Sotto la stessa luna

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Lara Schützsack

Traduzione di Alessandra Valtieri

Fine agosto

Le vacanze sono finite, l’estate invece continua.

Dopo la scuola i più fighi del nostro anno si ritrovano qui, allo skatepark, ragione per cui Sofia ritiene che dobbiamo assolutamente venirci anche noi e piazzarci davanti al pipe. Flip è d’accordo. Almeno credo, visto che non obietta.

E così eccoci qua, seduti sul prato a guardare gli altri e a lasciare che gli altri guardino noi. Sofia lancia un’occhiata alla rampa, si attorciglia un grosso ricciolo castano scuro intorno al dito, fa una smorfia e cinguetta qualcosa tipo like! e cariiino, mentre Flip se ne sta seduto con nonchalance a godersi gli sguardi insistenti di Yuna. Conosco Flip da quando aveva un anno e non mi capacito che ultimamente le ragazze non gli stacchino gli occhi di dosso. Come se si fossero accorte della sua esistenza solo da quando ha compiuto dodici anni e ha cominciato a mettere il mascara sulle sue lunghe ciglia nere, a indossare ogni giorno una T-shirt con una stampa diversa e a lavarsi i capelli tutte le sere, usando quintali di balsamo per renderli più lucenti. Come se fosse passato da essere invisibile a essere talmente visibile, che nessuna di loro può fare a meno di rimanergli incollata addosso con lo sguardo.

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Poco più avanti, Felix ed Elias, che frequentano la nostra stessa classe ma in un’altra sezione, si esibiscono in una serie di drop sulla rampa, che al momento è tutta loro; Felix scende con lo skateboard ed Elias con la sua BMX da freestyle. Lo skatepark è il loro palcoscenico. E noi, seduti qui, siamo il loro pubblico.

Ovviamente li guardano tutti, mentre fanno le loro evoluzioni. Felix, però, lo guardano sempre tutti, qualunque cosa faccia. Perché è super-mega-carino, dice Sofia. Già. E pensare che fino a poco tempo fa, per lei, gli unici a essere super-mega-carini erano Klick e Klack, i due pappagallini di Flip.

Tutto è iniziato poco prima delle vacanze. Così, di punto in bianco. Voglio dire, la storia di Felix e i pomeriggi allo skatepark. Solo l’anno scorso Sofia, Flip e io passavamo la maggior parte del tempo insieme, per lo più da Sofia, nella nostra casa sull’albero in giardino. Noi tre e basta. Poi... tutto è cambiato. Da questa primavera a Sofia non importa più niente di pappagallini e case sull’albero. Ora le interessano i ragazzi e i pettegolezzi. Come la storia del tipo e della tipa dell’altra sezione che stanno insieme e si tengono sempre per mano, tanto per far vedere che sono fidanzati. A me, però, non sembrano fidanzati; sembrano piuttosto due che giocano a fare i fidanzati. Sofia, invece, è sicura che si siano anche già baciati. Baci veri. Con la lingua! E questa cosa la fa schiattare d’invidia. Non perché le piaccia particolarmente quel ragazzo, ma perché non vede l’ora di baciarne uno anche lei. Uno a caso. Non importa chi. L’importante è farlo. Tanto per sapere com’è.

Si allunga verso di me e mi bisbiglia all’orecchio.

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“Ci ho pensato, sai? Ho deciso che voglio diventare un’esperta. A baciare, dico.”

Ti pareva che non tirasse ancora fuori la storia dei baci.

“Insomma, c’è chi vuole un dieci in matematica, giusto? E io voglio un bel dieci in baci!”

“Certo”, dico. “Capisco.” Ma lo dico così, tanto per risponderle qualcosa, perché in realtà, ultimamente, non la capisco più. Non come prima, che riuscivo persino a finire le sue frasi. Ora, sempre più spesso, non so neppure cosa risponderle. È come se di punto in bianco avessimo cominciato a parlare due lingue diverse. Tanto per cominciare, io non mi ci vedo proprio a baciare un ragazzo. E sì che li ho passati tutti in rassegna, i maschi della nostra classe! Ho provato anche a immaginarmi la scena: noi due, uno di fronte all’altra, io che mi avvicino e poi... che schifo!

Come minimo, hanno tutti i rimasugli di cereali incastrati fra i denti. Io e Flip ci siamo baciati una volta, all’asilo. Nel tunnel sotto lo scivolo. Ma era un’altra cosa e neppure me la ricordo bene. Ricordo solo che non c’era tanta luce e che Flip sapeva di latte e dentifricio al lampone.

“Potresti esercitarti con Flip”, le suggerisco. E subito mi rendo conto che è un’idea stupida. Ci manca solo che Sofia e Flip comincino anche a sbaciucchiarsi! Già sono sempre lì a ridere e scherzare insieme, e io mi sento tagliata fuori, perché spesso non capisco nemmeno cosa ci trovino di tanto divertente in quello che si dicono.

“Buona idea”, annuisce Sofia e guarda Flip con la coda dell’occhio. “Ci penserò.” Flip finge di non accorgersi che stiamo parlando di lui. In realtà sta registrando tutto.

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Oggi non bacerei più Flip. Va bene appoggiargli la testa sulla spalla. Va bene stringergli le braccia intorno alla vita quando mi porta in bicicletta seduta sul portapacchi. Ma è diverso. Farei lo stesso anche con una ragazza. Flip, dopotutto, è il mio migliore amico.

“Posso copiare i compiti di matematica?” mi chiede Sofia.

“Certo”, le dico, e comincio a rovistare nello zaino per trovare il quaderno. È allora che salta fuori il volantino del concorso di scrittura di cui oggi ci ha parlato l’insegnante di lettere, la professoressa Morgenstern. Lo ricaccio subito nello zaino. Non voglio che Flip e Sofia scoprano che ho una mezza intenzione di partecipare. Se sapessero che sogno di scrivere poesie, mi prenderebbero per matta.

“Guarda quella. La conosci?” bisbiglia Sofia. E mi gira la testa verso la rampa. Più avanti c’è una ragazza, in piedi.

“Mai vista prima”, interviene Flip.

Neanche io l’ho mai vista prima. È strana. Gambe bianchissime senza la minima ombra di abbronzatura, jeans tagliati all’altezza del ginocchio, felpa rossa larga e un po’ sformata. Ma la cosa che più colpisce sono i capelli. Blu spento. Capelli un po’ arruffati, che le scendono fino al mento. Sembra che non conosca nessuno, qui.

Io, qui, non ci verrei neanche morta da sola, senza sapere che ci sono Sofia e Flip ad aspettarmi. Appena metti piede nello skatepark, cominciano tutti a fissarti. E a me vanno subito le gambe in pappa e ho la sensazione di camminare in modo strano, di sembrare una scema. Allora cerco subito con lo sguardo Flip e Sofia, vado dritto da loro e mi sdraio all’istante sul prato, così quelli la smettono di fissare. Alla tipa, invece, non gliene frega niente se la

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fissano. Lei se ne sta lì, tranquilla, con la sua felpa troppo larga e i pantaloncini sfilacciati. Chissà, magari le fa pure piacere che la guardiamo tutti. O forse non se ne accorge nemmeno. “Rognosa.”

Rognoso è il nuovo aggettivo preferito di Sofia. Descrive ciò che non le piace. Vale a dire, quasi tutto. In classe c’è una puzza rognosa, il brufolo che le è spuntato sulla fronte è rognoso, i nuovi pantaloni di Flip sono rognosi, la microscopica macchiolina di marmellata sulla mia maglietta è rognosa. In pratica, quello che non è super-mega-carino è rognoso. E ultimamente per Sofia non esiste niente al mondo che possa collocarsi tra mega-palloso o rognoso e super-mega-carino. Ho come la sensazione che, dall’inizio dell’estate, nella sua vita non ci sia più posto per le vie di mezzo. E se poi le confido qualcosa che nessun altro deve sapere, ci sta pure che lo strombazzi al mondo intero.

La tipa coi capelli blu è ancora lì, in piedi, con lo sguardo che vaga tranquillo sul prato.

Mi chiedo se sia di queste parti. Da un lato questa città è abbastanza grande da non permettermi di conoscere tutte le ragazze della mia età. Dall’altro, però, è abbastanza piccola da far sì che le ragazze più strane, quelle che noti di più, insomma, le abbia già inquadrate tutte, anche se frequentano le altre scuole. E me le ricordo bene.

Questa, invece, è diversa. E non solo per i capelli. Sia ben chiaro: io non ho la fissa della maglietta perfetta come Flip e non sto sempre lì a specchiarmi come fa Sofia, ma non andrei nemmeno in giro conciata come Blu. Chi si metterebbe mai un paio di jeans tagliati al ginocchio e una

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felpa sformata? E poi oggi fa pure troppo caldo per la felpa. Ecco, ora fa qualche passo verso la rampa. Ma come cammina? Sembra che scivoli. Ah, mistero svelato: ha le scarpe da ginnastica con le rotelle. Un tempo erano fighe, ma ora non le porta più nessuno. E come se non bastasse sono anche quelle con le lucine colorate nella suola. “Una sfigata. E ha pure le Heelys. Rognosissime”, commenta Sofia. “Ma che fa? Scende con le scarpe?”. Flip allunga il collo per vedere meglio. In effetti la tipa va verso la rampa e sale sulla piattaforma. Rimane qualche istante immobile, poi raggiunge il bordo e lancia un’occhiata all’onda di cemento sotto di lei. Oh cavolo, sembra proprio che abbia intenzione di lanciarsi. Un altro passo avanti e affronta la discesa. Non che sia particolarmente sciolta o elegante, ma almeno non cade. In fondo all’onda inciampa e vacilla un po’, ma si riprende subito e scivola fino alla fine del flat. Si ferma. Si volta. Strizza gli occhi e guarda Felix ed Elias, che la fissano e ridono come matti. “Che c’è di tanto divertente?” La voce di Blu è scura, roca. Continua a guardare i due finché non smettono di ridere. “Allora? Che c’è di tanto divertente?” Nessuna risposta.

“Ah già. Perché quello che fate voi è figo, giusto?” Blu esce dalla rampa e va a sedersi sul prato a gambe incrociate. Strappa qualche ciuffo d’erba. Felix ed Elias la guardano e bisbigliano qualcosa. Poi Elias sale sulla piattaforma. Senza skateboard. Si posiziona sul bordo della rampa come aveva fatto Blu e scende giù arrancando, fingendo di barcollare. Arrivato in fondo al flat, si porta le mani sui fianchi e dice: “Allora? Che c’è di tanto divertente?”. Lo dice con una vocina stridula, acuta. Ma la voce di Blu aveva un timbro molto

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più profondo. Un gruppetto di ragazzi e ragazze seduti sul prato ridacchiano. Non appena Elias si rende conto che la sua esibizione sta avendo successo, rincara la dose: “Ah già. Perché quello che fate voi è figo, giusto?”. Batte il cinque a Felix e scoppiano a ridere a crepapelle. Blu è ancora seduta sul prato a gambe incrociate. Davanti a lei, ora, c’è una montagna di ciuffi d’erba. Al posto suo, io mi alzerei e me ne andrei. Non ce la farei a sopportare che Elias e Felix mi prendano in giro in quel modo. Blu, invece, rimane seduta. Impassibile.

Ora è Felix a salire sulla rampa. Anche lui si lancia giù fingendo di barcollare, ma lo fa in modo ancora più plateale di Elias. “Allora? Che c’è di tanto divertente?” squittisce appena giunge in fondo al flat.

E giù altre risate.

Blu si alza con estrema calma, come se si muovesse al rallentatore. C’è un’aria strana, una specie di campo elettrico. Ho la netta sensazione che stia per combinare qualcosa. E infatti. Va verso la BMX di Elias, che è lì, sul prato, poco distante dalla rampa. Si china, l’afferra, la solleva – la solleva! – e rimane per un istante così, immobile. Un istante che sembra un’eternità. Poi la scaraventa a terra con violenza. “Ma sei fuoriii!?” urla Elias, precipitandosi verso la bici. Blu sputa, si volta e si allontana a passo svelto, senza guardarsi indietro. Non so cosa pensare. Non so se quella ha coraggio da vendere o se si è semplicemente bevuta il cervello. Qui nessuno si azzarderebbe neanche a sfiorarla, la sacra bici di Elias. E lei cosa fa? La schianta a terra! Elias s’inginocchia accanto alla bici, come se fosse un animale ferito. Poco ci

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manca che si metta a piangere. Felix arriva di corsa e si china anche lui sulla bicicletta dell’amico. “Ma sei fuori?” urla dietro a Blu. “Guarda qui! Gliel’hai rotta!” Blu tira dritto per il prato a testa alta, senza voltarsi. Sul retro della sua felpa c’è una grossa stampa. La vedo solo ora. Una testa di donna con i capelli sparati all’insù e tinti con colori sgargianti. La testa è barrata con una grossa croce. Da lontano sembra quasi che ce l’abbia fatta lei con un grosso pennarello indelebile. Più che una felpa sembra un pezzo di muro con un graffito disegnato sopra. Fichissima. Molto, molto meglio di quelle piene di loghi giganteschi che sfoggiano quasi tutti da queste parti. “Ma che le ha preso?” dice Flip scuotendo la testa sbigottito. “Ha sputato. Che schifo! Quella non ci sta mica con la testa! È pericolosa”, sentenzia Sofia. Blu, intanto, è arrivata in fondo al prato. Sembra voglia prendere la scorciatoia tra i cespugli che costeggia il parco giochi e porta al sottopasso pedonale. Da lì si arriva direttamente in centro. Non sono in tanti a conoscerla, quindi deduco che sappia muoversi abbastanza bene in città. Ecco, ora non si vede più.

Pochi secondi e il chiacchiericcio si placa. Tutto torna alla normalità. Tutti tornano a copiare i compiti, a parlottare fra loro, a fissare il cellulare. Felix ed Elias affrontano a turno una rampa dopo l’altra con lo skateboard di Felix. Urlando, ovviamente, tanto per essere sicuri che nessuno dimentichi che ci sono anche loro. La bici di Elias, ora, è appoggiata a bordo pista. Non sembra aver subito grossi danni, a parte il parafango fluorescente tutto storto e ammaccato.

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“Allora, li copi o no i compiti di matematica?” chiedo a Sofia.

“No, ora no. Troppo stanca.” Appoggia la testa sul giubbotto arrotolato e chiude gli occhi. Solleva il telefono e si scatta un selfie. Poi rimane così, come stesse dormendo, in modo che possiamo ammirare quel neo sulla palpebra sinistra di cui va piuttosto fiera, perché lo ritiene molto speciale. A me, del suo neo, non importa un fico secco. Non invidio Sofia per quello.

Invidio Blu. Invidio il fatto che lei possa lasciare questo posto cotto dal sole e ammorbato dagli odori.

Senza che nessuno le chieda cosa fa o dove va.

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“Accipicchia, Magdalena, quanto sei cresciuta!”

Kathi scuote la testa, incredula, e mi scruta da capo a piedi. Kathi lavora come assistente nello studio medico della mamma e la conosco da quando ero piccola.

“Vieni qui”, dice, ma poi mi viene incontro lei e mi abbraccia forte. Un tantino troppo forte. “Da quanto tempo non ci vedevamo, tesoro?”

Sono felice quando molla la presa.

“L’ultima volta eri ancora una bambina!”

Da qualche mese me lo sento dire spesso, che tutto ad un tratto sono diventata una ragazza. E me lo dicono come se dovessi esserne felice e orgogliosa. Come se prima fossi stata un piccolo bruco schifosetto e ora mi fossi trasformata in una farfalla o roba del genere. Per di più, non mi piace essere guardata in quel modo. Io non squadro Kathi dall’alto in basso, non poso gli occhi sui suoi capelli grigi e dico: “Accidenti, Kathi, se sei invecchiata! L’ultima volta che ti ho visto eri ancora giovane!”.

Sguscio via veloce e mi infilo dietro il banco della reception. Sto per aprire il cassetto delle caramelle quando... “Buuuh!” da sotto il banco salta fuori Arthur. Arthur è il mio fratellino. Sette anni appena compiuti.

“Indovina, Magdalena! Indovina cos’è successo oggi.

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Dai, prova!” Mi abbraccia (lui può!), allunga il viso verso di me e scopre i denti. Capisco subito cosa vuol farmi vedere. Dopotutto, aspettava questo momento da quando ha iniziato la scuola.

“Non indovinerai mai! Non indovinerai mai!” canticchia, e io aggrotto la fronte e fingo di non aver la minima idea di cosa stia parlando. Arthur è adorabile, specialmente quando si entusiasma per qualcosa.

“Dondola!” grida. “Quello grosso davanti!” E comincia a muovere avanti e indietro con un dito l’incisivo superiore in questione. “Guarda! Guarda!” In realtà non si muove proprio niente.

“Pazzesco! Sì, sì. Lo vedo! Dondola tantissimo”, dico.

“Vero? Secondo me, oggi cade”, annuisce Arthur trionfante. “E so già cosa chiedere alla fatina dei denti!”

“Allora a presto, signora Ritter...” La porta dell’ambulatorio si apre ed esce la mamma. Jeans bianchi, maglietta bianca, scarpe da ginnastica bianche. Ha la mano appoggiata sulla spalla di una giovane donna con un pancione enorme e un sorriso assente stampato sulle labbra.

“Chissà, forse a dopodomani. Altrimenti, in bocca al lupo!” Alza il pollice e spinge delicatamente la donna verso la reception, dove Kathi le porge un libretto giallo.

“Ciao zuccherini miei!” Un bacio si stampa sulla mia testa e uno su quella di Arthur. “Usciamo subito. Ho proprio bisogno di un po’ di sole.” La mamma s’infila lo spolverino celeste, afferra le chiavi e la borsa.

“Ah Mara, aspetta un attimo!” Kathi le porge un pacchettino blu con un sorrisetto sornione. “Un certo Igor ha lasciato questo per te.”

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Igor? Igor chi?, mi chiedo.

Comunque, non appena la mamma sente il nome Igor si blocca di colpo. E uno strano bagliore le illumina il viso. Una frazione di secondo, forse. Ma è impossibile non notarlo. Lesta afferra il pacchetto e lo fa sparire nella tasca del cappotto.

“Chi è Igor?” chiede Arthur. “Anch’io voglio un regalo da Igor!”

La mamma abbozza un sorriso. Per quanto ne so, non conosce nessun Igor. E da quando in qua degli estranei le lasciano regali allo studio? Insomma, non è né Pasqua né Natale e il suo compleanno è ancora lontano da venire. E poi quel sorrisetto di Kathi. Mi sale una leggera nausea. Bah, chissà, forse questo Igor è un collega. Ci sta. Basta congetture. Ricaccio indietro la nausea.

“Ciao, Kathi, a domani.” Un ultimo controllo alla sala d’attesa vuota, poi la mamma si precipita fuori dalla porta con lo spolverino che svolazza a ogni passo. Io e Arthur la seguiamo. Un saluto veloce a Kathi, che ci lancia un bacio, e usciamo.

Facciamo una breve sosta al supermercato sotto casa e come al solito ci riempiamo di borse pesantissime che trasciniamo ansimando su per le scale. “Sarò felice solo quando avrò quel tesserino di merda. Poi ci vengo solo in macchina, a fare la spesa”, si lamenta la mamma. Il tesserino di merda è la patente. È da qualche mese che studia per prenderla. Dopo aver vissuto senza per quasi quarant’anni, all’improvviso sembra che non ci sia niente di più importante nella sua vita.

La storia della patente è iniziata quando papà se ne è andato di casa. Ricordo che grandinava, quel giorno, e che

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c’era un croco accanto al furgone dei traslochi. Tutto solo, accanto alla gomma sporca del furgone. Era il primo croco dell’anno che vedevo e sembrava piuttosto smarrito. Per questo mi aveva colpito. Da quel giorno mamma e papà fanno la spesa ognuno per conto proprio e alla mamma tocca andare a farla a piedi. Io e Arthur, ora, abbiamo due case. La casa di mamma, il nostro vecchio appartamento, e la casa di papà. Avere due case, fare la spola da un genitore all’altro, è come passare in continuazione dall’acqua calda a quella fredda quando ti fai la doccia. “Non si dice merda, mamma! E le macchine fanno male alla natura”, borbotta Arthur.

“E le borse pesanti fanno male alla mia schiena”, ribatte la mamma. “Potresti almeno prendermene una.” Invece di risponderle, Arthur si mette a giocherellare con il suo dente.

Arrivati a casa, la mamma versa il contenuto di due lattine in una grande pentola. E intanto canticchia qualcosa fra sé e sé. Il profumo dei ravioli al pomodoro si spande per tutto l’appartamento. “Mamma, ancora! È più di una settimana che mangiamo ravioli ogni giorno. Non fa mica tanto bene”, protesto. “Sciocchezze. Sono pieni di verdure.” Ripesca un barattolo vuoto dal secchio e scorre attentamente la lista degli ingredienti. “Sedano, pomodori, carote, piselli”, legge a voce alta prima di buttare di nuovo il barattolo nel secchio. “Visto? Sono ottimi!” A me i ravioli piacciono, ma mangiarli tutti i giorni non credo che faccia bene. A volte mi chiedo cosa insegnano, sull’alimentazione, alla facoltà di medicina. “Anche le scatolet-

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te fanno male all’ambiente”, sentenzia Arthur. “Papà cucina sempre verdure fresche.” “Ah sì?” Arthur annuisce. “Be’, io dopo otto ore di lavoro non ho le energie per mettermi a cucinare. Mi dispiace. Ma se vostro padre ce la fa, buon per lui.” La mamma sembra più infastidita, che dispiaciuta. “Potete sempre cucinare qualcosa voi, se quello che faccio io non vi piace.” Vostro padre, mamma lo dice spesso adesso. Come se volesse sottolineare che, dopo la separazione, papà è solo mio e di Arthur e non più suo. Le rare volte che pronuncia il suo nome, sembra pure un tantino schifata. Le esce una voce così stridula, che mi fa male alle orecchie e allo stomaco. Ora fissa la pentola come se oltre ai ravioli ci fosse dentro chissà cosa da scoprire.

“Mamma, mi è venuta un’idea!” dice Arthur più tardi a tavola. Gli brillano gli occhi.

La mamma fa cenno di sì col capo, ma rimane in silenzio. Inghiottisce un raviolo dietro l’altro – glob, glob, glob –, allontana il piatto da sé, incrocia le braccia e improvvisamente sembra di nuovo raggiante. “Arthur, le tue idee sono sempre fantastiche. Avanti, spara!”

C’è una cosa che le va riconosciuta: non rimane mai arrabbiata a lungo. In realtà, non rimane mai a lungo dello stesso umore. Gli stati d’animo della mamma sono stabili come un budino di gelatina. Buon umore. Cattivo umore. Buon umore. Cattivo umore. E io non sempre riesco a starle dietro. È faticoso doversi ogni volta adattare a questi continui e repentini cambiamenti.

“Potrebbe cucinare papà per noi. Qui, a casa! Così dopo il lavoro tu ti riposi”, suggerisce Arthur.

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Mica male come idea, penso. Ma a differenza di Arthur, io so già quale sarà la risposta della mamma.

“No. Assolutamente no.” La risposta ci mette un po’ ad arrivare, ma è secca, non ammette repliche. Nel giro di un paio di secondi il suo umore è già cambiato. E la luce negli occhi di Arthur è attraversata da un’ombra. Poverino.

“Perché no?” chiede Arthur. Sembra sul punto di mettersi a piangere.

“Perché Johannes cucina a casa sua e io cucino a casa mia. Johannes ha le sue regole, io ho le mie. Funziona così, ora. Ve l’ho spiegato mille volte.”

“Questa non è solo casa tua!” protesto, intuendo che Arthur ha bisogno del mio sostegno. “Ok, casa nostra. Ma comunque, non più casa di Johannes. Capisci cosa intendo, Arthur?” La voce della mamma ora è più dolce e guarda Arthur dritto negli occhi. “Non siamo più una famiglia.”

“E cosa siamo allora?” piagnucola Arthur.

“Due famiglie.”

“Ma una famiglia divisa in due non fa due famiglie. Al massimo fa due mezze famiglie.” Arthur scatta in piedi, rovesciando la sedia.

“E se proprio lo vuoi sapere, fra poco mi cade un dente. E sai cosa chiedo alla fatina dei denti? Che il mio papà torni a casa! Ecco cosa le chiedo!”

Esce dalla cucina pestando i piedi. Va in camera sua e si chiude dietro la porta con un gran tonfo. Vorrei seguirlo e consolarlo, ma sento anche di dover stare con la mamma, così rimango seduta. La mamma sospira. Sparecchiamo insieme la tavola e dato che nessuna delle due apre bocca,

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accendo la radio. C’è un programma che parla di libri. La voce della moderatrice che esce dall’altoparlante e si posa sul nostro silenzio ha un effetto rilassante. Un po’ come la prima neve. Strano, perché la neve è silenziosa, mentre la voce della radio è forte. Ma a volte, le cose sono identiche al loro contrario.

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