Luzer!#7

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www.luzer.it Index of #(00)7 --------3- Idle of the month 4- Retro-spektiva 5- Pro-spektiva 6- Movie playlist 8- 10 dischi in 10 righe 9- Luzer! Tube 10- Zoom on: Marydolls 12- Patty Music Cunsultant 14- Regalo di Natale 16- Clubbing corner Ep.7 17- Hits in the Box 18- Morte al fescion 21- Meteore 22- Lo potevo fare anch’io 24- Pazienza 25- Garage filosofico 26- Le cronache di Marcolino

LUZER! è reperibile presso: Brescia random: Pride bar, Arte in te, Fabbrica di cacao, Boteguita, Frisco, Viselli’s, Bazaar wear, Kandinski records, Kosmo (vintage), Lio bar, Boys loft, Magic bus, Stilemio, Ivan bar, Oslo, la bicicletta, il telegrafo, Latteria Molloy, le tits, bar da Franco, Nave di Harlock, Minoia store, Franci e Marco, atenei universitari & many more… Morya (Cellatica), 24 e Lili Marlene (Cunnettone di Salò), Maybe (Travagliato), Romano (Villachiara), Barbel, Forbice shop, Pacorock cafè, La crisalide (Orzinuovi), Bazaar wear, Coffee’n’television (Bergamo), certi negozi, certi clubs, certi atenei (a seconda delle nostre gite…Milano)

LUZER! (free press) Direttore responsabile: Elia Zupelli (direttore@luzer.it) Hanno scritto e collaborato: Michele Boselli, Enrico Ludovico Decca, Phil Delcorso, Maria Emelianova, Valentina Gandossi, Stefano Garbagnati, Marco Guagni, Alessandra Martinelli, Francesca Martinelli, Giovanni Mensi, Sami Nakari, Marco Stizioli, Alessandra Troncana, Gianluca Umiliacchi, Patty Valsecchi, Elia Zupelli Stampato presso: C.L.U.B. copisteria, via S. Faustino 35/G, Brescia Grafica e impaginazione: Stefano Garbagnati (garba2@inwind.it) Webdesigner: Ludovico Per contatti, opinioni e collaborazioni : redazione@luzer.it Account facebook: luzer rezul


idle of the month

Un piccolo spazio per ripercorrere le vicende, lo spirito, il messaggio, ( i miracoli?) di personaggi degni di essere chimat idoli.

MARCO MENGONI, atto d’amore In gergo giornalistico le “notizie” sono due: Marco Mengoni ha vinto X-Factor e un contratto discografico da 300000 euro con Sony; Marco Mengoni, a Febbraio, sarà sul palco dell’Ariston nella categoria “big”. Fine. Per me, Marco Mengoni, è un idolo per altri 1492 motivi e adesso cercherò di spiegarne qualcuno. Inizio. Sin dalle prime puntate del Talent-show, Marco, 21enne di Roncigliano, ci aveva fatto innamorare con l’insolito (e ahimè raro, da queste parti) mix di tecnica vocale e pathos interpretativo. Con un percorso musicale che più vario e arzigogolato non si poteva, Marco è approdato ad una finale fin troppo scontata, e come da pronostico ha vinto. Anzi, stravinto. Io, che X-Factor non me lo perdo neanche quelle volte che nevica rosso, non potevo astenermi dall’esprimere pubblicamente tutta la mia ammirazione: si ha davvero a che fare con un fuoriclasse di livello assoluto, e se solo una piccola parte delle aspettative riposte in lui durante questi mesi sarannno confermate, ci aspettano un pacco di brividi. L’eccellenza tecnica è da subito parsa il mezzo e non il fine della sua

comunicazione, costruita intorno a uno sguardo che buca lo schermo, tradisce grande sensibilità, e lascia intuire un complesso mondo interiore. Se penso che poi ha 20 anni, rido. Perché proprio quelle qualità interpretative e passionali si acquisiscono (pochi eletti) col tempo, coi kilometri di palcoscenico, con la maturità artistica e umana: in questo senso Mengoni prima ancora che eccezionale è l’eccezione. Ha messo d’accordo pubblico, critica e stampa di settore. Sa fare il pop, sa fare l’hard rock, sa fare Bowie e la canzone d’autore italiana, è a suo agio con i groove “neri”. Per ora abbiamo sentito un inedito mediocre, impreziosito solo dalla sua voce e performato “heavy-emotion”: un esperimento transeunte, più utile ai fini del format televisivo che alla sua carriera. Ad ogni modo, un episodio di riscaldamento, nel complesso non nocivo. La questione rimane aperta ed è piuttosto evidente: dove potrà arrivare il buon Mengoni con un singolo più potente, un album di livello ben scritto e ben prodotto, un tour importante…? La risposta si può tranquillamente glissare. Senza rischiare di essere scortesi. Elia Z. 3


retro-spektiva

Quello che ci incatenava era lo schermo, e solo lo schermo -Sull’amicizia tra François Truffaut e J. L. Godard-

1959. Festival di Cannes. François Truffaut vince il premio per la miglior regia per Les 400 coups. Teorizzato per anni dai “giovani turchi” sulle pagine dei Cahiers du cinéma, il nuovo cinema fran- cese diventa realtà e, anche grazie al riconoscimento a Cannes, ottiene una visibilità internazionale. Jean Luc Godard ricorda così la vittoria dell’amico : “(Ero) felice come Athos per un successo di D’Artagnan. (…) Quelli erano i bei tempi. E la gloria futura non aveva ancora tramato il lutto della felicità”1. I due giovani registi, infatti, non potevano ancora immaginare quanto la loro idea di cinema fosse in realtà così distante. Godard rivela sin dal suo esordio uno spiccato spirito innovatore e provocatorio che si traduce in un lavoro di riconsiderazione della funzione del mezzo cinematografico e delle sue possibilità. À bout de souffle (1960) stravolge gran parte delle regole cinematografiche dell’epoca: il “cinema dei papà” è ormai un lontano ricordo. L’improvvisazione dei dialoghi, le inquadrature “storte”, il montaggio volutamente frammentato: la rottura col linguaggio cinematografico tradizionale è evidente in ogni singola inquadratura. La “rivoluzione” di Truffaut si gioca invece su tutt’altro piano: è silenziosa, delicata, romantica. Truffaut pone l’accento sul contenuto, sulla storia e sui personaggi, meno sulla tecnica. Dai protagonisti di Jules et Jim, passando per il Louis di La mia droga si chiama Julie, fino al Bernard de L’ultimo metrò, i suoi personaggi vivono di emozioni e da queste ne vengono travolti. Ambasciatori di un romanticismo disperato, essi vivono fino in fondo le loro passioni incuranti delle conseguenze che ne derivano. Da questo eccesso di emotività nasce il dramma delle sue storie, parte essenziale del suo cinema, come lui stesso ha affermato2 . È possibile che la diversa visione del cinema abbia contribuito alla fine dell’amicizia tra i due padri della Nouvelle Vague? Difficile dare una risposta, come conferma lo stesso Godard : “Perchè ho litigato con François? Niente a che vedere con Genet o Fassbinder. Altra cosa. Rimasta senza nome, per fortuna. Stupida. Rimasta”3. D’altro canto, se è vero che, come ha sempre sostenuto lo stesso Truffaut4 , c’è un forte legame tra la “visione cinematografica” di un autore e le sue esperienze di vita, allora appare fuor di dubbio che i due registi avessero una concezione diversa della vita, prima ancora che del cinema. Ed è possibile che tale diversità abbia contribuito alla fine della loro amicizia: una riappacificazione non c’è mai stata se non tardiva, il giorno della scomparsa prematura di Truffaut. In quell’occasione Godard ricorda la loro vecchia amicizia, con parole piene di malinconia che di seguito riporto: “Quel che ci teneva legati come i denti alle labbra, quando compravamo i nostri sigari da poco prezzo uscendo in Place Pigalle dal “Bikini” o dall’”Artistic”, e da un film di Edgar Ulmer o di Jacques DanielNorman, prima di andare a rubare i soldi alla mia madrina per pagare le proiezioni del giorno dopo, quello che ci incatenava, più forte del bacio finto di Notorius, era lo schermo, e solo lo schermo (…). Il cinema ci aveva insegnato la vita. La vita si è presa la sua rivincita come Glenn Ford nel film di Fritz Lang. (...) Il nostro dolore parlava, parlava e parlava, ma la nostra sofferenza è rimasta del cinema, cioè muta. François è morto, forse. E io, forse, sono vivo. Ma non c’è poi differenza, non è vero?”. Michele Boselli 1 Dalla prefazione all’epistolario scritto dagli amici di Truffaut in occasione della sua morte. 2 “(…) c’è anche un elemento di melodramma nei miei film. Solo che al contrario di voi che dite ‘È ‘comodo’, si può dire: ‘È coraggioso’, perché c’è in giro una paura spaventosa del melodramma”. F. Truffaut 3 Dalla prefazione all’epistolario scritta dagli amici di Truffaut in occasione della sua morte 4 Al riguardo si veda l’intervista rilasciata da Truffaut a Apostrophes del 13 aprile 1984, poco prima di morire, in cui afferma che il cinema di Hitchcock va analizzato considerando gli aspetti biografici del regista inglese e, in particolare, la vita isolata dal resto del mondo. 4


A Serious Man: -la “sindrome Cohen”-

Nessun dubbio sul fatto che i Cohen, nel bene e nel male, inducano sempre alla riflessione: anche quando una riflessione non c’é. A Serious Man si aggancia alle loro ultime due pellicole (Non è un paese per vecchi e Burn after Reading) per formare “un caso”: quella che definirei (dopo tre film di questo genere) “la sindrome Cohen”. Dove con “sindrome” intendo fare riferimento al significato originario di συνδρομή: “concorso di cose”. Quali sono le cause che “concorrono” nel provocare “il caso Cohen”? Nel provocare cioè l’accentuazione di una caratteristica che i due fratelli avevano già lasciato intravedere in altri film, ma che mai come ora s’era sviluppata e trasformata in “patologia”; una patologia che deve fare i conti con la domanda: qual è il senso dell’insieme? Quale significato presiede il film? Alla base di questi quesiti sta un fatto: i Cohen sono tra i registi più talentuosi ed intriganti degli ultimi vent’anni. Il dispiacere è doppio quando un (potenziale) “Grande” decide di cavalcare il proprio “essere in potenza” o, peggio ancora, si siede sugli allori di un tempo (avevo accennato alla cosa in Luzer!#6, a proposito di Tarantino). Come definire i Cohen dopo questi ultimi tre film? Dalle mie parti si usa un’espressione particolarmente efficace (com’è spesso nel dialetto): “Bei-es-ciao”. Tradotto: “Belli, e basta”. Ma veniamo ai sintomi che “concorrono simultaneamente”. Le qualità che han fatto dei Cohen Bros quelli che sono (“Grandi Registi”) si sono tramutate in terribili sintomi di decadenza semantica: la loro tipica visione nichilistico-postmoderna delle cose, l’impossibilità di trovare una verità, il senso del grottesco e dell’onirico, del bizzarro, la ferma considerazione delle miserie umane (di uomini insignificanti – che “non ci sono”, come in The man who wasn’t there). Tutto questo ha sempre trovato in una messinscena glaciale, sopra le parti (caratteristica-regina del loro cinema) il giusto mezzo per rappresentare in modo efficace ed originale differenti micro-cosmi. Ma questa calcolata freddezza, questa disperata impossibilità del giudizio,

pro-spektiva

ultimamente, ha perso il suo significato; e come sempre succede, l’estetica prende il sopravvento. Un’estetica fine a se stessa che sfrutta l’incredibile abilità formale dei due fratelli per prendere il posto del senso, sgomitando a più non posso (si veda l’Antonioni di Professione: Reporter). Questa lieve (ma decisiva) virata nell’approccio al film trasforma le qualità in mine che agiscono simultaneamente nell’implosione semantica. Com’è in tante altre discipline artistiche: il mezzo si trasforma in fine. In A Serious Man, la satira di una comunità ebraica (raffinata, disperata, a tratti esilarante) non centra il bersaglio finale (il significato che deve sottendere il film) perdendosi in situazioni isolate, in personaggi disorientati: significati che vagano in cerca d’autore. La sensazione dello spettatore è di continua attesa per un qualcosa (lo svelamento del fine) che non arriva mai. Gli autori, nel frattempo, auto-compiaciuti, si rimirano allo specchio giocherellando con la forma. Ma si sa, la forma non informata dal progetto è come merce consumata e presto dimenticata: non porta con sé il proprio senso. E non resiste al tempo. Giovanni Mensi

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MOVIE PLAYLIST

Il nuovo capitolo della saga Twilight e la nuova pellicola del bizzarro Spike Jonze per Luzer!#7 The Twilight Saga: New Moon, di Chris Weitz (2009) Naturalmente per quanto riguarda l’aspetto più squisitamente cinematografico qui si deve tenere conto dei presupposti: lo sanno tutti, non si tratta di un film d’autore (e nessuno se lo aspetta). Detto questo, purtroppo, devo imbastire una qualche interpretazione (i fan mi perdoneranno). Si è costretti a fare i conti con un dato di fatto: ‘sto vampiro fa un sacco di soldi al botteghino. Il dato da registrare, ancora una volta, è la relativa facilità con cui si possono fare milioni al giorno d’oggi: davvero basta una storia d’amore ultra-riciclata (cambiando qualche carta in tavola rispetto ai classicissimi) per sbancare? Si, basta quella. Un primo “bello di turno” (moderno vampiro-sbiancato, con gli occhi arancio), un secondo “bello di turno” (mezzo licantropo palestrato) e la ragazza media che se li contende (una “normale” per esaltare al meglio l’immedesimazione in sala). Tutto qui? Inutile cercare risposte in analisi socio-culturali: a volte le cose son semplici come sembrano. Sì, certo, il tema della castità (la scrittrice è mormona): i due amanti non possono consumare perché lui, vampiro, vampirizzerebbe lei, umana. E allora il romanticismo più puro, l’amore al di là del sesso, il “saper resistere ed aspettare”, l’amare incondizionatamente: sono i giusti tasti per mandare in fibrillazione il pubblico femminile. Peccato che fuori dalla sala, poi, sia tutto il contrario. Come dire: si sogna bene, si razzola male. Nonostante tutto, temo sia meglio del libro. Astenersi maschiacci. Voto: ■□□□ Nel paese delle creature selvagge, di Spike Jonze (2009) Tratto dalla fiaba illustrata di Maurice Sendak, arriva finalmente nelle sale l’atteso ritorno di Spike Jonze, che narra le vicende del piccolo Max, bambino ribelle che scappa da casa per raggiungere un mondo “parallelo” abitato da bizzarre creature. Atteso ormai da tempo e caratterizzato da un budget di 80 milioni di euro, il film delude sotto molti punti di vista. Sarà per la mancata partecipazione del fedele sceneggiatore Charlie Kaufman, sarà per i problemi in fase di post-produzione (sono molte le scene girate ed escluse dalla versione definitiva), fatto sta che il regista realizza un’opera fredda e incompleta, che non coinvolge mai fino in fondo lo spettatore. Un esperimento certamente insolito e curioso, ma nel complesso poco riuscito, in cui si salvano solamente i bellissimi pupazzi (straordinarie le animazioni, ottenute solo in parte tramite tecnica digitale) e l’interessante colonna sonora, affidata a Karen O degli Yeah Yeah Yeahs. Voto: ■■□□ Giovanni Mensi Michele Boselli 6



10 DISCHI IN 10 RIGHE Julian Casablancas - Phrazes for the young: Echi synthpop (11th dimension), ballad intimiste (Glass), ruvidezze garage (Out of the blue): gli Strokes si sentono tutti lì dietro, ma il bel Julian guarda avanti verso frontiere moderatamente malinconiche. The Cribs - Ignore the ignorant: Che bello ritrovare i fratelli Jarman un po’ più maturi con sua maestà Johnny Marr (ex Smiths) alla sei corde. Indie revival per cuori nostalgici: Cheat on me, il pezzo migliore. Boys Noize - Power: Meno bordate che nel precedente Oi Oi Oi, farà comunque comodo ai dj di mezzo mondo. Meno, a chi non si lascia sedurre da bpm e loop saturi. Girls - Album: Ci siamo giunti dopo la bella Lust for life (non pensate all’Iguana...). Perchè? Dopo 12 pezzi di corsa felice sotto un sole dream-pop/shoegaze ricordiamo solo la suddetta. Fico il video. Patrick Wolf - The Bachelor: Album leggermente meno “complicato” dei precedenti in cui Hard Times, col suo tripudio di archi e pathos, spicca sovrana. Patrizio Lupo si conferma l’icona neo-glam del pop più raffinato d’Oltremanica.

Air - Love 2: Il duo francese si autoproduce un disco d’atmosfere eteree, ma anche struggenti. Tra cambi di ritmo e vibrazioni analogiche abbiamo anche il tempo per sognare un pò. Amici - Sfida: Loredana Errore ed Emma Marrone sono le future grandi interpreti della canzone italiana. Il resto è ok per una festa di compleanno al ricovero. Alice in Chains - Black gives way to blue: Non c’è emozione, non c’è dolore. Composizioni potenti, curate, potremmo persino non pensare al passato, ma di pelle d’oca neanche a parlarne. Teatro Degli Orrori - A sangue freddo: Evoluzione strumentale impeccabile. Peccato per Capovilla, poeta dannato, (non troppo) ispirato da Dio e dall’indifferenza del mondo. Julian Plenti - Julian Plenti is… skycraper: Paul Banks si spoglia dell’abito firmato Interpol, cambia nome, indossa occhiali nerd, dimentica le atmosfere wave. L’ex vestito continua a brillare come una luce lontana, ma Julian Plenti è un altro. Sa sorprendere. A.A. V.V.

THE GOSSIP Live @ PALASHARP(MILANO): I Gossip salgono sul palco. Caschetto arancione e vestito pseudo zebrato: eccola è lei, Beth Ditto; già la amo. Dopo due o tre canzoni di Music for Men Beth tira fuori dei mutandoni xxxxxxl di pizzo rosa, li indossa sul palco e poi se li ritoglie gettandoli sul pubblico. È talmente grande – in tutti i sensi – che basta lei per riempire il palco. Sputa sul pubblico, che esulta. Tutti vogliamo un pezzettino di quella donnona. Tra Long love distance e Listen up! sventola una bandiera contro l’omofobia e chiede chi è gay. Piuttosto di suonare brani dei loro primi lavori, la band preferisce riarrangiare, con un lunghissimo bridge, una hit di Tina Turner. Ultima canzone: Standing in the way of control con Beth in babydoll nera. 23 Novembre 2009 Esplode il delirio, si butta giù dal palco, inizia a correre. Anch’io corro e nella ressa mi avvicino abbastanza: è bassissima, tonda tonda e terrorizzata dal nostro calore. Axel Martilyn


Una selezione random di dischi e videoclip che a me (mi) piacciono... Buon divertimento!!!

THE PAINS OF BEING PURE AT HEART: “A teenager in love” Con un nome del genere è impossibile rimanere delusi. Gli ingredienti sono tutti nella riga qui sopra, basta aggiungerci una linea di chitarra à la Pastels, un cantato agrodolce, e il gioco è fatto. La canzone perfetta per innamorarsi o per amare di più la persona che già ami. Alzi la mano chi li direbbe New Yorkesi: post-shoegaze per giornate tiepide quindic’anni dopo i Jesus. HURTS: “Wonderful life” Per tutto Novembre ho avuto dei problemi enormi con questa canzone. Non esiste un libretto delle avvertenze, ma il rischio di loop compulsivo è dietro l’angolo. Tanta eleganza stilistica (il bianco-nero del video è qualcosa di sublime) e mai a scapito dell’emozione: il risultato suona come un synth-pop non citazionista a cassa svuotata. Da brivido e altamente pericoloso. FLAVIA FORTUNATO: “L’amore è” Cambiamo completamente registro, categoria “adorabili imbecillità”. Prima di darsi alla conduzione televisiva, Flavia Fortunato era una specie di Fiorella Mannoia fallita, capace però di interpretare brani leziosi come questo. Perfetto per una festicciola un po’ “frocia” a base di Sanguinella o altre bibite analcoliche. Lo stile del cantato è rivoluzionario e, ahimè, irripetuto. Ora la Fortunato si è ritirata a vita privata per crescere i figli e a noi ci manca un casino! PHOENIX: “1901” E’ un po’ un omaggio personale inserire nell’ultima playlist dell’anno, questo brano dei “mai-abbastanza-lodati-francesiPhoenix”. Dalla hit senza tempo If i ever feel better non hanno mai sbagliato un colpo, sempre in bilico tra catchy, sofistico e pista da ballo (in nome della classe sopraffina). Nemmeno col loro ultimo lavoro Wolfang Amadeus Phoenix si sono smentiti più di tanto: grande disco, grandissimo singolo. Paladino della (in)giustizia!

AA.VV. (BAND AID): “Do they know it’s christmas time?” Parafrasando: “Lo sapete che è Natale?”. Quasi, ci aggiungo io. Cosa chiedere di meglio dunque che gli auguri accorati della crema di crema (alla Bob Geldof) del pop ’80. Ci sono tutti o quasi: Sting, Boy George e George Michael, Bono e Le Bon, Midge Ure, Phil Collins e le (non dimenticate) Bananarama… scegliete voi, io mi accodo e vi abbraccio dopo di loro! Elia Z.

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Z om on: Da queste parti non hanno bisogno di grosse presentazioni: sono una delle realtà più consolidate (ed “esportate”) della scena rock bresciana. Il loro è un suono di chiara derivazione-Seattle, grezzo e ruvido quanto basta, ma con intuizioni più melodiche e aperture pop. Un suono coi piedi ben piantati al cemento, che non vive di grossi compromessi o flirt con le tendenze musicali del momento. In attesa del nuovo disco (“La Calma”), in prossima uscita, parliamo con loro per cogliere un po’ di sensazioni a riguardo e ricostruire i pezzi di mesi sgocciolati tra palchi e studio di registrazione… Ciao ragazzi, mettetevi pure comodi sulle pagine di Luzer!... Periodo di transizione a cavallo tra il tour “importante” di “Liquirizia Brain” e il nuovo, atteso seguito La Calma: cosa state facendo? Stiamo scrivendo gli ultimissimi pezzi, sembra roba da poco fare un disco… ma non lo è, soprattutto il secondo. A questo proposito, sul vostro sito si legge “Non agitiamoci. E’ solo un disco (…) non sappiamo molto di più”...ci soffiate qualche indiscrezione su tempi e “genesi”? Registreremo durante le vacanze di natale, siamo in ritardo, come al solito. Lo studio sarà bresciano ma ancora non abbiamo deciso quale, non dipende solo da noi. La produzione artistica sarà affidata, oltre a Paolo Damiano, ad un produttore di rilievo, italiano, ma anche qui… per ora non riesco a dirti di più, non per scortesia credimi ma perché molti tasselli devono ancora andare al loro posto. E’ lecito aspettarsi una virata rispetto al vostro caratteristico sound che profuma di Seattle e amplificatori a fuoco…? In che direzione vi state muovendo con la produzione? Sarebbe stupido cambiare. Quello che facciamo è nel nostro DNA e difficilmente riusciremmo ad essere “veri” dimenticandoci del nostro back ground. Sicuramente siamo cresciuti e come tutti siamo cambiati, nel bene e nel male. Credo sia più un percorso artistico che una questione di sound. Uno dei nostri caratteri distintivi a nostro parere è l’abbinare sonorità grezze e ruvide a melodie essenzialmente pop. Questo non si cambia. Non saremmo più noi. E non siamo in vendita. Come lavorate allo sviluppo di un nuovo brano…esistono delle priorità, in fase di scrittura, tra testo italiano e sonorità “americane”? Il nostro approccio è anomalo, forse troppo “da cantautore” per una band rock: partiamo da un’idea (voce e chitarra) per poi sviluppare in gruppo il pezzo. Senza un’idea però non lavoriamo, non siamo fatti per improvvisare. Per quanto riguarda il testo di solito lo scrivo man mano che l’idea prende forma. La difficoltà sta nel trovare il giusto equilibrio tra la buona sonorità delle parole e un testo “sensato”. Io non ci riesco mai. Però credo che qualcosa si debba dire, non basta che una parola “suoni bene”. Un passo indietro…tantissimi live, spesso su palchi importanti (“Heineken” su tutti, ndr) al fianco di artisti del calibro di Marlene Kuntz, Verdena, Alanis Morrisette: cosa portate dentro dell’esperienza “on stage”? La dimensione live è l’anima dei Marydolls, non potremmo vivere solo di sala prove. L’“Heineken” è stato importante per noi ma non è un traguardo. On the road s’impara moltissimo. Suonare con artisti importanti è una scuola. Capisci quali sono le cose che davvero contano. Noi siamo solo all’inizio, abbiamo molto da imparare.


Di Elia Z. Proprio la dimensione live sembra quella che più asseconda la vostra attitudine ruvida, “sudata”, dal grande impatto: come sarà il prossimo tour? Sarà lungo, il più lungo e il più sudato possibile.

“I dischi si vendono solo nei club o ai festival, dopo gli show” è una frase che si sente pronunciare spesso: come sta la discografia secondo voi e come lavorerete in ottica distribuzione col nuovo album? Il mondo è cambiato negli ultimi anni. E’ difficile vendere dischi nei negozi, ormai si scarica tutto. Giusto o sbagliato è così. Il nostro disco probabilmente sarà comunque distribuito ma non ci aspettiamo molto dalle vendite.

Nello scorso progetto, per videoclip (“Perso”, ndr), lavori fotografici, label (Mizar) vi siete affidati quasi interamente ad artisti bresciani…cosa ne pensate della tanto chiaccherata scena indipendente “nostrana”? In questo senso, intendete seguire la stessa strada anche per lo sviluppo e la promozione del nuovo disco? E’ molto viva. Non lo diciamo solo noi, si sente in giro per l’Italia questo discorso. Forse bisogna allargare questo primato anche a Bergamo e Milano, mettiamola così: siamo nel triangolo fortunato della scena indipendente italiana. Per quanto riguarda noi: ti dirò appena sarà stato deciso tutto.

Tra le varie band uscite dal circuito indipendente bresciano, quali vi affascinano di più? Ci sono parecchi progetti interessanti e validi che aleggiano nel sottobosco. Un gruppo su tutti, bresciano, che uscì parecchio tempo fa e che ascolto ancora spesso, davvero genuini e originali: I Bambini dell’Asilo.

Verso la conclusione con domanda di rito…in attesa del vostro “La Calma”, consigliateci qualche bel disco da mettere sotto l’albero… Il primo disco di Joseph Ratzinger. Sono ansioso di averlo…tra l’altro la Geffen (che lo distribuirà) fu fondata da un gay.

Thanks to Paolo, Michele, Lorenzo Credits www.marydolls.it

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tu o, jpatty music consultant vvvn vvi consiglia questi eventi :

eLIO BAR: - Ven 18/12 NOyse SILENZ APPALOOSA+JESUS ETC. - Gio 24/12 LITTLE TAVER & HIS CRAZY ALLIGATORS - Ven 25 /12 THE UNION FREEGO - Gio 31/12 ALL NIGHT LONG PARTY - Ven 08/01 JULES NOT JUDES - Ven 22/01 LES:PETITS:ENFANTZ:TERRIBLEZ - Ven 29/01 CHAOS PHYSIQUE eLATTERIA MOLLOY: - Ven 18/12 ROGGIU DE MUSSA PINA + Labourparty - Sab 19/12 THE RECORD’S + Lazy Dogs - Mer 23/12 JET SET ROGER & THE REINDEERS + Sapone&Ramarro - Sab 26/12 GIANMARCO MARTELLONI & ALBERTO BELGESTO + The Latecomers - Dom 27/12 THOC! (The House Of Caps) + Mr.Gaia - Gio 31/12 LAZY DOGS + SAPONE & RAMARRO eLATTE PIU’: - Ven 18/12 ZU (metal-jazz) (+ Aucan) A seguire si balla con Pilvio Dj Set - Sab 19/12 HI-DOS3ER (electro-rock) A seguire si balla con Joao e Pilvio Dj Set - Ven 25/12 FANTAZAMPA - Sab 26/12 TRES HOMBRES (ZZ Top tribute) A seguire si balla con Joao e Pilvio Dj Set - Gio 31/12 FESTA DI FINE ANNO - Ven 15/01 QUINTORIGO - Sab 23/01 PLAN DE FUGA (presentazione CD) A seguire si balla con Joao e Pilvio Dj Set - Sab 30 /01 RIVELARDES (presentazione CD) A seguire si balla con Joao e Pilvio Dj Set eLe tre TITS: - Dom 20/12 YELLOW MATTERS - Dom 27/12 ANNIE HALL eIL POP CLUB @RADIO ONDA D’URTO (CS MAGAZZINO 47 a Brescia, alle 21): - Mer 12/01 MIURA - Mer 10/02 IL PAN DEL DIAVOLO - Mer 10/03 GIANCARLO FRIGIERI eNAVE di HARLOCK: - mar 22/12 EX OTAGO + THE ORANGES + MORGAN dj set

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, , C è SHOCK nell aria e sulle facce della gente: IL ROCK è TORNATO NELLA BASSA!!! ROCK SHOCK

è il sabato agitato direttamente da Avalon, la terra delle nebbie perenni, è la musica che si riappropria dello spazio che le spetta, e calci in culo alla noia!!! Dalla collaborazione tra il poliedrico Franz deejay (resident di ogni pre e post serata), Patty Valsecchi (promoter, pr e presenza costante nelle situazioni live che contano sul territorio bresciano) e il Birrificio artigianale BABB di Manerbio (BS) - che, entusiasta della proposta, ha messo a disposizione il bel locale per organizzare un live set come Dio comanda - è nato ROCK SHOCK! Metti del rock come si deve, metti della birra artigianale come poche in giro, ottime cene e degustazioni a tema, un bel pizzico di arredamento vintage, gusto inglese e pacchi di stile italiano, voglia di fare tanto e parlare poco.. ed ecco la ricetta di ROCK SHOCK!!! Il connubio birra e rock’n’roll si perde nella notte dei tempi, ma stavolta è la qualità a farla da padrona, perché se le cose si fanno..da queste parti si fanno bene!!! Finalmente tornano nella bassa il rock e la voglia di proporlo a dovere…la realtà cittadina, una volta tanto, insegna: LA PASSIONE FA LA DIFFERENZA. Per fortuna nella città di Brescia non mancano situazioni dove non è il cassetto a

Inserzione promozionale farla da padrone, ma la voglia di proporre novità, qualità, sangue e rock’n’roll. Tutto questo mancava a sud..ed ecco che Franz, Vito, Patty, lo staff della Babb e tutti quelli che si danno da fare ogni volta, si sono inventati Rock Shock! Sul palco si alternano e si alterneranno realtà trasversali e variegate, tra le migliori del panorama sotterraneo italiano. Dai The Record’s ai Thoc!, passando per 4 Axid Butchers, Rien, Magic Crashed e tutti gli altri che verranno e sono venuti. Si spazia a 360 gradi, dal garage all’electroclash…tutto, purché genuino! Il risultato è una serata dove il clima rilassato di un bel locale vintage, il gusto della birra artigianale di qualità e le vibrazioni buone del rock più vario e sanguigno si fondono per offrire solo il meglio a quanti saranno abbastanza furbi da cogliere l’occasione al volo. Il primo ciclo di serate andrà gloriosamente a terminare Sab 19 Dicembre, in vista di una meritata pausa natalizia. Sarà un turno tutto grigio rosso, con due tra le realtà cremonesi più in vista: Acid Eaters, surf punk ai confini col power pop più acceso, da Soncino CR, e Strobo Monsters, combo tra i più chiacchierati negli ultimi tempi, reduci da palchi importanti come quello dei Magazzini Generali di Milano, sui quali il loro celeberrimo electro punk mascherato ha fatto scintille!!! Niente paura però, Rock Shock riprenderà a Gennaio, precisamente Sab 16, e tornerà a proporre le migliori situazioni della scena!!! Stay tuned, stay shocked!

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Z om on:

s a m X r o f L a i c Spe

Se il loro esordio targato 2007 era stato battezzatto come una delle sorprese più gradite a livello nazionale, il seguito “A Sangue Freddo” conferma la bontà dei solchi tracciati due anni fa. Potenti, cinici, visceralmente eruditi: il loro è un rock in bilico tra l’espressione cantautorale più raffinata e gli accessi di “rabbia” noise e post-punk: dove la parola “indipendente”, prima che un’etichetta di genere, è una condizione personale, umana; dove proprio la Parola e la rappresentazione (il teatro…) rivestono un ruolo vitale e scomodano temi di spessore, senza temere lo “scontro” con le bordate degli ampli: altrock moderno (nel ricordo). Di recente in transito al Korto Circuito di Rovato - dove han fatto tremare le gambe, sudare le magliette e vibrare gli animi dei presenti – PierPaolo Capovilla e compagni ci regalano questa bella chiaccherata in cui sbricioliamo un po’ tutti questi spunti: dal nuovo disco, al loro modo di fare e vivere il rock oggi, passando per “quello che ci sta intorno”. Ciao ragazzi, benvenuti sulle pagine pastellate di Luzer!...com’è stato tornare in studio a due anni di distanza da un esordio così “rimbombante” come “Dell’Impero delle Tenebre”? Ppaolo_ Una faticaccia immane. Un vero purgatorio. Ma ne valeva la pena, abbiamo fatto un bel disco e ne andiamo orgogliosi. Sicuramente Giulio, che non è solo il bassista del gruppo, ma anche il produttore artistico, ha svolto un ruolo molto importante, nella composizione, nella performazione, le riprese, i mixaggi, la masterizzazione. Ha fatto un lavoro immane. Basta leggere la tracklist di A Sangue Freddo per cogliere alcuni spunti che ritornano ossessivamente nel vostro lavoro: il teatro e la teatralità (“Majakovskij”), il senso sociale (“Il terzo mondo”), Dio (“Padre Nostro”)…come convivono questi aspetti nelle vostre liriche? Ppaolo_ Quando scrivo una canzone ci metto il cuore, il cervello, e tutta la poca cultura che possiedo. Metto in scena la vita, la mia e la vostra, senza finzioni. Punto dritto al cuore. L’amore invece è un sentimento che esplicitate meno, ma che è presente quasi ovunque, come uno spiraglio di luce che buca il nichilsmo… Ppaolo_ Sono d’accordo. Uno spiraglio di luce e di speranza in un mondo di bugiardi e figli di puttana. Artaud, Majakovskij, Carmelo Bene, il cantautorato italiano: cosa significa per voi “applicare” il teatro alla canzone d’impegno? Ppaolo_ Per me fare musica e scrivere canzoni è un fatto politico. La gente ascolta le nostre canzoni, si emoziona e riflette. Il teatro per me non è rappresentazione: è la vita stessa. Il palcoscenico diventa così, paradossalmente, più vero del vero. Pierpaolo spesso parla di “qualità”: esiste un rock alto e un rock basso? Ppaolo_ Mi sembra evidente. Non vorrai dirmi che Vasco Rossi faccia rock di qualità? O che i Finley abbiano qualcosa da dire? Plastica inquinante.


IL TEATRO DEGLI ORRORI

Di Elia Z.

Tornando al disco…com’è nata la collaborazione - impensabile sulla carta, sorprendente negli esiti con i Bloody Beetroots (“Direzioni Diverse”, ndr)? Ppaolo_ Bob Rifo è un antico amico di Giulio. L’idea è stata sua. L’abbiamo presa come una piccola sfida: introdurre un po’ di tensione poetica nella techno. Una cosa mai sentita prima. Ricordo un’incendiaria performance con gli O.D.M. al defunto “Freemuzik”di Brescia qualche anno fa…un lustro dopo al Kortocircuito di Rovato: in cosa si è evoluta la vostra attitudine sul palco rispetto al precedente progetto? Ppaolo_ Beh... Adesso siamo in quattro. Liberarmi dello strumento (il basso, con One Dimensional Man) mi ha finalmente dato la possibilità di teatralizzare lo spettacolo. Era da una vita che volevo farlo, ed eccomi qui. Chi se la passa peggio (o meglio) tra società e discografia…? Che tipo di legame esiste secondo voi tra queste due dimensioni? Ppaolo_ La musica, tutta, quella buona e quella cattiva, contribuisce alla formazione dell’immaginario collettivo. Con la musica, e con la poesia, possiamo cambiare il mondo, e riconquistare un po’ di dignità. Concludendo…cosa vi piace ascoltare durante il tour o in bigie giornate come queste? Ppaolo_ Parlo per me: io ascolto di tutto, sono un vero onnivoro, e passo senza difficoltà da Prince a Pino Daniele ai Fugazi....

Thanks to Pierpaolo Capovilla, Francesco Valente, Giulio Bavero, Gionata Mirai Credits: www.ilteatrodegliorrori.com

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Clubbing corner ep.7 IL FANATICO DEL BALLO

Come luogo di aggregazione, la sala da ballo offre tre tipologie dell’urban jungle: i ballerini del week-end, quelli che pensano alla disco solo come ad un’occasione di svago con gli amici; il clubber esperto che macina chilometri per seguire i suoi paladini della consolle e poi il vero fanatico del ballo: non il reduce di un’adolescenza passata davanti alle vhs di John Travolta, bensì un critico certosino, presunto tuttologo delle tendenze musicali. Li noterete subito: in disco se ne stanno in disparte, a bordo pista con le braccia conserte e con l’occhio...pardon l’orecchio vigile rivolto al dj di turno (sottoposto ovviamente ad analisi). Il vero fanatico c’è sempre e ovunque: in tutti i locali, alle inaugurazioni che contano, nei club da lui puntualmente dipinti come “bella mmmerda”. Difficile trovarlo contento: “a Brescia non ci sarà mai il vero indierock”...“voi la 16

di Phil Delcorso

minimal non sapete neanche cos’è”. Sempre sotto braccio l’alibi dei party eclatanti o presunti tali di Milano, a cui raramente partecipano davvero. Ovviamente fanno parte di questa crew tutti i dj (ammetto di soffrire di questa sindrome, almeno un paio di volte al mese), ma per loro la frustrazione è comprensibile. Il fanatico sa di avere dalla sua il potere della tuttologia che però lo blocca e non gli permette di raggiungere il nirvana come il resto della popolazione discotecara: assolutamente low profile! Spesso l’ossessione per la critica è mascherata dalla smania di primeggiare sulla massa o distaccarsi da questa. La musica diviene quindi un accessorio fondamentale per distinguersi... per elevare se stessi. La sensazione è che questo tipo di pubblico sia più affamato di definizioni che di musica. Il fanatico difficilmente si lascia scappare nuovi neologismi d’oltremanica divulgati dalle riviste specializzate (spesso in nulla, culture, pathos) che ne sfornano uno al mese. E’ un vero coolhunter che sa intravedere, cogliere l’onda, sentirla come sua, farsene ambasciatore e disfarsene dopo più o meno due anni. Il fanatico del ballo ha sempre un momento di cedimento ed è qui che arriva la sua redenzione: portatelo a forza in una balera di quarta categoria (la tattica seduttiva e la sbornia lo convinceranno) e violantatelo con pezzi indelebili di Lady Gaga, Rihanna, Bob Sinclair, Javi Mula. Lo ritroverete in centropista a fare gare di ballo a danno del compianto Jacko, richieste sconvolgenti al dj di turno e per 3 ore lo vedrete ballare, cantare e soprattutto sudare. Più loser di sempre... ma contento.


Hits in the box

Sb i r c i a m o n e l l e v aligie dei djs/selector che ogni fine settimana ci fanno muovere le c hiappe DJ PILVIO from Latte Più [indie rock-new wave]

FRANZ deejay from Rock Shock [electro-dancy rock]

GOSSIP: Dimestore diamond EDITORS: Papillon BLOC PARTY: Ares (villains rmx) KASABIAN: Where did all the love go? COLDER: To the music CRYSTAL FIGHTERS: Xtatic PHOENIX: 1901 MANDO DIAO: Dance whit somebody WHITEY: Wart it up FAD GADGET: Lady shave

ESG: Dance DATAROCK: Fa-fa-fa DEN HAAN: Metamorphosis BECK: Mixed bizness !!!: Yadnus ATOMIZER: Midival pundiz (in flagranti rmx) PADDED CELL: Faces of the forest STREETLIFE DJS: Gun crime FREELAND: Under control (alex metric rmx) ALIEN SEX FIEND: Now i’m feeling zombiefied

DEEJAY DAVE from Razzputin/Club lingerie/Nec ente [nu electro/crossover/big bass] DEADMAU 5: Mr g. MALENTE: Bangkok (freeform 5 rmx) SOUND OF STEREO: Velcro DA MOGOLOIDS: Spark da meth (bangin like a benzi mix) HUORATRON: Corporate occult RITON/SEIJI: Computer juice (tai & dim rmx) OU EST LE SWIMMING POOL: Dance the way i feel ( armand van helden club mix) DISCO OF DOOM: Spawn again DJ GANT MAN: Juke dat girl (nadasrom rmx) CIREZ D.: Horizons

PHIL DELCORSO from Nave di Harlock [electro-techno-pop]

GENTLEMEN DRIVERS: National 66 VITALIC: Still ROYKSOPP: This must be it (Florian Meindl rmx) ETIENNE JAUMET: For salling asleep (Christian Vance rmx) DJ HELL & CHRISTIAN PROMMER: Freak it (Spencer Parker rmx) ELLEN ALLIEN: Lover/you are RIZ MC: Radar DIGITALISM: Taken away (Popular Damage contest rmx) PAUL BHN: Strange chronicles PEACHES: Lose you (dj Hell rmx) SIDE EFX freelance [dubstep/acid/techno/milkshake] DON DIABLO: Hooligans (a1 bassline remix) FAKE BLOOD: The Dozens EROL ALKAN & BOYS NOIZE: Deathuite/Waves LAIDBACK LUKE & ATRACK:Shake It Down D.I.M.: Is You THE SUBS: From Dusk Till Dawn (Zodiac Cartel rmx) FUKKK OFF: The Bottom OXIA: Domino TIGA: Sunglasses At Night GREGOR TRESHER: Neon





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mLe meteorem

Da La morte di Ivan Il’ič alla morte cerebrale. Come annichilire il proprio intelletto alla fiera del tarocco: panegirico di “Forum” E’ un’uggiosa giornata d’autunno: verso in uno stato febbricitante, alla vana ricerca di Morfeo. Gli occhi tumidi si volgono alla finestra, nell’auspicio che flebili raggi di sole riescano a diradare la coltre caliginosa del cielo. Attraversata da lembi di allucinazioni, la mente obnubila il più pedestre ragionamento intellettuale. Impossibile sfogliare le pagine di Tolstoj con la dovuta concentrazione; impugno il telecomando. Mi sono sempre sottratta alla tivù del meriggio, densa di programmi deprecabili fruiti da massaie attempate, bramose di evadere dalle incombenze quotidiane. Pochi istanti di zapping e mi ritrovo sintonizzata sulle reti del Biscione. Approdo a “Forum”. Il meccanismo della trasmissione è noto: dissapori condominiali, vestiti rovinati in tintoria, rose sradicate dal cane del vicino e alterchi di ogni genere approdano in un tribunale, interamente ricostruito in studio, per piccoli processi di ordinaria amministrazione. “Forum” è un programma taroccato, nel senso che le storie giudiziarie che racconta sono vere solo in parte. Di solito, i contenziosi vengono ampiamente riscritti, enfatizzati; sovente interpretati da attori presi dalla strada (dal cortile, dal bazar, da tutti i luoghi di acuminata conflittualità domestica).

Non si tratta di falsi eclatanti, ma nemmeno di verità. Due sono separati ma vanno lo stesso in tivù, davanti al giudice in pensione Santi Licheri, per rinfacciarsi una squallida storia di sms. La moglie apre a insaputa del consorte un messaggio sul telefonino e scopre che una dolce fanciulla invia al fedifrago frasi appassionate: «Ti voglio toccare, voglio fare l’ amore con te». Lei schiaccia il tasto di risposta e fa sapere alla rivale quanto segue: «Brutta vacca schifosa ecc.». Il vecchio magistrato, simulando sordità, si fa ripetere più volte gli indecenti improperi, recitando la sua parte in commedia. A questo criterio di sedicente autenticità risponde soprattutto il pubblico in studio, costituito dai miserrimi stereotipi della società contemporanea: la zitella inacidita, l’austero pater familias, la vecchia bigotta, la napoletana “anema e core”, il clandestino dalla pelle ambrata, il gay, l’esponente dell’upper class e il truculento paninaro avulso ai congiuntivi. Con una dialettica che intimidirebbe lo stesso Socrate, si confrontano (leggete insultano) in modo sguaiato riguardo le cause dibattute, perfetti interpreti di un canovaccio stilato da perversi sceneggiatori. Ad alimentare il dibattito Fabrizio Bracconeri, l’indimenticato “Carletto” della III C, eletto a tutore delle unioni coniugali, e Marco Senise - di cui, ahinoi, sfuggono i trascorsi televisivi -, calato nelle vesti del libertino, patrocinatore di un disincantato cinismo nei confronti dei rapporti di coppia. Infine la padrona di casa, Rita dalla Chiesa, ossia la sedicente coscienza critica di questo asfittico microcosmo, incline alle più svariate annotazioni sociologiche (“La gente si separa per colpa degli sms”; “Gli uomini d’oggi sono alieni alle responsabilità”), e abbastanza matura per intuire il tipo di tivù che fa; non è il nostro giudizio che dovrebbe preoccuparla ma la sua angoscia di esserci. Assistendo a questa patinata sceneggiata avverti l’impellente bisogno di fuggire, cambiare canale. Ma ti fermi perché vuoi vedere dove riescono ad arrivare. Ti ripeti che non è possibile, che uno non può andare in televisione a raccontare certe cose, che sono tutte panzane. Eppure, ti fermi perché ti affascina sapere che non c’ è mai un limite, che anche il più bravo degli equilibristi non può camminare in eterno su un filo d’ acciaio steso sopra una voragine. Alessandra Troncana

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C Lo potevo fare anch’io! L Invito a pisciare fuori dal vaso

In questo periodo medito sul nido degli uccelli. Ne ammiro la geniale struttura grafica e funzionale, ma questo ha poca importanza. La cosa interessante è che il nido ha ricondotto la mia mente più contorta di un capello crespo senza balsamo verso il Nest magazine. Non cercatelo nelle edicole perchè è fallito, come tutte le cose meravigliose. L’idea fondante della rivista era quella di pubblicare solo interni e architetture vissute veramente, con qualche dito di polvere sulle mensole, fili scoperti, trashate religiose. Non si pensi alla banalità delle case etno-chic, qui si parla di storie eccentriche, molto eccentriche, ma che trasudano una personalità. Forse Nest mi ha fatto capire cosa non tollero della situazione sistema arte attuale: il prevalere del contenitore sul contenuto. La rivista era splendida perchè non imponeva una linea, non reinterpretava e non disinfettava le sue storie, te le spiattellava con crudeltà ed evidenza sul muso. Permetteva di affondare il faccione nel bello come nelle gare a chi mangia più torte alla panna in due minuti. Di rimanerne anche traumatizzato o colpito, perchè no. Vogliamo parlare del sistema museale, delle gallerie e degli “eventoni”? Fighissimi edifici firmati dai soliti quattro archi-star, pareti ospedaliere, etichette minuscole con bollini “acquistato”, gente brutta e ignorante camuffata da radical? Non ce la faccio, schiumo dal naso se vedo ancora un’installazione di Cattelan nel solito angolo bianco perpendicolare, con l’impiegata di turno che si dà un tono nel suo cappotto pied-de-poule dopo aver confermato su facebook la partecipazione al “vernissage del Maurizio (per gli amici)”. Vernissage un emerito tubo, esposizione figa un benedetto corno, biennale di mia nonna in carriola! Forse non abbiamo capito che appendere ad una parete un quadro o un televisore al plasma con un video, confinarli come cavalli di razza nel loro recinto di due metri quadrati, è un po’ come svuotarli di senso. E soprattutto avere l’intenzione di raggiungere questi luoghi, per sentirsi intelligenti, non ha logica. Per dio! Certe cose meravigliose le trovi anche inserite tra la Padania e la Settimana Enigmistica. Da grande estimatore della video art vorrei trovarmi il dvd di un videomaker nel fustino del Dixan, accanto alla palettina dosatrice. Vorrei andare dal fornaio e beccarmi l’installazione di un geniale artista indo-pakistano tra le baguette e le michette. Gradirei sedermi in un locale e trovarmi inconsapevolmente immerso nell’ultima performance dell’artista marocchina che per mantenersi deve pulire il culo ai vostri figli. Per carità, ognuno è libero di fingere il proprio interesse ad Art Basel, alla Biennale di Venezia e all’Art Fair ma non mi coinvolga, sto scaricando della roba molto più interessante da emule. Ludovico

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pazienza: nessuno, uno, uno dei tanti

Il fumetto è un mezzo di comunicazione di massa tanto significativo quanto bistrattato in Italia. E allora? Allora ci si domanda come un autore, un artista, un fumettista, un illustratore, un narratore possa avere la prerogativa di essere nessuno, uno, uno dei tanti. Ecco, Andrea Pazienza potrebbe indossare queste vesti di nessuno, uno, uno dei tanti, come prolifico autore e non solo; per undici anni, dal ‘77 al ‘88 (anno della morte), è stato un artista ricercato, osannato, celebrato ma, anche, discusso, rifiutato dall’universo fumettistico italiano. Che si trattasse di un ‘genio’ lo potrà dire solo il tempo, di certo, era un grande fumettista con il dono di una strabiliante abilità grafica. Così, per meriti acquisiti si trovò da ‘nessuno’ immerso tra i compagni, in ‘uno’ unico con una lucida opportunità di rivelarsi attraverso le pagine di pubblicazioni degli anni ‘70, come: Cannibale, Alter Alter, Il Male, Frigidaire e altre. Fu un realizzatore di storie, quante storie, e che fossero vicine, vicinissime alla realtà, oppure parti immaginari non ha alcun rilievo, mentre i personaggi proposti -i suoi vari alter ego, l’autore stesso o qualche possibile amico/nemico-, esistevano con il loro mondo, il loro agire nella fatica quotidiana del vivere o semplicemente sopravvivere. Storie asociali, anticonformiste e amorali, immagini che pesano come macigni sulle tavole di Pazienza, storie meditate e ragionate per essere raccontate, espressioni di momenti che mettono a nudo la memoria assopita. Con il risveglio della memoria, per mezzo dell’artista e delle sue rappresentazioni, il pubblico assoggettato dalla forza massmediale vive il condizionamento della mitizzazione, ancor più manifesta dalla “uscita di scena” dello stesso autore. Enormi ragnatele mediatiche alle quali si rimane consciamente avviluppati, per poi finire di scoprire Pazienza come ‘uno dei tanti’. Egli stesso scriveva, tra le altre cose, nella postilla a ‘Gli ultimi giorni di Pompeo’: “Cari Voi che mi avete seguito sin qui. Cosi’ finisce l’ultima puntata di Pompeo e, presumo, anche un lungo capitolo della mia vita. In questi anni ho scoperto diverse cosucce. Intanto di non essere un genio. [...] Invece no, sono un fesso qualsiasi.”; uno dei tanti. Gianluca Umiliacchi

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garage filosofico ovvero DAVANTI ALLA LEGGE di F. Kafka Citazione per essere colti: “dopo anni di attesa davanti alla porta della legge l’uomo di campagna poco prima di morire fa un’ultima domanda al guardiano: «Tutti si sforzano di arrivare alla legge,» dice l’uomo, «e come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?» Il guardiano si accorge che l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: «Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo»”. Siamo come travolti da alte onde di un mare in tempesta e non vediamo altro che il bianco di quella spuma che ci riempie la bocca nel momento in cui ci rendiamo conto che quando la nostra passività si erge a pilastro della nostra vita ne siamo automaticamente tagliati fuori: il protagonista non siamo più noi, ma la nostra paura e la formalità. L’uomo di campagna decide di aspettare un permesso per tutta la vita, si fa schiavo di un desiderio che da solo pensa di non poter realizzare. In questo modo – ci lascia implicitamente intendere Kafka – muore nella disperazione e nella delusione di sé. Ma quanto tutto questo è colpa dell’uomo? O meglio quanto dipende dall’ingenuità? Quanto dalla (in)consapevolezza? Anzitutto è evidente che a noi uomini risulta facile perdere il dominio sulla propria realtà affidandosi alle scorciatoie, che nella maggior parte dei casi si rinsaldano nel luogo comune: “Anche se non faccio niente prima o poi qualcosa cambierà”. Eppure credere che le cose non dipendano direttamente da noi non è solo un atto di ingenuità – questa sarebbe solo una giustificazione – ma anche e soprattutto una difesa dalla prestazione, una parola che dal sesso al lavoro passando per la vita sentimentale mette sempre alle strette, allontana e disarma. Il rischio legato al senso della prestazione è però duplice: l’eccesso o l’abbandono. Così da un lato c’è l’atto iperbolico, più adatto ad un dio che ad un uomo (dio giustiziere in Elephant di Gus Van Sant). Dall’altro una strada che conduce alla solitudine e all’anonimato (della propria umanità in Quarto potere di Orson Welles). In entrambi i casi un’identità che si nasconde, o nell’estremizzazione o nel silenzio. Ma dov’è questa identità? E come scoprire in tempo qual è la sua strada di rivelazione (non vorremo fare la fine dell’uomo di campagna o di Kane!)? In questo senso è illuminante un verso di Impressioni di settembre dei PFM: “Cosa sono adesso non lo so, sono un uomo, un uomo in cerca di se stesso”. Questo vuol dire che non importa non sapere qual è la via, non importa credere che ci saranno sempre mille domande, o che non ce ne saranno mai o mai abbastanza, non importa sentirsi a volte spaesati e soli nelle difficoltà della vita, ma quello che importa è cercare. Cercare una nuova opportunità di non rinunciare a se stessi proprio nella bellezza irripetibile di quel giorno che “come sempre sarà”. Fo Elettrica

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Nel numero precendente Marcolino, petulante mitomane, si avviò per le strade alla ricerca di una sua vicina di casa, brasiliana pluriaccessoriata...

Le cronache di marcolino@Berlin “Berlino è una città condannata per sempre a diventare e mai essere” Karl Scheffler, 1910

n venticello proveniente dalle lande dei Nibelunghi mi sussurra il suo nome: Amalia. Ultimo avvistamento: Berlino. Eccomi allora nell’infinito Unter den Linden. I solidi palazzi, il Duomo vestito di cenere, con le acque della Sprea che forgiano e mescolano le voci di questa città: prima nera, poi rossa, ora solo d’argento. Mi accompagna Michelle O., bardata nel suo soffice cappotto. Con la boccuccia aperta dallo stupore e a testa in su, passeggia nella rediviva e già nel futuro Postdamer Platz. Le luci schizofreniche del Sony Center ci fulminano l’iride, giri l’angolo e una chiesa di cristalli blu si drizza a forma di tubo verso il cielo. A lato un campanile mangiato dalle bombe. Sotto la torre di Alexander Platz un vecchietto di nome Grimm ci parla delle persecuzioni razziali, della DDR: disegna su quel dannato muro - pieno di charme ribelle per noi che camminiamo sempre dove vogliamo - il suo essere solo un work in progress, tutto mogio per aver creduto nell’istruzione gratuita che il regime gli dava. Lo interpelliamo su Amalia la massaggiatrice. Mi parla, Michelle O. traduce: “Perché non la definisci per quello che è? Un transessuale”. Berlino è così: non dissimula nulla. Come la cupola trasparente del Reichstag, i vetri svelano quello che accade negli uffici amministrativi. Un fabbricato marroncino brulica di cattivi odori: è imbottito di artisti che rendono onore alla loro professione. Per essere la regina delle sopravvissute, qui si vive bene. Vinta la trasgressione voyeustica, di cui noi (o solo io?) siamo affetti, si può gustare cibo vegano mentre un neonato gattona tra i tuoi piedi. E poi la notte. Io e Michelle O. saltelliamo pozzanghere, in un vialone dove le tubature sono rosa e camminano sopra i nostri corpi. Un ingresso affollato, gente non agghindata per divertirsi. Ci mettiamo in coda: è il Berghain. Non a torto il miglior club del mondo: in una ex centrale elettrica, tre piani, cemento armato a vista, design minimale, techno insopportabile. Gioventù sudaticcia, ormai lanciata verso paradisi lisergici. Giochicchiando con il mio filo di perle da teodem, vedo il seminterrato. Una vocina calda mi spinge a scendere. Scorgo un giovane bellissimo. E’ biondo, alto e gli sorriso. Mi getta un due di picche, rendendo palesi i limiti che mi precludono di essere un dio. Ma l’oscuro scalone non è ancora finito. Sono curioso dei rumori, di certe vampate, ma decido che tutto questo può aspettare. Ora Amalia è più importante. Vado a riprendere Michelle O., danzante con la sua camicia finto Moschino. Il giorno seguente siamo in fondo al Ku’damm, lo stradone del lusso. Intorno solo folla spalmata sull’asfalto: si dirige verso la porta di Brandeburgo. Noto Amalia e la inseguo. Si gira e mi immobilizzo. Mi scruta con i suoi occhi da cerbiatto, mentre entra nelle fratte annodate del Tiergarten… continua… www.lecronachedimarcolino.wordpress.com 26

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