Non è un Paese per giovani - perché scioperiamo il 16 dicembre

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Non è un Paese per giovani perché scioperiamo il 16 dicembre

È bastato annunciare lo sciopero generale per assistere alla levata di scudi a difesa del governo Draghi, un governo sostenuto da quasi un anno da una larghissima maggioranza parlamentare e abbondantemente nelle grazie di Confindustria. Il “governo dei migliori”, ci hanno detto, il governo che ci avrebbe guidati nella ripresa dalla crisi pandemica. Quello che non ci hanno detto è che alla crescita del PIL non sarebbe seguita la crescita dei salari, che la crescita dell’occupazione avrebbe lasciato indietro giovani e donne: che il costo sociale della ripartenza sarebbe stato pagato ancora una volta dai più deboli. Durante questi primi 300 giorni di governo abbiamo assistito alla perdita di decine di migliaia di posti di lavoro tra donne e giovani, che non hanno tratto alcun beneficio dal Recovery Plan ridisegnato in fretta e furia dal governo e che garantisce miliardi alle imprese e all’industria; abbiamo visto rimanere inascoltate le richieste di lavoratrici e lavoratori, con il blocco dei licenziamenti che si è interrotto facendo cominciare una spirale di delocalizzazioni; le promesse fatte sul piano ambientale, cominciate creando il ministero della transizione ecologica sono rimaste lettera morta e anzi il governo ha stanziato e continua a farlo miliardi nel settore edilizio per grandi opere e parla di ritorno al nucleare. Un governo che ha provato a pacificare in questi mesi un paese uscito provato da un anno di pandemia senza coinvolgere le parti sociali, il terzo settore e la popolazione tutta e senza dare garanzie per un futuro che appare oggi quanto mai incerto ma perseguendo politiche che vanno a vantaggio solo della classe padronale, la stessa che ha fatto tenere aperti i luoghi di lavoro nella primavera 2020 causando migliaia di morti, la stessa che per prima e in misura maggiore ha beneficiato di ogni ristoro, sussidio, esenzione dalle tasse possibile. Per questo saremo in piazza il 16 dicembre per lo sciopero generale, in una giornata che coinvolga tutto il paese e che, bloccando ogni settore produttivo e manifestando da Nord a Sud fino alle isole dimostri che questo governo non può continuare così, che il bisogno reale in questo momento non è far correre pochi in avanti lasciando tutt3 indietro ma che c’è bisogno di politiche redistributive e di misure di sostegno reale alla popolazione, a partire da salario minimo e reddito di cittadinanza fino a politiche per giovani, donne e ambiente che garantiscano giustizia sociale e ambientale.

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Cosa vogliamo, in breve 1. Giustizia sociale e redistribuzione: chi ha di più paghi di più Rimodulazione delle aliquote IRPEF in ottica progressiva, assoggettamento a IRPEF delle rendite finanziarie, imposta unica progressiva sui grandi patrimoni. 2. Istruzione gratuita e di qualità, fuori dalla subordinazione al mercato 5% del PIL in istruzione, legge quadro nazionale sul diritto allo studio, ampliamento no-tax area verso la gratuità dell’università, riforma di tirocini e PCTO, coinvolgimento della componente studentesca nei processi di riforma di scuola e università. 3. Un mondo del lavoro a misura di giovani Contrasto alla precarietà, stabilità occupazionale, salario minimo come base per rafforzare la contrattazione collettiva, longevità contrattuale, eliminazione di forme di lavoro gratuito (anche se mascherate da “formazione”, come nel caso dei tirocini extracurriculari), diritto ad una pensione dignitosa anche in caso di discontinuità contributiva. 4. Riformare il welfare in ottica universale Ampliamento del reddito di cittadinanza, istituzione del reddito di formazione e di un reddito per i giovani come forme di welfare diretto, incondizionate e individuali, svincolate da lavoro e condizione familiare. 5. Giustizia climatica: per una giusta transizione ecologica Ripensamento del sistema produttivo in ottica ecosostenibile, abbandono di tutte le fonti fossili, eliminazione dei SAD, trasporto pubblico gratuito e sostenibile.

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Una manovra da riscrivere Che questa sia una manovra iniqua lo dicono tanti, e con tantissime buone ragioni. La questione fiscale, al centro dei proclami del governo già da mesi, si è rivelata l’ennesima occasione per vessare chi già ha poco, in un’ottica assolutamente contraria a qualsiasi idea di giustizia. Come riportano da anni associazioni e centri di ricerca, dal Forum Diseguaglianze e diversità agli studi accademici, il nostro paese è caratterizzato da enormi diseguaglianze tra classi di reddito e di patrimoni. Le cause del problema sono da rilevare da un lato nella stagnazione dei salari reali medi che dagli anni 2000 caratterizza il paese e negli alti tassi di disoccupazione e precarietà esistenti, dall’altro in un sistema di fiscalità insufficientemente redistributivo. Negli ultimi decenni la ripartizione del reddito nazionale tra redditi da lavoro e redditi da impresa tende a favorire sempre di più i profitti, e una decurtazione dell’IRAP di un miliardo di euro come quella progettata in Legge di bilancio non farebbe altro che acuire tale divario, andando a favorire le imprese a scapito dei lavoratori. Anche per quanto riguarda l’IRPEF le modifiche degli scaglioni proposte dal governo vanno a determinare una riduzione della progressività del sistema fiscale, al contrario di quanto invece sarebbe auspicabile in un Paese con disuguaglianze economiche accentuate nella società, ed è lampante quanto non sia equa una riforma che riduce le tasse di 200 euro per chi ha un reddito di 20.000, e le riduce invece di 740 euro per chi ha un reddito di 50.000.

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Mentre continua a versare soldi nelle tasche dei più ricchi, il governo prova a metterci gli uni contro gli altri paventando uno scontro generazionale inesistente, che vedrebbe qualsiasi intervento sulle pensioni come un attacco ai giovani. Peccato che questo sia, semplicemente, un’enorme falsità. Nell’ultimo trentennio il sistema pensionistico è stato deformato togliendo ai giovani ogni possibilità di andare in pensione e, in ogni caso, di andarci con una pensione degna. Se pensiamo alla nostra generazione c’è da sottolineare un ulteriore elemento: la discontinuità contributiva (dovuta alle forme di lavoro introdotte dalle cosiddette riforme che vanno dal pacchetto Treu del 1997 al Job’s act del 2015) è diventata la norma, ed è uno dei motivi per cui la nostra generazione col sistema attuale avrebbe pensioni da fame. Se vogliamo che il diritto ad una pensione dignitosa per chi oggi è nel mercato del lavoro, per chi vi è appena entrato e per chi ancora deve accedervi smetta di essere un’illusione, è necessaria una vera riforma delle pensioni, a carico della fiscalità generale, nella quale si abbassi l’età pensionistica e si garantisca una pensione degna anche in presenza di discontinuità contributiva, per creare un sistema equo in cui, all’aumento netto della produttività degli ultimi anni, corrisponda un immediato aumento della qualità della vita. Ma anche al di là di fisco e pensioni, questa manovra è da riscrivere su praticamente tutta la linea. Sicuramente lo è per quanto riguarda il diritto allo studio, su cui non viene stanziato un euro. O ancora, sul reddito di cittadinanza, sul quale si agisce nella direzione opposta a quella indicata finanche dal Comitato Scientifico, restringendo e aumentando le condizionalità, invece che implementando lo strumento. Niente di nuovo sul fronte delle questioni di genere (con una legge per la parità salariale imbarazzante e ancora una volta l’incapacità di fare passi in avanti sul congedo di paternità) o ambientali (ma dopo l’andamento di PreCop e G20 non eravamo troppo fiduciosi), niente di positivo su ammortizzatori sociali, lavoro, politiche giovanili. Pochi mesi fa Draghi diceva che “è il momento di dare”, intendendo, coerentemente con la sua figura e la composizione del governo, dare ai soliti noti, ai soliti ricchi, ai soliti che decidono, senza intaccarne minimamente le ricchezze. Sì, è il momento di dare: ma di dare a chi non ha niente, a chi è stato privato di tutto e vede solo precarietà davanti a sé. Questa legge di bilancio, ancora una volta, va nella direzione opposta.

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I soldi ci sono, serve redistribuire le ricchezze! In Italia, l’1% della popolazione possiede il 25% della ricchezza complessiva da solo. Perché non redistribuire? Negli ultimi anni diverse proposte sono state fatte in questo senso, sempre contrastate dagli stessi interessi e forze politiche. Basta pensare agli oltre venti miliardi che ogni anno il nostro paese spende in Sussidi Ambientalmente Dannosi o le spese militari in continuo aumento, a quasi 25 mld di euro. Se sommiamo queste spese potremo varare ogni anno una nuova manovra economica di un valore decisamente maggiore di quella attuale. Anche se non volessimo prendere in considerazioni misure come queste, sarebbe sufficiente una riforma fiscale avanzata e volta a redistribuire le ricchezze nel nostro paese; basterebbe per esempio inserire un’imposta unica progressiva sui grandi patrimoni per creare un forte sistema perequativo che non appesantisca ulteriormente, come altri sistema fanno, le tasche della popolazione che, pur avendo bassissimi redditi, possiede piccoli patrimoni (come le case). In questo modo, nelle casse statali entrerebbero almeno 4 miliardi di euro. Sarebbe altresì necessario, come proposto dalla rete Sbilanciamoci! rimodulare le aliquote Irpef sugli scaglioni di reddito, che comporterebbe per lo Stato delle entrate di 2 miliardi di euro. Assoggettando a Irpef le rendite finanziarie (esclusi i titoli di Stato), si potrebbero ottenere poi altri 2 miliardi e mezzo di euro. Infine, riducendo la franchigia sulle tasse di successione e inserendo misure progressive per i redditi più alti, oltre a costituire una vera Tobin Tax che prenda in considerazione la portata economica di investimenti e transazioni finanziarie (attualmente la tassa su queste transazioni è allo 0,2 o 0,1% a seconda del fatto che il paese con cui avviene lo scambio sia un paradiso fiscale o meno!). Tutto questo per dire che ecco, i soldi ci sono!

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Siamo in credito: per un risarcimento generazionale I giovani sono tra le fasce di popolazione più colpite sia dalla pandemia sia dalla crisi socio-economica che sta attraversando il nostro Paese. Se nel periodo di lockdown i giovani, studenti e non, erano quelli che più di tutti manifestavano episodi ansioso-depressivi, oggi nella fase di ripresa i giovani sono coloro i quali restano senza lavoro e faticano a trovarlo. Non ci stupisce quindi l’aumento esplosivo dall’inizio della pandemia ad oggi di richieste di aiuto psicologico e psichiatrico che raggiunge ben il 40% in più dal pre-pandemia. La causa di questo aumento è da ricercare tra le condizioni lavorative e di studio dei giovani in Italia: 29,8% la disoccupazione giovanile a settembre 2021, ancora in crescita rispetto allo scorso anno, un welfare ancora fortemente familistico che costringe i più a lasciare la casa dei genitori solo a 30 anni e un’istruzione che quasi mai garantisce un futuro e un lavoro degno ma anzi costringe ad anni di stage e contratti precari. Ed è così che emergono le nuove forme di povertà, giovani con salari talmente bassi da non permettere di pagare un affitto, un mutuo o le bollette che andranno in pensione a 71 se oggi, dicembre 2021, si immettono nel mondo del lavoro. La precarietà esistenziale che come giovani si vive quotidianamente ha un effetto forte sulla salute mentale: per un benessere psicologico reale e una vita degna, pretendiamo un lavoro garantito e stabile, pretendiamo forme di welfare universale che ci permettano di affrontare il presente e il futuro con tranquillità.

Dalla “gavetta” allo sfruttamento: un salario minimo per restituire dignità ad una generazione Dal 2011 ad oggi il nostro paese ha perso il 9% dei contratti a tempo indeterminato negli occupati in fascia 15-24. Ad oggi, con una disoccupazione giovanile ormai nuovamente prossima al 30% e mai scesa sotto il 20% dal 2010, l’Italia si posiziona terz’ultima in Europa per quota di giovani impiegata con un contratto a tempo indeterminato. E ancora più allarmanti questi dati ci devono apparire se confrontati con i numeri sull’occupazione giovanile raccolti e pubblicati quest’anno dal Consiglio Nazionale dei Giovani per la categoria under 35: solamente un giovane su tre nel nostro paese può beneficiare di un impiego stabile, più del 13% lavora per potersi mantenere

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gli studi e più del 26% è stabilmente precario (con picchi di oltre il 30% al sud). Più della metà dei giovani occupati nel nostro paese guadagna meno di 10.000 euro l’anno e quasi 1 su 4 guadagna meno di 5000 euro l’anno. Nel 2015 il 28,6% dei giovani single era a rischio povertà e il 5,8% era in condizione di povertà assoluta (ISTAT). Non abbiamo motivo di credere che con la crisi pandemica da Covid-19 la situazione sia migliorata.

Questi dati fotografano una condizione che i giovani del nostro paese conoscono fin troppo bene: cresciute e cresciuti in un contesto politico che non solo si rifiutava di riconoscere la nostra condizione, ma che per anni ha provato a scaricare sulle nostre spalle la responsabilità del declino economico del paese, abbiamo imparato ad accettare la precarietà come condizione strutturale e unica costante delle nostre esistenze. Siamo la generazione che sta pagando un decennio di politiche elaborate con il preciso intento di spingere al rialzo l’occupazione, ma che non si interrogavano minimamente sulla qualità del lavoro che il nostro paese poteva offrire. Il risultato è stato il sacrificio di un’intera generazione sull’altare della crescita economica: abituati a lavorare senza retribuzione, imprigionati in forme contrattuali intermittenti e precarie, carbone vivo per lo sviluppo del mercato del lavoro a chiamata e interinale, abbiamo imparato a nutrirci della promessa di un futuro migliore in cui il sacrificio presente di salari e diritti sarebbe stato ricompensato da indipendenza e alti livelli di retribuzione. Di gavetta, ne abbiamo fatta fin troppa. A più di dieci anni dalla crisi economica del 2008, non possiamo che constatare, amareggiati, che quell’idilliaco futuro promesso non esiste. La precarietà del presente significa soltanto precarietà futura. La flessibilità del presente, non viene stabilizzata. La disponibilità, pure offerta, di lavorare gratuitamente per “fare esperienza”, per i giovani del nostro Rete della Conoscenza - Via Giuseppe Marcora, 18-20 - 00153 Roma info@retedellaconoscenza.it Tel. 06/69770332 7


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paese ha solamente rappresentato un ulteriore fattore di competizione, che ha spinto al ribasso i salari non solamente per la nostra fascia occupazionale, ma per tutto il mercato del lavoro dipendente. E allora nel momento in cui si vorrebbe riaprire un “conflitto generazionale” per il futuro del nostro paese, nel momento in cui i miti dell’autoimprenditorialità, del lavoro “smart” e delle piattaforme vorrebbero tornare a proporre la falsa promessa di un futuro migliore costruito sui sacrifici del presente, dobbiamo avere la forza e il coraggio di riaffermare la dignità delle nostre vite e tornare a parlare di qualità occupazionale. Lavorare per meno di 10 euro l’ora non è dignitoso. Essere disoccupati per più del 40% del proprio tempo non è dignitoso.

Se il “governo dei migliori” vuole realmente “mettere i giovani al centro dell’azione di governo”, si torni immediatamente a parlare di dignità del lavoro: si torni a parlare di salario minimo garantito, di contrasto allo sfruttamento, di stabilità occupazionale e di longevità contrattuale.

Una generazione senza presente: reddito e welfare per il diritto all’autodeterminazione L’attacco al reddito di cittadinanza portato avanti da più fronti è vergognoso. Si continua a vedere la povertà come una colpa, invece che come la conseguenza di dinamiche economiche e sociali, e in quanto colpevoli si obbligano i poveri a sottostare ai ricatti di chi decide. La retorica dei "furbetti del reddito" si fonda sul niente, dato che lo 0,1% delle persone coinvolte ha preso il reddito senza averne diritto.Intanto, il governo non fa che incoraggiare questa narrazione: le proposte di modifica del reddito di cittadinanza non prevedono solo maggiori controlli, ma l'obbligo di accettare la seconda

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offerta di lavoro, ovunque esso sia, pena la perdita del reddito, oltre alla diminuzione di quest'ultimo di 5€ al mese, fino alla sottoscrizione di un contratto di lavoro. Più ricatti, meno diritti. A perderci è, ancora una volta, la dignità delle persone. Il reddito di cittadinanza andrebbe modificato, è vero: andrebbe esteso a una platea più ampia, privato delle condizionalità, reso individuale, svincolato dal lavoro. Ma l’obiettivo del governo non sembra in alcun modo garantire l’emancipazione, al contrario. Lo sa bene la nostra generazione, che di possibilità di autodeterminarsi ne ha ben poche. Gli ultimi rilevamenti ISTAT sulla povertà assoluta, in questo senso, ci forniscono dati allarmanti: dal 2019 al 2020 la povertà assoluta individuale in Italia è aumentata da una media dal 7,7% al 9,4%, un incremento che viene pagato soprattutto dai giovani, fascia di età che supera l’11% di incidenza sulla popolazione totale (1 milione e 127 mila individui). Più di un giovane su dieci, in altre parole, nel nostro paese vive oggi in condizione di povertà assoluta. Unə giovane in Italia esce di casa dopo i 30 anni, 5 anni dopo la media europea, ma oltre 10 anni dopo la media di alcuni Paesi. Siamo statз definiti per questo mammoni e bamboccioni, ma la verità è che nel nostro Paese la famiglia è l’unica forma di welfare. Andremmo volentieri a vivere da solз, se ci fossero gli strumenti per farlo: un lavoro decente, con salari dignitosi, ma anche misure di welfare reali. Invece, Non esiste un contributo affitto per lз studentз, i posti alloggio nelle residenze universitarie non bastano e i costi degli affitti continuano a salire. Al di là del bonus under 36 per il mutuo per l'acquisto della prima casa, per lз tantissimз giovani che non valutano proprio l'ipotesi di comprare casa, ma avrebbero bisogno di una stanza in affitto a un prezzo accessibile, non c'è niente. Nella Legge di Bilancio viene ampliata la detrazione fiscale per le spese di locazione destinata ai giovani tra i 20 e i 30 anni con un reddito non superiore a 15.493,71 euro. Ma per gli studentз, i quali per la stragrande maggioranza dei casi non pagano l’IRPEF, o percepiscono redditi molto

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bassi se studiano e lavorano (o nulli, se non lavorano), si tratta evidentemente di una misura insufficiente.

Non possiamo permetterci un affitto, non abbiamo condizioni di lavoro decenti, non possiamo accedere al reddito di cittadinanza. Ci vengono tagliate le gambe ogni giorno, mentre veniamo costrettз a lasciare i nostri territori in cerca di futuro al Nord o fuori dall’Italia. Per questo rivendichiamo a gran voce forme di reddito specifiche per giovani e studentз: un’erogazione diretta, incondizionata, su base individuale, che ci permetta davvero di emanciparci dal nostro contesto familiare e di uscire dalla condizione di ricatto cui siamo costrettз. Non è chiedere la luna: è chiedere una piccola parte di quello che ci spetta.

Cambiare modello produttivo per il diritto al futuro La questione ecologica all’interno della bozza di Legge di Bilancio ed in generale nel PNRR viene sbandierata come centrale, con importanti risorse dedicate al progetto di transizione ecologica, con 69,9 miliardi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e 4,273 + 2 della Legge di Bilancio. Ma al di là dei fondi effettivi, che rimangono comunque un pacchetto rilevante, bisogna analizzare come questi soldi vengono investiti: ed è qui che cade la narrazione di un governo che fa del greenwashing istituzionale la sua bandiera; in primo luogo è critico l’impianto di lavoro prettamente incentrato sulla questione delle emissioni, pressoché trascurando ogni considerazione in tema di devastazione ambientale, tutela della biodiversità e soprattutto giustizia sociale. Si tratta di un progetto essenzialmente neoliberista, che non vede in un sistema produttivo e di consumo sbagliato la radice delle crisi che stiamo attraversando, bensì la ritrova in una serie di piccole “mancanze” del modello socioeconomico, senza però metterlo in discussione in toto. A fronte della minaccia per l’esistenza umana su questo pianeta, per l’Italia intera (che risulta uno dei Paesi che peggio vengono e verranno colpiti in Europa), il governo risponde con finanziamenti ingenti per grandi opere inutili come il TAV e, nel migliore dei casi, trasformazione in chiave “sostenibile” del corrente assetto nazionale: mobilità “green” senza ripensare come la gente si muove e il trasporto pubblico; edilizia “green” (tramite l’ecobonus, misura che con la sua corrente volontà di implementazione risulta di carattere fortemente classista, scaricando grandemente il peso della conversione sui cittadini) ma senza pensare al diritto alla casa e al cambiamento del paradigma abitativo.

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E ancora, nei principali obiettivi di questo governo troviamo forte espansione del settore del gas, indicato come eccellente strumento per attuare la transizione ecologica: se non che, invece, i finanziamenti per il gas sono un chiaro esempio di greenwashing, dal momento che questa fonte, ben lungi dall’essere rinnovabile e ancor più capace di assicurare l’autosufficienza energetica dell’Italia, costituisce anzi uno dei più grandi ostacoli ad una reale e radicale transizione, alimentando il “business as usual” capitalista ed estrattivista. Se il gas è al centro dell’attenzione del governo italiano, la cancellazione dei SAD, sussidi ambientalmente dannosi, non lo è: ancora una volta vistosa assente nella Legge di Bilancio. Infine, fra le politiche del governo mancano vere misure per tutelare lavoratori e fasce più deboli nel processo della transizione: a partire dal caro-vita (la questione delle bollette dell’elettricità e del gas esplose in questi mesi e nei futuri) fino ad arrivare alla trasformazione del modello di lavoro. Da un lato si risponde con carenti fondi di sostegno, e dall’altro su alcune questioni si ignora il problema: in assenza di politiche industriali serie e ambiziose non si può garantire la dignità e la salute dei lavoratori e delle lavoratrici. Come abbiamo rivendicato con decine di organizzazioni in occasione della PreCop, non c’è giustizia climatica senza giustizia sociale, e viceversa. È necessario intervenire in maniera radicale per affrontare la crisi ecologica e salvaguardare il nostro futuro. Partendo dal riconoscere l’interconnessione delle varie faglie di conflitto aperte dal sistema capitalista (ricatto ambiente-lavoro-salute, cambiamento climatico, sfruttamento dei lavoratori…) e dalla necessità di cambiare questo stesso modello, si devono attuare politiche spinte: completa fuoriuscita dai fossili entro il 2030, investimento in fonti rinnovabili con spiccato approccio dal basso (comunità energetiche), istituzione di servizi di tutela del territorio, misure di green & decent jobs guarantee assicurati dallo Stato, potenziamento dei servizi di welfare pubblici…sono solo il primo passo, per passare da un mondo in cui molt3 sono privat3 di tutto, ad uno in cui tutt3 hanno abbastanza, ma soprattutto, un futuro dignitoso e di benessere in equilibrio con l’ecosistema.

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Senza conoscenza non c’è futuro: in piazza per l’istruzione gratuita Durante la crisi pandemica tante parole sono state sprecate sul ruolo fondamentale dell’istruzione nel nostro paese. Ma in questa legge di Bilancio non c’è nulla di tutte le richieste che abbiamo avanzato mobilitandoci durante l’autunno e non solo.

Scuola Non siamo stati coinvolti su alcuna decisione che ci riguardasse, nonostante la nostra disponibilità al dialogo. Pensiamo che non può esistere nessuna ripartenza del paese se non si ridà dignità alla scuola, e per farlo è necessaria una riforma strutturale. Per questo abbiamo presentato al Ministro Bianchi il nostro Manifesto della Scuola Pubblica. La scuola che ci immaginiamo pone al centro delle parole d’ordine chiare come diritto allo studio, inclusione, ecologia e benessere psicologico. Pretendiamo che l’istruzione sia resa gratuita tramite una legge quadro nazionale sul diritto allo studio che vada a definire i livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti in tutte le regioni. Pretendiamo un reddito di formazione che ci sostenga e che ci emancipi dal contesto familiare. Vogliamo che il nostro paese sia in pari con la media europea per i finanziamenti in materia di istruzione, arrivando al 5% del PIL. Garantire il diritto allo studio vuol dire anche garantire spazi sicuri, accessibili e sempre aperti in cui svolgere la didattica: si deve ultimare l’Anagrafe Nazionale dell’Edilizia Scolastica, eliminare barriere architettoniche e introdurre una classe minima di rischio sismico per garantire scuole che non crollino. Vogliamo superare la didattica frontale, priva di stimoli e di spunti per costruire un pensiero critico: vogliamo una didattica transfemminista e ecologista che ci formi come cittadini, vogliamo avere voce in capitolo nella stesura dei POF, una riscrittura totale dei programmi, un’educazione individualizzata e interdisciplinare. La pandemia ha evidenziato la totale impreparazione della scuola sui temi del digitale, rimarchiamo la necessità di una piattaforma gratuita e pubblica per la DDI, della garanzia di un accesso gratuito e consapevole alla rete tramite formazione e device in comodato d’uso, oltre ad un ammodernamento generale della didattica. È necessario uscire dalla subordinazione del percorso formativo alle necessità aziendali per dar vita a un’Istruzione Integrata che includa anche soggetti terzi al mondo delle imprese. Vogliamo l’approvazione di un Codice Etico che escluda dai progetti aziende con implicazioni di corruzione, devastazioni ambientali e sfruttamento e la gratuità dei progetti.

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Vogliamo che l'istituzione scolastica si faccia carico del grande malessere psicologico presente nelle studentesse e degli studenti del paese. Vogliamo che le scuole siano un presidio per la salute psicologica dellз studentз, tramite l'istituzione di sportelli d’ascolto, consultori nelle scuole e corsi di educazione all’affettività e alle emozioni. Noi però non ci fermiamo e non accettiamo di stare a guardare: costruiremo un momento in cui student3, docenti, organizzazioni e movimenti si confronteranno tra di loro per costruire un nuovo immaginario della scuola, per dire alla politica che un’altra scuola non solo è possibile ma anche necessaria. Per questo a partire dalle mobilitazioni del 19 novembre abbiamo lanciato per l’inizio del 2022 gli Stati Generali della Scuola Pubblica.

Università L’accesso all’università in Italia è ancora un privilegio: in un Paese in cui il Governo Draghi nella legge di bilancio 2022 non investe neanche un soldo per il diritto allo studio, vivere l’università italiana fatta di tasse salate (una media di oltre 1600 euro secondo l’ultimo rapporto Eurydice), bassi finanziamenti alle borse di studio e agli alloggi, e un sistema meritocratico basato sulla competizione a scapito della salute mentale dellз studentз, è davvero un diritto che pochз si possono permettere. La pandemia di COVID-19 ha aperto il vaso di Pandora sul sistema universitario italiano, specialmente nel Meridione, in cui si registra la più alta percentuale di abbandono degli studi e di servizi negati alla comunità studentesca. L’alienazione della DAD unita al costo esorbitante degli affitti e dei mezzi di trasporto, e lo scollamento della socialità con una mancanza strutturale di un servizio psicologico, non hanno fatto altro che rendere l’università italiana una fucina in cui competono solo i “migliori” della società, rappresentati da chi spesso ha già economicamente le spalle coperte, e diventando così come un ospedale che cura i sani e lascia morire i malati. La privatizzazione dell’istruzione e la conseguente individualizzazione dellə studente fanno parte di un processo di lunga data nella storia del nostro Paese, che parte dal processo di Bologna nel ‘99, passa dai governi Berlusconi e i conseguenti tagli all’istruzione nel 2010, fino alle riforme del governo Renzi su scuola e lavoro. E proprio il mondo del lavoro sta assorbendo sempre di più in un’ottica utilitaristica e pragmatica il sistema di istruzione: non possiamo accettare una politica del genere. Nell’ultimo mese abbiamo assistito alle scandalose dichiarazioni del ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani, e del ministro dell’istruzione Patrizio Bianchi. Il primo, considera il sapere umanistico “inutile” in quanto non spendibile sul mercato, il secondo ha dichiarato che fin dalle scuole elementari bisognerebbe portare gli studenti in gita nei posti di lavoro. Il sapere non può dipendere dal mercato del lavoro, né può essere considerato valido o meno valido in merito alla

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sua spendibilità pratica. Deve essere il sistema di istruzione ad influenzare il modello di sviluppo in termini di sostenibilità, equità e creazione di benessere per tutta la collettività, creando futuri lavoratori consapevoli e sradicando le meccaniche di sfruttamento; ciò può avvenire riformando i tirocini in maniera eco-sostenibile e coerente con i percorsi di studio e i diritti dei lavoratori, e dare più spazio non solo alle materie tecnico-scientifiche, ma anche investendo sulla ricerca e gli studi umanistici, poiché i percorsi formativi devono essere strumenti per creare menti libere e critiche. Abbiamo bisogno di un cambio di sistema: vogliamo un’università gratuita, aperta, in cui vengano fatti investimenti concreti sui servizi abitativi, edilizia universitaria e borse di studio, vogliamo la gratuità dei trasporti pubblici, dei servizi di supporto psicologico. Vogliamo tirocini coerenti con i percorsi di studio e che formino al mondo del lavoro e non a quello dello sfruttamento.

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