Luzer!10

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(un)happy birthday LUZER! per i tuoi primi (ed ultimi ?) dieci numeri

LUZER! (free press) è reperibile presso: Brescia random: Pride bar, Arte in te, Fabbrica del cacao, Only One, Bodeguita, Frisco, Viselli’s, Bazaar wear, Kandinski records, Lio bar, Boys loft, Magic bus, Ivan bar, Oslo, La Bicicletta, Latteria Molloy, Le Tits, Bar da Franco, Nave di Harlock, Minoia store, Franci e Marco, atenei universitari & many more… Maybe (Travagliato), Romano (Villachiara)...Orzinuovi: Barbel, Forbice shop, Pacorock cafè, La Crisalide. Bergamo: Bazaar Wear, Coffee’n’television....certi negozi, certi clubs, certi atenei... a seconda delle nostre gite…Milano... Direttore responsabile: Elia Zupelli (direttore@luzer.it) La redazione che non c’è: Michele Boselli, Luciano Burch, Enrico Ludovico Decca, Phil Delcorso, Maria Emelianova, Stefano Garbagnati, Francesca Martinelli, Giovanni Mensi, Davide Monteverdi, Sami Nakari, Marco Stizioli, Alessandra Troncana, Federico Urietti, Patty Valsecchi, Elia Zupelli Grafica e impaginazione: Stefano Garbagnati (garba2@inwind.it) e Marco Stizioli Webdesigner: Ludovico Per contatti, opinioni e collaborazioni: redazione@luzer.it Facebook: Luzer Rezul www.LUZER.it


idle of the month

Un piccolo spazio per ripercorrere le vicende, lo spirito, il messaggio, ( i miracoli?) di personaggi degni di essere chiamati idoli.

LUZER!

C’è una cosa molto buona e una cosa molto brutta nell’essere idoli di sé stessi. Quella buona è che risparmi sui poster, sui gadgets inevitabili, sul feticismo da ritaglio e su tutte le altre scemenze che fai quando sei fan sfegatato di terzi. Quella cattiva è che diventi sempre meno critico con te stesso, perché agli idoli perdoni tutto (i sottoni da Bono Vox continuano a credere che i poveri U2 da Pop in poi abbiano fatto anche dischi decenti). Siccome questo è il #10 (e noi di Luzer! iniziamo a diventare cariatidi bavose) abbiamo deciso di accantonare gli aspetti negativi dell’idolatria, per concentrarci esclusivamente sulle vibra galattiche, in modo da poterci (e potervi) garantire una vecchiaia serena e lontana da turbe psicotiche-monomaniache. Luzer! è la rivista più fica sulla faccia della Terra. Non c’è molto altro da aggiungere. Abbiamo iniziato sottovoce dai bassifondi, con poche lire e molti sogni, e adesso ci ritroviamo - neanche due anni dopo - bolsi di gloria, tracotanti di fama e con le rughe del successo. Nel mezzo tanto lavoro, chili di passione, inverni nelle cantine umide ad assemblare nuovi numeri con l’ansia da prestazione. Abbiamo conosciuto molte star, alcune addirittura più planetarie di Noi: penso a quella diavola di Yoko Ono, o a Michael Bongiorno, piccola parte del cuore di ciascuno, volato altrove troppo presto. Abbiamo parlato con la stessa disonestà intellettuale dell’azione viennese e delle basicissime t-shirt bianche, analizzato le vette Lynchane e le scopate griffate Balenciaga di Sex and the city, passando per tributi a gruppi virtuosi amati con la stessa dignità degli “Amici”

di Maria la bionica. E poi ancora: virate notturne nelle piste da ballo alle ora di punta, filosofia restaurata per teens palpitanti, sesso impossibile, flaconi di coattitudine urbana su base haute couture. Scrivere per noi è questo: frullare l’alto e il basso (di solito sono pure gerarchie fittizie) interpretando questi estremi in una chiave che sia il più personale possibile. E’ per questo che abbiamo due palle così, anche se siamo giallini, verdi o rosa confetto. Ed è per questo che - piaccia o non piaccia - siamo i migliori sulla piazza. Leggevo qualche giorno fa una bella intervista a Iggy Pop, in cui diceva: “Se sei modesto, non puoi essere il frontman di un gruppo rock”. Ebbene, Luzer! suona un po’ come se gli Stooges (ma col cervello dei Kraftwerk) facessero cantare Miss Rettore: ruvidi, pensati ed estremamente tamarri. Culture, pathos, nulla dopotutto ci calza pure a pennello in questa metaforina musicale: manca solo il “pensiero stupendo” di una fine controversa. Quindi cari lettori che ci avete seguito in tutto questo tempo, fate una bella cosa: prendete sto numero che come al solito sarà una spanna sopra a tutta la spazzatura editoriale in circolazione, fatene gigantografia e appendetelo sopra al vostro letto. Noi lo abbiamo già fatto tempo fa e ora siamo ricchi sfondati, famosi in tutto il mondo e idoli di noi stessi. Ciò nonostante continuiamo a vivere questo amore da favola con la leggerezza dei giusti, e anche se non dovesse succedervi la stessa cosa che è successa a noi, vi vorremo abbastanza bene forever. Con modestia infinita, Elia Z. & La redazione che non c’é


retro-spektiva LA BOCCA DEL LUPO

Quando il documentario diventa (grande) cinema

Il docu-film di Pietro Marcello, trentaquattrenne regista di origine campana, è ambientato a Genova e racconta la storia d’amore tra Enzo, emigrato siciliano con un lungo passato in carcere, e Mary, transessuale col quale Enzo ha una re-lazione che dura da oltre vent’anni La bocca del lupo nasce come film su commissione, coprodotto dai padri gesuiti della comunità di San Marcellino di Genova, che hanno chiesto al giovane regista di realizzare un documentario sulla città e i suoi quartieri. Presentato in concorso al 27° Festival del cine-ma di Torino, il film si è aggiu-dicato meritatamente il primo pre-mio. Coraggiosa e importante la scelta della giuria che premia un documentario atipico, difficile, completamente avulso sia dalle logiche commerciali del cinema moderno che dal filone (semi)documentaristico stile Michael Moore che va tanto di moda ultimamente. La bocca del lupo è certamente un progetto anomalo, nel quale i confini tra finzione e documentario sono quanto mai labili e in cui trovano spazio diverse forme di linguaggio cinematografico che si intrecciano e si sovrappongono l’una all’altra in modo assolutamente efficace e armonico. Tra queste, si segnala l’utilizzo abbondante di immagini d’archivio: si tratta di vecchi documentari provenienti dagli archivi di Genova che ritraggono la città e i suoi quartieri in modo assolutamente anti convenzionale. Essi danno forza al racconto e creano un contesto attorno alla storia d’amore dei due protagonisti, un background di atmosfere e sensazioni dove non è tanto la localizzazione geografica della vicenda che interessa, quanto la sua dimensione emotivo-sensoriale. Interessa relativamente sapere che cosa stiamo guardando, in quale quartiere di Genova ci troviamo e a quale periodo le immagini si riferiscono. Perché ne La bocca del lupo il coinvolgimento emotivo prende presto il sopravvento, l’obiettivo didattico alla base del film viene superato da un coinvolgimento sensoriale (i suoni, le luci, i profumi del mare e della città) che ci coglie di sorpresa e ci porta dentro le immagini. Non stiamo più “osservando” la città. La stiamo “vivendo”. E questo è il miglior modo per comprenderla. Il film tocca il suo punto più alto nel piano sequenza in cui i due amanti si dichiarano di fronte alla macchina da presa: ricordano il tempo passato, i loro problemi con la droga, l’incontro avvenuto all’interno del carcere e la nascita del loro amore. La forza emotiva del film è tutta concentrata in questi venti minuti: un momento di film-verità raro a trovarsi nel cinema contemporaneo che investe lo spettatore con una forza inusitata, suscitando in lui un mix di emozioni contrastanti che lo lasciano senza fiato. Guardando il film, ci si rende subito conto che il regista non è mosso da alcuna ideologia e che il suo sguardo è privo di pregiudizi. Per usare un’espressione godardiana si potrebbe dire che il film di Marcello non è un segno di qualche cosa, ma si limita a essere “quella cosa”. Così, ciò che rimane allo spettatore uscendo dalla sala, al di là della storia d’amore, non è tanto la sensazione di aver conosciuto qualcosa in più su Genova e i suoi abitanti, quanto piuttosto di aver capito la città, di aver vissuto i suoi quartieri, di averla respirata per 75, intensi minuti.

Michele Boselli


pro-spektiva

SEX & THE CITY 2

Fenomenologia di una cafonata

Ho sempre pensato che il punto debole di Sex and the City (la serie tv) fosse la protagonista, Carry. In Sex and the City 2 (il film) il problema s’acuisce: Carry è insopportabile (è la sindrome “Oliver Hutton”): i suoi bimbi sono scarpe (guai ad avere figli prima dei 45!), la sua ossessione è la vecchiaia. Non è un problema da poco: temo che il personaggio di Carry conti fino ad certo punto; o meglio, conta fino ad un certo punto il suo lato umano, la sua personalità. Pesa molto invece ciò che Carry si porta appresso: primo fra tutti, Dior (e con quello Vuitton, Blahnik, Choo e compagnia bella); secondo, conta la rubrichina rosa per cui “lavora”; terzo, conta l’orsacchiotto (Big) con cui flirta noiosamente per 6 serie; o meglio: conta ciò che può comprarle. Insomma, la celebre Carry è poco più che un appendiabiti ambulante che scribacchia banalità ispirate dal tira e molla col Bisteccone. Mille volte più interessanti invece le altre tre: Samantha (la ninfomane), Miranda (l’avvocato in carriera meno interessata alla moda - si fa per dire) e Charlotte (quella “casa e Valentino”, con tanto di marmocchi al seguito). Sì, saranno pure iperstereotipate, ma il vero divertimento (e un briciolo di interesse) proviene dai tre satelliti. Va da sé che i due film all’attivo seguano l’obbligata valanga di quattrini che una serie tanto fortunata ha spianato. Il primo, a mio parere, reggeva abbastanza bene il gravoso fardello del serial-tv. Questo secondo crolla alla prima scena: fin dalla terrificante sequenza del matrimonio gay (con Cammeo della Minnelli da spararsi in un piede) si ha un terribile presentimento: il film sarà lunghissimo. E così è: una maratona di 146 minuti che manco Cimino. Che gli autori siano alla frutta (e con loro la serie) lo si capisce dal totale esaurimento del vero protagonista New York: entrambi i film mirano tristemente all’esotico. Stavolta siamo alle prese niente meno che con Abu Dhabi (originale!); del resto lo dicono pure le “ragazze” (goffamente alle prese col mezzo secolo di vita): “Dubai è out”. Lusso sfrenato: camerieri indiani tra l’eunuco e il rimbambito, Cosmopolitan in vasca da bagno, 74 auto a testa per la trasferta nel deserto e sfilata Dior al mercato. Una nota sulla moda (il secondo vero protagonista, altro che “dettaglio”!): se il vestiario di Carry ha fatto scuola negli ultimi 10 anni (in buona parte a ragione), qui lo stylist si fa prendere un po’ la mano sfiorando in più di un’occasione il carnevalesco: le ragazze sono quasi sempre fuori luogo (nella moda una volta era considerato il più grande errore). Si sa, l’eleganza e la raffinatezza vanno di pari passo con l’occasione; si adeguano a quella, valorizzandola. Qui i 4 armadi e le situazioni vanno ciascuno per la sua strada producendo un eclettismo di cattivissimo gusto. Il problema è che se cadono N.Y. e la moda (raffinata) cade tutto Sex and the City. Sì, resta qualche ghignata quando Samantha apre bocca (non solo per parlare), resta qualche battuta degna di una grande serie, ma poco di più. Se la questione del lusso come stile di vita si limita all’auto-ironia, funziona; se ci credono per davvero diventa tragicamente burina. Sex and the City corre da sempre lungo quel filo molto sottile che divide la ricercatezza, lo stile, l’originalità dalla volgarità, dalla cafoneria. Quando sai restare al di qua per un soffio sei al limite del capolavoro (le spalline di pelo della giacca di Brandon Flowers sono stilose o burine?). In questo film il peso tende pericolosamente all’errore. Un errore fatale.

Giovanni Mensi demarsay@hotmail.it


movie playlist

The Road di John Hillcoat - Il film di John Hillcoat narra la storia di un padre e di un figlio, sopravvissuti ad un cataclisma di cui si ignora l’origine e che ha ridotto il pianeta terra ad un landa desolata e senza cibo. Il film ha avuto non poche difficoltà distributive, soprattutto a causa del soggetto, considerato dai distributori troppo “pessimistico” per i nostri tempi. Eppure è un film a cui non mancano qualità importanti: una certa attenzione per gli ambienti, una fotografia dai toni smorzati che spesso sfiora il bianco e nero, una grande prova di Viggo Mortensen. Purtroppo, certe ingenuità nella sceneggiatura e un finale consolatorio non rendono merito a un film la cui visione è comunque assolutamente consigliata.

Robin Hood di Ridley Scott - Del nuovo Robin Hood va detto

subito che i fatti narrati sono antecedenti all’insediamento del Nostro e dei suoi compagni nella foresta di Sherwood: in un certo senso il film finisce quando inizia la leggenda. Tale scelta ha destato perplessità tanto da portare qualcuno a definire il film come la più lunga sequenza introduttiva mai girata. Eppure non credo che i problemi del film dipendano da questa scelta di sceneggiatura, che anzi consente di analizzare il personaggio da un nuovo punto di vista. Robin Hood delude soprattutto da un punto di vista estetico, proprio nei frangenti in cui ci si aspetterebbe il tocco personale del regista di Blade Runner, quel suo particolare gusto per l’immagine e l’innata capacità di ricreare atmosfere affascinanti. Mi riferisco, per esempio, alle molte (troppe?) scene di combattimento, tutte piuttosto piatte e poco avvincenti, ivi compreso il lungo scontro finale sulle coste meridionali dell’Inghilterra che a molti ha ricordato (e non a torto) lo sbarco iniziale ne Salvate il soldato Ryan.

Iron Man 2 di Jon Favreau - Stavolta il multimilionario

Tony Stark (Downey Jr.) è alle prese con un russo (Rourke), figlio di un ex-scienziato della società di armi Stark. “Rourke” intende vendicare il padre allontanato in Siberia per divergenze con la direzione. La rivalità tra i due (USA v.s. Russia: sigh), si risolve con un paio di frustrate a vuoto nella ridente Montecarlo e con un finale non troppo spettacolare in cui Iron Man liquida il malcapitato in 45 secondi (?). Insomma: il film non si gioca negli scontri col Male, ma, e qui sta il punto interessante (forse l’unico), contro la propria potenza, contro se stessi (Stark combatte in primis contro un congegno installato nel petto che lo fa sopravvivere, ma che, insieme, lo uccide lentamente). In questo quadro due questioni fondamentali: quella delle armi (tema scottante negli USA) e quella della tecnologia (il cui incessante progredire sembra dare più problemi che benefici). Stark produce armi per “difendere” l’America (armi di difesa o di offesa?) e, in veste di Iron Man sperimenta iper-tecnologie dagli inquietanti risvolti. Già che c’è sopprime qualche “nemico”. Ci chiediamo com’è che in un tugurio siberiano allo scatafascio, con tanto di bottiglie di vodka mezze vuote, Rourke riesca a congegnare un’armatura spaziale. Ma si sa: Rourke è Rourke.

Giovanni Mensi & Michele Boselli


E’ stato molto bello, quando i Luzers incontrarono Battiato

La coltre di riserbo dietro cui si trincera Franco Battiato – artista notoriamente schivo e refrattario al confronto con la carta stampata – fa sì che venga percepito dal pubblico come una divinità austera e metafisica, simile a quelle icone russe taciturne che incutono devoto timore ai fedeli. Lo incontri de visu, e capisci quanto possa trarre in fallo l’apparenza: attorno al Maestro gravita sì un’aura di “sintomatico mistero”, ma mitigata dall’umiltà dei grandi e da una cortesia tutt’altro che melliflua. Si concede garbatamente ai convulsi quesiti di due sbarbatelli - la sottoscritta e il Nostro Direttore -; discorre della fagocitante sete di quattrini della classe politica, della vanitas del clero, addita l’ascesi come unica via per l’autoperfezionamento. Denuncia i deliri del capitalismo, reo di aver reso il panorama musicale italiano un crogiuolo di dilettanti privi di talento, feticci pop manovrati dalle case discografiche e destinati ad una repentina caduta nell’oblio; si scaglia contro la sterilità di alcune star che, asservite a Sua Maestà il Denaro, hanno rinunciato alla ricerca divenendo la tragica caricatura di se stesse – Vasco, che preferisce andare dal parrucchiere piuttosto che innovare il proprio repertorio, o i Rolling Stones, che depositano le royalties in Olanda e fanculo le tasse -. Ed è pura catarsi quando stigmatizza la degenerazione dell’arte postmoderna – una fucina di esperimenti vacui e velleitari, di epidermiche e inutili provocazioni patrocinate da gretti filistei - commisera Hirst, con i suoi ridicoli squali impagliati, e rivela dell’”orgasmo cosmico” provato di fronte ad una tela di Rothko. E tu, piccolo e insignificante essere assiso in fronte a lui, ti inebri di ogni parola, immaginando di intravedere il luccichio di quegli occhi vezzosamente velati da un paio di Ray-Ban, unica, insondabile, maschera che ti separa dal Divino. Sì, è stato molto bello. Alessandra Troncana


10 DISCHI in 10 righe CRYSTAL CASTLES - Crystal Castles (II) Atteso ritorno dei Crystal Castles, anticipato dalla spiazzante, Doe Deer, che più che le cristalline sonorità dei CC ricorda un caos alla Sleigh Bells. Poi, a disco uscito, le cose tornano al loro posto: è un lavoro lungo e vario, tra pezzi tradizionali come Fainting Spells e sonorità da hit radiofonica come Baptism. Ad ascolto finito però resta un’impressione di confusione e soprattutto nostalgia per l’eleganza moderata del primo lavoro. LCD SOUNDSYSTEM - This is Happening James Murphy calderone, atto terzo. ����� Ogni tanto si fila a vuoto (il singolo Drunk Girls non è tra le cose più memorabili mai scritte dal pacioso orsetto di casa di Dfa), ma nel vortice di saturazioni, spettri disco italici e turbe analogiche c’è il tempo per riemergere e respirare sprazzi di classe totali. Chiedere di Home. THE DRUMS - The Drums La fischiettante allegria di Let’s go surfing ha conquistato i cuori di tutti, catturando l’attenzione dei vari NME e Pitchfork. Ora è finalmente arrivato il disco, giusto in tempo per un surf mood estivo: i Drums ci regalano 12 pezzi leggeri e piacevoli, con una forte (ma ormai banale) influenza new wave ed echi di buon pop alla Beach Boys. Li perdoniamo: inonderanno di sole la vostra stanza, qualora capitasse una mezza estate nuvolosa. THE NATIONAL - High Violet Un disco dal sound malinconico con sentore di cupi bar New Yorkesi e strade solitarie mai veramente percorse. Dopo l’ascolto di una Afraid of Everyone potreste chiudervi in camera con una bottiglia di vino e le tende tirate, o resistere e apprezzare fino in fondo l’innegabile qualità del lavoro. Molto drammatico. ROBYN - Body Talk pt.1 Primo capitolo di una concept -trilogia intrapresa dalla svedesina biondo Farolfi. L’elegante electrodance di Dancing On My Own fa da apripista a un album che si rivela portatore di perle preziose (None of Dem, con zampino dei Royksopp), nonostante sulla distanza palesi più di un “tempo morto”. ������������������������������������������������ To be continued, speranzosi in giorni migliori.

UFFIE - Sex Dreams and Denim Jeans Da Feadz a Sebastian passando per Mr Oizo, una produzione della Madonna per questo hypatsissimo debutto dell’americanina che ha fatto impazzire i cervelloni nel nu-french touch. Praticamente una covata micidiale di ruffianate electro-hop con lo spessore di un foglio di carta A-4.


CHEMICAL BROTHERS - Further Settimo disco sincero e psichedelico per i veterani del big “brit” beat. Anche troppo. Un pezzo come Escape Velocity è da servire a dosi moderate e invece è un trip di 12 minuti che non finisce più. Nulla da eccepire su qualità e impegno, ma c’è poca freschezza. E poi lascia un ronzio fastidioso nelle orecchie.

PERTURBAZIONE - Del Tempo Rubato Ambizioso, ma non pretenzioso. Suona così questo ritorno in pompa magna della band di Rivoli: 24 tracce che declinano felici orizzonti pop sulla falsariga della canzone d’autore tempi d’oro. Se oggi come ieri ami quel mondo lì, preparati al capolavoro degli ultimi 10 anni. Altrimenti opta per un film muto che ti annoi di meno. THE MANTRA ATSMM - Defeated Songs Umori languidi su latitudini noise e post rock. E’ un piacere perdersi negli acquitrini melanconici à la P.J. Harvey di Clouds e poi palpitare nella tensione sonica di Mare (not land). Dieci “Canzoni sconfitte” che abbisognano di un mood calante per esprimersi al cubo dopodiché sono cazzi tuoi.

TRENINCORSA - Verso Casa Alla sagra delle collababorazioni folk-autorali: Van de Sfroos, Erriquez (Bandabardò), Tonino Carotone e Paola Folli. Risultato: un’ecosistema tzigano che fa strano pensare attuale di questi giorni. Il lead-vocalist fa i miracoli ispirando sussulti schizofrenici tra Ron e Barbarossa, ma -nonostante gli sforzi - resta purtroppo la sensazione di prigionia da Bonarda e pane e salamina. Qualcuno potrebbe comunque pensare: bene così, è il mio sogno. A.A. V. V.

PIXIES live @ Sotto Le Stelle (Ferrara) Dom. 6 giugno - Hai presente la giornata perfetta, da 10 tondo tondo? Io la mia l’ho avuta al concerto dei Pixies, dal vivo (dopo anni di cassettine, cds e feste dubbie) nel Castello di Ferrara, una location da urlo. Con flasbacks evanescenti di quando la vecchiaia era storia di altri. Apro gli occhi e c’è Debaser che esplode, tra la panza tonda di Frank Black e Kim Deal che sghignazza perché tutti ce la urliamo di brutto, fottendocene di tasse, Berlusconi e capelli grigi. No cazzo. Non è solo gente che guarda contro gente che suona. È l’abluzione finale, la chiusura di un cerchio. Sorridiamo con gli occhi lucidi, abbracciati sotto le stelle al cospetto di una Where Is My Mind che ti straccia l’anima. Per tutti è lo stesso pensiero: la sofferenza di mettersi in coda per n altro momento in cornice d’avorio. Ringrazio di essere nato diverso, di aver avuto una nuova giornata perfetta, senza cellulari impazziti e senza di te. Forse è lo stesso 10 di Baggio o Maradona, ma loro non mi hanno mai accarezzato di notte come i Pixies hanno fatto per ore intere. Deejay Dave Aka Davide Monteverdi


Pills of...

Disco

Shit

Oltre al nu-rave c’è di più? E’ questo il dilemma, che forse anche gli stessi Shitdisco vivono dal 2007. La band di Glasgow tre anni fa è stata una delle “Next big thing” più spinte dai soliti magazine Oltremanica, salvo poi ritrovarsi in uno stallo artistico dal quale uscirne è difficile. Ne abbiamo parlato con loro durante la tappa bresciana al Vinile 45, facendo un tuffo nel passato e augurandogli tante care cose per il futuro. Nel 2008 è uscito un vostro disco solo negli USA…perché questa scelta? - Beh, in realtà era un re-editing del disco uscito in Europa, con delle canzoni bonus in aggiunta che erano state scartate nella prima edizione. L’America è un mercato a sè stante, arduo da conquistare, però ora che ci penso non ci siamo mai informati sulle vendite, quindi non so come sia andata. Avevamo anche un tour programmato, purtroppo un componente della nostra band ha avuto dei problemi di salute e non siamo più riusciti a recuperare le date annullate. Come state… gli Shitdisco sono ancora una band a tutti gli effetti? - E’ difficile mantenere assieme la band. quando due abitano a Londra e gli altri a Glasgow. Diciamo che la convivenza forzata in tour non ha aiutato a mantenere stretti i rapporti, creando screzi e ora ci siamo persi un po’ di vista. Attualmente io (Darren Cullen, ndr) e un altro componente degli Shit Disco, Joe Reeves, stiamo per partire con il nostro nuovo progetto, gli Age of Consent: la settimana prossima il debutto a Parigi, poi Stoccolma. Vogliamo fare un po’ di concerti all’estero prima di esibirci a Londra, ci teniamo davvero a fare bella figura nella nostra Città: ci verranno a sentire le etichette e vogliamo farci scegliere dalla migliore. … “Age of Consent”, come una bellissima canzone dei New Order? - No, scommetto che ce lo chiederanno tutti. In realtà il nome l’abbiamo trovato casualmente cercando sul dizionario qualcosa che richiamasse l’ Età dell’Illuminismo, e questo l’abbiamo scelto perché ci piaceva il rimando all’età in cui per legge si può cominciare ad avere rapporti sessuali. Era pure il titolo di un disco dei Bronski Beat, a dir la verità. Cosa ne pensate dell’attuale scena nu-rave inglese (ammesso che oggi continui ad esistere)? - La vediamo piuttosto in salute, nonostante da fuori possa sembrare il contrario: noi come Shitdisco abbiamo dato il nostro apporto nel periodo di hype, ma sarebbe riduttivo far riferimento solo alle band che le riviste definiscono nu-rave. Ci sono tanti gruppi che sperimentano comunque con l’elettronica e non vengono inseriti in questo genere: pensiamo ai Presets, che ci piacciono un casino. Come è nata l’idea di re-interpretarvi dietro alla consolle mettendo i dischi? - L’idea di girare per i club facendo dj-set ci è venuta dopo aver visto la quantità di gente che ci chiedeva di mettere dischi dopo i nostri live. In Italia avevamo già suonato: sono sempre state delle belle serate, anche se ho dei ricordi un po’confusi…soprattutto a Milano, lì sono state delle “toccate e fuga” piuttosto stremanti.

Luciano Burch


Una selezione random di dischi e videoclip che a me (mi) piacciono... Buon divertimento!!!

MANSUN - Six Un cantante che somiglia a Bowie,

ordinaria manovalanza umana agli strumenti per un gruppo che se in terre anglosassoni è ancora culto, da queste parti è più materiale d’archivio. Riesumazione inevitabile, dunque. Video-perfezione su sfondo total white, che ha tolto sonno a più di una persona (chiedere di “bianco mansun” al cervellone di FaKebook). Tra Suede, echi di glitter e tutta la lezioncina imparata a memoria dai Kula Shaker in poi.

THE SWISS - Bubble Bath Australia uber alles. Sì, perchè

questo trio fresco fresco di 2010 o giù di lì viene da Adelaide e spiazza con un suono che deve palate di diritti a Moroder, ma che allo stesso tempo buca le tempie come pochi. Hi-nrg per decerebrati, Italo disco questa sconosciuta e i suonini giusti da jingle sono gli ingredienti di questo brano “voiceless” che vi rimarrà in testa più di un classico di Battisti. Modular Recordings se ne è accorta in fretta e ora li porta in giro per il mondo a feste tropicali.

MASSIVE INTERNALCOMPLICATIONS - Strawberry wine

Giù e andare sempre più giù oppure su e andare sempre più su (ascesi, più che euforia). Va così ascoltando questa perla rara, e a dire il vero dissotterrata da non so dove: se stai bene, stai da Dio; se stai male, sprofondi. Meglio di notte e con piacevoli contrarie estive nella stanza, a prescindere dalla circostanze umorali.

AMANDA LEAR feat. DEASTAR - Someone else’s eyes Più di

70 anni e non sentirli cortesia di botox e di due palle così. Ex musa di Dalì, ex musa del giro sbomballato del Duca e di Iggy ai tempi di Berlino est, e poi ancora, ex presentatrice, ex wonder woman della disco 80’s, ex pittrice, ex poeta, (e forse) ex uomo. Re(gina) Lear, al secolo Amanda Tapp, qui torna ai fasti del palcoscenico duettando con uno sfigato. Non riesce nemmeno ad essere trash. Sublime.

MUNK- The Portofino mosh

“Taken from the album Aperitivo” si legge nella didascalia gentilmente offerta dal Tubo. Poco altro da aggiungere: prendi un veicolo qualunque a due ruote, indossa un foulard e dei vestiti bianchi e scendi nella piazza del centro sollazzandoti dal tramonto in poi. Bevi tante cose gelate e passa una buona estate. Ah sì dimenticavo: sembrano i Saint-Germain ingnoranti con un testo che parla di signorine e ciliegine.

Elia Z.


Clubbing corner ep. 10 di Phil Delcorso

DJS ARE NOT ROCKSTARS Fu un dj ad inventare il rock, si chiamava Alan Freed, trasmetteva da una radio di Cleveland e presentava giovani artisti americani di rhythm & blues, o meglio di quella nuova ondata più elettrica che Freed comincio a chiamare “rock ‘n’ roll”. Questo è solo un esempio dell’importanza che hanno avuto i dj nel mondo della musica, ma neanche Freed poteva immaginarsi quanto questa figura professionale si sarebbe evoluta nel corso degli ultimi decenni: i dj hanno cominciato a spettacolarizzare le proprie esibizioni, diventando loro stessi artisti in grado di spostare migliaia di “fanatici del ballo”. Hanno conquistato i festival, gli stadi, i templi sacri del rock; hanno scalato le classifiche di vendita e dulcis in fundo hanno cominciato ad atteggiarsi come vere rock star. Ormai se ne vedono di tutti i colori: dj truccati, dj mascherati da wrestler o con il viso coperto da bandane, e dj col sudore che cola. Alcuni inscenano teatrini divertenti, altri si fingono in trance lisergico su pezzi che non lo consentirebbero. Su Youtube si trovano facilmente video di Steve Aoki nei suoi pantaloni di pelle che si lancia a petto nudo sulla folla ansiosa di ricevere

il suo sudore. Gridano, scalpitano e lo osannano come degli ossessi. Se parecchi anni fa la gente inneggiava “last night a dj saved my life” ora invece si urla “riot, warp, fuck....!!!”. E’ un patto di fede verso il ritmo purificatore della musica e una strizzatina d’occhio alla sua natura effimera (il sudore raramente profuma di trascendenza la mattina dopo). Confesso che sono sempre stato un sostenitore del dj-set da palco: era bello poter ammirare i virtuosismi tecnici dei disc jockey con le mani sui giradischi e il loro rapporto con la precarietà disarmante delle puntine; oppure vederli accarezzare i vinili e percepirne il calore unico che questo supporto poteva dare. Una vera libidine poter guardare il retro del Technics 1200 con le sue lucine fioche e il suo moto perpetuo. Ora che invece i giradischi sono sempre più rari (così come i disc jockey capaci di usarli), e sono stati sostituiti da laptop o da lettori cd, i “nuovi” dj cercano di attirare gli sguardi del pubblico “spippolando” costantemente (spesso a casaccio) con gli effetti del mixer, o improvvisando balletti a tempo con mimiche facciali forzate. Mi è capitato di leggere un’intervista a Bot dei Crookers (disc jockey prima che superstar mondiale) in cui dichiarava di sentirsi a disagio sui palchi enormi in cui il “povero” dj isolato, a testa bassa, è l’unico a dover riempire la scena. Insomma i dj soffrono un pò come le rock star, e sui quei palchi sarebbe meglio lasciarci delle vere band. Non mi auguro necessariamente un ritorno al vecchio stile delle consolle (quelle oscure cabine regia con tanto di vetro divisorio o grata ferrosa), ma sono certo che cosi i dj non suderebbero sotto maschere di gomma e tornerebbero a concentrarsi solo sulla selezione musicale.


tu o, jpatty music consultant vvvn vvi consiglia questi festivals: eGLOBAL FEST FESTA DEL GIOVANE (Lograto -Bs) Ven 9/7 MOLTHENI+ KAUFMAN Sab 10/7 MANARA 4AXID BUTCHERS

eSOMEnFEST (Ome - Bs) Ven 2/7 SEDDY MELLORY- LINEA 77 Sab 3/7 DID - ZZZ (Nederland) Dom 4/7 THE UNION FREEGO BUD SPENCER  BLUES EXPLOSION eLOW ROCK FESTIVAL  (Bagnolo Mella - Bs) Ven 25/6 UFOMAMMUT ELETTROFANDANGO METEOR  Sab 26/6   PROSPEKT VANESSA VAN BASTEN OVLOV  APERITIVO CON MULU  Dom 27/6  ETTORE GIURADEI MANUELE ZAMBONI KAUFMAN  APERITIVO CON ALBERTO BELGESTO

eMUSICAL ZOO (Castello Brescia) 22/7 HI-DOSER 23/7 UOCHI TOKI + NEW YORK SKA ENSEMBLE 24/7 PINK HOLY DAYS+ ANIA ET LE PROGRAMMEUR+ PARLOSNAKE E KALWEIT & THE SPOKES 25/7 EDIPO+ MY AWESOME MIXTAPE+ LM RIPLEY

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eNO SILENZ INDIE ROCK FESTIVAL (Coniolo di Orzinuovi - Bs) Gio 15/7 A TOYS ORCHESTRA ANNIE ALL CUT Ven 16/7 THE RECORD’S MOVIE STAR JUNKIES JULES NOT JUDE Sab 17/7 VIVIAN GIRLS A CLASSIC EDUCATION OVLOV eGOOSE FERSTIVAL (Castello di ZEvio - Vr) Ven 6/8 APPALOOSA Sab 7/8 NODE Dom 8/8 A TOYS ORCHESTRA erOUMPA by Arteinte e Frisco (Cascina Maggia - Bs) Sabato 3/7 CASE DEL FUTURO PINK HOLY DAYS SIDE EFX DJ SET RESET! DJ SET

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Z om on: I Baustelle non lasciano mai indifferenti: per alcuni sono illuminati, per altri sono boriosi; molti credono che facciano il soph-pop perfetto, molti altri li reputano furbi e indie-stream; per tanti fans fedelissimi Bianconi è la penna più ispirata dai tempi di De Andrè, per i dissacratori i suoi testi sono citazionisti, pseudo-borghesi e venati di intellettualismo mestierante. Noi, siccome avevamo tutti questi dubbi, abbiamo deciso di parlarne direttamente con Francesco per provare a fugarli.

Benvenuti sulle pagine della nostra fanza, è un piacere potervi ospitare. Avete fatto un disco che si chiama I Mistici dell’Occidente: da dove nasce il titolo e quali sono le influenze che vi siete portati appresso prima, durante e dopo la registrazione? Volevamo fare un disco che fosse diverso dagli altri, meno concettuale, meno carico, che odorasse di anni ’60 e di beat suonando volutamente “vecchio”. In principio avevamo pensato di chiamarlo Folk Beat n. 2, in omaggio a Francesco Guccini (Folk Beat n.1, ndr), alla fine abbiamo optato per questa versione definitiva ispirata all’antologia omonima di Elémire Zolla. Ѐ una raccolta di racconti che hanno come filo conduttore lo stesso tema del nostro lavoro: la mutevolezza del reale. A proposito di titoli, una curiosità a bruciapelo. I titoli delle canzoni di questo disco sono bellissimi (Le rane, Groupies, L’estate enigmistica, Follonica…) e già prima dell’ascolto evocano simbolicamente delle atmosfere ben precise. Puro caso? Di solito i titoli delle nostre canzoni nascono dopo le canzoni stesse, quindi direi che si tratta di una coincidenza. In ogni caso creano un collage che suggerisce dei contesti, ma quello è inevitabile. Come è stato lavorare in produzione con Pat McCarthy - deus ex machina di svariati lavori di R.E.M, Counting Crows e U2 - e come siete arrivati a Lui? Per questioni stilistiche cercavamo un ingegnere del suono che non fosse italiano. Abbiamo fatto una cernita tra i professionisti stranieri con cui avevamo contatti interessanti e abbiamo scelto Lui in modo molto naturale: siamo sempre stati affascinati dal lavoro che ha svolto con Michael Stipe e soci. Ѐ stata un’esperienza molto gratificante.


Baustelle

di Elia Z.

I testi: meno citazioni, meno forzature “baustelliane”, molti umori differenti. Che momento state vivendo? Io personalmente arrivo da un periodo personale piuttosto duro e complicato, costernato di crisi e passaggi a vuoto. Ho scritto cose molto meno “pensate”, più urgenti, di cuore. Senza filtro, ecco le definirei delle parole senza filtro. Come concili il tuo vissuto con la carriera parallela da autore, quando scrivi una canzone per un interprete? Sono due cose molto diverse (ma con la stessa impronta), i testi dei Baustelle e quelli che “regalo” ad altre voci. Ѐ una cosa molto divertente, è un po’ come fare l’attore: devi far calzare una parte, devi vestirti da donna. Spesso è l’interprete che chiede un pezzo, ci si conosce, si valuta l’affinità e il resto viene da sé. Con Irene (Grandi, ndr) c’è un bel rapporto e lavoriamo in questo modo molto sinergico. Nel caso di Noemi è stata invece una bella sorpresa: non ci conoscevamo personalmente, c’era un mio brano (Per colpa tua), gliel’hanno sottoposto e Lei l’ha reso magnificamente. Sempre in ambito scrittura… cosa ci dici del tuo progetto editoriale Un romantico a Milano? Ѐ un romanzo moderno, fatto di tanti brevi racconti collegati tra loro. Doveva uscire a luglio, ma gli impegni con la band hanno fatto slittare la data di pubblicazione che sarà verosimilmente intorno all’autunno. Torniamo al disco. Rispetto ai vecchi lavori, i duetti con Rachele sono quasi scomparsi e in generale Lei canta molto meno. Una scelta stilistica? Anche in questo caso si tratta di caso, appunto. Rachele canta sempre i pezzi che scrive e in questo disco ha scritto meno che in passato…


Che impronta state dando alle esibizioni sul palco e che show dobbiamo aspettarci per la data bresciana del 28 agosto, alla festa di Radio Onda d’Urto? Sarà un concerto molto più rock dei quattro orchestrali che abbiamo fatto in occasione della presentazione del disco. In tutto il tour estivo suoneremo senza orchestra, ma saremo comunque in otto sul palco, compreso un polistrumentista. Anche la scaletta sarà del tutto inedita, con alcuni pezzi che non abbiamo mai proposto dal vivo. Capolinea con domanda di rito su ascolti recenti ed eventuali “circoletti rossi” da piazzare intorno a realtà indie-pop di casa nostra. Ho paura di perdermi, per cui mi limito a citare l’ “american spaghetti” dei Guano Padano, che amo molto, e - giusto per rimanere in tema - i bresciani JouxJoux D’Antan: ci siamo incontrati in studio tempo fa e mi hanno fatto davvero un’ottima impressione.

Thanks to F. Bianconi, R. Bastreghi, C. Brasini e P.Inserra - www.baustelle.it


Hits in the box

S b i r c i a m o n e l l a v a l i g i e d e i d j s /s e l e c t o r c h e o g n i f i n e s e t t i m a n a c i fa n n o m u o v e r e l e c h i a p p e

FILIPPO BONTEMPI Freelance [happy techno/ electro grooves] Joris Voorn - The Secret Felix da Housecat - Silver screen shower scene thin white duke mix by Jacques Lu cont Cassius - 99 (Reset rmx) DONUT From Razzputin Dj Mehdi Pocket piano (joakim rmx) ÅTOMIC bar, (MI) [New Joey Beltram Slice (Carl Cox rerub) Wave/post punk /80’S] Olav Basoski - I Feel So Bauhaus - She’s in parties Patrick Alavi - Power Malaria - Kalter klares wasser Zingone & Nina Kick it (Stereoheroes rmx) Fad Gadget - Ricky’s hand Odessa Soundfreaks Blow Your Ears (Pedro Talking Heads - I zimbra Delgardo & Tina Martin rmx) Gang or Four - To Dido Don’t believe in love (Dennis Ferrer rmx) Hell With Poverty Joy Division - Disorder THE BIG FAT BASS From Plastic Betrand - Tout petit Exodus/ Le Tits [Electrotechno la planète - Techbreak] Human League - The sound Dies Irae - The Big Fat Bass Intro of the crowd Break the box - Rock the Mic Gary Numan - Cars Noob - Shoes Japan - Quiet life Lady Waks - Listen Ipunk - Boost your Mood MAURO EFFE from 24/ Slyde - Frequency (Miles Dyson rmx) Stereo12 [new discoLee Coombs: Bass Dweller feat. Seasunz house-boogie-detroit] Fisso & Spark - You Are Right Zander vt Dies Irae - Give It - Try some Hatrias, Vandal, Jelo, Stanton Warriors- M.A.D. (Elite Force rmx) more Cobblestone NIKAS WOLF from NO jazz - Mr FUN [electro-maximal/nupolite house] Theo Parrish Olav Basoski - Waterman - Synthetic (Original Club Mix) flemm Consistent - Instant Osunlade - Casablanca soul Gucci Vump - Sha! Shti! rmx The Revenge - Beyond the Femme En Fourrure - Plump Bisquit (Nelly’s ‘Cut dance & Paste’Edit) Sascha Dive - Midnight blues Bart b More - Romane (Para One Remix) Glenn Underground Boy 8-Bit - The Keep Friendly skys Colin Munroe - Piano Lessons (Felix Cartal rmx) Chez n Trent - The choice Sound of Stereo - zipper (sybrfuk rmx) Marcello Napoletano Cristal Castles Vs Health - Crimewave (LAZRtag Mother earth Harder rmx) Kez ym - Pepe Cappio Bros.- Second cup mix ( Stickman records inc. 94”)




Il bisogno della luce intervistA A MARCO LODOLA

Sin dagli esordi ai tradizionali mezzi espressivi hai preferito i nuovi media, come tubi di neon o materie plastiche: si tratta di una provocazione oppure, nell’era della riproducibilità tecnica, la tela ha perduto il proprio fascino? - Mi considero un pittore della luce: ogni mio progetto nasce da un disegno pittorico che viene poi realizzato con mezzi che mi consentono di esprimermi in modo inedito, più congeniale alle mie esigenze, e soprattutto di catturare la luce. Tutti i grandi artisti del passato hanno tentato di farlo: io mi limito a “inserire” concretamente la luce nell’opera, mediante il neon. Le tue opere sono animate da figure senza volto, automi privi di un’identità individuale: si tratta di simboli o di creature vuote, evanescenti, scevre di un significato sotteso? - Sono esseri indistinti, eletti a simbolo di un’umanità alla deriva: milioni di individui tracotanti, boriosi, inconsapevoli della propria futilità. Creature vuote ed inutili. Gandhi diceva: “Tutto quello che farai sarà insignificante, ma dovrai comunque farlo”: è il principio cui mi ispiro. Sono figure indefinibili anche da un punto di vista razziale: non ci sono distinzioni. Sostieni di avere una “visione proletaria” dell’arte, tanto da definirti un “elettricista”: si tratta di una considerazione riferita ai materiali cui ricorri per creare o sottintende una polemica contro l’idea elitaria dell’arte? - E’ un’affermazione sardonica, ma anche polemica: la potenza dell’arte è quella di veicolare messaggi tanto all’operaio quanto all’intellettuale. E’ stata l’industria, principale committente degli artisti contemporanei, a trascendere l’atavica concezione dell’arte per pochi eletti e renderla accessibile alle masse. Non condivido lo sguardo cinico e dissacrante di Warhol: tra mostra e supermarket preferisco quest’ultimo. Rifiuto l’arte d’épater les bourgeoises, la provocazione fine a se stessa. Ogni artista dovrebbe seguire un percorso formativo che gli consenta di confrontarsi con la tecnica del pennello; invece molti preferiscono eludere l’Accademia e provocare inutili “scandali”, con la connivenza della critica. Ormai si trattano solo i temi del sesso, della Chiesa e della morte. Trovo sia una scelta molto banale e vigliacca. Non sono cattolico, anzi, detesto lo sfoggio di opulenza, l’ipocrisia degli ecclesiastici, gli episodi di pedofilia, ma è pur vero che il Cattolicesimo è la religione più vessata dagli artisti. Una mancanza di rispetto fastidiosa da parte di questi pusillanimi; è un bersaglio facile. Se fossero veri artisti prenderebbero di mira Maometto, con tutti i rischi che ne conseguono. Negli anni ’80, hai aderito al Nuovo Futurismo teorizzato da Renato Barilli. Molti critici accostano la tua opera a quella di Balla e Depero, che per primo preconizzò: “L’arte dell’avvenire sarà potentemente pubblicitaria”. - Amo Depero, per me è un maestro assoluto. Se fosse vissuto in America avrebbe ottenuto una considerazione maggiore. Era un visionario, ha anticipato la Pop art. Di lui apprezzo la capacità di interagire con discipline diverse, come il teatro, la pubblicità…Certo, nei miei lavori si può riscontrare anche la presenza dell’ironia di Balla, ma Depero resta il mio riferimento, insieme a Matisse – a cui, insieme ai Fauves, ho dedicato la mia tesi di laurea. Lui mirava a disegnare un’opera con il solo uso del colore; io vorrei fare altrettanto con la luce. A proposito della luce: sembri usarla come antidepressivo. - Sono un depresso cronico che sopravvive grazie al proprio lavoro. Esorcizzo i fantasmi e le angosce illuminandole. In fondo, tutti abbiamo bisogno della luce: cosa saremmo senza di essa? Dei piccoli, insignificanti, esseri che vagano nel buio.


Qual è il tuo giudizio sull’arte postmoderna? Ritieni che sia una forma moderna di Manierismo, oppure la definitiva distruzione del valore semantico e dell’autenticità dell’opera d’arte? Nasco come artista postmoderno, ma mi riconosco nella seconda definizione. Certo, per valutare le opere contemporanee è indispensabile un distacco cronologico, oltre che emotivo. Tuttavia non credo che il postmoderno possa essere considerao un nuovo Manierismo. Sono abbastanza disilluso riguardo al panorama artistico contemporaneo. Quando rifiuti la definizione di “artista”, intendi respingere la dimensione irrazionale, magica ed astratta implicita nel termine? E come vedi la prevaricazione della tecnica nell’era contemporanea? Il rapporto con la natura si è definitivamente spezzato? - Non rinnego la definizione di artista, la riconduco sola alla dimensione dell’artigiano, che crea partendo da un’idea, servendosi delle proprie mani, oltre che della testa. Un vero artista è sempre un artigiano. Per quanto riguarda la natura, la odio. Vorrei cementare ogni cosa. Sono un istintivo, vivo la contemporaneità e fruisco della tecnologia senza pormi troppe domande. Nel corso della tua carriera, hai collaborato con i Bluvertigo, i Timoria, Arbore, Pezzali, Jovanotti... Il rapporto tra musica e arte visiva è di tipo paritetico e dialettico? - E’ un rapporto sinestetico, una percezione simultanea di suoni e colori, come avveniva per Listz o Kandinsky. La musica è un insieme di colori che volano. Come recita lo slogan concepito con i Timoria: “Ascoltate la pittura e guardate la musica”. Quali sono i progetti per il futuro? - Mi occuperò di allestire il prossimo tour degli Oasis, ora DBI, acronimo per “occhio perlinato”, nuovo nome del gruppo rimasto orfano di Noel Gallagher. Il progetto è nato a Milano, in occasione del Rock’n Music Planet, allestito in piazza Duomo insieme a Red Ronny: i fratelli di Manchester, in città per un concerto, hanno molto apprezzato i miei lavori – un omaggio ai Beatles di Abbey Road -: da qui è nata la collaborazione con Liam ed il nuovo gruppo, di cui fanno ancora parte Chris Sharrock e Gem Archer. Alessandra Troncana


Una Mela al giorno ve lo mette nel c*lo Mi sto scartavetrando i coglioni in ufficio e nella difficile scelta tra menarmelo e cazzeggiare sul sito della Apple... naturalmente scelgo la seconda! Ovviamente inizio subito a progettarmi un mac che me lo possa far venir duro: Un processore Intel Xeon quad-core da 3,33GHz, 16GB di RAM, 4 dischi fissi SAta da 2TB l’uno, Scheda video ATI Radeon HD 4870 da 512MB, masterizzatore DVD 18X, Wi-Fi, mouse e tastiera dei più economici che Apple riesce ad offrire, niente monitor, niente stampanti, nessun software aggiuntivo oltre il sistema operativo... Inizia a diventarmi duro... 7700 euro, non mi tornerà duro mai più... A Questo punto, col cazzo moscio e niente di meglio da fare, inizio a googlare soluzioni alternative e la mia mente malata inizia a produrre la stronzata che andrò a presentarvi. Andiamo all’Ikea e compriamo Helmer (30 €), una semplice cassettiera di 6 piani in alluminio, possiamo sceglierla di colore bianco per restare in tema Apple... Montiamola! Accquistiamo 6 schede madri ASRock K8Upgrade-NF3 (30 € l’una), 6 Processori AMD Sempron da 1.8GHz (25 € l’uno), 6 banchi di ram da 2GB (47 € l’una), sei schede video Sapphire da 256 MB (30 € l’una), 10 schede Ethernet gigabit (12 € l’una), 12 hard disk da 1 TB EcoGreen (così facciam contenti anche gli ecologisti, 60 € l’uno),un masterizzatore dvd 22X (18€), una scheda Wi-Fi(8€) ed infine 6 alimentatori (anch’essi ecochic, 20 € l’uno). A questo punto vi serviranno 5 cavi ethernet gigabit di circa 20 cm l’uno, pulsanti di accensione, led vari e un altro po’ di oggettisitca varia (50€ in tutto circa), un saldatore, un trapano con punte per metallo, 2 mani e qualche ora della vostra inutile vita, montate tutto assieme, in pratica un pc per ogni cassetto con due schede di rete per i quattro centrali, una sola per il primo e l’ultimo e la scheda wireless e il masterizzatore per il primo. Col vostro vecchio pc (non lo avrete mica già buttato???) scaricate il logo Apple, stampatelo su carta adesiva e spalmatelo sul lato della cassettiera, così potete menarvela coi vostri amichetti che il vostro logo è più grosso...Passiamo alla parte smanettonica: Scaricate cloudlinux, masterizzatelo e installatelo su ogni pc che avete montato (collegate monitor, mouse e tastiera di volta in volta ad ogni pc) configuratelo a vostro piacimento e il gioco è fatto, ora avete un supercomputer in grado di fare invidia alla NASA, potrete reindirizzare a velocità stratosferiche e craccare le password più difficili, e voi naturalmente lo userete per chattare su facebook, e la chat continuerà ancora a non funzionare perchè è un problema di FB e non del pc... Facciamoci i conti in tasca: 30+(30*6)+(25*6)+(47*6)+(30*6)+(12*10)+(60*12)+(20*6)+18+8+50=1858€. E avete almeno il doppio della potenza con un risparmio di circa 6000€ di spesa. In pratica voi siete tutti coglioni che state spendendo un fottio di soldi per avere il disegnino di una mela smangiucchiata... Ora ricomincio ad averlo duro, vi saluto e vado a masturbarmi... Stefano Garbagnati



C Lo potevo fare anch’io! L DIAMOCI UN TAGLIO

In era vittoriana non solo si nascondevano pudicamente le gambe di sedie e tavoli o si cercava disperatamente Jack lo Squartatore. No. All’ombra della bacchettona regina Vittoria vi era anche il meraviglioso trend del feticcio mortuario, ovvero il gioiello da lutto. Quando l’amato moriva, la vedova ancora trafitta dal dolore (reale o fittizio a seconda dei casi) faceva tagliare e intrecciare una ciocca di capelli del defunto e la custodiva all’interno di astucci e gioielli delle più svariate forme. Il capello diventava tangibilità del ricordo, caricandosi di significati religiosi e affettivi, nonché puro oggetto di decoro dalle complesse e raffinate intrecciature. Sorge spontanea la domanda: perché i capelli? Forse perché sono i meno disgustosi da estrarre e appendere al decolletè, a differenza di vomitevoli dita, unghie e denti del giudizio. Parere personale e semplicistico ma in realtà se la chioma più o meno folta è l’unica peluria del nostro corpo che ci piace esporre in pubblico, un motivo ci sarà: vanità. Quando le ragazze ricordano con le lacrime agli occhi il momento in cui da piccole le tagliavano i capelli stile soldato Jane, non è forse la vanità la sfera che sentono maggiormente ferita? E’ su questi aspetti che lavora l’artista islandese Hrafnhildur Arnardottir, nome simile ad un codice fiscale spesso sostituito dal più agile nickname Shoplifter. Anche lei da piccola passò sotto le forbici di una madre spietata, tuttavia la cosa che più la sconvolse non fu il conseguente effetto lesbico sulla sua testa, bensì il fatto che i capelli tagliati fossero ignobilmente buttati nella spazzatura. Inoltre, caso vuole che la giovane Arnadottir, lavorando in un negozio d’antiquariato freak, s’imbattesse in un gioiello da lutto con un fiore formato da ciuffi di capelli. Da quel momento la reazione a catena fu inevitabile e le infinite possibilità degli intrecci di chiome non mollarono più la sua testa – in tutti i sensi - fino a diventare oggetto/soggetto del suo lavoro artistico. Le sue opere vanno ben oltre il gioiello funebre e addirittura oltre i generi, spaziando dall’arte visiva alla performance, passeggiando nella moda fino a capitare sulle cover dei cd (per intenderci: l’album Medulla di Bjork). I capelli intrecciati diventano posticci scultorei, forme barbare e primordiali che si fondono e proseguono la chioma originale su cui si adagiano. Un’esaltazione bizzarra dell’archetipo tanto bistrattato del proprio compiacimento fisico: “I capelli giocano un ruolo importante nella nostra vanità – afferma la Arnadottir - e per me la vanità è un buon modo per esprimere te stesso. Abbellire te stesso. Io sto combattendo per il riconoscimento della vanità come qualcosa di positivo. Long live vanity!”. Adorabile proposito, no? Contatti, foto e info le trovate sul sito www.shoplifter.us ma fossi in voi darei prima una bella occhiata alle immagini della sua casa e della sua famiglia: www.theselby.com/2_16_09_ Shoplifter.

Ludovico


garage filosofico

ovvero Lettere a un giovane poeta di R. M. Rilke

Citazione da sapere per essere colti: “Guardi dentro di sé. Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere; verifichi se esso protenda le radici nel punto più profondo del suo cuore; confessi a se stesso: morirebbe, se le fosse negato di scrivere? Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta, e se sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice ‘io devo’ questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità. La sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di questa urgenza”.

Quando desideriamo una cosa con intensità si dice che la desideriamo ardentemente, perché è proprio come se una grande fiamma bruciasse dentro di noi, almeno fino a quando non arriviamo ad appagare la nostra brama. Ma da dove nasce questo desiderio? Può essere un’aspirazione momentanea e fugace, un richiamo latente a cui decidiamo di rispondere una volta per tutte oppure il frutto di una più profonda passione. Per quanto riguarda Rilke, egli si riferisce a quest’ultimo caso. Il poeta scrive infatti non di una scelta più o meno radicata in profondità, ma più che altro del prendere consapevolezza di un modo di essere che già ci appartiene e che si manifesta a noi come un imperativo a cui non possiamo fare altro che obbedire. Potremmo dire in altre parole che Rilke descrive lo stato d’animo della vocazione. Ma non si deve fraintendere, vocazione non è un termine che concerne solo la chiamata di Dio a cui risponde un futuro prete! Ognuno di noi può essere coinvolto in una simile “chiamata”, anche se non si sa bene da dove provenga, potrebbe anche essere solo il frutto di una inconscia decisione. Una vocazione infatti è anche quella di Alex, protagonista di Flashdance di Adrian Lyne, che per la danza dimostra di essere in grado di fare qualunque cosa, oppure quella di Hannibal Lecter, vero e proprio artista del cannibalismo. L’unica differenza tra noi, bene o male uomini comuni, e loro è che da un lato le nostre vocazioni non comportano la necessità di diventare serial killer (o almeno c’è da augurarselo) e dall’altro il fatto che, pur avendo una vocazione forte e con essa una notevole tenacia, l’happy end non è garantito. Ma, soprattutto, è poi veramente detto che ognuno di noi abbia una propria vocazione? Esiste veramente quell’aspetto in cui ci riconosciamo completamente e a cui saremmo capaci di dedicare interamente la nostra vita? Sì e no. In una realtà sociale come la nostra, fortemente frammentata e ricca di continui impulsi e possibilità, è difficile dedicarsi ad una cosa sola. A ognuno di noi sembrano dischiudersi infinite vie che possono essere intraprese, che vanno dallo sport che possiamo volere (o non volere) praticare, dalla scelta della scuola o dell’università da frequentare, passando per la musica, la moda, l’arte, … Oggi è tutto un bel melange di tutto, e noi, soprattutto noi giovani, non vogliamo mollare niente, assolutamente. L’unica cosa forse è sperare che nella confusione generale ci capiti quella botta di culo che ci permetta di realizzarci in un campo che soddisfi le nostre aspettative e che, chissà, forse potremmo trasformare nella nostra vocazione.

Fo Elettrica


Nei numeri precedenti Marcolino, dopo averla cercata per le strade del mondo, fuggiva in auto con Amalia, salvandola dalla grinfie di malefici papponi…

le

cronache

C

di

aro Marco,

Marcolino

siamo arrivati alla fine di questa storia. Iniziata nella bassa padana, passando per una Berlino che non necessita di perdizione, poi una festa con ricca gente. Arrivi tu e mi salvi. La fuga attraverso deserti di colore ecru. Ed infine eccoci qui, in uno sterile ospedale. Io cucita al letto, un abominio che si prende malattie veneree. Siamo alle battute finali di un mostro dai seni di plastica, sbattuto come fetta di prosciutto su un piatto. E sto per morire. Tu hai reso tutto un poco più bello. Tu che sei vanitoso, egoista, la persona più piena d’odio che io conosca. C’eri sempre con me, mentre bianca dal terrore aspettavo le analisi del sangue. Tu che non hai mai smesso di essere un rompicoglioni e rompendomi le palle, che da transessuale il quale sono possiedo ancora, mi hai reso una persona migliore. Perché è proprio in quei momenti che io mi sono scoperta umana, non solo corpo, ma gambe, braccia, respiro, dialogo. Tu che mi vedi, non con passione, ma con il filo del pensiero razionale teso non tre metri sopra il cielo, ma su un terrazzo decorato dalla semplicità. Come a Barcellona, un granchio a sette euro, la polpa color perla valeva più di mille avventure in oscure foreste. Hai rinunciato a raccontare di noi con precisi dettagli e a queste pagine colorate hai lasciato l’umile compito di evocare al lettore quel grande mistero sempre disatteso dalla tua scrittura: la strada verso l’Altro. Oggi, mentre tu cerchi per me legni pregiati, il mio corpo perde la sua energia. Morire c’è d’aspettarselo se vivi appesa a nudi corpi di sconosciuti. Ma non ho paura, perchè ormai tra le non forme sguazzo a meraviglia. Non esisto più, sono sempre io e pure quello che intorno sfioro. Mi vedo dentro e sorrido. Io che fui viva finalmente mi spengo di luce. Grazie a te. Ma ringraziarti non ha senso. Proviamo schifo per le frasi banali perché portano a svilire il loro essere contenitori del vero, che abbiam scoperto facendo faticose salite, a volte girando in tondo su noi stessi, passando per Lisbona e in albe bollite in fiori d’arancio. Lo so che stai pensando a quanto sono stronza a raccontarti della mia ritrovata pace, mentre tu mi osservi spenta e fredda sopra un lettino. Ma è questo il punto essenziale tra me e te: non aver mai nascosto nulla, l’aver vissuto di sincerità. L’amore non esiste. Abbiamo avuto di meglio noi, proprio perché c’eravamo solo noi. Io il tuo Raimondo che legge la gazzetta. Tu la mia Sandra che sbuffa e si agita sotto il piumone… Questo leggevo su un foglio di carta, mentre Amalia veniva portata in obitorio. Lei morta. Marcolino pure. www.lecronachedimarcolino.wordpress.com


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