La promessa della felicità: il reportage

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La promessa della felicità a cura di Luigi Annibaldi, Massimiliano Ciarrocca e Lucia Pappalardo © copyright dei rispettivi autori. Impaginazione e grafica di Luigi Annibaldi www.omero.it www.goethe.de/roma


La felicità è una promessa che non è importante mantenere

Spesso ci si chiede cosa renda indimenticabile il protagonista di una storia. Quali siano le corde che uno scrittore deve saper muovere per dare consistenza e pathos al suo eroe. La risposta è semplice e un po' misteriosa. Deve mettere in scena la promessa della felicità. Che sia una ragazza zoppa in cerca d'amore, un soldato bisognoso di riscatto, un padre che non parla più con la figlia. Chiunque sia il protagonista del racconto il lettore vuole annusare quella felicità, agognata, persa, impossibile o sorprendente. Vuole vivere grazie alle parole dello scrittore l'epica ricerca di un iperuranio che lo faccia sentire bene. Scuola Omero, la prima scuola di scrittura in Italia e Goethe-Institut Italien, l'Istituto di cultura tedesca in Italia, si sono “fusi” per dar vita al laboratorio di scrittura La promessa della felicità. E questi che state per leggere sono i migliori racconti usciti fuori da corso. Un cammino in cui gli allievi non hanno avuto paura di far soffrire il pro3


tagonista per rendere felice il lettore. Se volete rivedere tutte le lezioni del corso le trovate sul canale Youtube del Goethe-Institut Italien: www.youtube.com/user/goetheinstitutrom Buona lettura, buona visione. Lucia, Luigi e Massimiliano

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Le meduse e le cagne di Emanuele Fiorellino

– Ci vediamo come al solito in piazza. Saverio mi aspetta poggiato allo scooter, io arrivo a piedi. – Ciao. – Ciao. Che facciamo? – Come la vedi una birra? – Non lo so. Due passi? Saverio mi guarda strano. Una Peroni come minimo ce la facciamo quasi sempre. Per essere costretti a passaggiare dobbiamo stare proprio proprio senza soldi. – Vabbè – e ce ne andiamo ai giardinetti. È tutto infervorato, parla un po’ di corsa: – Oggi ho comprato un costume. – Com’è? – gli chiedo. – Rosso e nero, pensa. Slip. Mi fa il pacco tutto in avanti. Stavolta no, eh. Stavolta almeno una tedesca si deve immolare. – Ah sì? Bello. – Eh, già. L’ho preso sotto da me. Tu già l’hai com5


prato? Ti ci porto. – Ancora non l’ho preso. Oggi sono stato tutto il giorno a letto con Carola. Le ho detto che partiamo e lei ha detto che si organizza con tre amiche sue. – Che fanno? – Non lo so. Del resto non lo sanno neanche loro, oggi hanno cominciato a telefonarsi. Ma al mare non ci vanno. A proposito... hai saputo della voce che gira? – No. Che? – Dice che quest’anno il Mediterraneo sarà invaso da meduse. Una cosa mai vista. – E chi l’ha detto? – Boh. Internet. Invece pare che va tanto l’Europa Centrale. Valli a capire. Saverio sta zitto finalmente, l’ho spaventato. Camminiamo un po’ così, pensando lui all’Elba, io alla settimana trascorsa. Poi ricomincia, si sapeva che sarebbe tornato all’attacco: – Certo quella birretta forse ci stava bene... – È vero, però senti che bell’aria... e poi si chiacchiera in pace, no? – Senti... ma tu ci credi? – A che? – Ermanno. Cosa mi hai appena detto? Alla storia delle meduse, no? Ci credi? 6


– E che ne so? Mica leggo le carte io. – Guarda che se è vero ci salta l’Elba. L’abbiamo programmata da mesi. – Ma adesso è aprile, che ne sanno. Mi pare presto. Vediamo, no? A questo punto grida. Grida solo come un pazzo di notte nei giardinetti. – Ermanno. L’Elba è un’isola. Se la circondano le meduse a ferragosto sarà un mortorio. Ti rendi conto? – Calma. Andremo in piscina. E il sole non sarà mica coperto dalle meduse. Allora ha gridato più forte. – Ermanno. Domani dobbiamo prenotare. – Ho capito. Cerchiamo di ragionare. Alza ancora la voce. – Ragionare? Siamo amici da sedici anni. Ermanno, lo sai. Io sono vergine. – Bravo. Così adesso lo sanno fino ai condomini. E per inciso, sanno che quello vergine non è Ermanno. Tace. Taccio. Fuma. – Ce l’hai una sigaretta? – All’Elba compratele però – e sorride. Squilla il mio telefonino, mi allontano di pochi passi. È Carola, vorrei non rispondere ma non mi è concesso. – Pronto, amore. 7


– Hai risolto? – Come va? – Ermanno, guarda che dove stai, stai, ti trovo. Hai risolto? – Quasi. Stiamo parlando di mare. – Te lo ripeto per l’ultima volta. Tu all’Elba non ci vai. Tu vieni a Praga con me, soldi o non soldi. Se poi Saverio l’amico tuo vuole venire può sempre farlo. Tutto chiaro? – Ma se lo sai che ormai mi nego anche le sigarette. Solo un po’ di elasticità... – Non devo ricordarti di lunedì, no? Quando le avevo detto che sarei partito con Saverio per l’Elba, simulando uno slancio di affetto mi aveva afferrato i testicoli in una morsa ineludile limitandosi a dire: – Che fai tu? Al mio silenzio la presa aveva cominciato a stringersi con lenta progressione mentre lei fissandomi aspettava la mia risposta. Aveva quindi aggiunto: – Non sono io che non te la darò più. Sarai tu impossibilitato ad averla. Rifletti prima di parlare. – Non ne ho avuto bisogno. – Veniamo a Praga con voi. Ha le mani grandi, Carola. E ora la telefonata. Mi marca stretto: – Ecco. Se ancora non sa del cambio di destinazione, 8


faglielo sapere. Ciao. – Aspetta. Non attaccare. – Che vuoi? – Chi viene a Praga? – Clara, Beatrice e forse Adele. – Ma ti porti i cessi. Te li scegli. – Viene chi viene. E sono amiche mie. Pensa a quello sfigato di Saverio. A proposito, dove sei? – Al parco. – Speravi non prendesse il telefonino? Te l’ho detto che ti trovo. Ciao. Stavolta ha attaccato proprio. Torno da Saverio che è curioso. – Che dice Carola? – Hanno trovato, vanno a Praga. – Con chi? – Clara, Beatrice e forse Adele. Te le ricordi? – Porcoggiuda, i cessi. Almeno con quelle sei sicuro che Carola non ti tradisce. E chi si avvicina... chi oserebbe mai. Io improvviso: – Può darsi. Se non le conosci. – Cosa “se non le conosci”? In una frazione di secondo la piccola luce nell’angolo più sperduto della mia mente diventa una cometa che co9


mincio a seguire. – Se non le conosci. Punto. Carola mi dice cose... – Cosa cose? – Pare siano un po’ sul tipo... cagne. – Come cagne? – Diciamo... infoiate. – Cagne infoiate? – Così dice Carola. Sto giocando sempre più sporco, ma quando ci sono di mezzo i testicoli... – Ma scusa, Carola ne parla così? – No. Ma quando ha sentito la mia versione colloquiale non ha eccepito. – Quindi cagne infoiate... – Diciamolo pure. Ma in confidenza. – Tre. – No, due. Adele è ancora in forse. Ancora una volta Saverio tace. Fa così lui quando deve raccogliere le idee e io lo lascio fare. – Ermanno, ma tu ci partiresti con Carola? – Perché? – No, pensavo, se l’Elba è a rischio... – Lo so. Ma se poi la storia delle meduse si rivela una leggenda? – Io ho ventiquattro anni. Ho solo bisogno di una fem10


mina. Che me ne frega se è la meglio tedesca dell’Elba o la peggio italiana di Praga. La chiameresti Carola? – La chiamo? – E chiamala.

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L’oliva di Giangiacomo Tedeschi

Ho sempre amato le olive ascolane. Andavo sempre a comprarle da quello sporco kebabbaro color caramello. Sì, quello in fondo alla strada. Quando entravo, prima di servirmi si puliva il naso con la manica della camicia e poi, con un italiano che a definirlo tale, ci vuole fantasia: – Cosa volere? Da tre anni andavo da lui, quasi tutti i sabati, e non aveva ancora capito cosa volevo? Ma oltre che negro era pure deficiente. Lo stesso avvenne anche quella sera. Ordinai le mie sei olive ascolane, me le porse in un sacchetto marrone, talmente unto che sembrava che da un momento all’altro potesse bucarsi. Ma almeno costavano poco. Apro il sacchetto, prendo una delle olive tra il pollice e l’indice: la ruoto, la giro come farebbe un sommelier con un calice di vino. Ovale perfetto, sembrava di stringere il mondo tra due dita. Doratura senza pari: una vera pepita 12


d’oro. La porto lentamente alla bocca e poi un sol boccone. Al primo morso un’esplosione. Fuoco e fiamme, un’eruzione vulcanica nella mia bocca. Il ripieno di carne come una colata lavica si fa strada nel palato e sulla lingua. Non riesco. Istintivamente ingoio. L’oliva, che il deficiente aveva dimenticato di snocciolare, mi si ferma in gola. Sgrano gli occhi. Comincio a tossire a ripetizione, come se dovessi sputare un polmone. Divento paonazzo. Cerco di parlare, ma non ci riesco, dalla mia bocca escono suoni strozzati. Inizio a gesticolare con le mani chiedendo acqua. Speriamo che il deficiente capisca. Lui corre al lavandino riempie un bicchiere fino all’orlo e me lo porge. Glielo strappo dalle mani e, tossendo, inizio a bere con la stessa foga di chi è stato nel deserto. Sento l’acqua scorrermi in gola e ai lati della bocca. Ma l’oliva resta ferma, immobile. Poggio il bicchiere sul bancone e inizio a darmi dei colpi al petto. Sembro un gorilla. Ma niente. In quel momento vedo il negro saltare il bancone e venirmi dietro. È alle mie spalle. Ma che vuoi? 13


Mi abbraccia all’altezza dello sterno ed inizia a stringermi ripetutamente: una, due, tre volte. La schiena batte contro il suo petto e sento il suo bacino premere contro di me. Ho capito cosa vuole: approfittarsi di me. Si sa che da quelle parti sono tutti di quel genere lì. Mi devo liberare. Col poco fiato che ho in corpo, mi divincolo alzando i gomiti. Poi come un ubriaco, barcollando mi reggo al bancone e cerco di trascinarmi il più lontano possibile da quel pervertito. Con il fiato strozzato ripeto: – Aiuto… aiuto… Il negrone mi corre dietro ripetendo: – Aiutare io… io aiutare… Sì, ho capito come vuoi aiutarmi tu. Avanzo come posso, sempre reggendomi al bancone. Barcollo, trascino in avanti prima il busto e poi le gambe. La vista si fa meno nitida: tutto inizia oscurarsi, I bordi si confondono, le immagini si sgranano. Mi fermo un istante. Con una mano mi stropiccio gli occhi. Ma lui sta arrivando. Lo sento, sento il suo fiato all’aglio e la sua voce che ripete: – Io aiutare… io aiutare… Prendo il bicchiere lasciato sul bancone e glielo tiro contro. Ma non vedo e non ho forza. Invece di disegnare 14


una parabola perfetta e prenderlo in fronte, il bicchiere mi scivola davanti ai piedi, frantumandosi in mille pezzi. Le schegge di vetro partono come proiettili. Mi riparo il viso con il braccio. Non vedo quasi più nulla, solo ombre, anzi solo l’ombra dell’uomo nero. Ma sento. Sento colarmi lungo le braccia il sangue, sento ancora quella voce fastidiosa, anche se ora sembra più lontana, somiglia al ronzio di una zanzara. – Curo io… tranquillo non preoccupare… curo io… Sono stanco, ho bisogno di riposare. Mi siedo a terra fissando il buio. La testa è pesante devo sdraiarmi qualche minuto. Mi stendo sul freddo pavimento del locale. Un vento gelido mi attraversa. Ho i brividi. Lui mi è ancora vicino, vedo la sua ombra accanto a me. Con le mani mi preme il petto a ritmo costante: – Uno… due… tre… forza signore… uno… due… tre… non morire signore… Non muoio tranquillo chiudo solo gli occhi un attimo. Intanto sento l’ombra avvicinarsi, mi spalanca la bocca con le mani e appoggiando le sue labbra alle mie inizia a soffiare come fossi un canotto. Ho sonno, voglio dormire e non ho la forza di oppormi. Vedi che avevo ragione che era un po’ ricchione... e non sa proprio baciare. 15


Riflesso di farfalla di Arturo Belluardo

Le mie mani sono macchiate d’ombra, ho la pelle talmente secca che talvolta ho la tentazione di scollarmela pezzo a pezzo, come si fa con i peperoni arrostiti sulla brace. Le vene blu quasi esplodono, ma ne verrebbe fuori solo un alito freddo: il sangue chissà se c’era, se c’è mai stato. Faccio scorrere i polpastrelli sulla testiera del letto, cerco il freddo, il liscio, ma sento solo le dita muoversi, le vedo girare sfocate lungo le volute d’ottone. Tento di chiamare Abramo, ma la voce non mi arriva. Nel bruno dello specchio vedo la mia bocca contorcersi in vocali senza contenuto, provo a leccarmi le labbra. Non capisco se ho ancora saliva nella pozza della lingua, sento solo un risucchio. Vorrei che Abramo fosse qui con me, ma tra le coperte c’è solo una fossa di tre anni. Vorrei che fosse qui a stringermi la mano, a sollevare i baffi macchiati di tabacco in una smorfia ironica. Cerco di trovare nello specchio un nostro riflesso assieme, ma vedo solo una pupa vuota, l’in16


volucro secco di una larva, una crisalide rovesciata: le ali di vanessa, svaporate in porporina dorata, rivelano il guscio di un bruco. Un bruco solo, seduto su un letto di lenzuola aggrovigliate. Povero, piccolo Abramo: chissà quanto sarebbe felice di vedermi sentire la sua mancanza. Quarantasette anni passati uno accanto all’altra e mai un minuto d’amore. Anni scanditi dal cigolio delle carrozze che si trasformava in violenza di ruspe per poi raggrumarsi nell’urlo del traffico di via Libertà. Non apro più la finestra ormai, ci pensava Abramo: gli piaceva allagare con il sole del mattino palermitano la nostra stanza. Abbiamo sempre dormito assieme, eravamo diventati bravissimi a non toccarci. Quanto ho odiato quel suo frinire notturno di grillo, non era neanche capace di russare come un uomo. Non era capace. Mi avrebbe dovuto cacciare via e non ne era stato capace. Mi avrebbe dovuto picchiare, consegnare ai carabinieri, ma niente. Aveva speso una fortuna per salvarmi, per ottenere poi cosa? Il diritto di sfoggiare in pubblico la sua farfalla, legata con un guinzaglio dorato. Povero, piccolo Abramo dalla bocca storta, chissà se mi hai mai perdonato, chissà se mi perdonerai. Ma non ho mai sopportato sentire i bambini piangere la notte. Eppure spero che non ci sarai tu ad accogliermi di là, non lo sopporterei. Un’altra eternità con te, senza poter scappare, 17


sarebbe quello l’inferno. Se almeno ci fosse. Ci fosse lui. Quel ricordo ucciso e sepolto, quel ricordo di un istante, di un’isola del tesoro in un mare di nulla. Se ci fosse il ballo di Franca Florio. Se ci fosse Rinaldo. Quel nome da paladino, Rinaldo Rinaldi, quel nome da doppio eroe, Rinaldo Rinaldi il pittore. Ricordo quando Michele Catti lo portò a casa Florio, l’azzurro dei suoi occhi guasconi moltiplicato dagli specchi liberty del salone delle feste. Abramo mi costringeva a sopportare l’alito di birra del Kaiser, mi inchiodava le mani alle stoviglie, ma i miei occhi si incrociavano con quelli di Rinaldi nei riflessi dell’argento. Non riuscivo a smettere di guardare. Anche adesso vorrei vedere allo specchio le mie ali, le cerco sul riflesso scrostato. Ma guardo solo buio. Allora provo ad accendere una bugia. Una bugia che illumini di nuovo quel salone, che infiammi il charleston dell’orchestra, che faccia sfolgorare il lamé dorato del mio plisset. E che Rinaldo Rinaldi mi trascini di nuovo a ballare, che i miei tacchi a spillo scivolino ancora sul marmo dei pavimenti di Franca Florio, mentre il rullante della batteria unisce le nostre gambe. Abramo rimarrà ancora seduto al tavolo del Kaiser a guardarmi con un sorriso di disgusto, mentre il tedesco riderà e batterà il tempo, facendo tintinnare le medaglie dell’uniforme di gala. E allora champagne – perdio! – champagne per anne18


gare quel disgusto, champagne per far sparire questa muffa di capra che mi incolla la bocca. Apro il frigorifero, la sua luce gelida sembra spianarmi le rughe, e prendo una bottiglia di Veuve Cliquot, l’ultima. Sfarino tutte le mie polverine nel flute, quante bollicine, quanta schiuma. Mi lecco le mani e per la prima volta ne sento di nuovo il sapore, la fragranza di giovane farfalla. Brindo davanti allo specchio e finalmente mi vedo. Con l’abito dorato, le spalle nude, una sigaretta dal bocchino lunghissimo e una fascia di velluto a stringere sulla nuca una piuma di pavone. E la mia pelle di avorio levigato. È così dunque: quello che fui sarò. Apro un vecchio baule di legno verde. Il mio vestito è lì, è ancora lì dove lo aveva riposto Abramo dopo averlo sottratto dallo studio di Rinaldo Rinaldi. Lo tiro su, me ne appendo le spalline alle mani e un riflesso rotola giù. Vedo le borse dei miei occhi specchiarsi in un triangolo sul pavimento. Una spatola da colore. Una spatola affilata come un pugnale. Una spatola, la spatola. Questa spatola che non dovrebbe trovarsi qui. Dovrebbe essere infissa nella gola del suo proprietario, nella risata di Rinaldo Rinaldi. Rideva, Rinaldi, rideva e si faceva beffe di me. Ero stesa sul suo letto, mentre mi dipingeva una grande vanessa sulla schiena nuda, le ali che mi arrivavano al culo, il colore che si mischiava al bianco dello sperma. 19


– Portami via con te, portami a Roma, portami via da Palermo. – Principessa, ti ho già regalato una farfalla. Non ti basta?. – No, che non mi basta. Rideva, Rinaldi, rideva. – Non ridere, non ridere! Mi sbeffeggiava, rideva del mio amore, del mio unico, possibile amore; mi chiudeva la porta in faccia, mi inchiodava con uno spillone all’album di una vita squallida. Allora il suo liquido bianco colò rosso nei miei occhi, non vidi più. Afferrai la spatola dalle lenzuola e gliela piantai nel collo, la risata si trasformò in gorgoglio, in risucchio. Non rideva più Rinaldi, il suo sguardo sorpreso virava dall’azzurro al viola. Le sue braccia cercarono di allargarsi sul letto come ali. Gli salii addosso a bloccarle, accovacciata sul suo pene floscio. Quando tolsi la spatola dal collo, un getto potente mi invase. Allora la calai ancora: una, due, tre volte. Mi rotolai nel suo sangue finché la mia farfalla non divenne vermiglia. Fin quando Abramo non la fece sparire nel suo impermeabile e mi portò via. – Pensaci tu, Abramo, pensaci tu, ti prego. 20


E ci aveva pensato, Abramo, ci aveva pensato. Anche senza amore. Purché stessi con lui. Ma adesso non più. Adesso basta. L’immagine nello specchio è rimasta lì a guardarmi, mentre l’orchestra attacca con il charleston. L’immagine che fui mi aspetta. Indosso l’abito di lamé plissettato sulla pelle floscia e ne distendo le pieghe assieme alle rughe. Colore, ho bisogno di colore. La spatola mi incide i polsi e mi tingo le labbra e le guance di carminio. Sono bella, ora. Sono bellissima. Stringo il mio carnet di ballo e avanzo nella stanza. E nello specchio è apparso Rinaldo, intrappolato nella superficie levigata come una mosca nell’ambra. È elegantissimo nel suo frac. L’azzurro dei suoi occhi è tornato a trapassarmi le labbra tinte di sangue. – Sei pronta, farfallina? Sei pronta a ballare con me tutta la notte? Le note del charleston invadono le mie lenzuola, mi spingono in avanti. E Rinaldo si inchina verso di me, la sua mano mi invita, le dita si schiudono nella mia stanza da vecchia. Non ho bisogno di rispondere, getto il carnet per terra, afferro la mano che sporge dallo specchio e volo attraverso. 21


Pezzi di gioia di Barbara Donzella

Era il loro secondo anniversario, oltre due anni di passione e devozione. Ogni mattina Giulia preparava il caffè nella vecchia moka e lo versava in due tazzine di ceramica gialla con dei piccoli gufi dipinti. Poi andava a dare il buongiorno al suo amore: – Buongiorno Fili! – gli diceva. Un sorriso galleggiava sul viso di Filippo, che la guardava da dietro al vetro con i suoi bellissimi occhi blu, incorniciati da lunghe ciglia, di cui lei si era innamorata a prima vista. Quel giorno Giulia, pettinandosi i capelli davanti allo specchio, di fronte al letto, chiese ironicamente: – Ti ricordi che giorno è oggi, vero? – e fissando l’immagine riflessa, vide Filippo, poggiato come sempre sul comodino, sorriderle con il suo solito sguardo fisso e bonario. – Vuoi sempre scherzare, lo so che te lo ricordi – disse 22


lei e proseguì: – E poi lo sai che non mi arrabbio quasi mai. Un istante dopo si diresse in veranda, aprì il pozzetto e guardandoci dentro, bisbigliò al suo contenuto: – Per festeggiare ho comprato la millefoglie che ti piace tanto! Però conviene toglierla dal freezer, sennò non si scongelerà in tempo per pranzo. Detto questo prese il dolce, lo posò sul tavolo della cucina, sotto gli occhi vigili di Annie e tornò indietro per risistemare a dovere i sacchetti alimentari numerati e datati “30/10/13”. Nel fare questa operazione si accorse, però, che qualcosa non andava. Quella che pareva una mano, stava cercando di evadere dal sacchetto numero 13 e Giulia sconcertata disse: – Senti Fili, così non andiamo d’accordo. Lo sai che non puoi andare da nessuna parte senza il mio permesso! e ricacciò con forza il fuggiasco nella propria prigione di plastica. Guardando quel sacchetto pieno di dita, ricordò la prima volta che le sfiorò. Filippo suonò al citofono e lei, sollevando la cornetta, chiese: – Chi è? – Raccomandata per la sig.ra Solari – rispose lui con 23


voce cortese. Giulia non appena lo vide non poté fare a meno di sorridere, notando la sua aria un po’ spaesata, che lasciava trasparire un leggero imbarazzo e quella targhetta un po’ sbilenca, appuntata sulla camicia, che dichiarava: – Filippo Dell’Uomo. Il modo in cui lui le disse: – Per favore, può mettere una firma qui? – e allungandole la busta, sfiorò la sua mano, le fece capire che era lui che stava aspettando. Ogni giorno, sino al momento in cui era costretta ad uscire, sostava davanti alla finestra nella speranza di vederlo materializzarsi e se sentiva uno scampanellio correva a rispondere. Quasi sempre, però, era qualche venditore della Folletto o un compagno di “Lotta comunista” o, più spesso, qualche fervente testimone di Geova che le chiedeva: – Buongiorno signora, potremmo farle una domanda? – e senza neanche aspettare riscontro, continuavano: – Come vede il suo futuro? Lei ha fede? Prima di conoscere Fili la sua risposta standard era: – Ma voi non avete altro da fare che importunare la brava gente?! – ma da quando c’era lui si lanciava in lunghe dissertazioni citofoniche, che concludeva con: – Il futuro è radioso per chi ha fede e perseveranza! 24


Gli altri, impressionati da tanta convinzione e trasporto religioso, non sapendo cosa ribattere, salutavano augurando buone cose. Il penultimo giorno di ottobre, Giulia si fece coraggio e non appena vide Filippo sul pianerottolo, intento a consegnare la posta alla sua vicina, la sig.ra Marozzi, famosa per la sua invadenza e propensione al pettegolezzo, aspettò che l’altra richiudesse l’uscio ed aprì lentamente la propria porta. – Buongiorno signor Filippo. Potrei offrirle un caffè in casa mia per ringraziarla dell’incomodo che le procuro quasi ogni giorno? – disse lei tutto d’un fiato, ripetendo il mantra che si era preparata da settimane. Lui inarcando le sopracciglia e cercando di sistemarsi alla meglio la targhetta col proprio nome, educatamente rispose: – Buongiorno a lei signora Solari, la ringrazio per l’invito ma non so se dovrei. – Non si preoccupi sarà un caffè velocissimo. Sarà il nostro piccolo segreto! – ribatté Giulia e concluse: – E comunque non sono sposata. Appena Filippo entrò in casa, Annie lo fissò da lontano con le grandi pupille dilatate e circondate da cerchi d’oro, ma dopo un attimo si avvicinò e dopo avergli annusato le scarpe, si strusciò all’estremità dei suoi pantaloni facendogli le fusa, in segno di approvazione. 25


Annie era l’unico essere vivente che avesse addomesticato Giulia e di cui lei si fidasse. Quando la donna prendeva tra le braccia quel piccolo animale, lo stringeva stretto stretto, con tutta la forza che aveva, tanto che Annie si irrigidiva, come fosse impagliata, sino a che Giulia, guardandola con tenerezza, non mollava la presa. Il piccolo tavolo della cucina era adornato con una tovaglia di lino bianco, un vaso a forma di tulipano con delle margherite fresche al suo interno ed una tazzina da caffè giallo canarino, pulita e pronta all’uso, su un piccolo vassoio d’argento. Filippo accomodandosi su una delle quattro sedie della cucina, poggiò entrambe le mani su una gamba ed aspettò. Dopo un momento sentì qualcosa di umido vicino alle dita, era il muso di Annie che voleva giocare. Lui sollevando l’indice, cominciò a farlo oscillare a destra e sinistra. Il piccolo animale, che seguiva attento l’oggetto mobile, si preparò e ad un certo punto saltò, ma Filippo ritrasse la mano e l’attacco andò a vuoto. Nel frattempo Giulia riempì d’acqua la caldaia della moka e poi scomparve nella veranda canticchiando a bassa voce una vecchia canzone di Dalla: – I tuoi occhi, adesso anzi io me li mangio, tanto tu non lo sai. 26


Poi aprì il pozzetto e sporgendosi in avanti prese una scatola di pasticceria da cui tirò fuori un dolce e tagliandone con cura due fettine, di tre dita precise, le poggiò su due piattini da dolce, di fine porcellana. Quando Filippo vide ricomparire Giulia, imbarazzato disse: – Non era necessario! Poi non vorrei offenderla, ma il dolce è meglio che non lo mangi. Quelle parole fecero crollare quel sogno ad occhi aperti che Giulia si era costruita con tanta cura, tanto che avrebbe voluto sbattere i piatti per terra. Non appena vide la faccia scura della sua interlocutrice, Filippo prese silenziosamente in mano la forchetta e tagliando un piccolo pezzo di millefoglie, se lo infilò tutto in bocca. – Buono, anzi no, ottimo! Davvero! – disse lui, proseguendo: – Mi scusi non volevo offenderla è solo che sono allergico alle nocciole ed avevo paura… – e non fece in tempo a finire la frase che cadde all’indietro, colto da convulsioni fortissime, con i muscoli del volto contratti. Lei, che non aveva mai visto una persona in condizioni simili, più che tenergli la mano, non seppe cos’altro fare. Tutto accadde in pochi istanti e Filippo smise di respirare. Giulia rimase in ginocchio accanto a lui, sino a che la stanza cadde nell’oscurità. 27


Le facevano male le gambe e la schiena ed alzatasi a fatica, prese Filippo per le mani e lo trascinò sino al divano, stendendolo e togliendogli le scarpe, affinché non sporcasse la fodera. Migliaia di idee le passarono per la mente, mentre gli carezzava i sottili capelli scuri, ma le scartò tutte. – Fili come facciamo adesso? Noi mica ci possiamo separare – gli disse Giulia. Poi accomodando il viso di lui, affinché quella brutta smorfia di sofferenza si tramutasse in un sorriso perenne, le venne un’idea geniale. Si mise il cappotto ed andò in ferramenta, tornando con un paio di guanti di gomma gialli, un telo di linoleum ed una sega per tagliare il ferro. Il lavoro fu piuttosto lungo e faticoso, anche perché inizialmente non aveva pensato in quante parti l’avrebbe dovuto dividere. Alla fine optò per la scelta più comoda, farne piccole porzioni, da poter tenere a portata di mano, per quando la nostalgia di Filippo si fosse fatta viva. Una parte, però, non se la sentì proprio di insacchettarla come tutte le altre, era la testa. Quella era il luogo di tutti i pensieri ed i sogni di Filippo e non avrebbe mai potuto fargli un simile torto, così alla fine la mise in un grosso vaso di formalina, accanto al letto, sul comodino. Col sacchetto ancora tra le mani, Giulia tornò al pre28


sente e si ricordò di aver scordato di comprare qualcosa da bere per il pranzo d’anniversario e chiudendo rapidamente il freezer, si finì di preparare ed uscì. Seduta sul bordo del pozzetto, leggermente aperto, Annie infilò prima la testa e poi tutto il resto del corpo in quel piccolo pertugio, ma non appena toccò con le zampe la plastica gelida si gonfiò come un palloncino pieno d’elio e prendendo un sacchetto tra i denti corse fuori. Cominciando a correre per tutta la casa, lo agitò, sbatacchiandolo ovunque. Poi uscì sul balcone, salì sulla ringhiera e percorrendola tutta oltrepassò il muro divisorio, sino alla casa della signora Marozzi, la quale era solita lasciarle sempre una ciotola di croccantini vicino al piccolo mandarino. Il suo balcone sembrava in realtà una serra, piena di piante ed alberelli di tutte le specie. Annie balzò giù con in bocca il proprio regalo e puntando un grosso vaso di erbe aromatiche, dove la terra era più morbida, creò con la zampa uno buco tra il basilico ed il rosmarino, in cui piantò la mano di Filippo. Poi, trionfante cominciò a miagolare, picchiettando con la zampa sul vetro della finestra, sino a che la padrona di casa non aprì e quasi svenne alla vista di quella cosa orripilante infilata nel proprio vaso. – Oh dio, oh dio, oh dio, oh dio! – cominciò a piagnu29


colare, come se vedesse un miracolo all’incontrario e subito corse a prendere il telefono. Quando Giulia arrivò ad un isolato da casa vide una macchina della polizia sfrecciarle accanto ed un capannello di gente in lontananza. Mentre si avvicinava sentì due persone parlare tra loro. Una diceva: – Ma cos’è successo? Una fuga di gas? I ladri? – e l’altra: – No dicono che una signora abbia trovato una mano nel proprio vaso di fiori e gliel’abbia portata un gatto. Non appena udì quelle parole Giulia si fermò e sgranò gli occhi. Il cuore saltò un battito e si sentì mancare il fiato, come se qualcuno la stesse rinchiudendo in una scatola via via sempre più stretta ed angusta e cominciando a vedere tutto nero, s’accasciò al suolo. In quel momento qualcuno la sorresse per le spalle e sentì una voce maschile dirle con gentilezza: – Signorina non si sente bene? Posso aiutarla? A stento Giulia riuscì ad aprire le palpebre, ma non appena voltò il capo e vide due interminabili occhi azzurri sopra di a sé, fece un profondo respiro e sfiorando la mano di lui, disse sorridendo: –Sì, grazie.

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L’ombrello di Cristina Faessler

Si sentiva particolarmente stanco quella sera. Il concerto era stato noioso, come sempre tra l’altro. Rinnovavano l’abbonamento alla stagione da più di trent’anni, un automatismo mantenuto più per l’abitudine d’incontrare altre coppie di conoscenti, che sua moglie si ostinava a chiamare amici. Nel silenzio della cabina dell’ascensore sentì sulle spalle tutto il peso dei suoi settantotto anni. Dietro di lui sua moglie saltellava da un piede all’altro. “Dovrà andare in bagno” pensò. Abbassò lo sguardo e tra i suoi piedi vide che si era formata una piccola pozzanghera d’acqua, alla base dell’ombrello chiuso che gocciolava. La sua mente si fermò a osservare i rivoli d’acqua che scendevano tra le pieghe della stoffa nera, colavano e si attorcigliavano attorno alla punta di metallo lucido per poi spargersi sul pavimento di legno. “Serataccia, che idea uscire con questo tempaccio, sarei rimasto volentieri a casa. Domani la sentirò nelle ossa, meglio che prenda una pasticca prima di andare a dormire”. 31


Arrivati sul pianerottolo del sesto e ultimo piano del palazzo nell’elegante quartiere Prati di Roma, sua moglie si precipitò ad aprire il portone e, scaraventando nell’ingresso la sua pelliccia e la borsetta da sera, corse in bagno in fondo al corridoio. Lui con calma aprì l’ombrello e lo mise ad asciugare a fianco della porta di casa. Entrò. Nel momento in cui chiuse la porta dietro di sé, sentì la voce di sua moglie dal bagno in fondo: Scusa caro, ho lasciato tutto all’ingresso! Ti dispiace mettere tu a posto? E l’ombrello mi raccomando, non lasciarlo fuori, non sta bene! Si va bene, lo faccio dopo, rispose con un tono annoiato e stanco. Ti dispiace farlo subito? – Insisté lei vagamente seccata – Quando dici “lo faccio dopo” quel “dopo” può durare settimane! Oddio che fatica! Aveva pronunciato quelle tre parole sospirando ma gli erano uscite più forte di quanto avesse voluto. Sentì i tacchi di sua moglie risuonare sul parquet a spina di pesce del corridoio mentre uscita dal bagno stava tornando nell’ingresso, seccata: È così faticoso fare quello che ti dico? Ti chiedo semplicemente di mettere l’ombrello dentro, non mi pare che questo richieda uno sforzo sovrumano. 32


Ho detto che lo farò. Non penso sia così grave se l’ombrello rimane una notte ad asciugare fuori. Non se ne accorgerà nessuno. È bagnato fradicio e non ho intenzione di bagnare il parquet portandolo dentro. Per cui, per questa sera, l’ombrello rimarrà fuori. E io ti dico invece che va messo dentro. Non ho alcuna intenzione di ritrovarmi domani mattina con gli occhi della vicina puntati addosso in segno di disapprovazione. Sono stata io a insistere alla riunione di condominio perché i pianerottoli siano lasciati sgombri da qualsiasi cosa. Non mi far fare brutta figura, intesi? Allora per l’ultima volta ti chiedo di mettere quest’ombrello dentro! Dio mio, esclamò lui sfinito, ma non è possibile avere un po’ di pace in questa casa? Non la smetti finché uno non fa esattamente quello che dici, vero? Mettilo tu dentro se ci tieni tanto! Io sono stanco e adesso mi vado a prendere un whiskey in santa pace. Molto bene! Stizzita e arrabbiata, aprì il portone di casa, uscì sul pianerottolo, chiuse l’ombrello e lo portò dentro. Con passo deciso, attraversò l’ingresso e percorse il corridoio in direzione del bagno con l’oggetto del contendere ancora zuppo e gocciolante sul parquet, lasciando un rivolo di acqua dietro di sè: Vedi? Non è poi così difficile! Basta avere voglia di farle 33


le cose! Ma tu, la voglia di fare qualcosa non l’hai mai avuta! Come posso pretendere che ti venga adesso, giusto? Fannullone eri quando ti ho conosciuto, fannullone sei stato durante tutta la vita e fannullone sei ora che sei vecchio! Mentre sua moglie si stava agitando, si diresse nel salone accanto all’ingresso e andò a versarsi un bicchiere del suo whiskey preferito. Il ghiaccio non c’era nel mobile del bar, pazienza, lo avrebbe preso liscio nella speranza che l’alcool riuscisse a rilassarlo e a non fargli sentire le stoccate provocatorie della moglie. Stranamente però, quella sera il benefico senso di stordimento non si manifestò. Sentì invece una rabbia sorda crescergli dal profondo delle viscere. Posò il bicchiere sul tavolino di mogano, si affacciò sul corridoio e disse: A chi stai dando del fannullone? Cominciò a percorrere il corridoio in direzione di sua moglie con passo deciso. – Io sarei un fannullone? Come ti permetti di dire questo? Eh? Piccola vecchia bambina viziata che non sei altro! Arrivato alla sua altezza, le strappò l’ombrello dalle mani, tornò sui suoi passi, aprì il portone di casa e urlando le disse: Hai capito? Questa notte l’ombrello rimane fuori! Non urlare con la porta aperta – si spaventò lei, correndo verso l’ingresso – ci sentono tutti! 34


Non me ne frega un cazzo, replicò lui ormai fuori di sé, hai capito? Che ci sentano i nostri amabili vicini del cazzo in questo bel palazzo del cazzo, che ci sentano! – E, rivolgendosi all’esterno del portone, immaginando i vicini con le orecchie tese ad ascoltare: – L’ombrello rimane fuori questa notte, avete capito? – buttando l’ombrello chiuso sul pianerottolo di fronte all’ascensore. Sei impazzito? La moglie si precipitò fuori, recuperò l’ombrello, tornò dentro casa e richiuse il portone. Con fare deciso si diresse nuovamente verso il bagno. Vedi, non appena bevi, diventi volgare. Il suo tono era sprezzante, feroce. – Sei volgare perché non sai cosa replicare, non hai argomenti e sai che ho perfettamente ragione, anche mio padre aveva ragione, lo aveva capito subito lui “Non ha spina dorsale”, mi aveva avvertita, “Non combinerà mai nulla!” Ah se lo avessi ascoltato, ah se lo avessi ascoltato! Si da il caso invece, seguendola lungo il corridoio, che quando sei rimasta incinta io avevo vinto una cattedra all’università di Los Angeles e stavo per andarmene, ricordi? E se sono rimasto qui e ho dovuto accettare il posto che tuo padre mi offriva a studio è soltanto perché tu mi avevi incastrato! Arrivati davanti alla porta del bagno, lei si voltò e impugnando l’ombrello a due mani si mise a camminare in 35


sua direzione, facendolo indietreggiare. Senti questa adesso! Ma come sei bravo a ribaltare le situazioni! Ti ha fatto comodo, eccome se ti ha fatto comodo essere preso da mio padre: Non saresti stato nessuno senza di lui, senza la mia famiglia, senza di me. Ecco dov’è la tua riconoscenza, verme, non sei altro che un verme! A chi dici verme, a chi dici verme, eh? Vecchia stronza che non sei altro! Sei vecchia e cattiva, ti puzza l’alito e mi hai rovinato la vita. Nel vomitarle queste ultime parole, mise le mani sull’ombrello tentando di strapparglielo. Sei tu che l’hai rovinata a me povero imbecille impotente! Non eri neanche in grado di scoparmi come si deve con quel tuo cazzo moscio! Con uno strappo violento lui le prese l’ombrello dalle mani e puntandolo verso di lei avanzò minaccioso: Il mio cazzo moscio? Ah si? Il mio cazzo moscio? Adesso te lo faccio vedere io il mio cazzo moscio! Con un gesto violento le colpì la pancia con la punta metallica dell’ombrello. Colta di sorpresa emise un gemito di dolore, portandosi le mani al ventre per cercare di ripararsi. Il dolore le tolse il fiato e le annebbiò la vista. In preda a vertigini, spostò la sua gamba dietro di sé per tentare di non cadere quando il tacco della sua scarpa, scivo36


lando sul pavimento fradicio, si piegò sotto il suo peso. La donna perse definitivamente l’equilibrio, cadde e andò a sbattere la testa sull’angolo del termosifone di ghisa. Si sentì un tonfo sordo. Scivolò a terra, incosciente. Attonito e incredulo lui rimase a guardarla per alcuni interminabili secondi. Poi, lentamente, nel silenzio ristabilito della casa con l’ombrello ancora in mano, si diresse nel salotto, si sedette nella poltrona Chesterfield accanto al tavolino e bevve un sorso del suo whiskey liscio. Il bruciore dell’alcol s’irradiò nel suo petto. Tirò un profondo sospiro, si appoggiò sullo schienale e posò lo sguardo sul suo ombrello nero, lucido, chiuso: “È asciutto ormai, posso lasciarlo dentro”.

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Il disertore di Flavia Ganzenua

Porto addosso le ferite di tutte le battaglie che ho evitato. Fernando Pessoa

Il bosco è talmente fitto, compatto che sembra caderti addosso. Si infittisce via via che precipita dalla montagna, è una valanga, e poi si arresta di colpo. Gli alberi sembrano aver perso il coraggio di attraversare il fiume proprio all’ultimo momento e sono tutti ammassati, tutti piegati in avanti. Si dice che fossero soldati e che un incantesimo li abbia trasformati in alberi. Il bosco è pieno di spettri, animali, uccelli, di uomini che ci si sono persi, di bosco a cui il bosco è cresciuto tutto quanto intorno. Io sono uno di quelli che ci si è perso, uno di quelli che è rimasto indietro, ben nascosto e che ha fatto finta di essere già morto, quando l’hanno voltato per finirlo con un colpo in testa – indietro, ben nascosto, aggrappato agli al38


beri che erano venuti giù, reti pietose che trattenevano a stento vestiti, scarpe, copertoni delle auto, li strappavano all’ingordigia del fiume, saccheggiavano il suo bottino di guerra. Aggrappato ai rami che si spezzavano, alle foglie, ai tronchi, spogliato di tutto ciò che avevo addosso dalla furia del fango e della corrente. Aggrappato, a occhi chiusi, dopo aver lasciato le vostre mani che mi trascinavano giù, a fondo – le mani, le gambe, giù, a fondo, con le unghie, a calci e pugni, giù, per i capelli, le spalle. Le vostre mani piccole tenute strette tra le mie tante volte al buio, di notte, con la luna e le stelle fluorescenti sul soffitto della stanza che vi conciliavano il sonno, strette tra le mie, mentre mollavamo i cartoni animati a metà, la cena nei piatti, il pigiama sul letto e correvamo sempre più forte per lasciarci il boato, che aveva fatto a pezzi gli argini, alle spalle – forte, sempre più forte, dopo che piatti e bicchieri avevano cominciato tremare insieme alle sedie, al tavolo e il bagliore accecante dei fili dell’alta tensione andati in corto circuito, in cima alla montagna, aveva illuminato a giorno la vallata, i recinti, le verande, il lampadario, il divano, noi, immobili, le posate che non stavano più ferme tra le dita, dopo che il vento aveva spalancato porte e finestre, un vento umido, che sapeva di terra, macchiava i vestiti, e che non si calmava più, toglieva il respiro, le forze, era cloroformio. 39


A occhi chiusi, aggrappato ai rami, alle foglie, fino a quando anche l’ultimo di voi non ha smesso di chiamarmi e l’ultimo cane non ha smesso di guaire, dimenticato alla catena. Per questo sono ancora qui. Ogni sera mi affaccio alla vostra stanza, vi cerco al buio, tra i giochi e i vestiti sparpagliati ovunque, abbandonati alla rinfusa e in fretta. Vi immagino supini, confusi alle coperte, il respiro pesante, a intermittenza, l’odore di sudore misto a urina con cui bagnavate le lenzuola e che m’investe ancora adesso. Vi cerco, poi chiudo la porta, esco, arrivo fino al bosco, sotto una pioggia che non ha più smesso di venire giù da quando è successo. Una pioggia fitta che appesantiva grembiuli e quaderni, spegneva accendini e sigarette, ci teneva a casa, al caldo. Ci faceva sentire in salvo e invece disperdeva i segnali del disastro, confondeva le tracce del mostro di fango e sassi, lo nutriva, svezzava perché fosse pronto a stanarci dai nostri letti, dalle nostre auto, al parco, al sicuro sui nostri plaid e sedie da picnic che scandivano sabati e domeniche. Esco, arrivo fino al bosco, faccio la stessa strada che abbiamo fatto quella notte. Imbocco il sentiero mozzo, quello che s’interrompe di colpo, spazzato via dalla corrente insieme alla vallata, ai piloni, al ponte. Arrivo allo strapiombo, non mi fermo, lascio che il mio stesso peso 40


mi trascini in basso. Frano, mi aggrappo ai rami degli alberi, ai rovi. Precipito, fino in fondo alla scarpata, al fiume, ci finisco dentro, sembro non fermarmi più, raggiungervi, finalmente, invece i piedi si insabbiano, la ghiaia li trattiene e interrompe la mia corsa, come ogni volta. Come ogni volta il fiume non mi prende, mi tiene a distanza, immerso fino alla vita, mezzo dentro e mezzo fuori dall’acqua – una figura mostruosa vista dall’alto, metà uomo e metà bestia. Mi tiene qui, in questo Cocito, mi costringe a contemplare il mio riflesso, a ritrovarlo ovunque, davanti, dietro, accanto, non ho alcuna via di fuga – il riflesso di chi è scampato al saccheggio, ben nascosto, l’unico della lista che è tornato indietro, sano e salvo, e di cui nessuno dimentica più il nome. Mi chino, raccolgo una manciata di ghiaia e la tiro con tutta la forza che ho in corpo. Il fiume non fa resistenza, l’acqua si disfa in infiniti cerchi, si ritrae per l’offesa dei sassi, lascia che penetrino giù, a fondo, e li trattiene lì, nel suo ventre, proprio come ha fatto con voi. Mi divincolo, a fatica mi libero dal fango, raggiungo la riva. Mi siedo al solito posto, accanto alla croce che qualcuno ha piantato sotto l’unico pilone rimasto. Non c’è nessuna scritta, nessun nome, ma io so che quella croce è per voi. So che è una mappa e che siete il tesoro che cer41


cano tutti e che nessuno troverà mai. Guardo ciò che resta della vallata, ciò che il fiume ha risparmiato – il bosco tagliato in due da un solco netto, quasi ripassato a squadra, tutta quella terra rossa, a vivo, una ferita ancora fresca. Guardo ciò che resta del ponte e penso che è come un arto fantasma, che fa ancora più male quando non c’è più. Mi rannicchio e resto immobile, proprio come quella notte. Lascio che la pioggia penetri a fondo, nel cappotto, nel maglione, che si ramifichi, come sangue nei capillari, come linfa, dalle radici all’ultima foglia – lascio e vi chiedo perdono, a fior di labbra. Da qui, dall’alto, con la divisa ormai stinta, sono un soldato che un incantesimo sta trasformando in albero.

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La mia professoressa d’italiano di L. Federica Tirrò

La mia professoressa d’italiano spaccava il minuto. Alle 8 era già seduta alla cattedra e faceva scorrere il dito lungo la lista dei nomi, un po’ per controllare che fossimo tutti presenti, un po’ per decidere su chi si sarebbero abbattute le sue interrogazioni. Se quel giorno non avevi studiato, ti metteva 1 e io ho sempre pensato che lo facesse per farti sperimentare l’isolamento di essere l’unico ignorante certificato del giorno. Vestiva in maniera decisamente inadeguata per sua corporatura, così come dimostravano quelle magliette troppo corte e attillate che le cingevano il seno abbondante e calante, abbinate a lunghi gonnelloni a pieghe dai colori cupi. Dalle tempie partivano lunghi ciuffi argentati che, incurante, lasciava crescere, ma che lisciava con soddisfazione al di sopra dei suoi occhiali appuntiti, mentre inquisiva la tua preparazione sull’Inferno di Dante. Aveva decretato la mia incapacità di scrittrice e mi invitava, puntualmente, a lavorare su altre mie doti poiché non sarei mai riuscita a districare il flusso contorto dei 43


miei pensieri. Per anni, dopo la fine del liceo, era immancabile rievocare episodi esemplificativi del timore che la sua figura generava e che era direttamente collegato a quei momenti sadici noti anche come la correzione dei compiti. La correzione era un evento solenne che avveniva mediamente ogni mese e mezzo e che aveva una funzione che oltrepassava spudoratamente l’obiettivo della correzione formale e contenutistica, tramutandosi in una succulenta occasione di pubblica umiliazione. A me toccò il giorno che sbagliai l’uso dell’aggettivo “cruento”. Quel giorno, a parere mio, una conversazione tra Catilina e Cicerone, doveva aver assunto un tono un tantino esagerato e mi era parso affascinante andare oltre la semplice violenza verbale, definendola “cruenta”. Giammai. Con le parole non si poteva sperimentare, figuriamoci se nella mia sfacciataggine adolescenziale potevo permettermi di “osare”. “Di Mieli, alla cattedra”, dissero quelle dita picchettando soddisfatte. Quel giorno ero la prescelta. Il rituale era semplice nella sua esecuzione: aprire il dizionario, posizionarsi al centro dell’aula e declamare il vero ed unico significato della parola incriminata ad alta voce. “Un errore dichiarato è uno sbaglio superato”, aggiungevano un paio di labbra rugose sogghignando. La classe puntual44


mente rideva, ma chiunque da un momento all’altro poteva tramutarsi da vittima a carnefice in pochi minuti. Finii col convincermi. Per anni mi ero sentita in colpa anche a scrivere una mail. Come ogni venerdì mi ero recata all’Istituto Campi Elisi dove da qualche mese mia nonna era stata ricoverata. Mi trovavo nella sala comune. Era una stanza bianca e squadrata, che la luce dei neon rendeva di un lucido fastidioso. Me ne stavo al centro, sorseggiavo un cappuccino tremendo preso al distributore, seduta su una sedia bianca, con i gomiti poggiati su un tavolo, anche questo totalmente bianco. Il mio sguardo era fuori fuoco. Seguivo distrattamente i camici, rigorosamente bianchi, dei medici e delle infermiere. Mentre il mio sguardo vagava imprecisato, le mie pupille furono attratte da una delle tante capigliature antiche che popolavano la stanza. Lunghi fili argentati partivano dalle tempie finendo a punta d’inchiostro sulle orecchie, dando alla vecchina, che aveva fermato la mia attenzione, un aspetto da elfo. C’era qualcosa di profondamente familiare in quella piccola figura ricurva che tremava parecchio. Buttai il cappuccino artificiale che sorseggiavo e mi avvicinai. La riconobbi. 45


Le sue dita, che a lungo ci avevano terrorizzato, picchettavano ancora sul tavolo ma ora si erano attaccate alle ossa della mano. Seduta su quella poltrona bianco latte sembrava una regina destituita, che conservava tutta la sua autorevolezza ma che aveva perso, di fatto, il suo potere. Gli infermieri l’avevano posizionata vicino la vetrata, affinché prendesse un po’ di luce. Nell’osservarla mi ero avvicinata a lei e mi stupivo di come ancora non mi avesse riconosciuto, dato che il suo corpo era in parte rivolto verso la sala. Le mie labbra avevano iniziato ad abbozzare un sorriso. La cosa mi spiazzava un po’. Non pensavo di poter provare empatia per quell’essere. Mi stava addirittura venendo voglia di raccontarle di me, di tutti gli obiettivi raggiunti in quegli anni e che, forse, l’avrebbero sorpresa ma lasciai spegnere tutti quegli entusiasmi pochi attimi dopo, quando mi resi conto dei suoi occhi velati, che rimanevano socchiusi nel tentativo inutile di aprirsi anche se la mia presenza si era fatta più vicina. Decisi di sedermi davanti a lei. Voci di vecchietti e di tivù, troppo alte riempirono quei primi secondi del nostro ricongiungimento. – Adele, sei tu? – la sua voce tremava come sul punto di piangere. Senza pensarci le presi le mani e in quella stretta mi assalì una profonda sensazione di abbandono. – Mi dispiace, mi dispiace – disse, poi prese fiato. Far 46


uscire le parole in sequenza sembrava una pratica dimenticata per lei. Le servivano lunghi respiri per andare avanti. Riprese a parlare: – Perdonami. Ho usato parole dure. Se l’ho fatto è stato solo per evitare che commettessi il mio stesso errore. La sua dialettica era ancora impeccabile. Si fermò esausta. Poi le sue mani lasciarono la mia presa. Cercavo di ricomporre l’immagine originale che avevo di quella donnina: quel suo personaggio a tratti grottesco, nel suo metro e cinquanta e i suoi chili di troppo che inutilmente ogni giorno in classe cercava di contenere nei suoi abiti antiquati. La vita che evaporava via dal suo corpo le dava ora il pallore di uno spirito ed era la prima volta che vedevo uno spirito chiedere perdono. Tornò assente e rassegnata. Un brivido di onnipotenza mi percorse la schiena. Mi alzai delicatamente, caso mai desiderasse dirmi qualcos’altro ma questo non avvenne. Mentre camminavo verso il grande giardino che circondava la casa di riposo, iniziai a chiedermi se anche la sua vita privata fosse stata una continua affermazione di autorità, esattamente come aveva fatto con noi studenti. E chissà dove era Adele ora. Il venerdì dopo mi trovavo di nuovo nella stanza comune. Il candore delle pareti rendeva tutto così sospeso. Pensai che fosse un’ottima prigione in cui finire i propri giorni. 47


Iniziai a cercare la professoressa Cutrufelli con lo sguardo ma non riuscivo a scorgerla tra tutti quei vecchietti. Bloccai la prima infermiera che mi passò davanti e chiesi di lei. – La signora è sua parente? – Ci conoscevamo da molto tempo, diciamo. – Condoglianze allora. La signora purtroppo è deceduta nella notte. So che i funerali si terranno domani mattina alle 8 nella cappella dell’Istituto. Mi raccomando, sia puntuale. L’invito alla puntualità mi lasciò un po’ sorpresa, ma sapevo che la prof ne sarebbe stata felice. La mattina dopo spaccai il minuto. Entrai nella cappella, dove pochi altri vecchi stavano seduti sui banchi. Di quella che poteva essere Adele, nessuna traccia. La chiesetta era illuminata pochissimo e da fuori filtrava una luce debole, tanto più che la giornata fuori era nuvolosa. Sentivo l’eco dei miei passi mentre mi dirigevo verso bara ancora aperta. Le diedi un ultimo sguardo: il suo viso era tornato severo come un tempo e quasi mi sentii confortata ad aver ritrovato il personaggio che conoscevo. Nel trovarla ancora così mi sentii quasi fortunata. Nessuno sapeva che da giorni avevo un regalo per lei. Lo presi dalla borsa, verificando di essere al sicuro da sguardi indiscreti, e lo disposi tra le sue mani di marmo. 48


Avrebbe avuto tutta l’eternità per leggere una copia del mio primo libro.

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Agos e Cat di Paola De Donato

Caterina e Agostino giocavano a “Parola o LEGO”, che Agostino aveva inventato e insegnato a Caterina. Davanti a loro c’era un muro fatto di LEGO in fase di costruzione; a turno, uno sceglieva una parola o un’espressione comune e dava degli indizi all’altro affinché indovinasse, per ogni parola non indovinata bisognava aggiungere un LEGO alla costruzione e quando, alla fine, la parola s’indovinava il “muro di LEGO” veniva distrutto dai due bambini, che si divertivano un mondo a sparpagliarne i pezzetti per la stanza. Quel giorno toccava a Caterina inventare. “Dunque, è una frase che si dice quando si è amici di qualcuno, come noi ad esempio” spiegava emozionata. “Mmhhh, è, per caso COME STAI?” tentò Agostino. “No Agos, quella è una domanda che si fa anche a chi non è tuo amico, la frase che intendo io si dice solo alle persone per le quali si prova affetto: tu, ad esempio, per dimostrarmi il tuo affetto cosa diresti?” chiese speranzosa. 50


Agostino aggiunse con calma un LEGO alla costruzione, prendendosi, così, qualche secondo per riflettere. “Probabilmente ti direi TI VOGLIO BENE” disse infine, guardando i LEGO sparsi per la stanza. Caterina provò una gioia momentanea, svanita nell’accorgersi che l’amico, anziché lei, guardava in basso. “Che intendi per probabilmente ti direi ? Non lo pensi davvero?” “Si fa per giocare” disse Agostino con una noncuranza che mise Caterina in agitazione. “Che vuol dire scusa?” “Che te lo sto dicendo solo perché è la frase che hai scelto oggi, ho indovinato no?” “Si, ma se non lo pensi davvero non vale” rispose lei con tono acido. “Quindi vorresti dire che tu hai sempre pensato tutte le parole e le frasi con cui abbiamo giocato fin ora?” “Tutte, dalla prima all’ultima” rispose lei fiera. “Non ci credo, sei proprio una bugiarda” la canzonò lui. “Semmai il bugiardo sei tu”. Caterina, tremante, aveva alzato la voce nel pronunciare la parola bugiardo”. “Se io sono bugiardo, allora tu sei falsa” aveva risposto lui. “Agos ma che dici?” Caterina non poteva credere che quella conversazione la stessero facendo proprio loro due. “Sì Cat, non è possibile che hai sempre considerato 51


vere tutte le parole con cui abbiamo giocato”. “E invece sì! e credevo che le pensassi tutte anche tu!” “No Cat, anche perché si tratta solo di un gioco” “Se è solo un gioco, allora aggiungi un’altra costruzione, perché non hai indovinato” “Sì che ho indovinato, invece” “No, non basta, lo devi pensare” “Caterina, non puoi cambiare le regole come ti pare!” gridò lui. “Non sto cambiando le regole, sei tu che non le hai mai rispettate, quindi aggiungi un pezzo a quella diamine di costruzione” fece lei arrabbiata. “Io le regole le rispetto e come, anche perché il gioco l’ho inventato io quindi lo conosco meglio di te! Lo sapevo che non dovevo insegnartelo, ho fatto male!”. Paonazzo in volto, si alzò di scatto, dando un calcio alla costruzione di LEGO e facendola crollare; dopodiché corse via. Guardando i pezzi di costruzioni sparsi per la stanza Caterina si sentì pervadere dallo sconforto. Erano giorni che si sentiva un attimo felice e quello dopo triste, e quel fastidiosissimo affare chiamato assorbente che aveva nelle mutande la innervosiva ancor di più; a scuola le amichette la invidiavano “Sei diventata signorina a dieci anni appena, beata te!” eppure lei non si sentiva per niente beata, anzi 52


avvertiva che quell’essere diventata signorina faceva a cazzotti con la sua passione per i giochi che faceva con Agos. In quel momento il dolore di quei cazzotti lo sentiva ancor di più e pensò che era colpa sua se lei e Agos avevano litigato; quindi raccolse un LEGO e andò a cercare l’amico. Agostino era corso a casa e si era chiuso nella sua stanza. Quando Caterina entrò, lui non se ne rese nemmeno conto; era intento a guardare una foto sul comodino. “Agos facciamo pace?”. Avrebbe voluto dirgli subito che era colpa sua, che era strana perché era diventata signorina, ma si vergognò. “No Cat, lasciami in pace per favore” “Dai Agos” insistette Caterina poggiandogli una mano sulla spalla “scusa per prima, mi rimangio tutto ciò che ho detto, hai indovinato la parola e il LEGO, per penitenza, lo metto io, ok?” aggiunse mostrando il pezzetto di costruzione all’amico. Come risposta, Agos scostò violentemente il braccio di Caterina dalla sua spalla, e rimase in silenzio. Quell’atteggiamento, seppur feriva Caterina, era talmente strano che la bambina, meravigliata, pensò che anche l’amichetto, avendo dieci anni come lei, stesse vivendo ciò che stava vivendo lei. “Agos, non è che sei diventato signorino anche tu ?” gli chiese ingenuamente. 53


Sul viso di Agostino si dipinse un’espressione stupita e arrabbiata allo stesso tempo. “Ma che stupidaggini vai dicendo? Vattene via! Ti ho detto di lasciarmi in pace!” “Scusa Agos, è che mi sento tanto strana e allora pensavo che anche tu…” Ma Agostino non l’ascoltava, continuava a fissare la foto sul comodino, che lo raffigurava qualche anno prima accanto a una bimba. Anche Caterina si mise a osservare e pensò al giorno in cui aveva conosciuto Agostino, due anni prima, quando si era trasferito, assieme ai genitori, nell’appartamento accanto al suo. Era rimasta subito colpita da quel bambino che, piangendo, ripeteva ai genitori “Vi prego torniamo a casa, vi giuro che non lo faccio più!” e, dato che la mamma e il papà non gli prestavano ascolto continuava “Non ve lo perdonerà mai di averla lasciata sola lì, non ve lo perdonerà mai!”. Incuriosita da quelle parole, qualche giorno dopo Caterina aveva invitato il bimbo a giocare da lei e, con la naturale sfrontatezza di cui sono dotati i bambini, gli aveva chiesto chi è che avevano lasciato sola; il bambino le aveva risposto seccamente “mia sorella che sta in cielo”. “Oh mi dispiace! E cos’è che non farai più?” aveva insistito ancor più interessata. 54


“Fai troppe domande, non gioco con te se continui”. A quella risposta Caterina non aveva osato più chiedere nulla in proposito. Tentò nuovamente. “Dai Agostino, ti ho detto che hai vinto tu, per favore perdonami”. “Lasciami solo con Greta Cat, per favore”. Agostino aveva pronunciato quelle parole con estrema calma, come se si trovasse altrove. “Ma che dici Agos? Mi hai detto che tua sorella sta in cielo, come fai a stare con lei?” “E a te che te ne importa? Presto ci starò!” “Che vuol dire Agos? Che hai in mente?” “Me l’hanno impedito; mi hanno portato a vivere qui pensando che, lontano dalla vecchia casa, non ci avrei più provato, ma si sbagliavano, ora ritento, e questa volta ci riesco, vado da mia sorella” e così dicendo, si alzò dal letto. A Caterina fu finalmente chiaro ciò che Agostino aveva giurato di non fare più il giorno in cui supplicava i genitori di riportarlo a casa. “Non te lo permetterò Agos, non te lo permetterò” disse impaurita. “È colpa tua Caterina, è tutta colpa tua che mi hai fatto pensare a lei, ora levati”. Agostino si era avvicinato alla finestra della sua stanzetta, l’aveva aperta e stava per sporgersi di fuori. 55


“Fermati Agostino, non ti consentirò di fare sciocchezze!” Gli urlò Caterina che sentiva il suo cuore battere forte. “No, Caterina, non mi fermerai!” Diceva il bambino, che stava per sporgere una gamba fuori dalla finestra. “Ci vuoi scommettere che te lo impedisco? Ci vuoi scommettere?”, gli disse lei uscendo di fretta dalla stanza, stringendo in mano il pezzo di LEGO talmente forte che sentiva l’angolo premerle sul palmo della mano e farle male. Quell’inaspettato evolversi della situazione distolse Agostino dal suo intento, spingendolo a correre dietro Caterina; la seguì per le scale del palazzo “Caterina, fermati che fai?” le sue grida lo precedettero giù per le scale ma non riportarono indietro nessuna risposta. Giunto nel cortile si fermò, guardò avanti a sé e vide Caterina correre verso la strada. “Fermati Caterina, cosa vuoi fare?” Ma, questa volta, era lei a non rispondere; d’improvviso la mente di Agostino tornò a qualche anno prima, a quel fatidico giorno in cui la palla con cui lui e la sorella giocavano era finita in mezzo alla strada e Greta era andata a recuperarla proprio mentre una macchina sfrecciava ad alta velocità. Sentì il presente fondersi col passato. “Greta ti prego fermati, non lo fare di nuovo!”. Le parole che gli uscirono erano cariche di paura e confusione. Caterina, che nel frattempo, 56


si era fermata sul ciglio della strada, udì chiaramente ciò che Agostino aveva detto, e, come se qualcuno le avesse improvvisamente tolto tutte le energie, si accasciò sulla strada impietrita. Agostino, vedendola distesa sul ciglio della strada, la raggiunse e si sdraiò sopra di lei, chiudendo gli occhi; passò qualche secondo, quindi sentì il suono assordante di un clacson e una macchina passare vicino. “Ma che vi siete ammattiti? Levatevi da lì che è pericoloso, andate a giocare da un’altra parte!”, aveva urlato l’automobilista che li aveva schivati. Agostino, pur confuso, avvertì che erano in pericolo e, con fatica, sollevò Caterina e la distese sul marciapiede. Poi la guardò attentamente, e la nebbia che aveva invaso la sua mente svanì in un attimo; riconobbe l’amica, che da mesi l’aiutava a trasportare quel pesante dolore che si portava dietro, e iniziò a darle forti schiaffi in faccia per svegliarla. “Svegliati antipatica che non sei altro, svegliati ti ho detto!” esclamava mentre continuava a darle forti schiaffi. “Ahia, ma che sei scemo?” Caterina aveva subito avvertito gli schiaffi di Agos e, svegliatasi, si era messa seduta. “Mi hai fatto malissimo!” continuò, poi guardò Agos preoccupata. “Agos chi sono io?” aveva domandato col cuore in gola. “Hai sbattuto la testa Caterina? Ma che domande fai?” le chiese il bambino. 57


In un attimo tutta la paura andò via, e la gioia sopraffò Caterina, che si buttò tra le braccia dell’amico. “Giuramelo, giurami che non provi più a raggiungere tua sorella, giuramelo!” gridò nell’orecchio del bambino. “Caterina mi stai stritolando e per di più mi hai stordito!” “Giuramelo ti ho detto!” “Te lo giuro” disse Agostino. Ed era la verità, sapeva che non ci avrebbe più provato. “Cate, non buttarti più in mezzo alla strada” Gli disse lui con tono severo. “Prometto, così stiamo pari” Poi un dubbio gli attraversò la mente. “Cate, pensi che ora che sei diventata signorina potremmo essere ancora amici? Perché io non credo di essere diventato signorino”. “Certo che possiamo Agos, ti giuro che possiamo” disse Caterina ridendo. “Ti voglio bene Cat, ora lo penso davvero” Caterina guardò il ciglio della strada, il pezzo di LEGO che aveva tenuto stretto in mano era lì, probabilmente aveva ceduto al peso dei loro corpi e si era rotto. Il gioco “Parola o LEGO era terminato, e avevano vinto entrambi. “Ti voglio bene anch’io Agos, e chiamami sempre Caterina, ti prego” disse ancora abbracciata all’amico. Lui le appoggiò il viso sulla guancia e pianse calde lacrime che scesero sul collo di Caterina, accarezzandola. 58


Il grande palloncino di Paolo Marchione

Il cane abbaia, legato ad un palo, lasciato lì per un momento da un qualche padrone assenteista. Il bimbo lo guarda, da lontano, incuriosito ed inquieto. Poi lascia la mano della madre, distratta, presa dal chatting sul suo smartphone, e si avvicina incauto verso il giovane Pit Bull. È marroncino, taglia media, ancora non completamente adulto. Spaventato e minaccioso. È abbastanza grande da inghiottire il bambino. Lui questo non lo sa, e si avvicina, mugugnando qualche verso, con il braccino alzato ad indicarlo. Agli occhi del cane, però, quel braccino è un bastone, pericoloso e ludico al tempo stesso, da prendere ed espropriare al legittimo proprietario. La camminata del bambino diventa una corsa, quasi a volersi infrangere contro il cane. La sua manina è a un metro dai suoi denti schiumosi. All’improvviso, una mano afferra il polso del bambino. È la madre. Appena in tempo. Lo porta lontano dal cane, deluso e 59


sollevato al contempo. “No!” esclama secca la madre, “Non ci provare mai più! Poteva sbranarti! Lo capisci?” Il bambino mugugna, è rattristito. Aveva ancora voglia di giocare, di esplorare. Il sole è sulla via del tramonto, ma lui non è stanco, non è sazio, tutt’altro. La madre invece lo è, eccome. Dopo un intero pomeriggio a stargli a bada, a divertirsi con lui. E poi a preoccuparsi. A decidere, volta per volta, cosa fosse giusto, cosa fosse meglio, cosa fosse adatto, cosa, cosa, cosa. Casa, ecco a cosa pensava ormai. Voleva preparare la cena, magari vedersi un film, e poi crollare. Non chiedeva altro, non chiedeva molto. Anche se si è giovani, del resto, le energie poi finiscono. L’ultima passeggiata in fondo al pontile, a vedere il mare da vicino. Poi a casa, però. La sua amica incalza, su Whatsapp. “Cosa ne pensi allora? Hai capito chi è?” Sì che ha capito chi è. Uno carino, ma niente di più. Forse un po’ sciapo. E poi ora le mani di suo figlio non se le perde in cambio delle foto dello sciapo. 60


Certo, è tanto che non esce con un uomo. E a volte la solitudine la afferra e la tiene stretta, proprio come lei, ora, con le mani di suo figlio. Che ha ricominciato a tirare. A volere. A chiedere. Lui adesso indica un gruppo di ragazzini, adolescenti. Stanno facendo skate su di un lato del pontile. Sfrecciano sulle tavole a quattro ruote, sono bravi. Abbastanza bravi da evitare i passanti, da lasciare che la gente possa godersi il tragitto come se loro non ci fossero, come se non esistessero. Per il bambino esistono eccome, però. E lui è deciso ad andargli incontro, a capire cosa ci sia di magico in quello sfrecciare. Magari potrebbe saltare sopra quella tavola con le ruote, proprio ora che uno di quei ragazzi sta sfrecciando a pochi metri da lui. Il bimbo tira le braccia della madre, vuole correre incontro allo skate che sta correndo via. La madre lancia un’occhiata. Il tempo di un “No!”, stavolta pronto e deciso. La sua amica insiste, sempre su Whatsapp. Vuole organizzare una cena, le dice che secondo lei lo sciapo è perfetto. Che le farà bene, è troppo stressata in questo periodo. Lei le risponde di provare a fare un figlio, poi vediamo 61


chi è stressata. La sua amica ribatte, le dice che suo figlio è una scusa, che è un bambino adorabile e che lei è stressata perché non scopa da troppo tempo. Lei si innervosisce. Suo figlio continua a tirare, chissà cosa vuole adesso, lei nemmeno alza più lo sguardo. Ha gli occhi fissi sul telefono. “Che ne sai tu da quanto non scopo.” le risponde. Il bambino indica una bambina con un palloncino. “Lo so benissimo. Sei stata tu a dirmelo, appena una settimana fa” ribatte l’amica. Arrivano in fondo al pontile, il bambino tira con tutta la sua forza, sembra voglia staccarle il braccio indicandole il carretto dei palloncino, con l’omino che gonfia i palloncini di tutti i colori. “Lo sai che c’è? Allora ci esco e me lo scopo il tuo sciapo, cosi vediamo chi è stressata!” le scrive. Tira fuori una bottiglietta d’acqua, da un rapido sorso e poi si volta verso il bambino. “Ti ho detto di No!” esclama ad alta voce. Non fa in tempo a finire la frase che l’acqua le va di traverso. Si accascia a terra. Perde i sensi.

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I presenti accorrono. Il bambino è smarrito, confuso. La mamma è a terra, con gli occhi chiusi. Il telefono a pochi metri da lei. L’uomo dei palloncini è il primo ad intervenire. Si fa spazio tra la folla e si china sulla donna. Le pratica una respirazione bocca a bocca. L’atmosfera è sospesa. Pochi istanti dopo, la mamma riacquista i sensi. Immediatamente, però, scopre che l’uomo la sta letteralmente gonfiando. La sua pancia si sta gonfiando, così come le sue gambe e le sue braccia. Lei cerca di mugugnare qualche parola, ma non c’è verso. Ha le labbra serrate da quelle dell’uomo, che la continua a gonfiare, trasformandola a poco a poco in un enorme pallone. La donna adesso levita in aria, proprio come un palloncino. L’uomo le lega uno spago alla caviglia e lo porge al bambino, tra lo stupore della folla e qualche applauso. Il bambino ha gli occhi pieni di meraviglia. Finalmente calmo. Prende lo spago e ringrazia l’uomo con un sorriso. Si allontana lungo il pontile, alla luce del tramonto, con la mamma legata ad un filo, come un grande palloncino. 63


Se fai la brava ti porto al cimitero di Adele Nina

I bambini sono degli enigmi luminosi. Daniel Pennac

Marta giocava. Seduta sul letto aveva messo in fila tutte le sue bambole “allola” disse con la sua vocina squillante puntando il dito “ dovete fave le bvave! Hai capito susanna?” aggiunse spostando il ditino paffuto verso una bambola di pezza con le lentiggini colorate di rosso “ tu sei sempve un poco monella e i bambini monelli...” scosse la testolina riccia “eh non no, te l’ho detto: solo se fai la bvava ti povto al cimitero!” rimase ancora qualche secondo ad osservare le bambole in fila poi, come contrariata dal loro silenzio, si alzò “aspettatemi qui” disse dall’uscio continuando a tenere il ditino puntato “tovno subito” si voltò e a piedi scalzi sul pavimento di maioliche at64


traversò il lungo corridoio. Si fermò davanti ad una stanza, l’ultima in fondo. Rimase sull’uscio “mamma” chiamò sottovoce quasi un sussurro “mamma” Aspettò una risposta “Mamma” disse ancora e aspettò ancora una risposta. Che non arrivò. Si alzò sulle punte e sporse la testa per guardare oltre la serie di macchine e tubi. Tutto ciò che riuscì a vedere dalla sua altezza fu il viso pallido della donna sdraiata sul letto. Gli occhi chiusi “mamma dovmi anche oggi” sussurrò Aspettò sempre sperando in una risposta poi senza riceverne alcuna abbassò la testa ma non si mosse. “ciao piccolina” disse una voce di donna alla sua destra “tu devi essere...” “mavta” “Marta certo! che fai così impalata? Hai bisogno di qualcosa?” aggiunse accovacciandosi al livello della bambina e sollevandole il viso dal mento appuntito. “sei sempre così spettinata bimba bella?” chiese la donna spostandole i ricci che le cadevano davanti agli occhi “diventerai cieca, e sarebbe un peccato con questi bellissimi occhi azzurri!” “mamma dovme” “lo so piccolina. Non essere triste però, lo sai che ha bisogno di dormire la tua mamma” 65


“ma…” “vedrai che magari domani starà meglio e potrai parlarle” “ma, lei, mi aveva pvomesso” “cosa? Cosa ti aveva promesso?” disse la voce accarezzandole la guancia rosa e tonda “mamma mi aveva pvomesso che se facevo la bvava mi povtava al cimitevo” “al cimitero?” “sì, a tvovare il mio papà!” rispose contenta Marta “lui sta li. È movto lui ma la mamma mi ha detto che sta bene anche se è movto. È in un posto bello bello” La donna la guardava in silenzio “e quando la mamma non dovme, come adesso, e il tempo è bello usciamo e andiamo al cimitevo, lì ci sono tanti fiovi e albevi gvandi gvandi” continuò Marta disegnando con le mani la chioma degli alberi “pevò, nessuno pavla mai oppuve pavlano piano piano fovse per non distuvbare i movti che dovmono” “forse” “io povto anche le mie bambole, ma non tutte pevò” Marta scosse la testa con espressione seria poi sollevò le dita “solo due alla volta, quelle che sono state bvave!” “quelle che fanno le brave le porti al cimitero con te!” disse la donna alzandosi 66


Marta segui il movimento con gli occhi e il capo e guardando verso l’alto annui con tale veemenza che di nuovo i ricci le caddero sopra gli occhi. Con la manina li spostò e cercò di metterseli dietro l’orecchio “tu invece che sei venuta a fave qui?” chiese poi, cambiando discorso, alla donna in camice bianco “sei venuta a cambiave i fili nel bvaccio di mamma?” “sì piccolina. Sono un’infermiera” “sei una bvava tu? Puoi fav svegliave la mia mamma?” “lei ha bisogno di dormire ancora un po’ così poi quando si sveglierà starà così bene che potrà portarti dove vuoi!” “al cimitevo?” “dove vuoi tu” “al cimitevo va bene” disse Marta voltandosi “ciao infevmieva!” aggiunse agitando la manina “vado a vedeve se le mie bambole hanno fatto le bvave” Con la sua andatura trottelerante tornò nella sua stanza. Guardò di nuovo le sue bambole sistemate ordinatamente sul letto “nemmeno oggi si va al cimitevo. La mamma dovme” sussurrò guardandole Rimase in silenzio per alcuni minuti lo sguardo corrucciato poi il sole, filtrando dalla finestra, le illuminò il viso: sorrideva 67


“pevò” disse “fovse, se, Eh sì eh, potvei fare pvopvio cosi!” E piu ci pensava piu l’idea le sembrava bella “sìììììì” gridò saltando e battendo le manine paffute “adesso vi uccido tutte! Come in tv! Tu” disse poi indicando la bambola dai capelli rossi “a te potvei stvangollavti con questo bel nastvo vosa...” Disse mostrandole il nastro che pendeva dalla spalliera del letto “mi vaccomado pevò, quando lo stvingo devi cacciare fuori la lingua così guarda” aggiunse tirando fuori la sua lingua “così di lato e poi devi apvive gli occhi gvandi gvandi!” disse spalancando i suoi “tu invece” disse rivolta alla seconda bambola della fila, un bambolotto biondo e paffuto “tu invece, mmm” mugugnò con il ditino sulla bocca “a te ti pugnalo con la spada piumata fatata della pvincipessa del mondo incantato. Così muovi ma non ti fa tanto male, tu sei buono e bello” e lo strinse a se baciandolo. Volgendo lo sguardo sulla terza bambola dal vestito a fiori e lunghi capelli biondi e boccolosi “a te stacco la testa! Cosi!” In un batter d’occhio la bambola era stata decapitata, i suoi occhi spalancati guardavano la finestra. Con la manina paffuta glieli chiuse “così fanno in tv.” La quarta bambola, che poi era una barbie con le punte 68


dei piedini mangiucchiati, la avvolse fra i fili di lucine colorate che aveva intorno alla spalliera del letto. “Se metti la manina nella pvesa, così guavda” disse avvicinandola alla presa della corrente “muovi subito e tutti i capelli si alzano in testa!” Rise di cuore al pensiero e stava ancora ridendo quando l’infermiera si avvicino alla porta “perche ridi piccolina?” “niente” rispose scrollando le spalle “un niente divertente però!” “i capelli, tutti alzati in testa!” la sua risata era contagiosa e l’infermiera non poté fare a meno di sorridere. guardò la bimba poi il letto: Una delle bambole era senza testa, la barbi appesa ai fili, quella di pezza aveva un nastrino colorato stretto intorno alla gola e il bambolotto uno strano pugnale infilato sotto la camicina bianca. “cosa è successo alle tue bambole?” Un sorriso furbetto illuminò il viso di Marta “le uccido tutte così muoiono e si va divettamente al cimitevo anche se la mamma dovme” La donna guardo la bambina poi le bambole e poi ancore la bambina “capisco” “è una buona idea vevo?” “insomma” “pevchè?” 69


“uccidere non è mai una buona idea” “pevchè?” “come perché? Non si uccide!” “pevchè?” “andiamo su Marta! Non si uccide. È vietato dalla legge e se uccidi vai in prigione!” Marta ci pensò su un po’ “ma io le uccido pev finta. Vedi?” disse poi cercando di rimettere a posto la testa della bambola decapitata “vedi, non è movta per davvevo!” “lo sapevo che eri una brava bimba!” disse l’infermiera voltandosi al rumore di un campanello “ecco, la tua mamma si è svegliata!” aggiunse uscendo dalla stanza. Marta la osservò mentre si allontanava a passo svelto con il camice bianco svolazzante poi prese la bambola e con un gesto veloce le staccò di nuovo la testa continuando a meditare su come uccidere anche i restanti tre bambolotti: un ken rigido e muscoloso, una bambola cicciottella dai capelli neri tagliati corti e storti e un cicciobello dalla pancia di stoffa. “non vi pveoccupate, la mamma mi ha detto che anche se muovi vai in un posto bello bello bello!” Poi prese il cicciobello.

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Io rubo di Rossella Scarponi

Una cosa è sicura: non si fa. Non è che uno ci deve troppo girare intorno, è una cosa che non si fa, non solo non è legale, ma neanche morale, è un peccato, sta addirittura nei dieci comandamenti. E pensare che mio padre invece si è prodigato in dettagliate spiegazioni del perché e delle conseguenze che avrei subito, quella volta che mi beccarono da Standa. “Ti spezzo tutti gli arti e poi ti mando a quattro zampe a chiedere scusa”. Il mio bottino erano matite, temperini e gomme colorate. A casa c’era solo il necessario, mio padre non mi picchiò, mi mise all’angolo della cucina, sotto la targa “il denaro fa l’uomo ricco, l’educazione lo fa signore”, davanti alla pattumiera a rompere una per una ogni gomma, a spezzare ogni matita e mi insegnò a smontare con il cacciavite i temperini. Ora mi era chiaro: non si fa. Ho resistito alla tentazione per qualche anno, poi mio 71


padre è morto, sono rimasta sola e il supermercato è diventato una seconda casa. E in fondo il signor Standa ne ha di soldi, figuratevi quando il signor Standa è diventato Berlusconi. Attenti però, io non rubo quello che posso comperare, rubo solo quello che teoricamente non mi posso permettere, quegli articoli che hanno prezzi talmente esagerati da farmi incazzare. Ho le mie riserve di caccia preferite, supermercati dove sono “conosciuta”, dove saluto e chiacchiero con la cassiera, dove conosco i punti morti delle telecamere e dove so che le telecamere sono finte; ho affinato talmente la mia perspicacia che noto subito le persone preposte al controllo. Non è un vizio, è un piacere, ormai non mi sale neanche più l’adrenalina, non sono io che rubo, sono loro che sussurrano “prendimi”. Eccolo là, olio superconcentrato d’argan, senza parabeni, rende i capelli morbidi, annulla l’effetto crespo… adoro leggere attentamente la confezione, tenerlo tra le mani e sapere che tra poco sarà mio. Apro la confezione e tolgo il tappo inalando il profumo come si fa quando devi scegliere l’ammorbidente, nessuno ci fa caso, lo fanno quasi tutti, e nessuno fa caso che mentre ripongo la confezione, con l’altra mano sto facendo 72


scivolare la bottiglietta nella borsa. Ce l’ho è mio, prezioso, speziato, mio. Vedo uno del personale preposto al controllo venirmi incontro, è nuovo, credo dell’Est Europa, gli sorrido, mi sorride e afferra lateralmente il carrello sussurrando “guarda che t’ho vista” cazzo parla romano. Fatico a deglutire e mi sembra come se tutto nel supermercato si fosse bloccato: il tizio che afferra il mio carrello, il sorriso che mi muore sulle labbra, l’olio d’argan che brucia nella borsa. Una goccia di sudore freddo scende tra le scapole: sono in cucina, sotto la targa, davanti alla pattumiera. Rivedo mio padre intento a svitare un temperino con il cacciavite, tutte quelle belle matite, con la punta perfetta, spezzate nella spazzatura. La cintura del sorvegliante che mi si para davanti e la faccia compiaciuta del Direttore di Standa che mi chiede di scegliere se dargli il telefono di casa, per chiamare i miei, o telefonare ai Carabinieri … certo!!! Ventanni fa ti fermavano dentro al Supermercato, adesso ti seguono fino alle casse e solo mentre stai pagando ti chiedono di aprire la borsa. “Scusi ce l’ha con me?” la mia voce esce fresca, tonda; sento il sorriso riaffiorarmi sulle labbra e le spalle aprirsi “T’ho vista che te sei rubata na cosa” sussurra il rumeno con l’accento del Quarticciolo; sussurro anch’io “mi sa che 73


ti sei sbagliato” Ora la voce è solo un bisbiglio “me basta na parola pe’ rovinatte” Ha ragione gli basta una parola per rovinarmi, tanti anni di onorato esercizio e una piccola distrazione per sfasciare tutto. “E per non rovinarmi?” azzardo, sapendo già prima di aprire bocca che sto facendo una cazzata. “Vedo che cominci a capì” “In che senso?” “Ner senso che se te fai quello che te dico io, io nun dico niente a nessuno” “Tipo?” “Tipo che mo annamo de la’ in magazzino” Non posso chiedere aiuto, dovrei spiegare della bottiglietta d’olio d’argan, non posso scappare griderebbe “al ladro al ladro”, no griderebbe “pijatela s’è rubata na cosa”. Lo seguo verso il magazzino, potrei dargli un calcio in mezzo alle gambe, siamo tra scatoloni e bancali di cassette vuote, c’è odore di muffa e fa freddo. Si apre la lampo e mi spinge con la mano sulla testa, ho le labbra compresse “ma che state a fa? Ahoooo ma sete scemi?” l’addetto alla macelleria, con il camice bianco e il grembiule imbrattato, sta urlando. Il direttore lo conosco, è un ometto di mezza età, quasi 74


calvo, seduto alla scrivania non tocca con i piedi per terra. Vicino a lui c’è l’addetto alla macelleria e due carabinieri, altro che pattumiera qui finisco in galera. “Carabiniere Vagnozzi, qui va capito se i due sospettati sono imputabili dell’art. 527 e/o 529 del codice penale: atti osceni in luogo pubblico; e come lo capiamo Carabiniere Vagnozzi?” Il Carabiniere più anziano si rivolge al suo collega che sbattendo i tacchi risponde: “Signorsì Brigadiere, lo si evince dalla deposizione dell’addetto alla macelleria, ossia si chiede al testimone se la scena a cui ha assistito, ha destato in lui disgusto e repulsione” “E bravo il Carabiniere Vagnozzi. Signor Caciotti, addetto alla macelleria, la scena a cui ha assistito, ha destato in lei disgusto e repulsione” “Cioè brigadie’, proprio disgusto e repulsione nun direi, e chè, mannaggia la paletta, certe cose nun se fanno in magazzino!” “Quali certe cose Signor Caciotti?” lo incalza il Brigadiere “Brigadie’ ce l’ho già detto, certe cose... la signorina stava in ginocchio e lui stava dritto in piedi, sì insomma” Caciotti guarda il Direttore in cerca di aiuto. “Carabiniere Vagnozzi, vuol dire, al qui presente Fabio 75


Dionigi, che invece lui risulta recidivo per infrazione all’art. 527 e/o 529 e che stavolta il carcere non glielo toglie nessuno?” Vagnozzi prende aria e cerca di ripetere quanto detto dal suo superiore, ma il Brigadiere lo zittisce alzando una mano “Vogliamo spiegare il modus operandi del pregiudicato Dionigi?” Fabio Dionigi, nome che non sa neanche vagamente di Est Europa, l’olio d’argan che, che cazzo l’ho preso a fa che non ho neanche i capelli crespi, la piccola stanza del Direttore che comincia a puzzare di umanità concentrata e Vagnozzi che sbatte nuovamente i tacchi: “Il pregiudicato Dionigi, fingendosi addetto alla vigilanza, adocchia le taccheggiatrici, le costringe ad avere con lui rapporti sessuali, di preferenza fellatio” La faccia nascosta tra i capelli, lo sguardo fisso sulle scarpe, le braccia serrate sulla borsa, riesco solo a pensare: non si fa.

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Riflessi di Antonella Monsù

Appoggiò la fronte al vetro della finestra e guardò in basso. Il vicolo risucchiato tra i caseggiati era spruzzato di una polvere bianca. Una palla di vetro con la neve che ricadeva sul passato. Quanto tempo era trascorso da quel giorno? E che importanza poteva avere, ora? Ciò che ricordava con maggiore chiarezza era la cipria che lei gli aveva soffiato sulla barba, una polvere bianca, come di neve e le note di Ich bin die fesche Lola che gli avevano scardinato le sequenze. Il tè versato nella tazza di porcellana, tre zollette di zucchero e l’orologio in piazza che batteva le ore, mentre lui, il professore, entrava e usciva da casa e da scuola, né più né meno come il carosello dei santi della torre. Poi lei lo aveva fissato a lungo e gli aveva cantato “Guardatemi. Il riflesso dei miei capelli biondi, l’agilità dei miei piedi dentro le scarpe col tacco a spillo, le gambe lunghe nelle calze di seta” e qualcosa in lui si era spezzato: un suono profondo lo aveva fatto va77


cillare. La sua vita era un castello di carte e il prestigiatore aveva fallito il suo numero. Si accarezzò i riccioli secchi di tintura e vide i lustrini della guêpière luccicare nel vetro. L’orologio rintoccò nella notte: quanto tempo era passato? E che importanza poteva avere, ora? Il piano scordato e la tromba stonata riempivano l’aria stagnante di fumo e birra scadente. – È tutto pronto! – disse a voce alta, poi si guardò ancora riflesso nel vetro e con la voce arrochita dalle sigarette, canticchiò: “perché dovreste volere glutei cadenti e pelli avvizzite? Chi può ambire alla decadenza, alla fine, alla morte?” Il suo numero quella sera non lo avrebbe realizzato sul solito palco di legno scalcagnato, avrebbe scelto un altro scenario e il telone di fondo sarebbe stato blu, come il cielo di notte. Se quel giorno l’orologio avesse continuato a scandire il tempo, senza che le dissonanze sussurrate da Lola avessero trasformato il carillon dei santi in un circo di clown e baldracche… Non era più necessario farsi delle domande, a breve avrebbe avuto tutte le risposte. Indossò il suo vecchio pastrano e lo abbottonò fino alla vita, coprendo così la guêpière luccicante di paillettes. Sotto, il reggicalze rimase a vista e lasciò visibili le grinze delle cosce flaccide. Si avvicinò allo specchio e cercò col rossetto la riga sottile delle labbra, poi prese la cipria, 78


bianca come la polvere di luna e se la passò sulle guance avvizzite. Quella sera di tanti anni fa, l’aveva vista mentre camminava nel vicolo, col suo grande cappello e il soprabito avvitato, l’aveva seguita fino alla porta del locale. La sera si sarebbe esibita nel suo numero. Guardandola, aveva apprezzato la sua falcata, il suo ancheggiare sensuale e aveva desiderato essere lei. Se ogni cellula di quel corpo si fosse potuta trasferire in lui con un battito d’ali… Aveva chiuso gli occhi e si era infilato sotto il suo cappotto, sotto il cappello. Ne aveva annusato il profumo, la morbidezza dei riccioli biondi sulla fronte. La sera si era precipitato nel locale. Aveva attraversato la sala, facendosi spazio nel fumo, tra i tavolini, scavalcando le note della vecchia tromba, inseguito dai tasti scorticati, bianchi e neri del pianoforte scordato e si era fermato a guardarla sul palco di legno, nel suo costume di piume. Lei seduta con le lunghe gambe accavallate, il busto proteso verso uomini affamati e vocianti, a cui lei, Lola, regalava strofe di sensualità a buon mercato: “Il mio cilindro si proietta verso l’alto, poggiato sui ricci biondi, le mie gambe in mostra, sempre in mostra, sembrano colonne bianche, mentre i miei movimenti vi sfidano, la mia voce vi penetra come voi desiderereste fare con me”. Lui, allora si era allontanato e, strisciando lungo i muri, negli anelli bui del locale, si era 79


infilato in una porta e poi in un’altra. E l’aveva trovato. – È questo… sì, è il suo camerino. Le sue ciprie, i suoi profumi… – Li aveva sfiorati con la punta delle dita, annusandone la fragranza, nutrendosi di quell’aria in cui la presenza di lei sembrava sospesa. Il giovane professore si era tolto il cappello e aveva preso la guêpière poggiata sulla sedia. L’aveva avvicinata con le mani tremanti sul suo busto e poi si era guardato, riflesso nello specchio appeso alla parete. Era stato allora che lei era entrata nel camerino e aveva sorriso. – Bella, non trova? – gli aveva detto con naturalezza – Perché non la indossa? Su, vediamo come le sta! – Gli aveva tolto la giacca, la camicia, il colletto, la cravatta. E ogni pezzo che andava via, era un click nella testa. Poi lo aveva fissato a lungo e infilandogli una mano sotto il braccio, lo aveva sospinto a muovere i passi insieme a lei, che cantava “Guardatemi. Il riflesso dei miei capelli biondi, l’agilità dei miei piedi dentro le scarpe col tacco a spillo, le gambe lunghe nelle calze di seta”. E qualcosa in lui si era spezzato: un suono profondo lo aveva fatto vacillare. Era stato allora che lei gli aveva soffiato la cipria sulla barba, una polvere bianca, come di neve. Nello specchio aveva visto riflessa la sua figura accanto a quella di Lola: due immagini sovrapposte, due Lole, avvolte nella stessa guêpière luccicante di lustrini. 80


La porta si era aperta: il clown era entrato e aveva riso, con la risata lunga e acuta degli alunni del ginnasio: Lola Lola, gridavano sempre più forte, mentre le note stonate della tromba stridevano nell’aria. Per anni aveva contenuto i suoi desideri, aveva corretto i loro compiti, sopportato le loro giovanili mediocrità. Tutti i giorni si era alzato alla stessa ora, aveva preso il suo tè. Era uscito di casa. Percorso la strada fino a scuola. Aveva girato coi santi nel carillon della torre, scandendo le ore dei giorni. Tre zollette nel tè. Una porta chiusa una aperta. Da quel giorno il carillon dei santi si era trasformato in un circo di clown e baldracche… e lui era uscito dal portone della scuola e se ne era andato dietro a quel circo. Lui era diventato l’altra Lola. Lola con una valigia di piume e lustrini, nelle notti di polvere bianca. – È tutto pronto! – disse a voce alta. L’orologio rintoccò nella notte: quanto tempo era passato da quel giorno? E che importanza poteva avere, ora? Due colombe si erano poggiate lassù sull’orologio, tra i santi, tra un’uscita e un’entrata. Un battito d’ali che interrompeva la sequenza. Il santo era diventato colomba che era volata via, per finire sotto un cilindro da prestigiatore. A contare altri giorni, diversi, uguali. E ora, dov’era finito il suo cilindro stanco? Eccolo nella cassapanca, 81


insieme alle foto di classe e alle vecchie cartoline di Lola. Ma quale Lola? Quella con gli occhi verdi, liquidi, sensuali o l’altra, con le ali rubate alla colomba? – È tutto pronto – disse ad alta voce, guardando riflesse nel vetro le guance avvizzite, le cosce flaccide sotto il pastrano aperto. Poi aprì la finestra. Il vicolo risucchiato tra i caseggiati era spruzzato di una polvere bianca. Una palla di vetro con la neve che ricadeva sul passato. Quanto tempo da quel giorno... Avvicinò una sedia alla finestra e salì sul palco. Il telone di fondo era blu, come il cielo di notte. Con la voce arrochita dalle sigarette, vibrante di sensualità, intonò: “Presto accorrete, tutti intorno a me, come sciocche falene che volano verso la luce: mortali, uomini senza scopo e senza futuro; non sapete che le farfalle notturne si bruciano le ali sulle torce e sulle candele? Guardatemi sotto le luci della ribalta io sono l’Angelo azzurro con le ali di colomba. Un battito di fianchi e sarò lassù. Sull’orologio”.

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Un cavallo rosso verde e giallo di Tiziano Scrocca

Questa è la storia di come mi sono salvato la vita. Era un sabato di sole, la Roma avrebbe giocato in serata contro l’Empoli. Una partita ostica, un po’ perché la squadra della capitale non vinceva da quasi due mesi, un po’ perché l’Empoli faceva davvero pena e quindi la sconfitta non era neanche contemplata dai tifosi giallorossi. “Amore di nonna, che ti faccio da mangiare per pranzo?” “Non ti preoccupare nonna. Quello che c’è.” “E allora pasta. Senza olio, però che è finito.” Da anni vedevo gente intorno a noi perdere la casa; case popolari, di appena cinquanta metri quadri o poco più, messe in vendita dagli enti realmente proprietari degli immobili a mille euro al metro quadro. Chi riusciva pagava, chi non riusciva se ne andava. Casa di nonno e nonna era di quaranticinque metri quadri. Quaranticinquemila euro. Quarantacinquemila euro che non avevamo, quaranti83


cinquemila euro che ci toglievano il sonno e non ci facevano mangiare. Quella mattina, la mattina del giorno in cui mi sono salvato la vita, mi svegliò una nausea fortissima che mi spingeva sullo stomaco. La testa mi girava e il cuore mi batteva forte. Per tutta la notte non avevo fatto altro che sognare mamma e papà che mi chiedevano di disegnare. “Daniele, disegnaci un cavallo! Daniele, disegnaci un cavallo! Disegnaci un cavallo verde rosso e giallo!” Poi si mettevano a piangere perché dicevo che non avevo tempo per disegnare quel cavallo, che dovevo andare a rapinare la gioielleria, che con i disegni non si campa, si campa con i soldi. Poi, nel sogno, urlavo così forte che mi mettevo paura da solo e nel panico mi svegliavo. Quando mi rimettevo a dormire il sogno ricominciava dall’inizio. Così per tutta la notte. Pensai che forse quel sogno era un qualche segnale divino, che forse m’avrebbero arrestato o peggio ucciso, che forse sarebbe stato meglio passare tutto il pomeriggio a disegnare come facevo prima. Mi alzai dal letto e rischiai di cadere. Le ginocchia mi cedevano e il sudore mi teneva incollato il pigiama alla schiena. Feci da mangiare per me e per mia nonna e la accom84


pagnai a tavola. “Nonna, faccio un po’ di pasta senza olio, così pareggiamo con l’altro giorno” “Basta che stasera non pareggia la Roma, bello di nonna” Uscii di casa dopo pranzo, salutato da Marco Columbro, Lorella Cuccarini e da tutto l’allegro pubblico di “Buona Domenica” che urlava dalla televisione del salotto, mentre mia nonna già dormiva da un pezzo. Le rimboccai le coperte come faceva lei con me da piccolo, la baciai sulla fronte, le chiesi scusa mormorando tra me e me. Cominciai a camminare con passo sciolto tra i lotti di Garbatella, dove ero cresciuto e che conoscevo a memoria. Schivavo fili tesi per stendere i panni, alberi, gatti, bambini che giocavano nei cortili e pensieri che venivano da lontano: “A tossico! Te servono i sordi pe la merenda che te porti i cracker a scola?” “A tossico! Stai sempre a disegnà! Ma che sei una femmina che stai sempre a disegnà?” “A tossico! Te presto un po’ de sordi così te compri ‘na ferpa nova?” Mi chiavamavo “tossico” per via del mio essere anemico, sempre un po’ stanco, sempre un po’ con la testa da qualche altra parte. 85


Più le voci si facevano insistenti dentro la testa, più le mie gambe sembravano svegliarsi e farsi forti, agili, decise. In una tasca del giubbotto un passamontagna comprato al mercato di Portaportese la settimana prima, nell’altra una pistola giocattolo. Col lucido da scarpe di nonno, che era morto prima di Natale e che quindi non lo usava più, avevo coperto quell’affaretto rosso di plastica proprio sulla punta per farla sembra vera e per mettere paura. Arrivai alla gioielleria in meno tempo del previsto e mi accorsi di avere un po’ di fiatone e un po’ di tremore in tutto il corpo. Mi rimproverai per avere paura. “Fermi tutti, questa è una rapina” mormoravo a più riprese mentre tremando guardavo il mio riflesso nella vetrina della gioielleria. “Fermi tutti, questa è una rapina” ripetevo mentre piangendo capivo che non sarei mai riuscito a fare una cosa del genere. “Fermi tutti, questa è una rapina” urlavo nella mia testa mentre correndo m’allontanavo dalla gioielleria. Correvo, ma tutto intorno a me sembrava muoversi al rallentatore. Piangevo ma in cuor mio ero felice; sentivo la luce scaldarmi il viso e all’improvviso pensai a quando nonno da piccolo mi portava al mare, a “cavacecio”, con le mie gambe sulle sue spalle, leggero e senza peccati. 86


Percorsi correndo quasi tutta la strada che avevo fatto all’andata, ma a velocità doppia e, saltando da un lotto a un altro, in un piccolo vicolo, non mi accorsi di un auto che procedeva a forte velocità. Sentii un rumore come di tuono che ti cade vicino ai piedi. Venni sparato via chissà dove. C’erano mamma e papà e pure zio, che tutti dicevano che erano morti per via della droga. Erano felici come non li avevo visti neanche nelle foto che nonna teneva sul comò del salotto. Zio e papà portavano dei pantaloni a zampa d’elefante e zio suonava la chitarra e papà aveva gli occhiali da sole tondi come John Lennon. Mamma era bellissima e io non me lo ricordavo mica, ma aveva gli occhi verdi chiarissimi e un sorriso che faceva ridere anche me. Dietro di loro, a salutarmi con ampi gesti eleganti, c’era nonno, con un vestito color carta da zucchero che non gli avevo mai visto addosso. “Daniele, disegnaci un cavallo! Daniele, disegnaci un cavallo! Disegnaci un cavallo verde rosso e giallo!” Mi girava la testa, come quando ero uscito da casa, ma stavolta non erano né la fame né la nausea della mattina, né tantomeno la paura che m’aveva accompagnato per 87


tutta la notte e tutto il giorno. Sembrava felicità. Poi tutto diventò nero. “Daniele, bello di nonna, quando ti svegli?” Una mano chissà dove mi accarezzava la fronte. Aprì le palpebre e vidi nonna. Gli occhi rossi e gonfi, ma un sorriso stampato sulla faccia che non le vedevo da anni. Dietro di lei un dottore, camice lungo, baffi curati e capelli con la riga da una parte. Sembrava un attore di film muti. “Signora, lo lasci riposare. Ora sta bene. Due mesi a letto e tornerà come nuovo. Giovane, ne avrai di tempo libero”. Questa è la storia di come mi sono salvato la vita, ma è anche la storia di come ho ricominciato a disegnare.

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La notte di Michele Recine

Ore 02:27. Il ragno sul soffitto è ancora lì. Ormai ci si è fatto casa. Chissà se anche lui, come me, non dorme da settimane e trascorre la notte tessendo pensieri. Circa due minuti dopo mi sistemo su un fianco e la guardo. Vedo solo la nuca e non la sento respirare. Mi sforzo ma non sento niente. Mi giro dall’altra parte cercando di trovare la posizione migliore. Davanti, ho la finestra bianca ancora senza tenda. Abbiamo litigato per mesi su quale colore si abbinasse meglio alle pareti senza riuscire a metterci d’accordo. Piccole gocce di luce passano attraverso la persiana colandomi sugli occhi. Ora vorrei tanto averle fatto fare le tende come cavolo voleva lei. Ripasso gli esercizi di respirazione uno alla volta. Sento un sussulto. Sono quasi certo che il materasso si sia mosso. Mi giro e la guardo. Vedo a malapena un orecchio spuntare dal campo di grano che ha in testa. È bellissima – penso. Ancora nessun rumore. Mi giro di nuovo e ripeto il mio mantra per essere 89


sicuro di non aver dimenticato nulla. FEDE: esercizio Fisico, evitare Eccitanti, Dieta bilanciata, Esercizi di respirazione. Riprendo gli esercizi sapendo che serviranno a poco: inspiro per quattro secondi; trattengo il respiro per sette secondi ed espiro per otto. Mi interrompe un odore di bruciato. Mi siedo sul letto e guardo intorno cercando di capire se qualcosa va a fuoco, ma tanto già so che non è reale. Allucinazioni olfattive le chiamano. Scruto nella penombra ma non vedo fumo. È buio e non c’è rumore. Vorrei non dover aspettare lunedì per andare dal medico. Ancora trentuno ore mi separano dal Lorazepam. Effetti collaterali: confusione mentale, debolezza muscolare, nausea e vomito. Non vedo l’ora di scoprire quale toccherà a me. Ore 03:01. Decido di scendere in cucina e guardare un po’ di televisione. Esco dal letto, indosso l’apparecchio acustico che è sul comodino e faccio piccoli passi al buio in direzione della porta. Mi giro a guardarla un’ultima volta prima di lasciare la stanza. Ora la sento respirare. Ore 03:04. Mi siedo sul divano e dopo qualche minuto mi rendo conto che sto fissando il vuoto. Davanti a me la TV con immagini che si rincorrono, disegnando vite perfette dove la gente normale dorme, cucina, scopa e va al 90


cinema. Sento le gambe pesanti, delle fitte ai muscoli come se li avessi usati per ore. Mi sento stanco e mi incazzo perché vorrei riposarmi anch’io come fanno i personaggi del mondo a colori. Mi strofino le palpebre finché non mi fanno male gli occhi, e vedo forme luminose che danzano in un universo appannato. Stringo la testa fra le mani, apro la bocca e soffoco un grido nella mia mente. Mi sfogo. Mi sfogo e poi mi calmo. Un poco alla volta, come ogni sera ormai da settimane. Il ragno accanto a me mi fissa senza dire una parola. Mi fissa soltanto, ma capisco cosa vuole. Andiamo a fare un giro – gli dico. Ore 03:41. Esco di casa facendo attenzione a non fare rumore. Mi stringo nel cappotto e mi sistemo la sciarpa, ma il freddo entra dentro lo stesso. Mi accarezza le scapole e il petto, riga le guance, taglia le labbra e mi sveglia da quel torpore in cui mi trovavo. Non capisco come sia possibile, ma ora mi sento ancora più sveglio di prima. Cammino lungo il marciapiede disegnando impronte sulla neve. Il ragno segue fedele al mio fianco. È cresciuto, me lo ricordavo piccolo, da tenere su una mano. Ora lo vedo muoversi accanto a me con un’agilità che non riconosco mentre camminiamo verso il supermercato aperto anche di notte. Col tempo ho scoperto il piacere di fare due passi al suo interno poco prima dell’alba per vedere le facce di 91


chi fa spesa a quell’ora e immaginare la loro storia. Li guardo come se fossero in un acquario dove le figure appaiono distorte, allungate, ridicole, surreali, affascinanti, meravigliose. Delle volte mi sorprendono a fissarli e scappano via spaventati. Vorrei fermarli e dire loro che non farei mai del male ai miei pesci, al mio antidoto alla solitudine della notte, ma non me ne danno modo, lasciandomi solo tra gli scaffali. Quando entriamo, il ragno impazzisce sotto le luci a led sparate dal soffitto. Corre tra le corsie e per poco non fa cadere tutto. È diventato così grande che mi chiedo se sia il caso di dargli un nome. Ci penso un po’ ma non mi viene in mente nulla. Lo guardo e gli faccio cenno di calmarsi. Intanto, una giovane dottoressa piange nella corsia dei liquori. Me la immagino con il camice ricoperto del sangue del paziente che poco prima non è riuscita a salvare. La vedo desiderare la bottiglia e buttare via gli anni di dedizione e astinenza. La fisso finché lei non se ne accorge e si allontana infastidita. Mi piace pensare di aver contribuito a mantenerla sobria per un altro giorno. Vado verso l’uscita perché la guardia giurata mi osserva con insistenza e si accarezza la fondina. Prendo un pacchetto di gomme e vado nell’unica cassa aperta. La solita ragazza dai capelli rossi mi saluta e, come ogni notte, mi scrive il suo numero sullo scontrino. Le sorrido perché penso che tra tutti i miei pesci, lei è quella che 92


adoro di più, quella che vorrei portare a casa e tenere in una boccia trasparente accanto ai miei libri. Metto lo scontrino in tasca e la saluto. Mi ritrovo di nuovo al freddo, con i piedi bagnati dalla neve sciolta che cola dai tetti e sporca le case. Butto via le gomme e lo scontrino e cammino verso casa. La strada è inghiottita nella penombra, ma non fa paura. Coni di luce cadono dai lampioni colorando la vita intorno a essi. Faccio respiri profondi e lascio entrare tutto dentro: la notte, la luce, il buio, il freddo, la neve. Tolgo l’apparecchio acustico per tuffarmi completamente in quel mondo. Dopo pochi passi, mi fermo e guardo intorno. La città è vuota, sta dormendo e io non sento alcun rumore. Provo pace e ogni parte del corpo si rilassa, si libera. Anche il ragno accanto a me è soddisfatto, lo vedo dal suo viso che ora mi arriva alle spalle. È cresciuto ancora. Adesso si è alzato e cammina su due zampe. Siamo diventati amici nell’insonnia della notte, condividendo pensieri e angosce. Mancano pochi metri alla porta di casa quando il ragno mi guarda con i suoi otto occhi e parla per la prima volta. Vedo muovere la bocca, ma non riesco a capire cosa voglia. Mi rimetto l’apparecchio acustico per sentire cosa sta dicendo, ma lui ha già smesso di parlare. Lo guardo e noto in lui una tristezza che prima non aveva. Nemmeno il tempo di chiedergli cosa aveva detto, che lui mi spinge in mezzo alla 93


strada. Perdo l’equilibrio e cado. Un’auto passa e non fa in tempo a fermarsi. Ore 05:36. Sono disteso a terra. Il sangue mi colora le orecchie, gli occhi, la bocca. Non riesco a muovere le braccia. Dovrei provare dolore, ma non sento niente. Vedo solo dall’occhio destro. Davanti a me la neve è rossa e soffice. Il sangue mi ristagna in gola, provo a tossire ma non ce la faccio. Allora, mi abbandono e chiudo gli occhi. Sorrido. Nel silenzio della notte, finalmente mi sento libero e riposato. Ora posso dormire.

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Grande puffo di Alessia Nanni

Mi chiamo Giulia e ho otto anni. Vado in seconda elementare, ho molti amici e un fidanzato. La mia migliore amica si chiama Sara, lei ha otto anni come me ed è bella (come me.) Il mio fidanzato si chiama Marco, io lo amo tanto, anche se forse lui non sa di essere il mio fidanzato. La mamma dice sempre che sono una bambina intelligente e sveglia, capisco tutto; che sono bella e vado bene a scuola. Il mio papà ha una società dentro un capannone con tante persone. Anche se sono intelligente io non ho capito molto bene che cosa fanno, so solo che papà quando torna a casa mi porta tanti regali. Mamma non lavora, perché papà porta abbastanza regali anche per lei. Il regalo più bello che il mio papà mi ha fatto è un peluche gigante: grande puffo. Alto quasi quanto me e morbido. Quando me l’ha portato ero felicissima, l’ho messo nel mio letto ed ho iniziato a dormirci tutte le notti. Io ho questa passione per i puffi perché me l’ha trasmessa mia mamma. Lei mi fa vedere i cartoni dei tempi suoi, 95


dice che sono più belli di quelli di adesso. Grande puffo mio papà me lo ha regalato due anni fa. In questi due anni ci ho sempre dormito, e quando si riempiva di polvere e mi faceva starnutire lo davo a mamma che lo lavava. Due giorni fa è scomparso, non sono mai stata più triste. Siamo tornati a casa dopo una cena di lavoro di papà e non c’era più. Abbiamo controllato ovunque, perfino dentro alla lavatrice, magari mamma se lo era scordato lì. Niente, dentro casa non c’era e nemmeno in giardino. Abbiamo chiesto ai domestici ma nessuno lo aveva visto. Io ho pianto tanto e mamma e papà vedendo che io ero triste erano tristi anche loro. Hanno fatto di tutto per ritrovarlo: hanno chiamato tutti i loro amici e tutte le persone con cui ne avevano parlato. Loro parlavano sempre del mio pupazzo nelle cene di lavoro, ed io ero tanto orgogliosa. Mi dicevano tutti: – Ti piace grande puffo, vero Giulia? Ed io rispondevo di sì e raccontavo che ci giocavo sempre. Eccetto quando mamma lo lavava. Quando mamma lo lavava non lo vedevo per giorni, settimane, perché era grande e ci metteva tanto ad asciugarsi. Lei gli apre la pancia e lo mette ad asciugare con il cotone (la roba) di fuori. Io questo non l’ho visto perché non lo vedo mai grande puffo quando mamma lo lava. Lo so perché gli amici di 96


papà invece sì, loro lo vedono solo bagnato. Una volta li ho sentiti parlare con mamma: – L’hai levata la roba prima di lavarlo? Il cotone dentro al mio pupazzo deve essere molto importante. Secondo me è un cotone particolare... secondo me lo hanno fatto dentro al capannone di papà. Dal capannone di papà partono tanti camion che vanno in tutte le parti del mondo e dentro ai camion ci sono mozzarelle. O meglio, mamma mi ha detto che ci sono mozzarelle ma io non le ho mai viste. Ho visto i camion e so che parlano sempre di quella roba, quindi per me dentro ai camion c’è il cotone, ma non ne sono sicura. Insomma il cotone che forse producono nel capannone di papà e che sta dentro al mio grande puffo scomparso è pregiato. Pregiato vuol dire prezioso. Prezioso vuol dire ‘qualcosa che ha un grande valore o a cui tu dai un grande valore’. Questo me lo ha spiegato sempre mamma. E siccome il mio grande puffo per me è prezioso perché me lo ha regalato il mio papà e lo hanno fatto con il cotone pregiato, allora lo dobbiamo ritrovare assolutamente. La sera che è scomparso me la ricordo bene. Alla cena ho parlato sempre con Alberto. Lui è un amico di papà simpatico che mi fa tanti regali. Ad un certo punto della serata Alberto pure è scomparso. Tanto che papà ha pen97


sato che fosse stato lui a rubare grande puffo perché è andato via all’improvviso e senza salutare nessuno. Una volta a casa abbiamo chiamato Alberto ma non ha risposto. Sono due giorni che papà chiama Alberto e lui non gli risponde. Io ho detto a papà che Alberto mi pareva simpatico, che ci parlavo sempre, e non mi sembrava un ladro. Papà mi ha detto che non ci si può mai fidare delle persone. Durante i due giorni passati mi sono ricordata che quando ti rubano qualcosa si chiama la polizia. Allora ho detto a mamma e papà di chiamare la polizia e loro hanno detto di no perché il peluche non è importante. E allora perché sono più tristi di me? Mi sono fatta l’idea che mamma e papà sono tristi perché non hanno più il loro amico Alberto. Sì, deve essere così, perché più che interessati al mio peluche sono interessati che lui è scappato. In fondo io pure sarei triste se sparisse Sara. Con chi giocherei? A chi disegnerei il cuore con dentro scritto Giulia e Sara amiche per sempre? E se sparisse Marco? A chi darei tanti baci? Sì, sono più importanti le persone. E allora ho deciso di essere un po’ triste anche io per Alberto. Siccome quando spariscono le persone in America lo fanno sapere a quelli del latte e mettono la foto dietro alle confezioni, ho deciso di fare qualcosa anche io. Che 98


mamma e papà non erano d’accordo con questa cosa io l’ho saputo solo ora. Non posso chiamare quelli del latte e allora ho deciso di dirlo a più persone possibile. Ho chiamato tutti i miei amici e anche le maestre. Adesso tutti sanno che sono scomparsi Alberto e grande puffo. Non pensavo che fosse una cosa grave, anzi. Volevo pure chiamare la polizia perché Alberto è più importante del pupazzo. Ma mamma e papà hanno fatto una scenata come se fosse una cosa grave: – Giulia, quante volte ti ho detto che queste sono cose da grandi e non ti devi intromettere? – Sì, mamma. – E allora perché sei andata a dirlo in giro? – Perché volevo aiutare, mamma! – Tu sei piccola, non puoi aiutare, devi lasciare fare a noi! – Va bene mamma, scusa. – Fila in camera tua! Sono andata in camera ed è successa una cosa strana. Lì sul mio letto c’era.. grande puffo! Mi sono messa ad urlare e saltare, mamma e papà sono corsi in camera. Era tutto sporco e non aveva più la pancia ma era lui!! L’ho abbracciato e gli ho dato tanti baci pure se era sporco! Ero felicissima! 99


Mamma e papà non erano tanto felici. La camera era tutta in disordine. Abbiamo controllato se c’era tutto ed in effetti mancava qualcosa: l’orsacchiotto Gino! Me lo aveva regalato proprio Alberto! Magari se lo era ripreso!Io ho detto ad Alberto quella sera che con l’orsacchiotto Gino non ci giocavo mai, era sempre pulito e a posto dietro a tutti gli altri pupazzi. Mamma e papà mi avevano detto di non toccarlo perché lì dentro avevano nascosto una pietra grande grande e pesante che mi poteva fare male se ci giocavo. La pietra l’avevano chiamata diamante.

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Disinfestazione di Mara Ribera

Suonò il campanello. E io seppi che la mia ora era giunta. La mia ora era sempre la stessa, ogni giorno di ogni mese di ogni anno dei miei quindici anni di vita. Suonò il campanello e io esitai. Dovevo decidere in fretta. Sapevo che qualsiasi cosa avessi fatto sarei stata punita. Non potevo parlare, perché la mia voce era un’offesa. Non potevo stare zitta, perché il silenzio era un peccato. Non potevo respirare, perché la mia esistenza lo rendeva furibondo. Lui cambiava le regole continuamente per farmi sbagliare. Io non riuscivo a indovinare mai. Avrei sbagliato per sempre, ero nata per quello. Mi avvicinai alla porta per sbirciare il suo volto dallo spioncino: era una maschera d’odio. Non chiesi chi è, mi picchiava sempre quando chiedevo chi è. Perché bisogna guardare dallo spioncino, la voce non basta a identificare. Aprii la porta senza dire nulla, poi mi girai per scappare. Il suo piede mi colpì alla schiena con un tonfo sordo, facendomi rimbalzare sul parquet. 101


“Non devi guardare dallo spioncino, brutta troia. Devi chiedere chi è, la vista può ingannare”. Rimasi immobile, faccia in giù, le braccia ad arco e le caviglie incrociate, come in un passo di danza. Simulando la morte. Gli scarafaggi fanno così quando avvertono la minaccia di un piede assassino. Qualche volta funziona. E qualche volta no. Dipende dal piede, ci vuole un miracolo per sfuggire a una suola 45. Il secondo calcio arrivò quasi subito, strappando al mio corpo un lamento secco: lo scrocchio di un esoscheletro. Non mi ero ancora fatta le ossa. “Brutta troia”. Non mi ero ancora fatta donna. “Perché non mi ubbidisci mai?” Non mi ero ancora fatta una ragione. Una ragione per odiare mio padre. Mi trascinai facendo leva sui palmi mentre lui continuava a colpirmi. Per ogni calcio guadagnavo una spanna. E la pressione del suo piede diminuiva. Era bravo papà, a calibrare i colpi. Mai forti al punto da uccidere, mai oltre il limite che avrebbe richiesto un intervento esterno. Sapevo che giunta all’ingresso di camera mia sarebbe finito tutto. Gli piaceva così, farmi strisciare come un insetto verso la tana e darmi la possibilità di nascondermi, fino alla prossima caccia. Quella di papà era una disinfesta102


zione col rewind: ricominciava sempre da capo. O, per dirla come Sofia, era un paradosso temporale. Perché Sofia, mia sorella, leggeva la fantascienza. E c’era quel racconto che le piaceva tanto, quello in cui i temponauti ripercorrono in eterno lo stesso pezzo di vita, che sembrava parlasse di noi. Quando i piedi paterni lasciarono il mio corpo e li sentii allontanarsi, ero distesa davanti alla porta chiusa. Mi sollevai aggrappandomi alla maniglia ed entrai. Sofia era sul letto col cane rannicchiato ai suoi piedi. Fingeva di leggere, stava tremando. Mi distesi accanto a lei facendomi spazio, mentre Kilgore, il cane, risaliva lungo il mio corpo per arrivare agli occhi e leccarmi le lacrime. Sofia chiuse il libro, lo posò, mi scostò dal viso una ciocca sporca di moccio e cominciò a farci una treccia. “Non piangere” mi disse “che ti si gonfia il naso”. Ci addormentammo in quel modo, col cane tra le braccia e le parole in sospeso. “La vedi?” mi chiese il mattino dopo mostrandomi la voglia sulla sua scapola. Una banale macchia color caffè che conoscevo bene. “È il marchio della mia razza. Presto arriveranno e mi porteranno via”. “Quale razza, Sofia? Di chi parli?” “Degli extraterrestri. Non sono mica figlia di mamma e papà, io. Vengo da lontano”. E volse lo sguardo oltre i 103


vetri della finestra, contemplando il cielo. “Ma quando arriveranno, Sofia? Vuoi lasciarmi sola?” “Non ora” rispose “quando sarò più grande. Abbiamo ancora tempo”. Il tempo stringeva, invece. Cominciò tutto con la scomparsa di Kilgore. Non era nuovo a inspiegabili assenze. Si dileguava per giornate intere, hai voglia a cercarlo. Ricompariva la sera, sbucato da chissà dove, poi crollava esausto nella sua cuccia. Finché ci fu quella sera che non tornò. E neppure la sera dopo e quelle a venire. Kilgore però di motivi per fuggire non ne aveva. Era l’unico membro della famiglia a non inciampare mai nei piedi di mio padre. Con quel suo moto ondulatorio tipico dei botoli dalle zampe corte e il busto a salsiccia, riusciva ad aggirare gli ostacoli e a scivolare tra i drammi. Eppure non tornò. A papà non piacevano le sparizioni. Lo facevano esplodere. Noi due sorelle ricordavamo bene la sua reazione alla fuga di mamma. E adesso temevamo il peggio. “Per me Kilgore ha un super potere” mi disse Sofia un pomeriggio, alzando lo sguardo da un libro con un disco volante in copertina .“Viaggia nel tempo”. “Tu leggi troppa fantascienza” risposi. Poi le strappai ridendo il volume dalle mani. Era aperto a pagina 128, dove iniziava il racconto Bambina smarrita. “Parla di alieni 104


che portano via le bambine?” la pungolai. “No” replicò “parla di altre dimensioni. Di porte per arrivarci che si materializzano ovunque. Ma durano poco”. E si riprese il libro senza raccogliere la mia provocazione. Io intanto raccoglievo speranze. Volevo credere che qualcosa stesse cambiando. Che aprire la porta di casa a papà potesse diventare un fatto banale. Non ci picchiava da settimane, ormai. E stava arrivando il giorno dell’Immacolata, quello in cui preparavamo l’albero di Natale. Ci piaceva fare l’albero insieme. Rinfrescavamo il pino sintetico e dopo toglievamo dall’imballo le decorazioni. E lui le disponeva con amore sul tavolo, in ordine di grandezza. Era così bello, mio padre. Sorrideva coi suoi denti bianchi, perfetti, ci raccontava la storia di quelle palline di vetro, dove le aveva acquistate, come le aveva scelte. La mattina dell’8 dicembre entrai in soggiorno e le vidi. Lo vidi. Papà aveva già preparato tutto. Gli corsi incontro festosa per chiedergli come aiutarlo. “Sofia, sbrigati! Facciamo l’albero!” chiamai. Lei comparve all’ingresso della stanza dopo qualche minuto. Pallida in volto, gli occhi sbarrati. Si tormentava il labbro inferiore coi denti. “Dove sono i miei libri? Qualcuno ha visto i miei libri?” chiese con un filo di voce. Gettai l’occhio verso la libreria in corridoio: c’erano 105


due lunghe file vuote. “I tuoi libri di merda li ho buttati” disse papà. “Sei già cretina di tuo, a forza di leggere quella roba ti stai fottendo il cervello”. Era di spalle, intento a sistemare i rami dell’albero. Si girò di scatto mostrando un sorriso trasformato in un ghigno. Sofia divenne di pietra, lo sguardo perso nel vuoto. Non era mai stata così, lei guardava sempre qualcosa. Si avvicinò e si fermò davanti al tavolo. Con una manata gettò a terra le palline. Tutte. Si udì un coro di vocine in frantumi. E in un attimo il ballo iniziò. Mia sorella era già sul parquet, urlante, sotto i piedi di papà. Una scena già vista centinaia di volte, ma questa sembrava diversa. I colpi affondavano forte, erano fatti per ammazzare. Mi buttai su di lui per bloccarlo ma un pugno atterrò sul mio naso facendomi volare lontano. Il sangue mi colava dalle narici come da un rubinetto aperto. Non si fermava. E neppure mio padre. Corsi in cucina e aprii il cassetto accanto al lavello. Le lame dei coltelli da carne erano così lucide che mi accecarono per un istante. Afferrai il più grosso e strinsi le mani sull’impugnatura. Sofia non piangeva più, sentivo solo il rumore dei calci. Quando arrivai dietro la schiena di papà, senza che lui si fosse accorto di niente, mirai al centro. Ma vacillai. 106


In quel momento una sagoma pelosa comparve tra i suoi piedi, facendolo cadere. La botta lo tramortì. Mia sorella giaceva un metro più in là, distesa sul fianco, con gli occhi aperti e la bocca tremante. Guardava di nuovo, adesso. Guardava qualcuno. “Kilgore!” rantolò. Il cane era tornato. Stava lì, al centro della stanza, la coda ferma e le orecchie dritte. Subito dopo fece per andarsene, ci diede le spalle volgendo la testa verso di noi. Attese. Sofia cercò di rialzarsi ma barcollava. Gettai il coltello e mi precipitai ad aiutarla. “Vuole che lo seguiamo” mi sussurrò mentre si appoggiava al mio braccio. Guardai il coltello per terra, guardai il cane. I minuti che seguirono sembrarono eterni: camminavamo al rallenty nel corridoio seguendo Kilgore. Arrivammo fino allo sgabuzzino, dietro l’armadio delle scope. Lui si fermò davanti a una parete. Ci accarezzò le mani con la lingua. Poi infilò il muso nel muro, come se si tuffasse nell’acqua. E sparì. L’intonaco in quel punto era tremolante, instabile, sembrava una salsa sul fuoco vicina al punto di ebollizione. Sofia fu la prima a seguirlo, senza il minimo indugio. Perché le porte che si affacciano sulla quarta dimensione, 107


lei lo sapeva, durano poco. E quando le apri non fanno mai paura.

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Indice

5 Le meduse e le cagne di Emanuele Fiorellino L’oliva di Giangiacomo Tedeschi 12 Riflesso di farfalla di Arturo Belluardo 16 Pezzi di gioia di Barbara Donzella 22 L’ombrello di Cristina Faessler 31 Il disertore di Flavia Ganzenua 38 La mia professoressa d’italiano di L. Federica Tirrò 43 Agos e Cat di Paola De Donato 50 Il grande palloncino di Paolo Marchione 59 Se fai la brava ti porto al cimitero di Adele Nina 64 Io rubo di Rossella Scarponi 71 Riflessi di Antonella Monsù 77 Un cavallo rosso verde e giallo di Tiziano Scrocca 83 La notte di Michele Recine 89 Grande puffo di Alessia Nanni 95 Disinfestazione di Mara Ribera 101


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