Giuseppe Ferrara. Vita agra di un ribelle permanente Roberto Pugliese

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Preceduta e in parte accompagnata da una intensissima attività di documentarista (che questa monografia non può esplorare dettagliatamente) la “filmografia a soggetto” di Giuseppe Ferrara motiva le proprie virgolette in una duplice sollecitazione. Da un lato lo spronano l’urgenza e la passione etiche, prima e forse ancor più che politiche, nel prendere posizione, declinare una “appartenenza”, ovvero dire e fare le cose e i film giusti. D’altro canto (ed ecco precisarsi contorni e limiti della definizione “a soggetto”) per Ferrara nemmeno la realtà, spesso, per quanto “rivoluzionaria”, basta a se stessa. A volte è necessario moltiplicarne il potenziale tramite la sua ricostruzione drammaturgica, il più fedelmente possibile ma anche con la massima libertà consentita dalle regole della rappresentazione. Perché l’Italia uscita dal Secondo dopoguerra appare a questo giovane toscano, liceale ribelle, contestatore ante litteram, cinèfilo appassionato e penna fumantina, come un paese che non ha assolutamente fatto tesoro dei valori della Resistenza, che non ha mai davvero archiviato il fascismo né si è mai emancipato da una sudditanza economico-culturale nei confronti degli Stati Uniti destinata a condizionarne pesantemente le vicende; infine, che si è lasciato trascinare e devastare in un roveto malefico di intrighi, complotti, poteri deviati, politici corrotti, malaffare diffuso, abissali divari e squilibri economici, ingiustizia sociale, trame nere e rosse, ingerenze straniere, connivenze ad altissimo livello, stragismo di Stato e criminalità comune. Un incubo nel quale forze destabilizzanti e pulsioni autoritarie hanno avuto buon gioco di infiltrarsi. Roberto Pugliese, giornalista e critico cinematografico, fa parte del comitato direttivo di “Segnocinema”. Specializzato in musica da film, ha pubblicato fra gli altri quaderni monografici su Bernard Herrmann, Sergio Leone, Stephen King, e saggi su Hitchcock, De Palma, Kubrick. www.falsopiano.com/giuseppeferrara.htm

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Roberto Pugliese. Vita agra di un ribelle permanente. Il cinema di Giuseppe Ferrara

Roberto Pugliese. Vita agra di un ribelle permanente. Il cinema di Giuseppe Ferrara

FALSOPIANO

Roberto Pugliese. Vita agra di un ribelle permanente. Il cinema di Giuseppe Ferrara FALSOPIANO


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FALSOPIANO

CINEMA


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Alla mia famiglia


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Roberto Pugliese. Vita agra di un ribelle permanente. Il cinema di Giuseppe Ferrara

EDIZIONI

FALSOPIANO


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Non bisogna fare film politici, ma fare politicamente i film (Jean-Luc Godard) Quando il capitale è in poche mani, esso genera la mafia (Il sasso in bocca)


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Sommario

Introduzione. Vita agra di un ribelle permanente

p. 9

Documentario, docufiction, fiction: l’attore secondo Ferrara

p. 21

La mafia non uccide solo d’estate

p. 35

Grazie CIA: il golpe export e lo stragismo seriale

p. 42

Cadaveri eccellenti: Moro e Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino

p. 54

Squarciare i veli del tempio: “I banchieri di Dio - Il caso Calvi”

p. 62

Il compagno che sfidò le Brigate Rosse

p. 66

Suoni inquieti: Pino Donaggio e la musica nel cinema di Ferrara

p. 73

Ferrara critico e didatta

p. 81

Scritti di Giuseppe Ferrara

p. 83

Scheda biografica

p. 125

Bibliografia

p. 127

Filmografia

p. 134


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Roberto Pugliese

Giuseppe Ferrara

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Vita agra di un ribelle permanente. Il cinema di Giuseppe Ferrara

Introduzione. Vita agra di un ribelle permanente C’era una volta il cinema “impegnato”. Dirlo alla francese, engagé, suonava ancor meglio perché rinviava alle radiose giornate del joli mai, e a una stagione in cui erano fiorite prepotenti le speranze nelle magnifiche sorti e progressive di una Settima arte combattiva, schierata, rivoluzionaria, che sulle barricate del Sessantotto francese aveva visto impegnarsi autori come Godard, Truffaut, Chabrol, e da noi Bertolucci, Pasolini, Pontecorvo, Rosi, Maselli, Cavani, Bellocchio, Agosti. Obiettivo comune (ovviamente attraverso linguaggi e poetiche diverse) era un deciso cambio di passo nello stile e nella scelta degli argomenti: con l’abbandono del mero eloquio narrativo piccolo borghese per quanto riguarda il primo e la scelta di soggetti presi dalla realtà, dalla cronaca, dai drammi quotidiani per i secondi. Insomma, oltre il “cinéma de papa” ma anche oltre il neorealismo, le cui istanze di innovazione e rottura con il passato apparivano ampiamente esaurite già alla metà degli anni Cinquanta, per venire rapidamente anestetizzate e riassorbite dentro i moduli della nascente “commedia all’italiana”, o del tutto sconfessate nell’insorgenza di un pugno di autori sicuramente impegnati politicamente (Leone, Argento, Brass) ma più attratti dalle potenzialità insite nella riscrittura di alcuni “generi” classici (western, thriller, erotico) e nel loro bagaglio linguistico. Detto in estrema sintesi: nel cinema faceva irruzione la politica, se non intesa come modello produttivo e quasi filosofico, come con-testo più che pre-testo (secondo il dettato godardiano), almeno come tipologia di sguardo, opzione diegetica, approccio semantico. Da questo processo di sviluppo, che ha avuto uno svolgimento non coerente né lineare ma anzi piuttosto accidentato, si origina - per fare solo l’esempio più vistoso - l’opera di un autore come Francesco Rosi, uscito da una costola del neorealismo e alfiere di un cinema di denuncia civile aggressivo, documentato,

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implacabilmente adeso alla realtà, alla cronaca più che alla Storia, strutturato secondo un modello di inchiesta giornalistica a sua volta di scuola americana e prodromo del cosiddetto instant movie: un modello, va detto, successivamente usuratosi sino a divenire un format più o meno televisivo e più o meno efficace (da Faenza a Giordana, da Martinelli a Marco Risi, da Placido a Grimaldi). È in questo humus che, spesso precorrendone gli sviluppi ed evitandone sapientemente gli appassimenti, nasce e si mette in luce il cinema di Giuseppe Ferrara. Un cinema e un regista che non a caso vedono in Rosi un forte punto di riferimento iniziale, tuttavia ben presto rielaborato e superato criticamente anche attraverso un lungo lavoro esegetico, didattico e teorico, per indirizzarsi poi verso un’inedita forma di novelization del reale che avrebbe anticipato di decenni le formule della docufiction o del docudrama. Preceduta e in parte accompagnata da una intensissima attività di documentarista (che questa monografia non può esplorare dettagliatamente) la “filmografia a soggetto” di Ferrara motiva le proprie virgolette in una duplice sollecitazione. Da un lato lo spronano l’urgenza e la passione etiche, prima e forse ancor più che politiche, di prendere posizione, di declinare un’“appartenenza”, ovvero di fare e dire le cose e i film giusti. L’Italia uscita dal secondo dopoguerra appare a questo giovane toscano, liceale ribelle, contestatore ante litteram, cinèfilo appassionato e penna fumantina, come un paese che non ha assolutamente fatto tesoro dei valori della Resistenza, che non ha affatto archiviato il fascismo (e solo la contemporaneità può dirci oggi quanto, in ciò, Ferrara avesse la vista lunga...), che non si è emancipato da una sudditanza economico-culturale nei confronti degli Stati Uniti destinata a condizionarne pesantemente le vicende, e infine che si è lasciato trascinare e devastare in un roveto malefico di intrighi, complotti, poteri deviati, politici corrotti, malaffare diffuso, abissali divari e squilibri economici, ingiustizia sociale, trame nere e rosse, ingerenze straniere,

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connivenze ad altissimo livello, stragismo di Stato e criminalità comune e organizzata che ne hanno insanguinato per decenni le strade producendo in un’opinione pubblica non matura e ancora fiaccata dalle ferite belliche, un diffuso e pericolosissimo senso di insicurezza e sfiducia nelle istituzioni, nel quale forze destabilizzanti e pulsioni autoritarie hanno avuto buon gioco di infiltrarsi. D’altro canto (ed ecco precisarsi contorni e limiti della definizione “a soggetto”) per Ferrara nemmeno la realtà, spesso, per quanto “rivoluzionaria”, basta a se stessa. A volte è necessario moltiplicarne il potenziale tramite la sua ricostruzione drammaturgica, il più fedelmente possibile ma anche con la massima libertà consentita dalle regole della rappresentazione. Non si tratta di un banale intervento di spettacolarizzazione ma di una scrupolosa ricostruzione filologica degli eventi, sempre sulla base di una mole impressionante di documenti e testimonianze sovente desunte da atti giudiziari e processuali, nella quale la fiction con l’utilizzo sapiente di attori trasformati in sosia degli originali è il mezzo e non il fine della messa in scena. Ciò rende il cinema di Ferrara una sorta di grande, unitario corpus coeso da un unico filo ideale (non ideologico) e civile, popolato di figure che, dal makeup alla recitazione, sono quanto di più distante possa immaginarsi dal dettato neorealistico (dal quale del resto si distacca lo stesso Rosi, anche in film come Il caso Mattei, Lucky Luciano o Cadaveri eccellenti) ma anzi introducono attraverso il filtro della drammatizzazione un valore aggiunto di verità e potenza narrativa. Il linguaggio cinematografico di Ferrara finisce così per ereditare la grande tradizione del “noir” e del gangster-movie classico hollywoodiano - assorbendo persino qua e là gli stilemi, non certo i contenuti, del “poliziottesco” nostrano - e per somigliare, nella sua frastagliata e ribollente composizione, più alle stratificazioni semantiche dell’Oliver Stone (autore che Ferrara ammirava molto) di JFK che all’oratoria tendenziosa di molto, troppo cinema-cronaca a lui

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Il sasso in bocca (1969)

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contemporaneo e successivo: la sovrapposizione e contaminazione continue dei piani di racconto (documentario, fiction, e tutti i gradi intermedi percorribili) inizia sin dai primissimi corti e pervade tutte le opere maggiori, sino a giungere in film come Il caso Moro o I banchieri di Dio punte estreme e quasi provocatorie di “clonazione” e manipolazione del reale (si pensi all’inquadratura-fotocopia in bianco e nero del cadavere di Volonté-Moro accartocciato nella Renault in via Caetani): una scelta linguistica che prevede e sfrutta anche prestiti e scambi reciproci fra l’una e l’altra dimensione, ove ciò serva a suffragare e rinforzare la dimostrazione dei fatti, come ad esempio nel film-inchiesta Fascismo ieri e oggi (1995), implacabile indagine sui rigurgiti neri in Italia costruito utilizzando materiali dai preesistenti La pista nera (1972) e P2 Story o dei misteri d’Italia (1985). Questa particolare e multipla scelta di campo, declinata più volte anche nella sua attività di critico e didatta, rappresentata dalla appassionata e dichiarata militanza ideologica a sinistra, dalla matrice documentaristico-giornalistica e dall’insopprimibile vocazione a ripercorrere i sentieri del “reale” con la bussola di una “finzione” orientata e governata al millimetro, ottiene paradossalmente l’effetto di rendere Ferrara un soggetto alieno e inviso a tutti, e ne marca l’intera carriera ed esistenza sotto il segno di una diffidenza costante, quando non di aperto ostracismo. Alla destra e ai “poteri forti” (sino a tutti gli anni Ottanta abbastanza facilmente identificabili nella Democrazia Cristiana) il regista appare ovviamente come fumo negli occhi: la destra vede in lui un nemico dichiarato e giurato, l’establishment lo detesta per la sua franchezza, non ne sopporta la mancanza di tabù (un astio che tocca punte massime ancora una volta per Il caso Moro e I banchieri di Dio, o Giovanni Falcone) e soprattutto non tollera di venire smascherato con nomi e cognomi, facilmente riconoscibili se non palesemente declinati: di qui la mole impressionante di denunce, cause, censure, richieste di

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sequestro, attacchi personali che il regista subisce negli anni e cui egli reagisce con fierezza e determinazione tutte toscane, ponendo in cantiere sempre nuovi progetti. Dall’altra parte neanche la sinistra, nella sua accezione più generale, e in particolare la critica riconducibile a essa, lo stima granché: Ferrara è infatti un regista che non solo non disprezza ma anzi cerca il riscontro popolare, la comunicazione diretta con il pubblico. Di più: Ferrara è un regista che vuol bene al pubblico, e questo per un certo snobismo che serpeggia fra i critici “militanti” e dall’ortodossia ideologica più rigida, è un peccato imperdonabile. Di conseguenza ne enfatizzano alcune (innegabili) ingenuità drammaturgiche, gli evidenti didascalismi, l’automatismo di alcuni passaggi di sceneggiatura, lo stesso utilizzo di attori-maschere, l’impiego drammatizzante della musica (ma su questo torneremo): insomma a chi gli rimprovera minacciosamente di essere troppo diretto sin quasi a risultare diffamatorio, si contrappone chi gli obietta di essere poco rigoroso, romanzesco se non fumettistico, ingenuo e professionalmente un po’ dilettantistico. Una posizione di isolamento che creerà al regista difficoltà e dispiaceri, soprattutto nell’ultima parte della vita, ma che non riusciranno mai ad intaccarne l’indole battagliera né la certezza di essere dalla parte del giusto. A sorreggere il percorso di Ferrara, in ogni momento della sua attività c’è come si accennava la particolare natura del suo rapporto con il “reale”. E qui converrà tornare, in sede introduttiva, all’elemento che presiede a tutto il cinema del regista toscano, divenendo un pilastro metodologico che accompagna tutta la sua filmografia, dai primissimi corti agli ultimi lungometraggi: ossia la fase della documentazione. Il cinema di Ferrara ha infatti un carattere prettamente investigativo, inquirente, pur non pretendendo mai di sostituirsi alle autorità di polizia o giudiziarie, e nemmeno alla specifica qualità del lavoro giornalistico: il regista utilizza infatti tutti i materiali che provengono da queste fonti

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Giorgio Penzo

con una puntigliosità che rasenta quasi l’acribia, solo che li assembla e li collega non tanto secondo un filo probatorio conclamato o asseverato, quanto secondo un filo “logico-politico” che ne ribadisca o addirittura ne enfatizzi l’evidenza. Questo procedimento, che a parte Rosi non ha modelli nel cinema italiano e pochissimi anche ad altre latitudini, àncora le sceneggiature dei film di Ferrara (in ognuna delle quali, collaborazioni importanti a parte, è fondamentale la mano dell’autore) a una fattualità implacabile, composta di date, luoghi, nomi, notizie la cui ricostruzione, pur obbedendo alle leggi estetiche della fiction (attori, musiche, effetti speciali), è di stampo squisitamente cronistico e ha molto a che vedere con la formula del vero e proprio reportage civile: non è d’altronde un caso che, tanto per fare solo un esempio, tra i collaboratori iniziali di Giuseppe Ferrara compaia Riccardo Iacona, futuro autore di Presadiretta, trasmissione di punta del giornalismo d’inchiesta su Raitre. In tal senso, paradigmatico ed esemplare appare il colossale lavoro compiuto per il già citato documentario P2 Story o dei misteri d’Italia dell’85, cinque puntate realizzate per la RAI nelle quali si analizza la genesi e la struttura della loggia massonica “Propaganda 2” fondata da Licio Gelli e le sue tentacolari ramificazioni nello Stato, i collegamenti con l’eversione neofascista e i servizi deviati, oltre che con apparati istituzionali importanti, allo scopo di minare alle fondamenta la vita democratica del Paese. La struttura formale di P2 Story è di un’asciutta, ferrea essenzialità e trasmette perfettamente il senso dell’estetica ferrariana: su un fondale nero, il regista si aggira quasi pensieroso fra le sagome a grandezza naturale dei personaggi evocati (politici, militari, giudici, prelati, faccendieri, mafiosi, massoni), di volta in volta “animate” e chiamate in campo: la sua illustrazione degli eventi, esposta con tono di voce pacato e colloquiale, è scevra da toni comiziali e appena spruzzata da un velo di ben celato sarcasmo. Nell’esposizione Ferrara si alterna con la sua collaboratrice Giovanna Ventura, seduta a

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una scrivania d’ufficio, che interloquisce con il regista sempre nel medesimo tono tranquillo e privo di vibrazioni, in un dialogo che scorre con naturalezza e impassibile fermezza. Ma il perno intorno al quale ruota lo svolgimento del lavoro è rappresentato dall’attore Stefano Satta Flores, qui a una delle sue ultime apparizioni prima della prematura scomparsa, e il cui impegno politico era ben noto e attivamente espresso. Satta Flores infatti, come in una di quelle sedute di doppiaggio che gli erano del resto familiari, sta davanti a un leggìo e interviene su chiamata del regista - con il quale a tratti dialoga - per dare di volta in volta lettura di testi originali, interviste, verbali, atti giudiziari inerenti alla materia: e lo fa affiancato da una pila cartacea alta come lui, e costituita dalle duecentomila pagine che costituiscono i circa 130 volumi degli atti finali nei quali si concretizzarono i quattro anni di lavoro della Commissione bicamerale d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi. La fisicità monumentale, scenografica di questa mole di documenti, cui Ferrara e la Ventura continuamente rinviano e dalla quale la lettura di Satta Flores incessantemente attinge si trasforma, alla lettera, nella “colonna” portante di tutto il documentario, una sorta di “madre di tutte le prove” messa a disposizione di ognuno in un’epoca dove la dimensione cartacea era ancora predominante (la digitalizzazione di quegli atti sarà possibile solo un trentennio più tardi) e dove la difficoltà maggiore consiste proprio nel collegare le cause agli effetti, le azioni alle reazioni. In una parola, gli atti ai fatti. Su queste solidissime fondamenta, la narrazione di Ferrara, articolata in cinque capitoli tematicamente monografici, può agilmente evocare dall’ombra di quel fondale nero, quasi una quinta di palcoscenico, le sinistre figure protagoniste di una interminabile stagione di manovre, depistaggi, stragi, terrorismo, senza nulla concedere all’ideologia o alla dietrologia ma limitandosi all’enucleazione degli accadimenti, e lasciando all’intelligenza dello spettatore il compito di effettuare gli opportuni quando non indispensabili collegamenti logici.

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Infatti il cinema di Ferrara non è gravato da nessun atteggiamento paternalistico nei confronti del pubblico, e nemmeno appare viziato dalla tentazione dell’ideologia, come pure sarebbe stato legittimo attendersi vista la dichiarata e limpida militanza a sinistra del regista: non è necessario perchè Ferrara si fida dei fatti e si fida del pubblico, e l’unico diritto che avoca a sé è quello di rappresentare il reale sottolineandone le curvature drammatiche e, ove necessario, mescolando documento e drammaturgia per rinforzare reciprocamente l’uno con l’altra. A quest’attitudine, a questa vocazione per quella che potremmo chiamare “contaminazione costruttiva” Ferrara rimarrà fedele sino alle sue ultime opere: come il brevissimo cortometraggio Articolo 19 incluso nel film collettivo All human rights for all realizzato nel 2008 per i sessant’anni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo da parte dell’ONU, e nel quale Ferrara immagina un’“intervista impossibile” sul diritto d’informazione con Bruno Contrada, l’ex poliziotto e agente segreto coinvolto pesantemente in una lunghissima vicenda giudiziaria sui rapporti Stato-mafia, ossia proprio colui che a suo tempo aveva ingaggiato un duello personale con il regista ritenendosi (con qualche ragione) rappresentato nel personaggio onnipresente e onniveggente di “’U Dottore” interpretato dal sinistro Pietro Biondi in Giovanni Falcone (1993). O come nel film-doc I ragazzi del Vesuvio del 2010, amara perlustrazione sui “ragazzi di camorra” ben prima e con ben più sincera efficacia del Robinù (2016) di Michele Santoro, In sintesi estrema: proprio oggi, nell’epoca dell’imperante “postverità” e delle “fake news”, il primato della pre-verità che nel cinema di Giuseppe Ferrara sottende e sorregge ogni rappresentazione e ricostruzione del reale, ci appare in tutta la sua inappellabile e potente (f)attualità.

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Documentario, docufiction, fiction: l’attore secondo Ferrara L’enorme mole di lavoro firmata da Ferrara nel settore dei documentari e/o nei cortometraggi di tipo cinegiornalistico precede e accompagna tutta la sua attività di cineasta assumendo le caratteristiche di qualcosa di molto più impellente e strutturato che un semplice apprendistato. Il documentario come testimonianza e “fonte” costituisce infatti per il regista un’urgenza etica, politica e ideale prima e più ancora che estetica o tecnica: è solo partendo dal “documento” che si può, poi, costruire la fiction, la “novelization” dei fatti. Fatti che a quel documento rimarranno comunque sempre aderenti e fedeli, dandogli anzi nuova forza e verità utilizzando gli strumenti della narrazione, le tecniche specifiche del narrare filmico nonché - perché no - le leggi della spettacolarizzazione. Non stupisce dunque che sin dalle primissime prove del regista si riscontri quella mescolanza di linguaggi, di “livelli”, di tecniche che rimarrà il tratto costante di tutta la sua filmografia e che trova nella tecnica di un montaggio per associazioni e accumulazioni (sorta di esasperazione della lezione ejzensteiniana) la propria ragion d’essere, come attesta per esempio Cronache dell’eternità (1967), uno dei suoi primi e più radicali lavori in questa direzione, dall’impatto quasi sperimentale: profetico e spietato affresco di una Roma dialetticamente osservata fra l’immagine ufficiale dei cinegiornali, della “dolce vita” e della mondanità, e la realtà di una città già all’epoca degradata, dove borgate e baracche non possiedono nulla del fascino pasoliniano ma testimoniano solo fame, emarginazione e morte. Ma già in Inchiesta a Perdasdefogu (1961) il modello squisitamente zavattiniano degli abitanti del paesino nuorese chiamati a testimoniare sulla propria semplice esistenza, fermi in piedi di fronte alla macchina da presa, veniva in qualche modo “contaminato” da un’attitudine

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teatrale, esplicitamente drammaturgica, accentuata dalla inconfondibile presenza della voce di Riccardo Cucciolla, narratore per eccellenza di tanto cinema documentario del periodo nonché futuro interprete per due volte di Antonio Gramsci e, per Ferrara, dell’anarchico Giuseppe Pinelli in Faccia di spia (1975). Qui il dramma è costituito dalla migrazione forzata della popolazione a causa dell’esproprio dei territori dovuto all’installazione di una base missilistica della Nato. Così, la difesa di una società apparentemente arcaica si trasforma in realtà in una difesa del lavoro, e del progresso a questo connesso, che viene qui annientato cancellando con esso anche la “socialità” che questo crea. E per sottolineare il messaggio, ecco che Ferrara “mette in scena” l’ipotesi del disastro introducendo l’elemento narrativo finzionale con il contadino in fuga tra i campi mentre nel sonoro si odono i boati di un ipotetico attacco missilistico. Ma gli interessi di Ferrara si dimostrano sin da questi esordi vastissimi, e destinati a coinvolgere i più svariati aspetti della società, senza temere - anzi cercandoli e rincorrendoli - coinvolgimenti “di parte” a volte persino inclini al pregiudizio. Ne è un esempio La vita a fumetti (1961), sorta di manifesto proto-femminista che prende in esame l’universo dei fotoromanzi (il titolo infatti appare piuttosto improprio) individuandolo come specchio deformante della società piccoloborghese e dei suoi sentimenti. Anche qui a parlare sono i protagonisti, soprattutto donne, ma anche qui interviene una tecnica di “manipolazione” ad esempio nel doppiaggio dei personaggi dei fotoromanzi; e poco importa che, nella sua implacabile critica alla condizione femminile nell’Italia del boom economico, la voce severa di Giancarlo Sbragia pronunci assiomi difficilmente condivisibili come “i fumetti sono le regioni sottosviluppate dei nostri sentimenti”. Naturalmente un ruolo di primo piano nella filmografia documentaristica di Ferrara è ricoperto dai tre grandi temi che s’intrecceranno poi anche nei lungometraggi a soggetto: la mafia (o

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meglio le mafie), il lavoro, il neofascismo. Al lavoro, e a uno dei più duri, fa per esempio riferimento Minatore di zolfara (1962), che non a caso inizia con una macabra elencazione delle vittime delle morti bianche: qui la drammatizzazione è garantita anche dall’utilizzo della suspense musicale di Werther Pierazzuoli contrapposta alla canzone popolare dello stesso Pierazzuoli su testo del cantautore Fausto Amodei, ma anche dall’intensità visiva di sequenze come il funerale. Peraltro, le vive voci dei minatori e l’impianto generale del corto declinano per intero la matrice neorealistica cui Ferrara fa riferimento e che, pur sottoponendola a uno sguardo critico e a numerosi distinguo, farà sempre da guida alla sua attività di cineasta. Mafia d’Aspromonte (1966) è uno dei lavori di questo periodo che più di altri sembra porre le basi per i grandi film “di mafia” del futuro: il piglio giornalistico, sempre presente in Ferrara, si fa qui particolarmente secco e quasi brutale ma è costantemente presidiato da una preziosa tensione stilistica, particolarmente riscontrabile nelle immagini di una Calabria fotografata in un cupo bianco e nero da Angelo Bevilacqua sulle note della musica astratta, atemporale e respingente di Sergio Pagoni. L’approccio visivo procede ancora una volta per associazioni di montaggio, in una serie di “tableaux” dall’impatto potente: l’incipit sulla lapide di un morto ammazzato, un uomo ammanettato, un bimbo che corre, un’effigie di Mussolini, un uomo armato, fuochi d’artificio, ritratti di ricercati, scorci di vita contadina... Paesaggi e volti, gli uni mischiati agli altri, a comporre l’affresco incombente e atavico di una società chiusa e immutabile, dove l’orologio della Storia sembra essersi fermato condannando l’umanità ad un destino di eterna violenza e sopraffazione. Il terzo grande nucleo tematico del cinema ferrariano, ossia quell’intreccio perverso tra alta finanza, poteri occulti, servizi deviati, forze eversive ed estrema destra che per almeno un trentennio dal Secondo dopoguerra ha impedito al nostro paese di archiviare e seppellire definitivamente il ventennio fascista, è al centro del già

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ricordato La pista nera girato negli anni più oscuri della strategia della tensione e delle bombe: qui l’“etica della rappresentazione” del regista si appella ancora una volta alla potenza evocativa del montaggio per attrazioni in una continua oscillazione tra un passato che non passa e un presente che stenta ad affrancarsi dai propri spettri. Si accentua la manipolazione costante delle immagini, moltiplicata dall’effetto agghiacciante della prestigiosa consulenza musicale di Luigi Nono, mentre le simbologie si fanno esplicite sin quasi al didascalismo (il dollaro con l’effigie della morte e delle multinazionali, Nixon associato a un teschio...). Straordinari documenti video originali si alternano a spezzoni di cinema pregresso, mentre la riflessione si allarga più in generale ai meccanismi di fabbricazione del consenso, che passano anche attraverso due grandi veicoli di massa dell’epoca, come le canzonette (Grande, grande, grande di Mina) e il calcio. Il giudizio strettamente politico sul ruolo della Democrazia Cristiana è impietoso, additando in quel partito l’erede oggettivo del fascismo e nell’equazione - mai azzeratasi - tra grande capitale e fascismo, fra grande industria e sfruttamento il nucleo centrale e fondativo del totalitarismo. Si comprende bene, ora, come questa molteplicità di piani della messa in scena sempre collegata alla necessità che Ferrara avverte di catturare più larghe fasce di udienza possibili, conduca a un utilizzo dell’attore assolutamente protagonistico nella costruzione del suo cinema. Non è un caso che proprio al ruolo dell’attore il regista dedichi uno dei capitoli più ampi e circostanziati del suo Manuale di regia. Tre le linee fondamentali del suo pensiero in materia: “il cinema è antropocentrico”, ossia è un occhio umano a percepirlo e sono presenze umane quelle che lo abitano; il divismo e lo star system sono meccanismi limitativi e pericolosi, perché “un attore divo dimezza in partenza la libertà - prima di tutto ideologica (il corsivo è nostro, ndr) e le possibilità espressive del regista”; infine, “l’attore è misura dell’immagine e chiave della conoscenza dialettica”.¹

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Sarebbe tuttavia errato credere che questi principi diventino nel cinema di Ferrara regole rigide o astratte; e ancor più sbagliato pensare che egli si senta tenuto a rispettare incondizionatamente una delle condizioni basilari dell’estetica neorealista, ossia quella dell’attore “vergine”, non professionista e preso dalla strada. In realtà, come dimostra la sua filmografia, l’utilizzo degli attori da parte del regista risponde prima e soprattutto alle sue esigenze di comunicazione immediata, forte e senza filtri. Con questa finalità precisa, il parco di voci e di volti cui Ferrara attinge in quarant’anni appare estremamente vario e composito: sfilano certo anche persone della vita di tutti i giorni, o comunque attori non professionisti o facce sconosciute (come i gangster de Il sasso in bocca, 1969, o gli adolescenti narcokiller di Narcos, 1992), che possono però affiancare presenze celebri o autentiche star (da Gianmaria Volontè a Lino Ventura, da Michele Placido a Giancarlo Giannini, da Mariangela Melato a Giuliana De Sio, da Anna Galiena a Anna Bonaiuto, da Rutger Hauer a Massimo Ghini...), o più semplicemente caratteristi di seconda fila, ma spesso efficacissimi nell’immedesimarsi nei characters ferrariani. Non di rado infatti nei suoi cast compaiono volti familiari a chiunque abbia frequentazione con il cinema di genere italiano degli anni ’60 e ’70 (western e thriller in particolare) e, più avanti, con fiction televisive come La squadra, Distretto di polizia o Il commissario Montalbano (si veda tutto il cast di Giovanni Falcone); ci limiteremo qui a segnalare solo, per la prima fase, Ugo Bologna, impressionante nei panni (compreso elmetto e mitra in pugno) di Salvador Allende nel segmento cileno di Faccia di spia: o lo spagnolo Aldo Sambrell, attore-feticcio del western made in Italy e di Sergio Leone (è il Cuchillo di Per qualche dollaro in più, 1965) e potente boss della droga in Narcos; o infine Umberto Raho, straordinaria, aristocratica e sinistra presenza ricorrente di quell’epoca, sia come vittima designata (L’uccello dalle piume di cristallo, 1970, Dario Argento) che come persecutore, e che Ferrara

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Faccia di spia (1975)

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vorrà dapprima in Faccia di spia, poi nel ruolo dello spietato presidente di tribunale dei colonnelli in Panagulis “zei” (1980) e come generale della Finanza ne Il caso Moro (1986). Ma, proprio perché l’attore deve godere, nel cinema ferrariano, di un rapporto di assoluta fidelizzazione e condivisione con il regista, ecco che allora si susseguono nei suoi film presenze ricorrenti, stabili, anche se raramente assurte a ruolo di protagonisti, ma non per questo meno significative e simboliche. Si accennava, in sede di introduzione, alla figura di Stefano Satta Flores, o a nomi come Achille Millo e Giancarlo Sbragia quali voci conduttrici, “io narranti” autorevoli e concentrati, nella prima fase della carriera del regista; così, si può ricordare ad esempio anche Mattia Sbragia, figlio di Giancarlo, per ben due volte (Il caso Moro e Guido che sfidò le Brigate Rosse, 2007) chiamato a dar vita a un capo BR, identificabile con Mario Moretti nel primo e chiamato il “Vecchio” nel secondo (senza contare il suo brigatista Giovanni in L’anno del terrore-Year of the gun, 1991 - di John Frankenheimer, ispirato anch’esso al caso Moro), con una nettissima differenziazione fisica e caratteriale: emaciato, gelido e spietato nel primo, quasi pacioso, autoironico e diffidente nel secondo, malgrado l’epoca dei due fatti sia la medesima e anche se tra la realizzazione dei due film passa un ventennio. Sbragia è - con altri - un perfetto esempio dell’attore “politico” secondo Ferrara: grande esperienza e ascendenza di palcoscenico, estrema duttilità, capacità di calarsi in personaggi diametralmente opposti grazie a un assorbimento psicologico dei loro profili. Doti che avevano permesso a Sbragia di incarnare Antonio Gramsci nello sceneggiato televisivo RAI Vita di Antonio Gramsci di Raffaele Maiello dell’81, raccogliendo così il testimone di Riccardo Cucciolla nei film di Florestano Vancini (Il delitto Matteotti, 1973) e Lino Del Fra (Antonio Gramsci i giorni del carcere, 1977), o il socialista polacco Jacob Fürstenberg, sodale di Lenin, ne Il treno di Lenin (1988, Damiano Damiani), ma che non gli impediranno di essere anche padre

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Lombardi, “il microfono di Dio”, nella fiction De Gasperi l’uomo della speranza (2005, Liliana Cavani) o il truce funzionario che in Diaz Don’t Clean Up This Blood (2012, Daniele Vicari) ordina l’assalto sanguinoso alla Diaz durante il G8 del 2001 a Genova. Non minore effetto e importanza riveste poi la schiera di fisionomie corpi che animano il parterre politico-istituzionale dei film di Ferrara, popolato di personalità la cui memoria è ancora fresca negli spettatori meno giovani, e il cui profilo serve anche da memento per le generazioni successive. Sono figure in cui il procedimento di mimetizzazione, di sovrapposizione fra “cast” e “characters” raggiunge esiti sorprendenti e senza ricorrere certo allo star system né a particolari acrobazie di makeup, ma semplicemente alla scrittura dei ruoli e alla loro ripartizione drammturgica. Ci limiteremo a ricordare qui solo i co-protagonisti de Il caso Moro, innominati nel cast ma identificabilissimi anche ove non si interpellino reciprocamente per nome: dall’accasciato e impotente Benigno Zaccagnini di Bruno Corazzari al determinato Berlinguer di Francesco Carnelutti (che doppierà Stathis Giallelis in Panagulis “zei”), dal pragmatico Bettino Craxi di Piero Vida (ne I banchieri di Dio, 2002, sarà Pier Luigi Zerbinati a incaricarsi più caricaturalmente del ruolo) al pensieroso Giulio Andreotti di Daniele Dublino (ne I banchieri di Dio sarà Mario Marchetti a trasformarlo in una “maschera” tra Alighiero Noschese e Oreste Lionello, prima del Toni Servillo de Il divo, 2008, Paolo Sorrentino) dall’asciutto Francesco Cossiga di Gabriel Villa al combattivo Claudio Signorile di Paolo M. Scalondro. E se Giampiero Bianchi, finissimo interprete di prosa e televisione, dà vita a un furibondo Claudio Martelli, Guardasigilli in Giovanni Falcone e poi a un altro ministro - di fantasia e corrottissimo - in Segreto di stato (1995), non gli è da meno il titanico Arnoldo Foà/Virginio Rognoni, Ministro dell’interno in Cento giorni a Palermo (1984), che si ricorderà per un unico, fulminante scatto d’ira al’interno di un’interpretazione tutta sommessa e defilata.

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Ma altre ombre, altri sosia, altre effigi affiorano continuamente tra le quinte degli intrighi inscenati e rivissuti dal regista: l’infido duo piduista “il Gatto e la Volpe” Umberto Ortolani-Licio Gelli/Augusto Zucchi - Camillo Milli di I banchieri, l’insinuante, mellifluo Salvo Lima di Carlo Ninchi, lo strepitoso Tommaso Buscetta di Gianni Musy e il paterno Antonino Caponnetto impersonato dal regista Marco Leto in Giovanni Falcone, o ancora il Tony Sperandeo “volto di mafia” per eccellenza, e l’anziano, onnisciente e filosofico banchiere interpretato dal novantenne Tino Bianchi in Segreto di stato, e nel quale è forse adombrato Enrico Cuccia, l’ascetico e teocratico numero uno di Mediobanca... Anche se i rischi più cospicui, proprio sul piano dell’ambiguità tra identificazione e allusione, tra feticcio e simbolo, totem e tabù, Ferrara li correrà con il già ricordato “’U Dottore”di Pietro Biondi in Giovanni Falcone, nelle cui fosche manovre si vide al di là di una vaghissima somiglianza fisica - il riferimento al già ricordato ex-poliziotto, ex-agente segreto, ex-numero 3 del SISDE Bruno Contrada; e ancor di più - come vedremo - con la figura del Papa in I banchieri di Dio. A diventare autentico attore-feticcio nei lungometraggi di Ferrara, anche per la consuetudine personale e la condivisione di idee con il regista, è tuttavia un’altra importante figura di attore: Adalberto Maria Merli. Interprete di prosa, televisione e cinema (proprio a Leto e al suo La villeggiatura, 1973, si deve una delle più forti performances “politiche” di questo attore) doppiatore eccelso, ma anche personalità dal fortissimo impegno civile e professionale, su Merli Ferrara ritaglia le sue più sofisticate e temibili figure di vilain, come l’educato e cordiale ma spietato capitano Felix Ramos, l’agente della CIA che organizzò la cattura di Che Guevara in Bolivia, in Faccia di spia; o l’azzimato e conversevole aguzzino Hadzisissis di Panagulis “zei”; o il logorroico e minaccioso pezzo grosso del SISDE Ermes Ravidà, caratterizzato da un fortissimo accento sardo, di Segreto di stato; o infine il malinconico

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Faccia di spia (1975)

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e perdente boss mafioso “buono” Carmine Moreno della serie tv Donne di mafia (2001), che è - come si vedrà - anche un grande “coro” tragico di presenze femminili molto diverse tra loro. Senza contare l’anonimo e onnipresente faccendiere impersonato in Cento giorni a Palermo dove peraltro Merli doppia anche, con straordinaria aderenza e asciuttezza, il protagonista Lino Ventura. Ma è senz’altro nel dar vita a personaggi “storici”, a figure ormai entrate nell’immaginario - e purtroppo nel dolore - collettivo, che Ferrara trae dai propri interpreti risultati straordinari, soprattutto perché si tratta di fisionomie che il pubblico ha imparato a conoscere bene a livello mediatico. Ovviamente il “make up” gioca la propria parte, ma attenzione: Ferrara non chiede ai propri attori di somigliare fisicamente ai modelli. O meglio: non chiede loro di “interpretarli” bensì di “diventarli”. Accadrà soprattutto con Volonté-Moro, come vedremo, ma è una procedura presente sin dai figuranti de Il sasso in bocca, e che si ripeterà nel Che Guevara di Claudio Volonté (fratello di Gianmaria) o nel Pino Pinelli di Cucciolla o nel Ben Barka di Francisco Rabal in Faccia di spia: un’identificazione, in altre parole, di cuore e di cervello prima e più che di tratti somatici. In questo modo Lino Ventura, monumentale simbolo del “noir” francese, si trasforma in Carlo Alberto Dalla Chiesa pur nella totale diversità fisica dal personaggio; idem per il Giovanni Falcone di Michele Placido, sfaccettato con incredibile perizia, o per il Giancarlo Giannini (anch’egli futuro generale Dalla Chiesa per la tv) di un dolente Paolo Borsellino prima, e del viscido intrallazzatore Flavio Carboni (I banchieri di Dio) dopo. Sino a giungere alle più sconvolgenti immedesimazioni attoriali del cinema ferrariano: oltre al già citato Moro di Volonté, esse riguardano in Panagulis “zei” la totale, quasi martirologica adesione fisica e psichica al protagonista da parte di Stathis Giallelis, in precedenza segnalatosi per l’imperiosa interpretazione del protagonista di Il ribelle dell’Anatolia (America America, 1963, Elia Kazan, con musiche di quel Manos Hadjidakis che

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collaborerà anche a Faccia di spia); e Omero Antonutti (che sostituì lo scomparso Volontè) nei panni e nell’anima tormentata di Roberto Calvi ne I banchieri, in un procedimento di “scomparsa” dentro il personaggio tanto più stupefacente se si pensa che sette anni prima Antonutti, con altrettanta opposta efficacia aveva impersonato il banchiere-criminale Michele Sindona, ossia il nemico giurato di Calvi nell’affare del Banco Ambrosiano nonché mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore della Banca Privata di Sindona, in Un eroe borghese (1995), diretto proprio da Placido e con musiche di quel Pino Donaggio che impareremo a conoscere nel cinema di Ferrara. Questo evidente, continuo rincorrersi, ricorrere e incrociarsi di nomi, caratteri, titoli e situazioni, è utile anche a comprendere meglio quale sia stata la temperie civile e culturale in cui il cinema di Ferrara si è mosso, e che in piccola parte si è prolungata nei decenni successivi, quale il contesto storico e narrativo sul quale esso si svolge, incentrandosi soprattutto su un arco temporale che, con tragica circolarità, va dalla stagione delle bombe della fine degli anni ’60 allo stragismo mafioso dei primi anni ’90. Ma serve anche a capire come, agendo e nel contempo essendo agiti dalla Storia sino alle più estreme conseguenze, i personaggi di Ferrara proprio per il loro “essere veri” finiscono con l’ottenere dagli interpreti un’immedesimazione talmente assoluta da rovesciarsi nel proprio contrario, in un processo di radicalizzazione e stilizzazione astratta, che trasforma l’attore in “attante”, ossia in “colui che compie o che subisce l’atto indipendentemente da ogni altra determinazione” secondo la celebre definizione di Greimas², così avvicinandolo molto a quel concetto di Verfremdungseffekt, di straniamento o distanziazione, elaborato dal marxista Brecht, le cui idee e metodi Ferrara ben conosceva e condivideva.

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Note ¹ Giuseppe Ferrara, Manuale di regia, pagg. 193 e segg., Massari, Bologna 2014. ² A. J. Greimas e J. Courtès, Semiotica: dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Bruno Mondadori, Milano, 2007.

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