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Le radici storiche del concetto

• L’identificazione di sistemi produttivi locali come interfaccia economica della bioregione urbana. Occorrerebbe, per questo, lavorare allo sviluppo di una progettualità economica in senso ecologico (Viale 2011) che renda sostenibili gli obiettivi di chiusura dei cicli, riducendo le dipendenze dall’esterno, valorizzando le risorse locali, operando per la creazione di “distretti produttivi integrati” (Magnaghi 2014a, p. 123). La riduzione della dipendenza dall’esterno dovrebbe investire anche l’ambito dell’approvvigionamento delle risorse energetiche. • Una ricomposizione dei saperi inerenti all’urbanistica e alla pianificazione all’interno della più ampia sfera delle scienze del territorio, che sappiano identificare e illustrare i valori patrimoniali da porre alla base del progetto bioregionale. Il superamento di una compartimentazione scientifica rigida che non consente alle diverse discipline di dialogare e trovare campi d’intersezione rappresenta uno dei prerequisiti per lo sviluppo di progetti integrati. Un obiettivo sul quale, in linea teorica, è difficile non concordare. Tuttavia, nei fatti (e soprattutto nella prassi di piano), la ricerca di questi ambiti d’intersezione si scontra non di rado con l’articolazione delle competenze settoriali delle pubbliche amministrazioni e degli enti territoriali. Si tratta, dunque, di uno dei campi sui quali lo sforzo di sperimentazione, non solo scientifico, ma anche politico, deve concentrarsi.

Le radici storiche del concetto Nella letteratura scientifica contemporanea, il termine bioregione viene trattato all’interno di studi per lo più di provenienza statunitense, come quelli di Calthorpe e Fulton (Calthorpe, Fulton 2001) e di Robert Thayer:

a bioregion – scrive Thayer – is literally and etymologically a ‘life-place’ – a unique region definable by natural (rather than political) boundaries with a geographic, climatic, hydrological, and ecological character capable of supporting unique human and non human living communities. Bioregions can be variously defined by the geography of watersheds, similar plant and animal ecosystems, and related, identifiable landforms (e.g., particular mountain ranges, prairies, or coastal zones) and by the unique human cultures that grow from natural limits and potentials of the region. Most importantly, the bioregion is emerging as the most logical locus and scale for a sustainable, regenerative community to take root ad to take place (Thayer 2003, p. 3).

Andando a ritroso, sempre in ambito statunitense, è possibile individuare alcuni testi ascrivibili a esponenti del movimento ecologista degli anni ’60 e ’70, che trattano il tema della bioregione in una prospettiva a cavallo tra la riflessione scientifica e la militanza politica (Schilleci 2018). Tra questi, Peter Berg che (assieme a Judy Goldhaft) mutua da Allen Van Newkirk il termine “bioregione”, intesa come “nuova organizzazione sociale basata sui lineamenti […] dei bacini idrografici, versanti montani, areali di piante e animali nativi, zone

climatiche omogenee, continuità di suoli” (Berg 2016, p. 10). Negli anni ’80, ulteriori specificazioni del concetto provengono da Nancy Jack e John Todd (Todd J., Todd N.J. 1989), da Kirkpatrick Sale (Sale 1985), che definisce la bioregione una “regione governata dalla natura”, e da Murray Bookchin (Bookchin 1989), che si focalizza soprattutto sulla bioregione come ambito di autogoverno comunitario. Le radici teoriche più profonde dell’approccio bioregionalista urbano sviluppato in seno alla scuola territorialista sono tuttavia da individuare in due grandi campi di ricerca (Paba 2010; Saragosa 2005 e 2011; Paquot 2017; Fanfani, Perrone 2019): gli studi sulla dimensione regionale (e non solo) di Patrick Geddes; le ricerche e le sperimentazioni progettuali della Regional Planning Association of America (RPAA) fondata da Clarence Stein nel 1923, con particolare riferimento al regionalismo di Lewis Mumford e, sul piano della definizione del pattern spaziale, alle visualizzazioni policentriche della “regional city” (nella quale le aree naturali definiscono la matrice strutturante il sistema insediativo). Il punto di partenza di questa “fertilizzazione” è un’idea di co-evoluzione tra uomo e ambiente che trova alla scala regionale la sua espressione più compiuta. Infatti, l’assunto che la struttura regionale, con il suo portato di caratteristiche in primis fisiografiche (geomorfologia, clima, flora, fauna), sia in grado di produrre “relazioni consapevoli dell’uomo con la terra” (Mumford 1999, p. 303) sta alla base dell’interpretazione di co-evoluzione di Mumford: prendendo le mosse (come Geddes, peraltro) dalla comprensione dei meccanismi biologici, Mumford osserva che “se esistono dimore favorevoli, e forme associative favorevoli, per animali e piante, come vien dimostrato dall’ecologia, perché non dovrebbero esisterne per gli uomini? Se ogni ambiente naturale specifico ha il suo equilibrio, non esiste forse un suo equivalente nella cultura? Organismi, loro funzioni, loro ambienti: uomini, loro occupazioni, posti di lavoro e luoghi di vita, costituiscono complessi sociali in relazione reciproca e pienamente definibili” (ibidem, p. 301). Circa vent’anni prima, Patrick Geddes aveva definito le sue “città in evoluzione” come organismi complessi profondamente condizionati dall’ambiente naturale, in una messa in tensione costante e continua di natura e cultura. La città, secondo un approccio che potremmo definire oggi proto-ecologico6, è “un essere vivente, in costante rapporto col suo ambiente, e con i vantaggi e le limitazioni che esso comporta”, scrive Geddes nel

6 “Ognuno lascia la terra in condizioni migliori di quelle in cui l’ha trovata e così contribuisce per la sua parte alla fortuna della nazione”, scrive Geddes (Geddes 1970, p. 344), precisando che quest’ultima è da intendersi come “luogo in cui vivere e come popolazione che vi risiede”. Geddes non si riferisce, quindi, a un arricchimento meramente economico – come quello auspicato dalle “utopie finanziarie” (ibidem, p. 345) della City londinese, che egli non esita a stigmatizzare come riduttive e illusorie – ma a un benessere diffuso, collettivo e di lungo periodo.

1915 (Geddes 1970, p. 251)7. La “reazione” che la componente antropica (urbana) produce rispetto alle sollecitazioni di quella naturale (l’ambiente) deve essere riorientata radicalmente in direzione dell’uscita dal mondo “paleotecnico” – produttore di “povertà primaria e di povertà secondaria” (ibidem, p. 94) – e dell’ingresso in quello “neotecnico”. In questo modo avverrà la transizione dal modello abitativo della “Cacotopia” a quello dell’“Eutopia”, “un luogo cioè di reale salute e benessere, perfino di trionfante bellezza” (ibidem, p. 93). Il progetto della nuova era neotecnica si fonda su un modello economico opposto a quello corrente, conserva le risorse naturali invece di dissiparle, mira all’evoluzione esistenziale e sociale degli abitanti anziché al loro decadimento e produce, di conseguenza, un ambiente di vita migliore. Dal concetto di co-evoluzione così formulato scaturisce l’idea che la regione sia connotata da uno stato di equilibrio dinamico che, lungi dal risultare intaccato dall’intervento di elementi esogeni, trae proprio dall’introduzione di nuove componenti (ivi compresa quella antropica) accrescimenti e maturazione del proprio capitale – originariamente – solo naturale8. Una delle immagini più archetipiche di questa idea di un territorio che si struttura a partire dalla tensione dialettica tra ambiente e comunità insediate è quella della sezione di valle di Patrick Geddes, in grado di esprimere il legame profondo e morfogenetico tra le tre componenti costitutive della regione (place, work, folk)9. Tramite il suo studio e la sua comprensione (ricordiamo che Geddes pone la sezione di valle come elemento di base della sua survey) è possibile cogliere quel portato di orientamenti di carattere progettuale in grado di valorizzare il sistema di risorse di cui è depositario il luogo. Per Geddes, dunque, non esiste una città-tipo del futuro dal punto di vista della sua articolazione morfologica e spaziale (come le “macchine per abitare” dei funzionalisti da un lato, e le città-giardino dei culturalisti dall’altro), bensì tante città quanti saranno i casi particolari (Choay 1965, p. 60). Geddes

7 La natura irriducibilmente evolutiva e organica della città di Geddes ha aperto la strada a un approccio alla pianificazione aperto e relazionale, sperimentato tra i primi da Jane Jacobs, e non privo di aspetti “paradossali”, secondo l’interpretazione data da Batty, Marshall 2017. 8 “La natura provvede i materiali. In astratto ed in concreto, l’uomo definisce la struttura”, scriverà Mumford a questo proposito (Mumford 1999, p. 315). 9 In questa concezione Geddes mostra un debito culturale molto forte nei confronti di Elisée Reclus, con il quale intesse rapporti di amicizia e di collaborazione intellettuale. Come ha osservato Federico Ferretti (Ferretti 2010), è possibile rintracciare molti degli elementi tipici dell’approccio di Reclus, espressi nella sua Histoire d’un ruisseau (1869), nella sezione di valle di Patrick Geddes: “fin dall’inizio la metafora del cammino della civiltà associato allo scorrere delle acque, poi, soprattutto, l’idea del bacino idrografico come prima ‘regione naturale’, ma allo stesso tempo storica ed etnica, sulla quale il geografo deve basarsi. Questa idea ha un valore strategico per la geografia dell’Ottocento. È infatti uno degli strumenti con i quali la disciplina geografica si rende indipendente dalla ragione di Stato rivendicando la libertà di decidere i confini delle regioni e delle aree da studiare, dunque di rappresentare un mondo diverso da quello che la situazione attuale dava. Notiamo anche che in questo scritto Geddes sembra condividere la critica per la cartografia bidimensionale come strumento di rappresentazione e insegnamento del mondo lanciata proprio dai geografi in questione, quando sostiene che la regione del geografo non ha nulla a che vedere con le ‘macchie colorate’ che si trovano sulle carte. Più importante di queste, per il geografo Geddes, è l’indagine della costante interazione esseri umani-ambiente” (Ferretti 2010, p. 192).

destinerà il grande progetto dell’Outlook Tower di Edimburgo alla dimostrazione di questo concetto con finalità pedagogiche: “gli insediamenti umani, dal piccolo al grande, sono inizialmente determinati dall’ambiente naturale; e anche se si espandono poi in villaggi e città sempre più grandi, conservano però profondamente, anche se oscuramente, gran parte del loro iniziale carattere regionale, sia nello spirito che li anima sia nel tipo di comunità che ne risulta” (Geddes 1970, p. 261). Lewis Mumford proseguirà anni dopo su questo filo di ragionamento affermando che la città sarà essa stessa “espressione di un’individualità regionale” (Mumford 1999, p. 315). Rifletterà nelle scelte localizzative, nell’articolazione dello spazio pubblico, nelle tipologie architettoniche, nei materiali da costruzione adottati, negli aspetti decorativi, quel complesso di opportunità che si trovano nel contesto regionale, e che il progetto reinterpreta come scelte intrinsecamente razionali. Le comunità, gli abitanti, vanno per questo istruiti alla comprensione di un processo (co-evolutivo) che non può che svolgersi su base cooperativa: “la regione, non meno della città, è un’opera d’arte collettiva” (scrive Mumford 1999, p. 315), la cui vicenda si snoda nel tempo lungo della storia, intesa non come passato bensì come dimensione temporale continua e permanentemente in divenire. Veniamo quindi a un ulteriore punto cruciale che riguarda l’eredità della tradizione dei regional studies anglo-americani nell’approccio bioregionalista urbano: la centralità di quella componente umana e sociale che Geddes riteneva imprescindibile per la “rinascita urbana” – sebbene sovente esclusa dai processi di pianificazione convenzionali, improntati da un tecnicismo “ingegneristico” – e che andava sostenuta, formata, incentivata. Lo sguardo sinottico (ma non riassuntivo né semplificatorio) del progetto geddesiano, che tiene insieme uno spettro multidisciplinare ampio comprendendo al suo interno anche le “scienze civiche”, è funzionale a ricavare la vera “epica della città” (Geddes 1970, p. 325), a rendere possibile quella “educazione allo sguardo” (Ferraro 1998) che può rifondare la “pianificazione urbanistica come disegno organico della città” (Geddes 1970, p. 330). La città è quindi sempre corpo fisico e corpo sociale, con specifiche peculiarità (relative a entrambe le dimensioni) che dipendono dalla personalità del luogo10 .

10 Dall’attivazione di questo nesso tra luogo come spazio fisico e luogo come entità sociale e culturale, discendono le soluzioni progettuali più efficaci e durevoli, come si può osservare dagli interventi di Geddes in India. Si pensi, ad esempio, al progetto del Garden Village a Indore, nato per ospitare lavoratori della nuova Cottontown, con la creazione di una spina centrale di giardini e orti a gestione condivisa, fertilizzati secondo il principio di “everything to the soil” (appartenente alla cultura tradizionale indiana), sui quali si innestano i lotti abitativi. O al recupero delle piscine sacre di Balrampur, considerate un pericolo in quanto potenziali focolai della malaria e per questo suscettibili di essere prosciugate. Geddes le rilegge, invece, come elemento multifunzionale storicamente presente nel tessuto urbano con finalità di regolazione del livello delle acque della rete idrografica della città, di irrigazione, di raffrescamento dell’aria. Propone, pertanto, una manutenzione attiva della piscina che include l’allevamento di anatre e pesci (che si cibano delle zanzare vettori dell’infezione) e che offre anche incentivi alla popolazione, quali l’uso dei fanghi per concimare gli orti e la possibilità di usufruire di parte