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Il progetto locale auto-sostenibile

si può trovare in una concezione delle invarianti strutturali come “princìpi generativi” e al tempo stesso “regole che assicurano la tutela e la riproduzione delle componenti identitarie qualificative del patrimonio territoriale”, come si legge all’art. 5 della legge regionale toscana 65/2014 (Magnaghi 2016). In questa interpretazione le invarianti assumono la valenza non tanto di oggetti fisici quanto piuttosto di criteri virtuosi per la gestione delle trasformazioni, che sostanziano e incrementano la produzione di nuovo patrimonio territoriale12 . Ancora una volta un esempio può contribuire a comprendere meglio il ragionamento: se consideriamo il tema delle sistemazioni idraulico-agrarie prima citate come elemento di valore patrimoniale, possiamo ipotizzare che l’invariante strutturale non siano i manufatti (muri a secco e terrazzamenti) ma la prestazione multifunzionale da essi fornita (messa a coltura di suoli pendenti, controllo dell’erosione, regolazione delle acque superficiali, bellezza paesaggistica, miglioramento del prodotto agricolo)13. Prestazione che è possibile conseguire anche con sistemazioni realizzate con tecniche e materiali innovativi, purché compatibili con l’assetto paesaggistico. Il patrimonio territoriale, dunque, non è un “giacimento inerte di ‘cose’ eterogenee e slegate” [ma un] “sistema più o meno coerente e interconnesso di eredità storiche, culturali e naturali, tangibili e intangibili, di appartenenze e reti di relazioni che legano luoghi e formazioni sociali” (Gambino 2011, p. 140), esito di un processo di costruzione corale (Dematteis 1985; Becattini 2015). Conoscere e comprendere il patrimonio territoriale non è finalizzato quindi né a “a museificare né a copiare, ma ad acquisire per il progetto di trasformazione regole di sapienza ambientale” (Magnaghi 2000, p. 64). Il nesso tra invarianti strutturali e patrimonio, inteso – lo ripetiamo – come “insieme delle strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione uomo e ambiente”, è cruciale. Non tutte le strutture che compongono il territorio possono essere concettualizzate come invarianti per ovvie ragioni, prima fra tutte quella di una sostenibilità che deve essere non solo ambientale (gran parte delle strutture del paesaggio tradizionale hanno questa caratteristica) ma al contempo economica e sociale. La distinzione tra strutture e invarianti territoriali è dunque di fondamentale importanza14 per non incorrere nel rischio di

12 Un momento cruciale per la riflessione sulle invarianti strutturali nel contesto toscano è stato il ciclo di seminari svolto nell’ambito della convenzione di ricerca “Approfondimento in sede culturale e scientifica del Piano di Indirizzo Territoriale quale Piano Paesaggistico della Toscana, stipulata fra la Regione Toscana e la Facoltà di Architettura di Firenze nel 2010. Gli esiti dei lavori sono confluiti in Poli 2012. 13 In altre parole, le sistemazioni idraulico-agrarie possono essere considerate un esempio di “retro-innovazione” (Stuiver 2006). 14 Nel PPTR della Puglia viene operata una distinzione chiara ed efficace tra strutture e invarianti territoriali. Anche nell’articolato della legge toscana 65/2014, mentre nel Piano Paesaggistico regionale (che costituisce un combinato disposto con la legge), strutture e invarianti sono spesso impiegate come sinonimi.

istanze di “congelamento” del territorio o di sue porzioni (scenario talvolta involontariamente e tuttavia inevitabilmente evocato dallo stesso termine “invarianti”).

Il progetto locale auto-sostenibile La concezione del luogo come prodotto stratificato di processi di coevoluzione e la reinterpretazione dei suoi princìpi generatori come regole progettuali in grado di preservarne e riprodurne identità di lunga durata e funzionamenti virtuosi conducono a un progetto alternativo a quello promosso dall’urbanistica e dalla pianificazione convenzionali. Il progetto locale esposto da Magnaghi (Magnaghi 2000) muove in questa direzione e si configura come alternativa radicale al modello di sviluppo attuale e alle sue disfunzioni. All’origine dell’idea di sviluppo locale auto-sostenibile promossa da Magnaghi si situa un insieme di studi economici che hanno insistito sulla valorizzazione delle risorse e delle peculiarità dei luoghi come base per la produzione di modelli alternativi di sviluppo (Dag Hammarskjold Foundation 1975; Sachs 1981; Hettne 1996). Tali studi hanno iniziato a spostare l’attenzione da parametri puramente quantitativi di misurazione della ricchezza ad altri più complessi e inclusivi (per esempio l’attuale BES). Autoregolazione economica e ambientale dei sistemi territoriali, riattualizzazione del progetto implicito nel territorio stesso (Dematteis 1995), promozione di sistemi territoriali locali (Dematteis, Governa 2005) e di modelli di autogoverno entro i quali le comunità locali assumono un ruolo proattivo sono i pilastri teorici sui quali si fonda il progetto locale auto-sostenibile. Nella riflessione territorialista, l’empowerment degli abitanti-produttori di territorio viene considerata una delle precondizioni per il progetto locale, poiché permette di avviare la ricostituzione di quel rapporto di cura tra comunità insediate e territorio (Decandia 2004) reciso nei modelli insediativi contemporanei. A tal fine, dagli anni ’90 in poi, le esperienze di ricerca sviluppate dalla scuola territorialista si sono spesso intrecciate con l’elaborazione di strumenti urbanistici e di pianificazione a carattere fortemente partecipato (descritte fin da Magnaghi, Paloscia 1992), definendo un percorso di riflessione di cui è possibile approfondire la conoscenza soprattutto attraverso gli scritti di Giancarlo Paba (di cui ci limitiamo a citare Paba 1998 e Paba et al. 2009). Contemporaneamente, i percorsi di ricerca si sono intersecati con quelli della formazione universitaria, portata avanti soprattutto presso la cosiddetta “scuola di Empoli” (dove hanno avuto sede, fino al 2020, i due corsi di laurea in Pianificazione e progettazione della città, del territorio e del paesaggio dell’Università di Firenze, che oggi si tengono a Prato). Ricerca, azione e formazione hanno composto un circolo (non esente da passaggi problematici) all’interno del quale esplorare le possibilità di sperimentazione e messa in opera di un approccio che ha sempre visto anche nella produzione del conflitto un

momento maieutico e produttore di “territorialità attiva” (Dematteis, Governa 2005)15 . La dimensione dell’ascolto attivo, della progettazione partecipata, della promozione dell’autogoverno si serve di una pluralità di strumenti, tra cui la redazione di rappresentazioni di ruolo euristico, volte non solo a comprendere ma anche a rendere esplicitamente visibili caratteri patrimoniali, figure territoriali, regole invarianti (Carta 2011b; Lucchesi 2016; Zetti 2017)16. Si tratta di carte che si rifanno chiaramente a una lunga tradizione corografica (dalle tavole di Leonardo da Vinci, alle carte di Giovanni Inghirami o di Attilio Zuccagni Orlandini) della quale mirano a riprendere la pittoricità e l’espressività. Al contempo, esse mantengono uno statuto rigoroso quanto all’attendibilità topografica e geometrica, alla georeferenziazione e alla costruzione metodologica, e per queste ragioni sono impiegabili come strumenti di valore normativo all’interno di piani urbanistici e territoriali. Le carte della rappresentazione identitaria e statutaria esprimono il passaggio da una concezione di territorio come foglio bianco sul quale disporre nuove volumetrie e infrastrutture, a quella patrimoniale poiché “una nuova idea del territorio – che incorpori una nuova idea del rapporto coi luoghi – implica nuove rappresentazioni” (Gambino 2010, p. 73). Accanto a questa produzione georeferenziata, vanno ricordati altri due importanti filoni di ricerca e sperimentazione sviluppati in seno a questo approccio. Il primo è quello delle mappe di comunità, che prendono le mosse da esperienze come le parish map scozzesi (Clifford et al. 2006) e che in Italia sono state realizzate nell’ambito della costruzione di ecomusei e strumenti di pianificazione soprattutto in Piemonte, Puglia, Toscana. Esse promuovono le conoscenze e le competenze delle comunità locali nei processi di riconoscimento dei valori patrimoniali e nella loro riattivazione come dispositivi progettuali. Il secondo filone è quello delle norme figurate che affondano le radici in una tradizione illustre, quella dei “progetti guida” usati da De Carlo nel Piano per il centro storico di Palermo e quella dei “progetti norma” impiegati nel PRG di Siena da Bernardo Secchi. Le norme figurate poggiano sulla “naturale capacità persuasiva” dell’immagine (Valentini 2018, p. 32) per comunicare il contenuto regolativo del piano o del progetto (Gabellini 1996; Moroni, Lorini 2017).

15 Tra le riflessioni più recenti su questo tema si veda Baratti et. al 2020. 16 Negli anni ’90 si innesca, in Italia, un rinnovamento delle modalità di rappresentazione del territorio anche grazie ad alcune innovazioni legislative come: la legge urbanistica regionale della Liguria n. 36/1997 che predispone, tra i contenuti della pianificazione provinciale e comunale, la descrizione fondativa, intesa come intreccio tra conoscenze di tipo ambientale, storico-territoriale e socio-economico, finalizzata a divenire base comune e condivisa per la gestione delle trasformazioni; e la legge regionale toscana n. 5/95 (Norme per il governo del territorio) che individua nel quadro conoscitivo la base comune dei processi di piano e a esso attribuisce un ruolo già progettuale, come sede dell’identificazione di valori consolidati e collettivamente condivisi che verranno riconosciuti formalmente nello Statuto dei luoghi. Su questi avanzamenti si veda (Cinà 2000).