Un pranzo a settembre

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Irène Némirovsky

Un pranzo a settembre

Illustrazioni di

Traduzione di

Mara Cerri

Cinzia Bigliosi



T

hérèse Dallas si fermò un istante, scrutò il proprio volto riflesso nel piccolo specchio incastonato tra due vetrine, sospirò, si affrettò ad attraversare la strada. Quel mattino di settembre la calura era da piena estate; sotto il sole cocente il trucco si disfaceva lentamente sulla pelle stanca. Sulle guance, ancora ben disegnate ma gonfie, appesantite dall’avvicinarsi della quarantina, la cipria e il rossetto formavano una superficie liscia e cremosa come quella di una bella porcellana fine, mentre intorno agli occhi e alla bocca con gli angoli infossati in profondità, apparivano le prime screpolature. “Quarant’anni domani…” pensò Thérèse. Si affrettò. I passanti erano radi, settembre era iniziato. Gli alberi mostravano già le foglie rosate dell’autunno, ma il sole restava vivace, l’aria soffocante. Le fruttivendole spingevano i carretti lungo i marciapiedi e i fiori sciupati pendevano dai vasi stretti di metallo verde che li contenevano. Ciononostante si riconosceva l’autunno dall’abbondanza di uva moscata e pere già belle mature, con la pancia gialla che sfumava nel rosa. 9


Thérèse varcò l’ingresso del piccolo bar inglese dove i Dallas si recavano da molti anni. Una ragazza rossa di capelli scaricava da un furgoncino fermo davanti alla porta filoni di pane dorato. Sorrise e chiese: “Il signor Dallas non è con voi?”. “È partito questa mattina, May”, disse Thérèse. Entrò. La saletta buia era impregnata come sempre di un profumo delizioso, appena percettibile, di liquori fini e invecchiati. Una condensa bluastra appannava gli specchi come la polvere leggera sulla buccia scura delle prugne. Era un piccolo bar inglese frequentato solamente da stranieri, nordamericani e inglesi, uomini e donne perlopiù maturi d’età, che bevevano e mangiavano in silenzio e, ritrovandosi lì regolarmente due volte al giorno, si scambiavano appena brevi e muti cenni di saluto da lontano. Servivano uova fritte con pancetta, arrosti al sangue distesi all’inglese su un letto di tenere lenticchie e aringhe affumicate, dorate. Un tempo, vent’anni prima, quello era il luogo segreto dove si trovavano Thérèse e François Dallas da fidanzati. Ma Thérèse distoglieva il pensiero da quei giorni ormai perduti… I ricordi troppo teneri inacidiscono con gli anni, formando nell’anima una sorta di residuo dolciastro, come la feccia lasciata dai vini liquorosi sul fondo dei bicchieri. Adesso si incontravano lì una o due volte a settimana, alle sei: l’ufficio di François si trovava nella via accanto. Thérèse si compiacque di esserci andata quella mattina, 10



di aver in quel modo evitato il pranzo solitario nell’appartamento che d’estate veniva protetto da teli e che puzzava di insetticida. Si sentiva stanca in quelle ultime settimane, senza motivo. Il fresco, la solitudine del luogo la rilassavano. Guardò con tenerezza le immagini inglesi di cavalli e cacciatori che ricoprivano le pareti chiare. La tenda arancione era abbassata per metà e lasciava filtrare un fascio di raggi che sembravano sprigionarsi da terra, dal selciato incandescente, e che andavano a riflettersi in un grande specchio sopra al bancone, scintillando nell’ombra come uno scudo d’argento. La ragazza rossa di capelli si avvicinò a Thérèse. “Pranzate subito, signora?” “A mezzogiorno.” “Volete bere qualcosa nel frattempo?” “Un succo d’arancia”, disse Thérèse. La servì Doris, la madre di May – il bar era gestito da donne. “Signora Dallas”, disse sorridendo, “ieri sera è arrivato un nostro vecchio cliente che non vedevamo da una vita. Era vostro amico un tempo”, aggiunse dopo un momento di riflessione, “peccato che non ci sia il signor Dallas!”. “Di chi si tratta?” “Del signor Cazeneuve.” “Raymond Cazeneuve!” mormorò Thérèse sorpresa da un’improvvisa malinconia, confusa e profonda. “Oh mio Dio, quanto tempo!” 12


Restò sola. Avvolse con le mani calde il bicchiere ghiacciato. Raymond… Per un istante ne rivide il volto e immediatamente chinò il capo, iniziò a sistemare i pacchetti che aveva posato accanto a sé sulla panca insieme a un mazzo di asteracee dal cuore nero. All’improvviso si ricordò del cordino di seta che non sembrava sufficientemente largo; scartò l’involucro, tirò un’estremità del laccio, lo contemplò senza vederlo, facendo uno sforzo pensò ai tovaglioli da tè, belli ma così costosi… al sapone di Marsiglia non consegnato il giorno prima… “Le compere, i domestici, il denaro… la vita è ben noiosa. Dio mio, è incredibile fino a che punto una vita ‘tanto piena’ possa essere noiosa… Perché? Oh”, rispose tra sé e sé, “i fastidi, le malattie, le preoccupazioni, il denaro, soprattutto il denaro… e tutte queste cose… Ma continuare ancora? Ancora?…”. E, d’un tratto, si guardò intorno come per cercare nell’ombra l’immagine di Thérèse Dallas a vent’anni e di François, giovane… A quei tempi… Ricordò improvvisamente; ritrovò dentro di sé memorie dimenticate… A quei tempi il bar era frequentato da una vecchia indovina che indossava un abito di raso nero e un cappello con le piume… in una borsetta ricamata con giaietto lucido teneva un mazzo di carte annerite; di tarocchi come quelli, Thérèse non ne avrebbe mai più visti… A quei tempi un vecchio nero, che poi era morto o partito, sparito da anni, veniva la sera a suonare. Sedeva nell’angolo a destra… Aveva una faccia più scura che 13



nera, come il caffè diluito con l’acqua, i capelli leggermente lunghi, argentati e dei baffetti bianchi. Traeva da un banjo – “Era un banjo? Una chitarra?” – strani suoni lamentosi come un ronzio di vespa. Le pareva ancora di vederlo. Inclinava il capo di lato fischiettando mentre batteva il tempo con il piede stretto in scricchiolanti scarpe di vernice. Non era tranquillo come adesso il piccolo bar inglese. Erano gli anni Venti… gli anni del Dopoguerra… Le restava un ricordo tumultuoso, ardente e malinconico in fondo all’anima. Strano… rivedeva tutto, perfino gli ippocastani in fiore lungo il viale accanto, quando rientrava all’alba tra François e… Che strano… tutto, tranne il volto di François da giovane… Come una maschera, sui lineamenti di François a vent’anni, nella memoria si sovrapponeva la faccia di François invecchiato, del delizioso François che lei amava con tutto il cuore, ma… Sospirò. “Meglio la mia morte che una preoccupazione, una tristezza, un nemico per lui”, pensò con fervore, “la mia morte…”. Ma… la sua lombalgia, i mal di stomaco, i riposini dopo pranzo… meno di questo, un tic, una contrazione del labbro superiore, la voce stonata che cantava tutte le mattine in bagno lo stesso motivo… François, un tempo, con il giovane viso ardente rivolto verso di lei… Ah! Bah, era così… Tutte le mogli, tutti i matrimoni sono uguali. Anche se chiudeva gli occhi, se stringeva le palpebre, se cercava, alla fine ritrovare quel volto di François giovane non faceva 15


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