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la Redazione

Umberto Eco, pretesto per parlare di testo e memoria

La parola memoria è potenzialmente ambigua. Spesso è associata al rimpianto, alla storia e al ricordo di un passato cristallizzato e consegnato alle teche e agli archivi. La memoria è non di rado spesa nella retorica delle radici, abusata nel recupero di un’identità di sodali. Ma la memoria è anche senso, definizione di pertinenza, patrimonio condiviso di persone, gruppi, comunità. La speleologia è una comunità di intenti e di azione. Senza una memoria condivisa non avremmo, tra l’altro, una geografia del mondo ipogeo, non avremmo una storia delle esplorazioni, non ci sarebbero codici, linguaggi e tecniche comuni o comunque simili. Umberto Eco (1932-2016), riferimento nello studio della comunicazione seppur noto ai più per i suoi romanzi, è scomparso a febbraio. Nella ristampa anastatica di Mundus Subterraneus, promossa dalla Società Speleologica Italiana, vi era una nota di introduzione a corredo, proprio di Umberto Eco. Con la consueta ironia, il semiologo trattava del valore di riscoprire il pensiero di Athanasius Kircher, che attraverso intuizioni e anche improbabili teorie, aprì la strada a un diverso approccio alla conoscenza. Ma in quella nota e in una successiva “Bustina di Minerva” su L’Espresso contribuì a ridare vita a una figura rimossa, da Eco definita “barocca”, ma che fece da ponte tra una rappresentazione immaginifica del mondo e la scienza fatta di indagine, metodo, dimostrazione. Sempre Eco, in un video presentato anche alla Biennale di Venezia del 2015, parlava della memoria “che non è qualcosa di statico che si toglie da un cassetto, ma una materia costantemente elaborata”. E, ripreso mentre si aggirava in un labirinto di libri, affermava che “le biblioteche conservano la nostra memoria”. Eco, che continuiamo a citare, ha spesso affermato che “la conoscenza non è sapere tutto, ma saper cercare e trovare velocemente quanto serve”. Significa saper consultare archivi, orientarsi tra bibliografie, cataloghi e link, muoversi nel labirinto dell’informazione. Egli, tra l’altro, diffidava di Wikipedia per la possibilità che offre di modificare il “testo” e anche per l’illusione offerta di un’informazione considerata oggettiva. E la recente polemica sui social media era legata al potere di moltiplicare messaggi ambigui, privi di fondamento, spesso tesi a manipolare, più che a fornire segni di conoscenza. In un tempo “liquido e veloce” mantenere memoria delle cose è importante. Naturalmente, serve creare una gerarchia delle cose da mantenere. Serve soprattutto accertarsi della veridicità di quanto riportato o della fondatezza di teorie presentate. Speleologia si prefigge e ha il compito di creare un puzzle di memoria verosimile di quanto esce e viene proposto dalla comunità speleologica. Ci soffermiamo sul concetto di verosimile poiché la storia della speleologia è scritta dai protagonisti della storia stessa, che talvolta possono difettare nell’oggettività del racconto o fornire informazioni non sempre verificate o verificabili. Non possiamo dimenticare che le esplorazioni avvengono oltre una soglia senza testimoni. In ragione di questo, il lavoro di redazione punta a rilevare eventuali contraddizioni e a stemperare l’auto referenzialità che rischia di permeare il resoconto delle esplorazioni. Come redazione siamo impegnati a strutturare una stesura delle informazioni non simultanea, ma mediata, capace di dare permanenza alle esperienze. Di tramandarle e anche trasmetterle all’esterno, cercando sempre una critica e verificabile profondità. Teniamo a questo perché ci sono tante esplorazioni che rimangono orfane, di cui si ha notizia, ma non vi sono dati, rilievi d’insieme, iconografia. Ore, giorni, anni di ricerche, fatiche, rischi e quant’altro che rimangono nei cassetti, nell’hardware, nella memoria non sempre organizzata del Cloud, nei ricordi orali, sui social media, o in articoli scritti di getto su un blog. Ci sono troppi racconti fatti, addirittura anticipati, per giusto orgoglio, ma poco mediati dalla ragione. Quella ragione che nasce dalla mediazione, dall’emozione filtrata, dal processo complesso dell’editare e che è indispensabile per creare linguaggi e codici condivisi, comprensibili e, anche, una memoria comune. Ultimamente sono riemerse alcune note di Piero Gobetti (1901-1926), intellettuale e politico di grandi intuizioni e purtroppo breve vita, che parlava dell’editore come colui che indirizza, stimola, organizza il pensiero e la scrittura. Non abbiamo la presunzione di riuscire sempre a fare questo. Ma è indubbio che, attraverso il confronto tra una molteplicità di “attori”, si può giungere a qualcosa che vale nel tempo, che subirà comunque l’usura dello stesso, ma rimarrà testimonianza credibile e non estemporanea narrazione.