Poi prenderemo New York

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Traduzione

Ellen Strömberg
dallo svedese di Finlandia di Samanta K. Milton Knowles
POI PRENDEREMO NEW YORK

1. Una love story

Il parchetto giochi è uno dei progetti dimenticati del Comune. Ci sono solo due altalene, uno scivolo di legno pieno di schegge che ti si infilano nelle chiappe e un castello per arrampicarsi che in realtà è solo una staccionata verticale.

Nient’altro.

In terra c’è la sabbia e il parchetto prosegue diventando una spiaggia. Un po’ più in là c’è un porticciolo. Tra il parco giochi e la strada ci sono degli alberi, quindi chi passa non riesce a vederlo. È la prima volta che ci veniamo, quest’anno, e soffia un vento freddo. Malin è seduta su una delle altalene, con le maniche del maglione intorno alle mani a mo’ di guanti e il collo alto tirato su, come fosse un berretto. Non si può vedere. Il giubbotto di jeans però è carino.

“Manda, secondo me quest’anno non ci dovremmo andare, al falò”, dice quando l’altalena è nel punto più alto.

Io sono su quella piccola, quindi sto ferma: le catene mi segano le cosce.

Il falò di Pasqua è l’unico momento dell’anno in cui il parchetto viene usato da qualcuno oltre a me e Malin. Ci vengono tutti. La congregazione vende hot dog, sciroppo caldo e caffè. Le tazze del caffè e la carta degli hot dog si buttano nel falò. Tutti gli adulti se ne stanno lì in cerchio

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a fissare le fiamme come degli zombie. I bambini scorrazzano intorno al fuoco, e di tanto in tanto qualche zombie si risveglia e acchiappa un cappuccio o un braccio per evitare che qualcuno ci finisca dentro.

“E allora dove vuoi andare?” domando.

“In un posto dove succede qualcosa”, dice Malin. “In città, magari.”

“Ma in città non succede mica niente.”

“Di sicuro più che qui. Potremmo incontrare qualcuno che non conosciamo. Tipo… Ecco, ce l’ho! Quelli con cui esce tua sorella. Pugg e la sua banda. In fondo sono fichi.”

“Ma sei scema? Pugg? E poi con noi non ci parlerebbero mai.”

Pugg è un punkettone della zona che però è conosciuto in tutta la Finlandia perché canta in un gruppo punk che si chiama Scannasbarbine. È quasi sempre ubriaco. Solo quasi, però, perché il resto del tempo si droga.

Rompo il sottile strato di ghiaccio di un paio di pozzanghere sotto l’altalena.

Malin va talmente forte che fa oscillare tutta la struttura.

L’anno scorso abbiamo scelto con largo anticipo i vestiti per la sera del falò di Pasqua. Dopotutto è una specie di festa. Io ero abbastanza fica con i jeans e le sneakers, la felpa lunga grigia col cappuccio e il giubbotto rosso. Avevo perfino i grossi orecchini a cerchio di mia sorella.

Ma non è successo nulla. Abbiamo mangiato un hot dog e fissato il fuoco proprio come tutti gli altri. Conoscevamo tutti. A parte gli adulti e i bambini, c’eravamo solo noi e Oskar con il suo gruppetto, e loro ci hanno salutate a malapena.

“Oppure restiamo a casa e basta”, dice Malin.

“A casa?”

“Sì, però non lo diciamo a nessuno, così tutti penseranno che abbiamo in programma qualcosa di più bello.”

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“Facciamo le misteriose, quindi?”

Malin annuisce.

Che qualcuno ci trovi misteriose e si incuriosisca è il nostro sogno. “Chi sono quelle?” si chiederebbe, e poi forse comincerebbero a girare voci su di noi. La gente penserebbe che abbiamo fatto un sacco di cose.

Io e Malin ne abbiamo parlato tante volte. E ci abbiamo davvero provato, a scuola, a sembrare piene di segreti. Abbiamo attaccato cose criptiche in bacheca. Testi di canzoni e poesie. Ci siamo messe a parlare di persone inventate. Un giorno ci siamo pure fatte i succhiotti a vicenda.

Però non si incuriosisce mai nessuno. Una volta ho visto Oskar strappare il testo di una canzone che avevo messo in bacheca, accartocciarlo e infilarselo in tasca. Poi lui e i suoi amici hanno continuato a giocare a hockey nel corridoio con una scatolina di snus vuota. Ogni volta che si scontravano, gridavano “frocio di merda”.

La cosa più fastidiosa di Oskar e gli altri è che non capiscono che sono imbarazzanti. Frocio non è più un’offesa da tipo cent’anni.

Io e Malin abbiamo entrambe una spilletta arcobaleno: ce l’ha data una ragazza che una volta ha tenuto una conferenza a scuola. Si chiamava Ronja e aveva dei capelli fichissimi. E grandi occhiali con la montatura nera. Lei sì che era misteriosa e piena di segreti. Proprio come vorrei essere io.

“Ehilà?”

Malin scuote l’altalena su cui sono seduta. Ho smesso di ascoltarla da un bel po’.

“Eh?”

“Andiamo allo scivolo, sto morendo di freddo. Magari lì tira meno vento.”

Sotto lo scivolo c’è una specie di casetta con due panchine. Se ti siedi lì non ti vede nessuno. Oggi le panchine

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sono bagnate e sporche di sabbia, ma ci sediamo lo stesso.

Malin disegna per terra con un bastoncino.

“Vorrei tanto che succedesse qualcosa”, dice.

“Tipo cosa?” domando, cancellando con il piede quel che ha scritto.

Manda + Noia = amore

Noia è il nostro insegnante di classe. In realtà si chiama Noa, ma tutti lo chiamano Noia perché è la persona più noiosa della storia dell’umanità. Oskar e i suoi amici a volte lo chiamano Pornoa, anche se Noa è tutto fuorché porno. Non credo neanche sappia che cos’è, il porno.

“Vorrei una love story!” dice Malin.

“Una love story? E con chi?”

“Uno sconosciuto! Magari uno straniero.”

“Puoi avere una love story con Elian. Viene dal Kosovo.”

“Ma che cazzo dici, sei fuori di testa? Allora tu puoi avere una love story con questo bastoncino”, sbotta Malin lanciandomelo addosso.

Rido.

“In realtà non è un’idea malvagia”, dico poi. “Neanche a me dispiacerebbe una love story. Almeno avremmo qualcosa da fare.”

“Esatto!”

“Ma dove la troviamo una love story?”

Il vento soffia ancora dall’acqua ghiacciata, e mi cola il naso. Malin non risponde e corre fuori da sotto lo scivolo, fino alla spiaggia.

“Mi chiamo Maaalin”, grida.

Le corro dietro e le dico di chiudere il becco. Al porticciolo potrebbe esserci gente.

“E questa qui è Mandaaa!” continua.

“Zitta!” esclamo, ma poi scoppio a ridere.

Arriva una folata più fredda di tutte le altre messe insieme. Su un pontile poco più in là si vede qualcuno.

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“Maaalin”, grida di nuovo Malin, dritto nel vento.

“Mandaaa…” grido io, o più che altro lo dico, perché non ho il coraggio di gridare forte quanto lei.

“…vuole avere una love story con te!” strilla Malin ridendo.

Comincio a rincorrerla lungo la spiaggia. Lei ride così tanto che la prendo subito. La butto a terra, sporcandole il maglione e il giubbotto. Lei mi lancia in faccia un pugno di sabbia bagnata che mi finisce negli occhi, costringendomi a fermarmi.

“Così non va, cazzo, sto per morire congelata”, dice Malin alzandosi e scuotendosi la sabbia di dosso. “Andiamo al chiosco. Ieri papà mi ha mandato dei soldi. È partito. Di nuovo.”

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2. Street dance

Malin si è trasferita qui in quinta. Alla fine della quarta Pernilla, la maestra, ci aveva detto che sarebbe arrivata una nuova alunna. Avevo capito subito che sarebbe stato un punto di svolta, che mi avrebbe cambiato la vita. Ogni volta che in un libro o in un film arriva una bambina nuova in classe succede qualcosa di meraviglioso, e adesso toccava a me.

Fino ad allora avevo giocato soprattutto con Becka e Leila. Loro erano a posto, ma era quasi sempre molto Becka e Leila e poco io. In prima io e Oskar avevamo un club di spionaggio, ma poi abbiamo smesso per ovvi motivi. Gli ovvi motivi sono che Oskar è diventato un idiota.

Prima però ci divertivamo un sacco. Ce ne stavamo sotto le panche della mia sauna a scrivere codici segreti su bigliettini che poi lasciavamo in giro un po’ dappertutto. Al chiosco o accanto alla cassetta della posta di qualcuno. Non so bene cosa ci aspettavamo che sarebbe successo quando qualcuno li avesse trovati, ma era emozionante. A volte, quando faccio la sauna del venerdì, mi ricordo di essere seduta nel nostro vecchio quartier generale. Chissà se anche Oskar ogni tanto ripensa ai nostri codici segreti.

In realtà credo che Oskar non pensi proprio a niente, ormai. A parte allo snus e ai motorini.

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Per tutte le vacanze estive tra la quarta e la quinta sognai l’arrivo di Malin. Me lo immaginavo così: lei sarebbe entrata in classe e avremmo avuto lo stesso maglione o la stessa cartella o qualcosa del genere, e lei avrebbe capito subito. I nostri sguardi si sarebbero incrociati e ci saremmo sorrise. Poi lei mi avrebbe detto che nessuno l’aveva mai capita come la capivo io. E magari avremmo fatto un giuramento di sangue, per diventare sorelle. Anche se in realtà non avevo nessuna voglia di tagliarmi, mi faceva impressione.

Non so neanche perché fosse così importante per me. Non è che i miei compagni non mi piacessero, ma a volte mi sentivo come se facessero tutti parte di un club da cui io ero esclusa. Come se fossi rimasta sola nel club di spionaggio della sauna.

Una settimana prima dell’inizio della scuola cominciai a scegliere i vestiti. Alla fine optai per la maglietta con gli angeli e una salopette nuova che avevo comprato con mia madre. Quando Oskar la vide, scoppiò a ridere e mi chiese se avevo intenzione di fare lavori di falegnameria. Lui invece ha indossato praticamente solo pantaloni dell’Adidas dalla prima alla sesta. O perlomeno li ha addosso in tutte le foto di classe, mi pare. Voglio dire, saranno anche belli, ma che grande sfoggio di personalità. Ogni tanto si può anche cambiare.

Quando Malin entrò in classe non eravamo per niente vestite uguali. Lei aveva un vestito a righe che sembrava un po’ una camicia da notte.

“Hai la camicia da notte?” esclamò Oskar. Poi rise di nuovo.

Insomma, una cosa in comune ce l’avevamo: Oskar rideva dei nostri vestiti. Ovviamente questo Malin non lo sapeva, ma poi gliel’ho raccontato.

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“Zitto, Oskar”, disse Pernilla. Poi presentò Malin alla classe. “Anna-Malin Bernqvist, eccoti qua.”

“Mi chiamano tutti solo Malin”, disse Malin.

Non sembrava per niente agitata. Io avevo gli stessi compagni dall’asilo, ma me la facevo ancora sotto ogni volta che dovevo presentare qualcosa alla classe. Più avanti però Malin mi ha confessato che le veniva da vomitare, da quanto era agitata.

“Malin, bene bene. Cercheremo di ricordarcelo. E dove andavi a scuola prima?”

“Alla Korsgrundet.”

“Ah, alla Korsgrundet.”

Pernilla si guardò intorno.

“Be’, abbiamo riorganizzato la classe, quindi puoi sederti lì accanto a Fredrika.”

Fredrika aveva l’aria spaventata, come sempre. Quando parla le trema la voce come se fosse sul punto di scoppiare a piangere. Malin le fece un ampio sorriso e andò a grandi passi al proprio posto.

Durante la ricreazione, volevano parlare tutti con lei. Noi femmine le facevamo cerchio intorno, e Oskar e gli altri si sono messi a giocare a calcio così vicino che era impossibile non vederli ma abbastanza lontano da poter fingere indifferenza.

“Bel vestito”, disse una.

“Fregatene di cosa ha detto Oskar”, disse un’altra, “lui è tutto scemo, anche se crede di essere divertente.”

“Ma NON lo è”, gridò Leila in direzione di Oskar. Oskar calciò il pallone dritto contro di noi e Leila e Becka si misero a ridacchiare.

“Dove abitate?”

“Quando vi siete trasferiti?”

“È vero che l’insegnante di educazione fisica della Korsgrundet entra negli spogliatoi?”

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“Vuoi venire al mio compleanno? È tra un mese.”

“Vai a cavallo?”

Tutte volevano farle delle domande e Malin stava lì al centro a rispondere, come una principessa. Indossava una collana a medaglione con la foto di un cane.

“Uuuh, che carino!” disse Becka.

Sapevo che Leila e Becka avrebbero cercato di accalappiarla. In classe nostra non era mai arrivato nessuno di nuovo e probabilmente volevano sentirsi speciali.

“È dei miei nonni. Abitano qui anche loro, è per questo che ci siamo trasferiti”, disse Malin. “È un bichon frisé.”

“Ne abbiamo uno anche noi”, disse Fredrika con il labbro che le tremava.

Pensai arrabbiata allo stupido cane da caccia di mio padre, che non era per niente un bichon frisé. E se Malin e Fredrika fossero diventate amiche? Non era così che doveva andare. Nemmeno Fredrika aveva molti amici, però almeno lei aveva sua cugina Heidi-piccola in quarta. Anche Heidi-piccola era un po’ strana.

“Quanti eravate alla Korsgrundet?”

“Abbastanza. Più che qui.”

“Noi siamo solo centotrenta”, dissi io.

“Lì eravamo forse il doppio. Ci vanno anche quelli di Älvsidan.”

“Doveva essere meglio che qui”, dissi.

Era il mio momento!

“Forse”, disse Malin con un sorriso.

Furono le prime parole che ci scambiammo. Per il resto della ricreazione Malin parlò con Becka e Leila e noi rimanemmo più che altro ad ascoltare.

Ma già il giorno dopo il capannello intorno a Malin era svanito, non c’erano più nemmeno Becka e Leila. Solo io.

“Ti piace ballare?” domandai alla prima ricreazione.

“Solo alle serate disco”, rispose Malin.

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“Io faccio street dance tutti i lunedì”, dissi. “Della scuola ci sono solo io. Meglio così. È in città.”

Alla ricreazione successiva Malin chiese: “E cosa ballate?”.

“Boh, roba normale”, dissi, mostrandole qualche passo. Con discrezione, in modo che Oskar non mi vedesse. Malin cercò di starmi dietro. Se la cavò piuttosto bene.

“Non abbiamo ancora cominciato per quest’anno”, dissi. “Iniziamo tra una settimana.”

“Ah”, commentò Malin giocherellando con la collana del cane.

Poi dissi, veloce: “Puoi venire anche tu. Ci vado in bici”.

“Vai in bici fino in città?”

“Sì, ora me lo lasciano fare, credo. Di solito mi accompagna mamma in bicicletta, ma se ci fossi anche tu penso che mi lascerebbe andare da sola.”

“Chiedo a casa! Non ho mai fatto danza.”

Il lunedì successivo ci andammo insieme in bici. Avevo fatto quella strada almeno mille volte con mamma, quindi non ebbi problemi a orientarmi. E poi basta andare sempre dritto – se si fa la strada dritta, come abbiamo fatto noi.

Il nostro insegnante, Frasse, disse che Malin poteva fare una prova anche se non si era iscritta, perché Fatma, che stava accanto a me in sala, aveva smesso. Che fortuna.

Malin era brava a ballare, forse anche più di me. E avevamo gli stessi leggings.

Per tornare a casa prendemmo la strada più bella, quella che passa dal campeggio e dal ponte sospeso. Mostrai a Malin ogni cosa: tutte le stradine su cui si può solo andare in bici e non in macchina. Mentre eravamo sul ponte sospeso a sputare in acqua, Malin mi chiese: “Becka è innamorata di Oskar, vero?”.

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“Di sicuro”, dissi. “Proprio non capisco come faccia, è un tale idiota.”

“Forse bisogna essere altrettanto idioti”, disse Malin.

Lo disse così, alla leggera, come se non significasse niente, come uno scherzo. Ma significava tutto. Fu come una porta spalancata e io pensai che se non l’avessi oltrepassata subito magari si sarebbe chiusa per sempre. Feci un profondo respiro e le raccontai tutto del club di spionaggio e di Becka e Leila e di come tutti erano degli idioti che non capivano niente e che la danza era l’unica cosa che mi piaceva.

Malin capì.

Arrivammo a casa tardi, quando era già buio e freddo. Mamma mi aveva telefonato un sacco di volte e a casa mi disse che era la prima e ultima volta che andavamo da sole in città, se ci comportavamo in quel modo.

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