Odore di brodo

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ODORE DI BRODO

Cristina Brambilla Illustrazioni Arianna Bellucci

Al mio amico barracuda.

A Donatella e Alessandra che hanno permesso la realizzazione di questo libro.

A Francesca, primo anello di una catena fortunata.

A Michael che, molti anni fa, mi rivelò l’esistenza delle Streghe.

Ai vecchi amici che hanno letto, riletto e spesso corretto.

Ai nuovi amici di Terre di mezzo.

A tutti, grazie.

LA PUZZA TRADITRICE

Einverno nella città di Pietrino. La luce dei lampioni disegna sagome deformi lungo i muri delle case. Le ombre si allungano come fantasmi. Calano le prime tenebre. È l’ora degli spettri? No, è l’ora dell’odore di brodo. Questa puzza sale dalla cucina, striscia silenziosa lungo le pareti e, quando trova una vittima innocente, zac!, l’assale alle spalle lasciandole il naso appiccicoso e lo stomaco stomacato. L’odore di brodo, nei collegi e negli altri posti dove sono tenuti per caso o per forza tanti ragazzi, si scatena almeno sei sere alla settimana, tradotto in minestrina, pastina, semolino e brodino liscio con il crostino che, dovendo scegliere, è il peggiore di tutti. Allora, mentre nel crepuscolo sale implacabile l’odore di brodo, Pietrino scende dalla sua stanza nella sala da pranzo del più antico e conosciuto collegio per ragazzi della città.

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Ha appena imboccato il corridoio che la puzza traditrice gli tende un agguato. Pietrino fugge su per la rampa delle scale e in un attimo arriva all’ultimo piano del collegio, dove c’è solo una finestrella che dà sulla strada e una panca sgangherata.

Pietrino si siede, tutto mogio.

“Che tristezza”, si lamenta tra sé e sé, “che barba, tutte le sere la stessa storia”. L’umore gli si guasta sempre a quell’ora, forse per colpa di quell’odore nauseante. Forse perché, quando cala la sera, anche i ragazzi sono vittime delle paturnie. Quella di domenica è in assoluto la sera peggiore della settimana per Pietrino, visto che la maggior parte dei suoi amici esce con la famiglia, va al cinema e mangia la pizza. Soprattutto in questo periodo, in cui nel collegio ci sono sempre meno allievi: tornano a casa alla prima occasione e molti ci restano. Gli amici di Pietrino scompaiono da un giorno all’altro e nel collegio c’è una grande agitazione. Il direttore si sbraccia per i corridoi gridando: “È un disastro, una catastrofe! Sono rovinato”. Pietrino non va mai da nessuna parte perché una famiglia vera non ce l’ha: i suoi genitori sono morti quando era molto piccolo e lui è cresciuto lì, in collegio. È difficile non soffrire di paturnie quando si è tanto soli. Bisogna inventarsi qualcosa. E allora Pietrino legge come un treno. Un libro dietro l’altro, veloce come un fulmine, ansioso di conoscere qualcosa del mondo che non sia un collegio. Possi-

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bilmente un mondo avventuroso, spaventoso, raccapricciante. Nel mondo di Pietrino la cosa più orribile è l’odore di brodo, poi la domenica senza amici, infine Sgagnassa il barbiere.

Il signor Sgagnassa è un vecchietto minuscolo, poco più alto di un bambino e magrissimo. Dalle finestre del collegio si vede proprio la porta a vetri del negozio, con il crapino del signor Sgagnassa che va avanti e indietro. Estate e inverno è vestito con una palandrana stinta, dalla quale spuntano certe mani secche da far paura. Sul cranio spelacchiato tiene

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abbarbicata una papalina ricamata un secolo fa, e in bilico sul naso adunco porta dei minuscoli occhiali. Sgagnassa ha la barbetta a punta e un carattere petulante, scorbutico e rognoso. Un vero serpente a sonagli, al quale basterebbe uno sputo per avvelenare l’acquedotto comunale: ecco chi è Sgagnassa.

Il suo cane da guardia non è meno antipatico, anzi è decisamente odioso. Si tratta infatti di un quadrupede massiccio, feroce, perennemente incatenato alla porta d’ingresso. Il cagnaccio fa apposta la sua siesta disteso sullo zerbino, digrignando i denti anche nel sonno. Così non solo i pochissimi clienti, ma anche tutti i passanti devono per forza camminargli davanti e farsi terrorizzare. La bottega è piccola, sporca, poco illuminata e meno ancora accogliente. Spiccano

due poltrone di pelle che in gioventù dovevano esser state d’un bel rosso brillante, un brutto specchio e un mobile a vetri con dentro qualche pettine, poche bottiglie di brillantina di sua produzione, un rasoio. Il negozio finisce lì. Però, oltre una tenda di velluto verde e scesi tre gradini, si apre nella penombra un retrobottega enorme, polveroso, ricoperto da pile di vecchi libri e mucchi di riviste illustrate. Tutto questo vecchiume, che a qualcuno può sembrare inutile, è invece indispensabile al signor Sgagnassa per l’esercizio della professione di tosacrani.

Tutta la sua clientela consiste negli scalmanati allievi del collegio che come segno di vivacità e buona salute scalciano come somari quando siedono sulla poltrona del barbiere. Allora, prima ancora d’iniziare una lunga ed estenuante battaglia, l’astuto Sgagnassa baratta la mercanzia del suo bazar con la docilità dei giovani clienti. Per ottenere qualcosa di decente da leggere, qualcosa che contenga almeno una sparatoria, un fuorilegge, uno spettro o altro di succulento, anche Pietrino deve sottomettersi alle forbici di Sgagnassa. Il risultato, ottenuto a furia di calci e sbuffi, è un ridicolo taglio a caschetto e un libro in prestito. Questo sacrificio gli costa moltissimo. Primo: lo spavento di passare vicino al gigantesco cane del signor Sgagnassa, belva incrociata con un satanasso, bestiaccia nera, cattiva, pestifera di cui non si finirà mai di dire male. Secondo: il tormento di puzzare per

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giorni di brillantina “Sogno d’ombra”. Terzo: una bella fetta dei soldi che gli manda il prozio Procopio da uno degli sperduti, pericolosi, selvaggi paesi che visita in lungo e in largo.

Il prozio Procopio è l’unico parente di Pietrino, ma non gli ha mai confidato né che lavoro faccia, né dove viva. Due volte all’anno invia al nipote una cartolina, ogni volta con un paesaggio diverso, sempre lontanissimo e spesso popolato da strane bestie feroci. Altre volte delle foto che lo ritraggono, ben piantato negli stivaloni e con i baffi a manubrio impomatati, a fianco di stregoni, guerrieri o canguri. Insieme alle cartoline che Pietrino custodisce in una scatola da scarpe, Procopio spedisce una busta con i soldi e un biglietto dove si raccomanda di studiare, mangiare, dormire e di scusarlo se anche questa Pasqua, Natale o Ferragosto non può passare a trovarlo. Dopo di che, sparisce in qualche foresta e nessuno sa più niente di lui per altri sei mesi.

Ogni volta che riceve notizie, Pietrino diventa verde dall’invidia e in cuor suo stramaledice il prozio perché mai – dico mai! – l’ha portato con sé invece di lasciarlo a fare la muffa nello stramaledetto collegio. Lo consola il pensiero che tanto, prima o poi, Procopio diventerà un vecchio decrepito e sarà lui ad ammuffire in qualche noioso ospizio. E Pietrino gli scriverà per Natale da un’isola deserta nei mari del Sud.

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Dling, dlong, la campanella della cena distoglie Pietrino dai suoi pensieri.

“Ho dimenticato ancora il turno a tavola!” pensa allarmato. “Anacleto mi tirerà le orecchie fino a farmele diventare blu!”

Con un salto scende dalla panca e si precipita giù a rotta di collo, immerso fino alla punta dei capelli nell’odore di brodo.

Dalla tromba delle scale si sente rombare il vocione del cuoco.

“Per i denti di Moby Dick! Ha bigiato ancora quella pelle di fico, quella specie di paguro, quel mucchietto d’ossa! Quando lo becco se ne accorgerà! Lo appendo per le orecchie al pappafico, lo faccio sventolare!”

Oltre a essere il cuoco del collegio, Anacleto è l’uomo più grosso che si sia mai visto in città. Ha un colorito bruno, come di zucchero caramellato, ricordo permanente dei tanti giorni passati in mare. Sfoggia un cranio completamente pelato che si accarezza spesso con le mani aperte, alle orecchie porta due grossi cerchi d’oro e le braccia e il petto sono tutti coperti di tatuaggi.

Anacleto è un vero duro, temuto e riverito anche dai ragazzi più grandi e coraggiosi. Solo con Pietrino, in via del tutto eccezionale, si mostra indulgente. L’ha preso in simpatia per via di quell’aria tutta pietrinesca, un po’ triste e un po’ cialtrona. Si preoccupa che mangi a sufficienza, che esca coperto abbastanza e che studi la lezione quanto basta per prendere sei.

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“Dove ti sei nascosto gelatina di pesce, piccola medusa con i capelli biondi?” urla il cuoco. “Se non ti presenti immediatamente al rancio, ti farò pelare patate finché non ti sarà cresciuta la barba!”

Proprio in quel momento Pietrino entra trafelato nel refettorio, suscitando una clamorosa risata da parte degli altri compagni, fischi, strilli e altri rumori irripetibili. Anacleto si mette in posa, sul ponte della sua immaginaria nave, in mezzo alle due file di tavoli, davanti alla ciurma dei ragazzi, e comincia con zelo a tirare le orecchie a Pietrino.

“Otto, nove e dieci! Eccoti servito, pelandrone scansafatiche, e non fiatare o ti faccio bollire nella mostarda!” sbraita il cuoco dall’alto del suo metro e novanta, facendo tuonare tutti i suoi centoventi chili di peso.

“E quando hai finito di mangiare la tua sbobba, vieni immediatamente in cucina, che voglio farti lavare tutti i piatti. E di corsa anche, scattare!”

Il tono è terrificante, le orecchie scottano, la minestra è terribilmente brodosa – un mare giallo con poche, naufraghe letterine di pasta – ma Pietrino la fa sparire in un attimo. Anacleto gli ha detto di andare in cucina. Certamente è la miglior notizia che potesse ricevere, perché significa finalmente una cena gustosa e forse uno dei racconti pirateschi che sono la vera specialità di Anacleto.

“Pesciolino mio, perché non la smetti di rifilare la minestra al gatto?” chiede il cuoco a Pietrino, una

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volta soli in cucina. “Credi che non ti veda? Sei abbastanza veloce a nascondere il piatto sotto il tavolo, ma mai quanto il pirata Anacleto. Ti avverto: se continui così non diventerai mai grande e grosso come me. Su, mangia ancora un po’ di aringa. Sei così magro che potrei farci il brodo con le tue ossa!” Pietrino abbozza una smorfia schifata con la bocca piena di pane e pesce sott’olio.

“Ah, ah, al mio pesciolino il brodo non piace, preferisce pane e companatico”, ride Anacleto mentre affetta pane e prosciutto, pane e formaggio, pane e acciughe su un tagliere largo come un letto a una piazza.

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“Adesso però fila a letto lazzaronepescelessomangiaringhe, porta a dormire quella trippa farcita di alici e che non ti veda più fino a domani”, ordina Anacleto, allacciandosi il grembiule attorno alla pancia rotonda, tesa come un tamburo africano.

“Vado a riempire la bottiglia dell’olio?” chiede Pietrino. Proprio oggi ha preso sei nel compito di geografia, l’appetito è pienamente soddisfatto, cos’altro potrebbe chiedere alla vita se non di farsi un bel giro in cantina?

“Pesciolino”, risponde il cuoco con le mani immerse nella schiuma del lavello, “ti ho detto mille volte che non voglio che ti allontani”.

“Ma vado solo in cantina! Rachele mi lasciava andare”, protesta Pietrino.

“Rachele è solo una vecchia cuoca in pensione. Io invece sono un pirata che sa molte cose.”

“Quali cose?”

“Cose che accadono in cantina. Ti ho già raccontato la storia dello stregone che trasforma i bambini in ombre?” continua Anacleto strofinando i piatti.

“Quello che vive sottoterra?”

“Proprio lui”, risponde il cuoco.

“Ma è una storia finta. Di quelle che si raccontano per spaventare i bambini”, ribatte Pietrino.

“Ah, sì? E che fine hanno fatto i tuoi amici?” chiede Anacleto.

“Il direttore dice che sono tornati dai genitori.”

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“Pietrino! Non crederai a quella faccia di merluzzo?”

“Ti prego, Anacleto. Vado a riempire la bottiglia e torno subito.”

“Non se ne parla”, taglia corto il cuoco, “se ti annoi, vai a letto a leggere un po’”.

“Non ho niente da leggere”, risponde Pietrino.

“Perché non vai più da Sgagnassa? Ha un sacco di libri. Oltretutto sembri un selvaggio con quella frangia negli occhi: diventerai strabico.”

“Insomma”, sbuffa Pietrino scostandosi i capelli dalla fronte, “non ci vado perché non ho soldi. Procopio non mi scrive da mesi”.

Anacleto si asciuga le mani per accarezzargli la testa bionda, poi lo fa sedere sullo sgabello più alto, per guardarlo bene negli occhi.

“Ascolta”, gli dice dolcemente, “tuo prozio non si è dimenticato di te… sarà impegnato in qualcosa di molto importante”.

“Sì, certo, più importante di me. Comunque non mi interessa: meno vedo Sgagnassa e quel suo cagnaccio, meglio sto”, dichiara Pietrino.

“Facciamo così”, continua Anacleto, “domani andiamo insieme dal barbiere, offro io. Così, se quel cane bavoso prova a darti fastidio, lo faccio fritto. Va bene?”.

“Va bene.” Pietrino sorride. L’idea che ci sia vicino Anacleto mentre lui si avventura nel retrobottega di Sgagnassa lo fa sentire molto più sicuro. Colpa di

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quel cane diabolico, ma che ci provi con Anacleto a fare il prepotente!

“Intanto mettiti un po’ di questa roba”, continua il cuoco.

“Ma è la brillantina di Sgagnassa, che schifo, puzza!”

“Avanti, pesciolino, tirati indietro quel ciuffo, fammi contento.”

“E la cantina?” domanda Pietrino che torna regolarmente alla carica quando gli sembra d’aver guadagnato un vantaggio.

“Non chiedermelo più”, risponde severo Anacleto.

“Allora raccontami di quando hai sgominato la banda del drago di giada a Shangai”, implora il ragazzo al gigante tatuato.

“Ancora! Pesciolino, l’avrai sentita un milione di volte.”

“Allora la storia della donna barbuta di Casablanca”, insiste Pietrino.

“No, quella è troppo triste. Ti racconto di quando ero con il mio sampan alla fonda nella baia di Halong.”

“Dov’è Halong?” bofonchia Pietrino che nel frattempo ha ripreso a mangiare pane e cioccolato.

“In Indocina. Adesso si chiama Vietnam. Pesciolino, quanto hai preso oggi in geografia?”

“Sei! Ho preso sei, forse anche sei e mezzo”, risponde entusiasta Pietrino.

L’orco chiamato Anacleto tira un lungo respiro

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poi, con la sua voce bassa da temporale, comincia a raccontare.

È davvero una bella storia, di quelle che fa proprio piacere ascoltare seduti nella penombra di una cucina, con la pancia piena, d’inverno, scaldandosi il fondo dei pantaloni al tepore dei fornelli, mentre tutto fuori è buio e freddo.

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