scelleratezza: la discrezione di una casa vuota e mansueta in una Londra che non sente; la brutalità sbomballata dell’impiccagione. Resteranno le palate di abiti grandiosi e decadenti, i poetici scatti incasinati dei backstages, le Armadillos di Lady Gaga, ma soprattutto quell’adorabile sorriso da collegiale attempato con cui ti faresti una pinta. Per questo, Alexander McQueen (designer

1969-2010), Luzer! ti ama più che mai. R.I.P. Elia Z. 3


retro-spektiva

Quale inconscio in David Lynch?

- contro la psicoanalisi come strumento d’interpretazione -

David Lynch è l’artista visivo dell’Inconscio. Non è semplice parlarne. Tanto più se chi scrive considera la questione psicanalitica dell’inconscio una gran-cazzata (mi riferisco alla psicoanalisi come strumento di conoscenza di un oggetto - i problemi non sono psicologici, ma culturali). O meglio (per enfatizzare il lato truffaldino): non è facile se la si considera una bufala di de-responsabilizzazione e di costruzione ideologica ad hoc. Quale inconscio in Lynch? Luogo di magia? - (Lèvi-Strauss). Non-sense? (Merleau-Ponty). Malafede? - (Sartre). Come interpretare l’efficacia del cinema di Lynch, che così tanto punta all’inconscio? Qui non si nega l’inconscio in sé (“la lotta silenziosa e dimenticata”), ma la ricerca di spiegazioni nell’inconscio (e la pretesa di estrapolarlo come oracolo al di fuori della casistica “patologica”). Ecco il punto forte di Lynch: non sappiamo (e non possiamo?) dare spiegazione della potenza del suo cinema. Ma, soprattutto, se fosse possibile: ci interesserebbe trovarne il senso? Vogliamo trattarlo a livello d’inconscio (sigh), oppure tentare di elaborarne un significato nella dimensione della Ragione? Credo che Lynch sfugga tanto ad una (non)interpretazione inconscia, quanto alla coscienza più vigile (quella che si vuole responsabile, padrona di sé). Gioca lì in mezzo: ma con che scopo? A parer mio, non gli interessa la verità (sebbene l’opera d’arte, a differenza della scienza, intenda ricercarne “frammenti” - o, perlomeno, dovrebbe). E, credo, nemmeno la conoscenza

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(in senso rigoroso) - si consideri che la psicoanalisi per Freud era prima di tutto un tentativo di conoscenza (mai riuscito: “non è in grado di fornire la prova oggettiva della sua scientificità” - Althusser), poi semmai strumento terapeutico (pratica). No, in Lynch il cinema è sensazione fattuale: non importa l’origine, la causa (e forse nemmeno l’effetto); importa ciò che ac-cade (senza spiegazione), creando una catena di eventi in successione (onirica). Un cinema che fa della dialettica interna all’individuo (tra conscio ed inconscio) il principio di coscienza. Si tratta di una dialettica che junghianamente mira a compensare il perbenismo (americano), per l’equilibrio (senza le trivialità di una gretta morale). Quando viceversa la società crolla nell’assurdo, ecco A Straight Story, a fare da contrappeso. David Lynch è figlio della società postmoderna americana nel suo “splendore” (Blue Velvet ne è l’espressione): il relativismo, la citazione, la caduta del senso, la sua impossibilità (non è un’opposizione al senso, ma una rinuncia!). Accettazione dello stato di fatto o critica radicale? C’è posizione? Vorrei chiarire un aspetto importantissimo: il sottoscritto non si è mai pronunciato in favore dell’”esasperata apertura di significato” nel cinema (è un modo elegante per fare “quel cazzo che ti pare” - cioè niente - quando sei a corto di idee, preservando l’aura d’autore). E, allo stesso modo (si sarà capito) rifiuto un’interpretazione attraverso l’inconscio; come direbbe Steiner: “il procedimento psicanalitico è la nobile retorica del pettegolezzo”. Con Lynch si tratta di un’interpretazione libera; un’interpretazione, però, che si deve volere presente a se stessa. Per portarla alla presenza (della Ragione), sotto una qualche forma, ci sono gli Eletti (gli artisti): “gratis”, per giunta, e senza transfert, alla faccia degli psicanalisti! E allora: c’è giudizio in Lynch? Ammettendo l’inconscio, ma negandovi la ricerca di spiegazioni: no, credo che in Lynch non ci sia giudizio alcuno (si tratta, però, di un’assenza di giudizio critica, come nel primo Funny Games di Haneke: là il regista rinuncia al ruolo di “Dio” per lasciare che sia ciò che accade a parlare per sé, in coerenza col significato). È la volontà di manifestare ciò che resta sopito nella dialettica interna; é una straordinaria, innata capacità del dire l’indicibile (per un artista è tutto). In Lynch non manca il significato, soltanto è difficile dirlo, riconoscerlo, nominarlo. È questo che atterrisce del suo cinema [Six Figures Getting Sick (Six Times), Rabbits e Inland Empire su tutto]. Dimenticavo: il cinema di Lynch è di una bellezza sconcertante. Posto che, per dirla con Rilke, “il bello non è che il tremendo al suo inizio”. Giovanni Mensi dermarsay@hotmail.it


pro-spektiva A SINGLE MAN

- il bel cinema oltre al buon gusto nell’esordio di Tom Ford -

Sei anni fa hai mollato Gucci dopo averne (ri)lanciato l’immagine a livello mondiale, perché volevi dare nuova linfa alla tua avventura firmando occhiali, accessori e vestiti solo col tuo nome. Un bel giorno compri i diritti di un romanzo di Isherwood del 1964 e ne fai un film. Scegli il miglior attore inglese sulla piazza, un paio di super modelli e una diva come Julianne Moore; il tuo gusto superbo, che il mondo non ha smesso mai di ammirare, ti porta a curare ogni dettaglio, dalle luci al taglio delle cravatte, con perfezione maniacale, quasi come in uno spot per una griffe d’alto livello. Insomma, metti il critico snob di turno nelle condizioni ideali per storcere il naso. Invece A single man è molto più del “buon gusto” di Tom Ford per gli abiti impeccabili, i grandi interpreti e i buoni libri da cui trarre una sceneggiatura. È la trasposizione di un dolore profondo, lancinante, che mozza il respiro a Joe, professore di Letteratura in un College di Los Angeles e candidato a una cattedra a Stanford, rifiutata per amore di Jim, scomparso all’improvviso in un incidente stradale dopo 16 anni di convivenza. L’insopportabile fatica di alzarsi ogni mattina dal letto e recitare davanti al mondo la parte dell’esimio, brillante prof. George Falconer lo spinge a farla finita. La meticolosa preparazione del suicidio da parte del professore, che si appresta a vivere l’ultima giornata, tradisce sin dall’inizio la sua incapacità di compiere quel gesto estremo. Firth riesce a rendere alla perfezione l’annientamento di un individuo, ai cui occhi ogni cosa si stinge nel grigiore; tutto scivola senza lasciare traccia, dalla guerra atomica imminente - il film

è ambientato nei giorni tormentati della crisi missilistica di Cuba- al corso dove gli studenti vengono lasciati a loro stessi. Persone e oggetti riacquistano colore e vita solo se, almeno per un istante, gli riportano alla mente ricordi del suo amore tramontato per sempre: un fiore, le labbra di un ragazzo alla James Dean che cerca di approcciarlo in un parcheggio, un cucciolo di FoxTerrier. Nemmeno la ricca, sofisticata e sola Julianne Moore, superba nel ruolo dell’amica-ex ragazza-alticcia dalla lingua tagliente e bisognosa di coccole, può lenire lo stordimento in cui Joe si trova paralizzato. L’algida bellezza di uno scolaro perdutamente innamorato di quel professore così triste e diverso dagli altri, una nuotata nell’oceano e un bicchiere a casa di fronte al camino con il giovanotto non gli restituiscono la serenità, ma bastano a farlo recedere dai foschi propositi delle settimane precedenti, sino al malore che mette la parola fine alla storia di Joe. A single man, come il libro, non si presta ad analisi sofisticate: semplicemente parla di un dolore senza parole stemperato da piccole cose, come il contatto con un’amica, con un ragazzo, insomma, con un essere umano; il tutto alla ricerca di una felicità che si ottiene e si perde senza meriti o demeriti e senza disegni o significati reconditi; allo smarrimento che può subentrare alla contemplazione di tale effimera realtà subentra la forza dell’istinto di sopravvivenza, che giocoforza deve annullare il passato e dare la massima enfasi al presente. Con la speranza che il futuro non faccia troppo male. Francesco Torchiani

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movie playlist Invictus di Clint Eastwood (2009)

1995. Sud Africa. Nelson Mandela, da poco eletto presidente, decide di puntare sulla nazionale di rugby per ridare al paese quel senso di unità e di appartenenza che è andato perduto in anni di conflitti razziali. Eastwood è diventato un intoccabile, soprattutto in Francia, dove ogni sua nuova regia fa gridare al capolavoro. In realtà il suo nuovo film è tra i meno riusciti degli ultimi anni. L’impressione è che la storia, ricca di momenti commoventi e di forte “presa” sul pubblico, poco si adatti allo stile secco e senza compiacimenti che è tipico del regista americano. Grande Morgan Freeman nella parte di Mandela. Voto: ■■□□ Avatar di James Cameron (2009) Film “enorme” e dagli effetti visivi sorprendenti, il film di Cameron si caratterizza purtroppo per una storia assolutamente piatta e “bidimensionale”. A ben guardare, infatti, Avatar rappresenta una sorta di Balla coi lupi proiettato nel futuro: come nel film di Costner, il protagonista si ritrova catapultato in una società a lui estranea; si riavvicina alla natura e, tramite essa, riscopre se stesso; come se non bastasse, c’è persino l’immancabile storia d’amore con una donna appartenente al nuovo mondo. Per non parlare del cattivo di turno, comandante dei marines, personaggio assolutamente piatto e privo di sfumature. All’uscita dalla sala, riconsegno i fastidiosi occhialini 3D (il cinema è il nostro sguardo rivolto verso lo schermo, senza nient’altro in mezzo) e coltivo i miei dubbi su questa nuova tecnologia. Temo soprattutto che il 3D, date le sue caratteristiche che lo rendono particolarmente adatto ai film di puro intrattenimento, possa in un certo senso sfavorire il cinema d’autore, già fortemente in crisi negli ultimi anni in termini di (in)successo al botteghino. Voto: ■■□□ Gainsbourg - Une vie heroique - di Joann Sfar (2009) Il film, diretto da un giovane poco più che esordiente, racconta la vita del grande cantautore francese dall’infanzia traumatica fino agli anni difficili della droga e della perdizione. Il film viaggia insolitamente su due binari completamente differenti: da un lato c’è la volontà di raccontare tutti i momenti importanti della vita di Gainsbourg rimanendo il più possibile fedeli alle vicende narrate; d’altro canto il film ha anche un’impronta fortemente surreale rappresentata soprattutto dall’alter-ego di Gainsbourg: una sorta di caricatura di se stesso, frutto della sua immaginazione, che rappresenta il lato più oscuro e autodistruttivo del musicista francese. Anche se imperfetto e nel complesso poco equilibrato, il film rappresenta comunque un’opportunità da non perdere per chi vuole conoscere la vita di una figura chiave della musica e della società francesi degli ultimi decenni. Voto: ■■□□

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Michele Boselli


via Laura Cereto 15/a traversa via Trieste (Bs)

030-3775283 (chiuso il lunedĂŹ) siamo aperti a pranzo

menÚ studenti 5 euro (panino bibita caffè)

si organizzano feste di laurea diurne e serali cucina aperta fino alle due

music, cocktails, free wi-fi & much more...

- Piazza Arnaldo -


10 DISCHI IN 10 RIGHE Vampire Weekend - Contra È scelta saggia per i Nostri ripercorrere (senza marchettare troppo) i bei solchi tracciati dall’omonimo esordi. Solita tensione frivola e meticcia che fa viaggiare dai Caraibi all’Upper East Side al prezzo di 15 euro o giù di lì. Con onestà e a cuor leggero. Delphic - Acolyte Sensazione da Manchester, with love. Electro retrò, melodie catchy e qualche azzardo sperimentale (serviva?) sono gli ingredienti di questa torta ben riuscita che trova in Doubt e Submission le sue ciliegine succulente. Requiem For Paola P. - Tutti appesi “Urgenza” è la parola d’ordine di questo lavoro: r’n’r zeppo di nichilismo suburbano e bigia contemporaneità. Bella tensione, a tratti pretenziosità, ma il sussurrato Reading emoziona come un Vasco Brondi in stato di grazia. Hot chip - One life stand “Scambiando tra loro gli addendi, il risultato non cambia”. Lo sa bene la formazione londinese, che spara il quarto beverone tanto citazionista, quanto ingurgitabile come un Gin Tonic alle 3 di notte mentre si sverna in una pista luccicante: liscio e tutto d’un fiato. Ivano Fossati - Di tanto amore La risposta del cantautore genovese a chi gli chiede il senso del sentimento più puro è un “greatest-concept” di 16 brani che declinano oltre 30 anni di carriera (e vita). Confezione curata ed elegante: per gli amanti e per chi ama. Magnetic Fields - Realism Un disco atteso e nessuna delusione: ci ha riportato i Magnetic Fields che amiamo, dalle atmosfere malinconiche ma felici, semplici ma eleganti. L’indie pop perfetto, condito di ukulele folk, che tanto bene si sposa con i viaggi in macchina.

Charlotte Gainsbourg - Irm

Finalmente la nostra Charlotte torna alla musica, questa volta aiutata addirittura da Beck. La differenza si sente: l’atmosfera tipicamente “Jarvisiana” si perde, ma i pezzi acquistano nuova energia e freschezza, abbandonandoun po’ il classico francesismo che caratterizzava il vecchio lavoro. Consigliatissima Heaven Can Wait, non senza video. Eels - End Times Il buon “vecchio” Mr. E riabbraccia la chitarra e le note dell’indimenticato capolavoro Beautiful Freak per comporre un album come sempre giocato intorno ad una graziosa tristezza, velata di giocosa malinconia. In realtà il dolore di fondo del frontman (vittima di un lutto famigliare dietro l’altro) non sembra placarsi. Si segnala la bellissima Little Bird, classica canzone senza tempo, e relativo video (toccante nella sua semplicità). Massive Attack - Heligoland Non si registrano vertiginose virate: Paradise Circus, tra le altre, suona effettivamente Massive Attack (con qualche eco alla Aphex Twin di drukQs). Prestano lo strumento-voce personaggi del calibro di Damon Albarn e Martina TopleyBird. Sempre buoni per giocare il ruolo del mezzo ricercato, salvando contemporaneamente l’ “ascoltabilità”. Sarà fuori luogo dirlo qua: ma i Portishead restano davanti. Plan de Fuga - In a minute Eterogeneo, ben prodotto, che profuma d’America. Suona così l’esordio su lunga distanza della band bresciana che oscilla tra atmosfere darkeggianti, Southern, echi di grunge e postrock in un pastiche dal sapore mai banale. Twice è il singolo perfetto e sa commuovere, belle vibra da Blame e Decadence, ci si perde ad occhi chiusi con In a Minute. Piacevolmente. A.A V. V.

AIR Live @ Estragon (Bologna): Luce soffusa, strumentazione vintage, tecnici all’opera: il pubblico numeroso attende così l’ingresso dei due genietti dell’elettronica francese, per un concerto all’insegna della sobrietà e del gusto. Dunkel e Godin, accompagnati per l’occasione da un batterista, regalano un’ora e mezza di melodie eteree, eleganti, solari e struggenti, passando in rassegna tutta la loro discografia. Si parte con brani tratti dall’ultimo (e ottimo) album Love 2, ma non tardano pezzi (da novanta) come la delicata Cherry Blossom Girl, Highschool Lover, Venus, Talisman, l’attesissima Sexy Boy. Il suono scarno e analogico, vero e proprio marchio di fabbrica della band, è seguito da luci ed immagini che sanno di psichedelia retrò e trascinano sempre più gli attenti spettatori.Tutto scorre, senza tempo, come in una lunga colonna sonora, solo qualche “grazie mille” tra i brani, ma ahimè la conclusiva LaFemme d’Argent, dal crescendo elettronico ed impetuoso, ci porta agli inchini fi22 gennaio 2010 nali. Semplicità, estro, eleganza: qualità rare oggi, ma che gli AIR hanno saputo unire e confermare, anche stasera. Marco Guagni


Una selezione random di dischi e videoclip che a me (mi) piacciono... Buon divertimento!!! GORILLAZ feat. MOS DEF AND BOBBY WOMACK - Stylo Damon Albarn torna col suo (ex side) project virtuale coadiuvato da due istrioni “neri” che danno una bella impronta vocale al pezzo: si spazia in scioltezza tra le inflessioni gangsta di Mos Def e i vocalizzi soul di Womack. Il bel groove, certi suoni indovinati e l’ex Blur piacevolmente evanescente completano questa chicca che inganna l’attesa per il nuovo lavoro studio, in arrivo a momenti. THE TEMPER TRAP - Fader I gruppi che mettono un “The” davanti al nome, di questi tempi hanno tagliato i ciuffi unti, non indossano più giubbetti di pelle sdruciti o t-shirt sgargianti e non sono albionici: vengono dall’Australia più antidiva e suonano un WONKY pop melodico dove le intrusioni elettroniche servono solo a dare cadenza ritmica a dei pezzi che fischietti allegramente aspettando la primavera. CANTON - Sonnambulismo Presentata all’ Ariston nel 1984, destò anche una discreta curiosità. Ma si sa, il gioco è bello quando dura poco, e infatti non si può certo dire che la longevità sia stata la loro carta vincente… eppure il trio gardesano benedetto da Enrico Ruggeri fa sfoggio di alta classe in questi 4 minuti di casereccia surrealtà. Conci in grande stile e rigidissimi, raccontano con tanto pathos i lati positivi del non dormire di notte: all’uopo quindi, se suonata a qualche after party piccolino con le ante chiuse mentre si manda affanculo la domenica. THE CHURCH - To Be In Your Eyes Una di quelle canzoni agrodolci che ti fa sentire la “felicità di essere triste” (per dirla alla Virzì). Non occorre molto per comporre una litanìa amorosa che sconvolga: bastano un riff basico e morbido che sappia lenire le ferite, e un testo dai toni onirici cantato senza convinzione per sperare (moderatamente) in giorni nuovi e fioriti. Poi serve un tocco che sfugge agli almanacchi, è il guizzo che rende una bella pop-song, una popsong indimenticabile: non si spiega, ma eleva. E qui si respira magia dall’inizio alla fine. SIN WITH SEBASTIAN - Shut up (and sleep with me) Facebook serve anche a questo: ritrovare sulle altrui bacheche dei pezzi zarri e coloratissimi in cui un asessuato metà Ark, metà Marc Almond coi capelli blu urla al mondo il suo bisogno d’amore… Coretti idioti eseguiti da una non meglio precisata strafica imparruccata di bianco. Risultato: la one hit-wonder made in Deutschland” perfetta per il 1995. E per chiudere questa playlist sgangherata. Elia Z.

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JUST 1 MINUTE WITH...

THIEVES LIKE US

Li paragonano a Hot Chip e Crystal Castles, ma hanno senz’altro un’originalità tutta loro: i Thieves Like Us, con la loro elettronica elegante ci hanno regalato momenti di grande soddisfazione; e di questi tempi (“Hard times”, li chiamerebbe Patrick Wolf) sappiamo che non è poco. Trio americano-svedese situato attualmente a Parigi, prende

nome da una canzone dei New Order e già questo ci piace parecchio. Facciamo quattro chiaccgiere con il cantante, Andy.

Ciao e benvenuto sulle pagine di Luzer! Dunque, il vostro sound fresco ha totalmente conquistato i nostri cuori. Sembra siate influenzati da più correnti musicali, qual è la musica che di solito preferite ascoltare? Quali sono le band che hanno maggiormente influenzato il vostro sound? Abbiamo ascoltato dischi per 15 anni, quindi è difficile elencare esattamente i gruppi che hanno influenzato la nostra musica. La nostra tavolozza è in continua evoluzione. Non penso che ascoltiamo un genere specifico. Siamo tutti un po’ sensibili, quindi ci piace musica che abbia in sè dell’emozione. Principalmente ascoltiamo dischi dei tardi anni ’70, musica con melodia e suoni un po’ spaziali. Posso nominarti tre artisti non collegati: Claude Debussy, Neil Young, Biggie Smalls. Avresti voglia di parlarmi un po’ delle vostre esperienze live…cosa ti piace del “palco”? I nostri concerti cambiano molto rispetto alla nazione in cui si svolgono. Siamo molto più famosi in Paesi come Francia, Polonia, Sud America e Messico. In Germania, dove abbiamo iniziato a suonare, non sembriamo essere così conosciuti. Quindi puoi immaginare che apprezziamo un buon pubblico più di ogni altra cosa. Un pubblico energico. Abbiamo suonato per una piccola folla in una cantina a Posnan (Polonia) e hanno cantato insieme a noi, addirittura le canzoni inedite. Il suono non era tanto alto, ma riuscivi a sentire l’energia…è stato speciale. Penso che la cosa più bella sia il contatto tra il gruppo e il pubblico. Questo è un elemento fondamentale della musica: la comunicazione. Raccontami qualcosa dei vostri progetti futuri, in ambito musicale ovviamente… Stiamo terminando il nostro secondo disco, chiamato Again and Again. Dovrebbe essere pronto nei prossimi tre mesi. Speriamo di fare un lungo tour subito dopo. Pensate di venire anche in Italia? Siete già venuti nel nostro paese, vi siete divertiti? Certo che vogliamo venire in italia. Ci è piaciuto un casino stare da voi, peraltro il nostro batterista vive a Milano ora. Abbiamo suonato a Roma, Milano, Firenze e Venezia. Ma vogliamo davvero fare un tour più grande dalle vostre parti. Ora ti va di condividere con i lettori di Luzer! il nome dell’ultimo libro, video musicale e film che ti è tanto piaciuto? Certo…l’ultimo libro bello che ho letto è stato Ubik di Philip K. Dick. I video musicali sono tutti merda. Per il film direi un documentario BBC di Fleetwood Mac chiamato Don’t Stop. Maria Emelianova

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tu o, jpatty music consultant vvvn

vvi consiglia questi eventi :

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c b s 11


Z om on: Quando Niccolò alza la cornetta ho subito la sensazione che sarà una piacevole chiaccherata. Tono riflessivo e pacato, ma con facile accenno alla risata, Fabi sembra non averli mai tagliati quei capelli crespi e biondicci che ne caratterizzano l’immaginario comune. In effetti, sono ancora al loro posto, solo li porta con un pizzico di consapevolezza in più. Parto con una traiettoria in testa, che presto l’entusiasmo della conversazione devia verso un “fuori-pista”multigusto di un’ora e più; in attesa di vederlo dal vivo sul palco cittadino della “Nave di Harlcock”, riordino il “fuori-pista” e provo a farvelo rivivere così… Ciao Niccolò, è un piacere averti ospite sulle pagine della nostra fanza… “Solo un uomo” è un lavoro delicato, maturo, ma nn privo di emozione: oltre all’aspetto “discografico”, che differenza c’è tra il Fabi spensierato che quindici anni fa cantava “Capelli” e quello che oggi, dichiara la sua “Promessa” d’amore? Ho quindic’anni in più e sei dischi alle spalle…si tratta di un percorso naturale, di una logica evoluzione sia anagrafica che artistica. Fare canzoni è un lavoro che si impara, ma non nascondo che senza “Capelli” le cose sarebbero state probabilmente molto diverse. Da Virgin a Universal: esistono diversità o “paletti” a livello creativo passando da una major all’altra? A dire il vero questo disco l’ho scritto in una fase di transizione, senza alcun vincolo legato al mercato discografico. Ed è inevitabile che lo senta come un lavoro estremamente libero e urgente, creato quasi per me stesso. Con questo non intendo dire che un contratto determinato mina la “verità” di un album, ma di certo ti obbliga a tenere il fatto inconsiderazione…quello sì. La vena acustica è la chiave di questo lavoro che parla di amore, condizione dell’essere uomo e contemporaneità: come e dove nasce una tua canzone? Non esiste un vero e proprio metodo scientifico: certi scritti rimandano a certe melodie e certe melodie fanno pensare a certi scritti, è un gioco molto irrazionale. Mi piace annotare le situazioni che mi colpiscono, i sentimenti, le relazioni sociali, tutto il resto viene da sé…musica e parola sono due universi complementari. Sebbene sia un pezzo di ottima fattura, la title track manca forse di quel forte appeal (mi riferisco anche ai canali radiofonici e commerciali) che animava vecchi brani come “Dica”, “Se fossi Marco” o la stessa “Capelli”: una scelta controtendenziale o è solo una conseguenza dei tempi e del mood del disco? “Solo un uomo”, è un brano che amo molto e rispecchia in pieno lo spirito del disco: il fatto di averlo scelto come singolo nasce in primis da questo. A dir la verità anch’io sono rimasto abbastanza sorpreso dal moderato riscontro commerciale, ma dopotutto non è certo un lavoro dal sound immediato, me ne rendo conto. Spesso il successo di un singolo arriva quasi per caso, penso a “È non è” (da “La cura del tempo”, 2003, ndr) che non aveva

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Niccolò Fabi Di Elia Z.

certo i numeri del tormentone o a “Vento d’estate”, diventata una hit malgrado i toni malinconici e una vena solare solo all’apparenza.

Le atmosfere intime e “sussurrate” lasciano pensare a un tour che le rispecchi…come sta andando la promozione e che tipo di show dobbiamo aspettarci quando passerai da queste parti sul palco della “Nave di Harlock” (27 febbraio)? È un live molto energico e dinamico, in cui le atmosfere ovattate del disco si alternano con accelerate folk-blues. Siamo in quattro sul palco, l’intento è di vivere un bel momento e farlo vivere a chi ci sta davanti, senza preconfezionamenti o limitazioni “di maniera”.

Il Fabi che ascoltiamo in studio, quello che vive sul palcoscenico e quello della quotidianità sono la stessa persona? Qual è il senso, umanamente parlando, dell’essere artista oggi? Credo che la vita dell’artista ruoti intorno a un grosso paradosso: parli e interpreti le sensazioni di molte persone, che quasi si sentono in debito con te per ogni sorriso che gli hai regalato, ma spesso non arrivi alle poche persone che per te contano veramente. L’arte è donarsi, è la valvola di sfogo con cui descrivo la quotidianità che vivo silenziosamente.

Cosa significa per te fare cantautorato in Italia nel 2010…quali sono le tue influenze di genere e quale pensi possa essere l’impatto “popolare”? Non lo vivo, come poteva avvenire qualche generazione fa, come una sorta di missione sociale o cose del genere…è il mio modo di fare musica. Punto. Il mio gusto si è formato intorno al blues e al jazz-funk americano più che al grande cantautorato italiano: da Jaco Pastorius a Dylan, da Taylor a Blue Mitchell passando per gli Earth Wind and Fire. I tempi comunque sono cambiati, alle volte una semplice storia d’amore scuote di più che forzare la mano su temi scottanti (facendolo magari in modo retorico e banale). Torniamo in “casa”…Fortis, Bennato, Frankie Hi Nrg, la Mannoia, passando per l’indimenticato capolavoro con Gazzè: cosa ti hanno lasciato queste collaborazioni? Inutile dire che mi hanno dato moltissimo, specialmente dal punto di vista umano. Non c’è mai stato niente di calcolato. Con gli artisti che hai citato, esisteva ed esiste un legame personale prima ancora che professionale: duettare è semplicemente un mezzo per raccontare una storia, in modo più potente.


A proposito di collaborazioni, hai di recente partecipato anche al progetto benefico “Domani”, caso raro dalle nostre parti, e non privo di polemiche a riguardo…come dire: anche il bene ha sempre un ingiustificato risvolto della medaglia, cosa ne pensi? È stata un’iniziativa nata molto in fretta, con grande spontaneità e senza molti precedenti. Mauro Pagani - autore del pezzo - gode della stima di tutti all’interno del circuito; la forza coordinatrice e l’entusiamo di Lorenzo (Jovanotti, ndr), la causa “nobile” e la volontà di chi ha partecipato hanno fatto il resto. Quando ci sono di mezzo grossi nomi poi è (ahimè) normale che ci sia qualcuno pronto a leggere della malizia anche dietro a iniziative del genere. Ma questo è un altro discorso, e più di tanto non mi riguarda.

Roma, anni ’90: tu, Silvestri, Gazzè, Sinigallia…col senno di poi, ritieni pretenzioso parlare di una “scuola romana”? Non direi…abbiamo nel nostro piccolo portato una ventata di aria fresca nella canzone leggera italiana, soprattutto per quanto riguarda lo stile, gli arrangiamenti e la scrittura, accantonando i grandi temi d’impegno politico e sociale, a favore di una vena più ironica e disincantata, tra sentimenti agrodolci e quotidianità.

Sei stato più di una volta a trovarci a Brescia, la quale vive un grosso e insperato periodo di fermento musicale: conosci qualche realtà nostrana che ti affascina? Sinceramente conosco la scena bresciana più per sentito dire, che per ascolti effettivi. Apprezzo e sento molto vicino a livello stilistico Paolo Cattaneo e Alberto Belgesto, che conosco da parecchio e ho scelto tra l’altro per aprire il live del prossimo 27 febbraio, proprio a Brescia.

Cosa ti piace ascoltare quando “non hai altro da fare”? Suggeriscici qualche nome da tenere d’occhio, sia italiano che estero… Penso che Moltheni sia uno degli artisti italiani più interessanti, certe sue intuizioni sono a tratti geniali. Per quanto riguarda l’estero invece ritorno in America, e vi consiglio di buttare un orecchio all’autore polistrumentista Andrew Bird…

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Thanks to Niccolò e Gianpietro Credits: www.niccolofabi.it


Clubbing corner ep. 8 THE LOST ART OF BUYING AN ALBUM Di questi tempi, ogni genere musicale ha progressivamente visto ridursi l’interesse del pubblico verso i progetti ad ampio respiro, in favore della più rassicurante ed accessibile unità rappresentata dal singolo. Il settore della musica più dancefloor oriented ha patito ancora maggiormente il fenomeno. Nella stragrande maggioranza dei casi di fronte ad un prodotto come un album (magari doppio vinile o cd, dal relativo costo elevato) il nosstro dj medio e spesso squattrinato procedeva all’acquisto solo se ingolosito dalla presenza di tracce funzionali al dancefloor. Oggi con l’avvento del digitale assistiamo alla totale libertà di azione: si può scaricare anche solo la singola parte di un progetto che originariamente ne comprende una ventina. Insomma, risulta facile avere solo ed esclusivamente ciò che ci interessa, e certo sono queste le future esigenze del mercato: “piuttosto che non vendere nulla, diamo un pezzetto a ciascuno”. Senza dubbio per molti dj questo è l’ultimo passo verso la totale comodità e soprattutto il risparmio. Abbiamo tutti qualche album sullo scaffale del quale non sentivamo la necessità (qualcuno ha detto Expansion Contraction?) ma che abbiamo acquistato solo per quel paio di brani. Eppure quanti di noi

di Paul Bhn hanno scoperto solo a posteriori che lasciando scorrere la puntina oltre la title track si aprivano orizzonti sperimentali e creativi dei quali non sospettavano l’esistenza? La possibilità di vendere prodotti con una cornice creativa specifica come un album ha sempre mantenuto credibile e stimolante il mondo della musica dance, permettendo una connessione tra quei produttori che non vogliono sentirsi solo “macchine da singoli” e dj/appassionati esigenti. Ok, senza quelli che suonano “le bbbombe” probabilmente i party sarebbero noiosi e semivuoti, io e Phil non sapremmo di chi (s)parlare e le etichette chiuderebbero i battenti. Non sarebbe male però concedere ai progetti grandi e ambiziosi lo spazio che si meritano. Chi crea musica vuole raccontarci qualcosa, qualcosa che ha il diritto di essere accolto nella sua interezza. Mi piace vedere che esiste ancora un pubblico pronto a posare il cocktail, mettersi seduto ed ascoltare storie lunghe ed affascinanti, e il successo delle suite del M. Von Oswald Trio e di Vladislav Delay ci fa capire che in fondo si può ancora scrivere musica di larghe vedute. Il supporto in fondo non è importante: che siamo feticisti del vinile o dell’ipod l’importante è essere disposti a prenderci del tempo e tornare, semplicemente, ad ascoltare un bel disco…magari proprio quel Vertical Ascent del buon Moritz! www.soundcloud.com/paulBHN 15


Hits in the box

s p e c i a l best tracks of decade 2000-2010 DJ PILVIO from Latte Più [indie rock-new wave]

HANGOVERBOY from Rock the Funky beat (Radio onda d’urto) [alt rock-new pop-grooves]

FRANZ FERDINAND - Take me out THE STROKES - Last nite RADIOHEAD - Idioteque YEAH YEAH YEAHS - Date whit the night PETER BJORN AND JOHN Young folks LCD SOUNDSYSTEM - Tribulations BLOC PARTY - Banquet

4HERO - The Awakening STROKES - Take it or leave it RADIOHEAD - Idioteque YEAH YEAH YEAHS - Date with the night TUNNG - Bullets LINDSTROM - I Feel space ARCADE FIRE - Rebellion (lies) BLOC PARTY - Helicopter LCD SOUNDSYSTEM - Tribulations EDITORS - An End Has a start

PEAK NICK from Plastic (Mi), Lio bar (Bs),Veronika (Pr) [electro-indie dance]

THE LIBERTINES - Can’t stand me now MGMT - Kids INTERPOL - Slow hands

PHIL DELCORSO from from Technicolor prod. e concerti [electro-techno] ROMINA COHN - The night THOM YORKE - Harrowdown hill (extended version) LINDSTROM - I feel space FISCHERSPOONER - Emerge RICARDO VILLALOBOS: Easy lee GUY GERBER & SHLOMI ABER - Sea of Land LEGOWELT - Disco rout NATHAN FAKE - The sky was pink (James holden rmx) ZOOT WOMAN - Gray day (Paper faces mix) METRO AREA - Miura

THOMAS BRINKMANN - Ulla FISCHERSPOONER - #1 lp THE RAPTURE - House of Jealous lovers LOUIE AUSTEN - Easy love RITON - Homos and homies lp DEVENDRA BANHART - I feel just like a child POST INDUSTRIAL BOY - Trauma !!! - Yadnus BEYOND THE WIZARD SLEEVE - Beyond the wizard sleeve ark1 HIGAMOS HOGAMOS - Infinity plus one

DEEJAY DAVE From Razzputin/Nofun [r’n’r- postpunk-oldschool hymns] BLACK ANGELS - Young man dead INTELLIGENCE - Thank God for fixing the tape machine AT THE DRIVE IN - One armed scissor HATCHAM SOCIAL - So so happy making LCD SOUNDSYSTEM - Losing my edge LUOMO - Tessio PETER, BJORN & JOHN - Young folks DANDY WARHOLS - Bohemian like you METRO AREA - Miura YYY - Maps


mLe meteorem - --- - spazio dedicato agli articoli dei nostri lettori - redazione@luzer.ittt5r5tttt

狂った日本 (Crazy Japan)

Ne abbiamo sentite tante sulla terra del Sol Levante, una più folle dell’altra. Ma nessuno conosce veramente a fondo questo Paese, ancora così pieno di misteri e tradizioni che nonostante lo scorrere del tempo, l’innovazione e la tecnologia, sono rimasti intaccati. Mentre, pian piano, l’occidente va perdendo la sua personalità e i suoi folclori, il Giappone rimane fedele ai suoi avi, continuando a portare avanti quei costumi e quelle usanze nate nella notte dei tempi, con un pizzico di eccentricità. Il bagno - I giapponesi fanno il bagno…dopo essersi lavati! Questa pratica si chiama Ofuro. Seduti su un piccolo sgabello ci si insapona per bene e poi ci si risciacqua con un catino colmo d’acqua. In seguito ci si immerge in una vasca di acqua bollente dove non si usa alcun tipo di sapone. L’acqua della vasca non va buttata, ma viene usata per le persone che vengono dopo, per questo è molto importante lavarsi bene prima di entrare. La possiamo definire una specie di fonte termale adibita al relax. I butta dentro - Si chiamano oshiya ed hanno il compito di aiutare i pendolari dei metrò ad entrare nel vagone. Le persone all’interno del vagone vengono letteralmente schiacciate, visto il sovraffollamento di quest’ultime. Ultimamente, visto l’aumentarsi di abusi sulle donne, sono stati creati dei vagoni rosa riservati esplicitamente al gentil sesso. Raffreddore - I giapponesi considerano un gesto molto scortese soffiarsi il naso o starnutire in pubblico. Per questo motivo li vedrete girare spesso e volentieri con delle mascherine bianche sul volto. Il vomito - Vomitare dopo aver bevuto molto in compagnia dei propri amici non è considerato così irresponsabile come da noi in occidente. Anzi, il fatto di vomitare è ben gradito, perché ciò testimonia il sacrificio della propria salute per qualche ora trascorsa insieme alle persone care. Il fumo - In Giappone si può tranquillamente fumare dentro i locali pubblici, anche sul treno ci sono delle carrozze adibite ai fumatori. È però severamente proibito fumare all’aperto! Esistono solamente alcuni angolini riservati ai fumatori. La Geisha - Al contrario di quello che molti pensano, non è una prostituta. Infatti, il termine Geisha significa “artista” o “persona di talento”. Ella ha solo il compito di intrattenere ospiti maschili durante feste o cene di lavoro. Fare la Geisha di professione è molto difficile e richiede parecchi anni di studio. Questa figura deve avere una vasta cultura generale, deve saper parlare di politica, storia, geografia, attualità e arte. La famiglia - Se una famiglia ha solo figlie femmine, è usanza “adottare” il genero affinché il nome della famiglia non si estingua. Il genero andrà a vivere con la moglie in casa dei suoceri e così sarà un membro della famiglia a tutti gli effetti. In Giappone, infatti, i membri della famiglia non sono essenzialmente i parenti, ma sono gli abitanti della stessa casa. Ad esempio, un vicino di casa è più importante di un fratello sposato che abita in un’altra città. Fino al dopoguerra, i figli si rivolgevano ai genitori chiamandoli Okaasan (Signora madre) e Otoosan (Signor padre), ma con il diffondersi della cultura occidentale, i termini mama e papa divennero alla moda e sostituirono presto gli antichi nomi dei genitori. EriKissa

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C Lo potevo fare anch’io! L

GENTE MOLTO FURBA O GENTE MOLTO STUPIDA?

Se n’è andato Salinger, l’autore del Giovane Holden, un libro che ha rivoluzionato veramente il modo di fare letteratura, cambiandoci l’adolescenza (ma questo poco importa) e mostrandoci una scrittura e delle tematiche iper-contemporanee. Salinger ci ha mollati così, rilasciando due smilze interviste in tutta la sua vita, nascondendosi dal mondo e riapparendo solo qualche tempo fa mentre spingeva un carrello del supermarket. Un carrello del supermarket?! Capite? Mentre quella lobotomizzata di Stephenie Meyer ormai si fa portare i cheeseburger a casa su un piatto di platino, un uomo di grande caratura scorrazzava nel reparto sughi pronti come un qualunque e banale pensionato. Una morte di così basso profilo è andata di pari passo con la presenza mediatica eccessiva dell’ingenuo Morgan, apparso ovunque (mancava all’appello solo il volantino dell’Esselunga) colpevole di aver dichiarato il costante uso di droga. Il fatto è questo: un ottimo prodotto artistico non fa notizia, la droga invece sì. Gli stupefacenti, pur essendo facilmente reperibili e a disposizione di tutti, mantengono alta l’attenzione e accendono sempre discussioni. Una qualità interessante e da sfruttare, se smaniosi di visibilità. E qui cade a fagiolo Comenius Roethlisberger, un artista svizzero dal nome impro-

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nunciabile, desideroso di essere una e una sola cosa: famosissimo. Quindi immaginate il buon Comenius mentre si arrovella i neuroni, dopo aver letto l’ultimo numero di GQ e il manuale Diventa artista contemporaneo in poche ore. Creare a pie’ pari un’opera d’arte non è semplice, soprattutto se tale capolavoro dovrà apparire su tutte le riviste di settore ed essere citato nei migliori blog dell’anno. Così ha optato per la classica formula dandy-morganiana dell’essere maledettamente alternativo ma fashion, ergo: unire droga e moda. Da tale soluzione ha preso corpo la serie intitolata Dearest Constellation, Sweetest Invitation, teche di poliestere che custodiscono i marchi delle griffes di moda realizzati con cocaina mista a zucchero. Il tutto esposto da Colette, il negozio–boutique parigino più trendy e marchettaro del pianeta. L’installazione è una grande fiera dell’ovvio, la solita denuncia del giro di polvere bianca nel mondo modaiolo, della perdita di valori nell’arte e l’educativa proposta di guardare oltre i lustrini per scovare il marcio. Il tutto incorniciato dall’abusata chiave pop. In fondo ho provato grande pietà per questo artista, credevo veramente non avesse avuto altre buone idee se non quella di impastare zucchero e cocaina. Mi sono ripromesso di non biasimarlo più, che sarebbe migliorato, invece no. Dopo questa grande boiata datata 2008, Comenius Roetthlisberger è ultimamente ritornato da Colette con una barzelletta ancora più grande. Con Without you baby, there ain’t no us ci propone alcuni tra i filmati più famosi e stravisti di Youtube, sezionati in fotogrammi e riprodotti manualmente su carta, in disegni elementari. In parole povere si è dato un corpo ad un’immagine immateriale, ripetendola ossessivamente. Per la serie: “Ok, sono neo-pop ma creo esattamente un processo inverso e più vendibile del ripetitivo annientamento iconico di Warhol”. Chiudo con un dilemma: cose molto furbe o cose molto stupide? Ludovico


garage filosofico ovvero Il ritratto di Dorian Gray di O. Wilde

Citazione da sapere per essere colti: “Ma il quadro? Che cosa doveva dire del quadro? Esso conservava il segreto della sua vita e narrava la sua storia. Gli aveva insegnato ad amare la sua bellezza. Gli avrebbe insegnato ad avere orrore della sua anima? Lo avrebbe guardato più? […] Il quadro, mutato o no, sarebbe stato per lui l’emblema visibile della coscienza”. Spesso durante la giornata capita che ci guardiamo allo specchio: per aggiustarci i capelli prima di uscire o provare un’espressione, anche per lavarci i denti. Ma vi sono momenti in cui è solo la nostra immagine a catturare l’attenzione, e con essa a far divagare la nostra fantasia. Ci si immagina diversi o magari guardati dagli occhi di un altro, e allora ci si chiede come sia il nostro aspetto da fuori, come la gente ci vede, se ci giudicherà per come appariamo e se sì, come. Ma, effettivamente, che ruolo ha la propria immagine nella manifestazione di sé? Nella vita di Dorian arriva ad avere una tale importanza che il giovane finisce per ridursi a pura immagine; la sua anima appartiene al quadro, perenne monito delle sue reali fattezze. E così il ritratto con tutte le metafore che porta con sé, sembra anche dirci che la nostra esteriorità, il nostro corpo, non è qualcosa di distinto da ciò che noi effettivamente siamo: ciò che noi siamo si palesa in quello che mostriamo di noi stessi. Conclusione: peccato che noi non abbiamo un quadro che si tenga per sé tutte le nostre schifezze. Perciò buttiamo pure nel cesso – e stiamo attenti a tirare lo sciacquone – tutte quelle belle concezioni per cui “l’abito non fa il monaco” oppure “l’importante è l’interiorità”, semplici clichés di consolazione in una società che si fonda sull’esteriorità e che in merito a questo non guarda in faccia nessuno, nemmeno il “bello dentro”. Come siamo fuori conta eccome! È esattamente il punto di partenza per ogni tipo di relazione, soprattutto oggi, dove il modello di riferimento del mondo è l’adolescente, ovvero la fase della vita in cui meno si bada al fattore personalità. Diamoci dentro sempre più quindi, con bellezze diafane e vitini da vespa tornati di moda e dalla moda mai usciti, sempre fedeli all’etichetta “bada bene a non dimenticare di esprimere te stesso nel modo in cui ti vesti”. Ecco l’unica e sacrosanta verità. Vale tanto per il metallone, quanto per l’indie che per la donnina tutta in Burberry: basta non dimenticarsi mai che non si esce dallo stereotipo e il gioco è fatto, una bella identità appiccicata addosso. E per chi non si accontenta delle apparenze? Potremmo fare come Elle ne La rivincita delle bionde di Robert Luketic, e dimostrare che le bionde ne sanno di più (scusate, sono di parte), oppure semplicemente fare attenzione ad osservare le cose con una prospettiva un pochino diversa, anche per evitare imbarazzanti o deprimenti fraintendimenti. Per esempio possiamo chiederci se compriamo una borsa di Vuitton perché ci piace o perché sappiamo che quella borsa darà di noi una certa immagine a cui non vogliamo rinunciare. Insomma, creiamo anche un pacchetto con una confezione alla moda (o contro la moda), ma cerchiamo di metterci almeno qualcosa dentro. Fo Elettrica

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Nel numero precedente Marcolino, misterioso e ridicolo come in una soap-opera, si addentrava nel Tiergarten di Berlino alla ricerca di Amalia….

le

cronache

E

di

Marcolino

“A chi dice no, a un domani che ci vuole soli, o sopra un’isola per ritornar famosi…” A chi dice no, Ivana Spagna

tra il cip-cip di uccellini gialli e la bava di grasse lumache Amalia si dissolve. Io e Michelle O. facciamo ritorno a casa, con la coda tra le gambe. Ho passato gli ultimi mesi a giocare a nascondino con un transgender. Perché? Cosa in lei mi attrae? Mi allontana dalle innaturali luci della ribalta, ho messo un grembiulino rosa, ho cucinato la minestrina in trattorie mantovane: solo per avere informazioni su questa dolce, sconosciuta chimera. Non vi sono più fiabe, nessuna mistica Lisbona dove un ex modello mi abbraccia. Non parlo più ad alta voce, usando l’orgasmo della baccanti per ottenere profonde riflessioni. Io, non sono più libero. E non capisco il senso del mio agire, non trovo motivazioni valide al mio abdicare. Forse perché qualcosa è destinato a sfuggirci sempre. Neppure riusciamo ad intuire quando qualcuno, come Amalia, ci libera dai nostri sogni, ci priva dell’arcobaleno. Cosi, smettendo di emozionarmi solo attraverso cristalli liquidi, lei mi ancora sempre più al terreno. Ciò non può essere un male: perché il terriccio odoroso è la sola cosa che, con certezza, vedo e possiedo. Mi guardo allo specchio: rimango affascinato da tutto ciò che è superfluo. Questo coso dai bordi dorati mi svela che remar contro o seguir la corrente, è identico. Criticare o servilmente lodare non è comunque esser parte di un circo dal male creato? Basterebbe fermarsi ad ascoltare. Ma, ahimè, non lo so fare. Voglio solo Amalia. Nel cassetto della specchiera c’è un bel rossetto Rouge Dior. Lo faccio danzare sulle mie labbra. Mi trucco da non truccato. Sul capo fisso una parrucca: caschetto nero come Uma Thurman in Pulp Fiction. Due arance per i seni, Louboutins ai piedi, mini dress Prada con sprazzi d’argento e lillà, pelliccia Fendi con combinazioni di ghepardo e cincillà, pochette Ferragamo. Vestito di opulenza per farmi forza, ondeggio verso il Teatro Ariston. I maschietti mi scrutano. Mostro l’invito, ottenuto fingendo una lontana parentela con i Romanov. All’interno: stile finto d’avanguardia, poltrone con onorevoli uomini che fanno ballare le loro gambette. Amalia è sicuramente qui, per allietare gli invitati. Non può sfuggirmi. Sono riuscito, per vie traverse e sicuramente non legali, a fissare un incontro privato con lei per mezzanotte. Sono pieno d’emozione. Adagiato su un divano, sono agitato. Osservo l’orologio al polso, guarnito di diamanti. Manca poco. Mi sento bella, pazzesca, ammirata. Mi sento, anzi, sono donna… continua… 22 www.lecronachedimarcolino.wordpress.com


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me estrcat n ros i ialidab l ad ar del om i t ea en aglzi i l ca l i eri ' a st p uz e d ri zi t i cheisal vo, u m ri en ie f ot i st t urnorma al ggi azi mo l e , o v me nid ogn i ' art im nt a n ese o ee ln des . . . i ost i ro gn spa zi o



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