Oltre il muro

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Oltre il MURO

a cura di Luciana Ziruolo

Oltre

il MURO a cura di Luciana Ziruolo

Oltre il MURO

Luciana Ziruolo è direttore dell’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria “Carlo Gilardenghi” (Isral), precedentemente ha insegnato geografia economica nella scuola secondaria di secondo grado. Fa parte della redazione di “Quaderno di storia contemporanea”, del gruppo di ricerca del Laspi (Università del Piemonte Orientale), della Commissione “Progetto di storia contemporanea” del Comitato Resistenza Costituzione della Regione Piemonte. Ha pubblicato numerosi saggi e articoli, tra i più recenti: I Gruppi di difesa della donna: una ricerca per la storia e per la scuola, in “Noi compagne di combattimento”. I Gruppi di Difesa della Donna 1943-1945, Roma, Anpi, 2017; La Resistenza senza armi: l’agire delle donne tra autonomia e centralizzazione in una provincia di confine in Centralizzazione, decentramento e federalismo:un dibattito tra Italia e Europa (1939-1948), Milano, Giuffrè, 2017, con Flavio Febbraro, La città europea. Lessico, problemi e storia, in “Novecento.org”, n. 9, 2018, Una faccia una razza? L’occupazione italiana nel Dodecaneso, “Novecento.org”, n.11, 2019.

Luciana Ziruolo

“Quando ero un ragazzino la frontiera, vicinissima, non era una frontiera qualsiasi, bensì una frontiera che divideva in due il mondo - la Cortina di ferro” racconta Claudio Magris. “Io vedevo quella frontiera sul Carso, quando andavo a passeggiare e a giocare. Dietro quella frontiera c’era un mondo sconosciuto, immenso, minaccioso, il mondo dell’Est”. Con la caduta del Muro nel 1989, con la dissoluzione dell’Urss nel 1991, si sovverte il quadro geopolitico mondiale: è la fine della Guerra fredda, è la fine del bipolarismo, è un ordine mondiale che si dissolve dopo una lunga guerra, una guerra non combattuta in armi perché non avrebbe potuto esserlo, pena lo sterminio nucleare. A trent’anni di distanza siamo di fronte a una disarticolazione dell’ordine internazionale e sembrano inattuate le premesse di un mondo pacificato. L’obiettivo di questo libro è provare a decifrare e a interpretare il 1989 e il suo portato, una questione che non è solo dell’Europa centro-orientale, ma che attraversa lo spazio europeo e mondiale.

€ 15,00 www.falsopiano.com/attraversareiltempo.htm

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EDIZIONI

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Oltre il MURO

1989-2019 a cura di Luciana Ziruolo


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Questo volume è edito con il contributo della Direzione generale per le biblioteche, gli istituti culturali ed il diritto d’autore.

In collaborazione con:


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Indice

Senza il Muro, appunti da Jacques Rupnik. Introduzione di Luciana Ziruolo

p. 9

Il sistema internazionale a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino di Luigi Bonanate

p. 15

Trent’anni di storia che si possono insegnare: l’epoca della globalizzazione di Alberto De Bernardi

p. 29

L’insegnamento della storia nell'Europa orientale dopo il 1989. Quando la storia e la memoria diventano un ostacolo per la riconciliazione di Antonio Brusa p. 57 Il triennio 1989-1991 nella manualistica per la secondaria di secondo grado di Carla Marcellini

p. 73

Una proposta di lavoro per la scuola. Il Muro di Berlino di Antonella Ferraris

p. 93

Oltre il Muro (Beyond the Wall). Progetto didattico di Dario Siess

p. 111

Gli autori

p. 125

Immagini dal muro

p. 129


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Muro


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Senza il Muro, appunti da Jacques Rupnik. Introduzione di Luciana Ziruolo Con questo intervento si intende mostrare quanti siano i temi, quanti siano gli interrogativi, quanti siano i fili con cui è possibile attraversare il 1989. Un primo elemento di chiarezza è offerto da alcuni spunti di riflessione tratti dal libro di Jacques Rupnik, Senza il muro. Le due Europe dopo il crollo del comunismo (Roma, Donzelli, 2019). Il volume parte dal 1989 e analizza i trent’anni successivi a quella data. Nei saluti a questo convegno*, sia il presidente dell’Isral Mariano G. Santaniello che il sindaco di Tortona Federico Chiodi, hanno fatto cenno alla loro esperienza, a quell’essere ragazzi quando il Muro c’era. Potrei offrirvi la mia, ma è senz’altro più interessante quella del grande scrittore triestino Claudio Magris. Sul “Corriere della Sera” del 1 luglio 2019 egli riflette sui nuovi muri che si vanno erigendo in Europa e nel mondo, questo l’incipit dell’articolo: “Quando ero un ragazzino la frontiera, vicinissima, non era una frontiera qualsiasi, bensì una frontiera che divideva in due il mondo - la Cortina di ferro. Io vedevo quella frontiera sul Carso, quando andavo a passeggiare e a giocare. Dietro quella frontiera c’era un mondo sconosciuto, immenso, minaccioso, il mondo dell’Est”. Con la caduta del Muro nel 1989, con la dissoluzione dell’Urss nel 1991, si sovverte il quadro geopolitico mondiale: è la fine della Guerra fredda, è la fine del bipolarismo, è un ordine mondiale che si dissolve dopo una lunga guerra, una guerra non combattuta in armi perché non avrebbe potuto esserlo, pena lo sterminio nucleare.

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Gli studiosi hanno rilevato come nella storia non si sia mai verificata in modo pacifico una transizione di così vasta portata. A trent’anni di distanza, però, siamo di fronte a una disarticolazione dell’ordine internazionale e sembrano inattuate le premesse di un mondo pacificato o per così dire di un dilagare virtuoso della globalizzazione. La scelta è caduta su Rupnik perché oltre a essere uno studioso storico-politico che ha dedicato molta attenzione all’Europa centroorientale, accanto a questa dimensione, affianca quella di mediatore sul campo: è stato consigliere del presidente della neonata Repubblica Ceca Václav Havel, è stato membro della Commissione internazionale sul Kosovo ed è stato anche membro della Commissione internazionale sui Balcani. Nato a Praga nel 1950, ma di nazionalità francese, direttore di ricerca al Ceri (Centro di ricerca internazionali), insegna all’istituto di Scienze politiche di Parigi. Le tesi contenute nel suo libro sono molto utili per ripercorrere le vicende dei Paesi un tempo appartenenti al blocco sovietico, dalla fine dei regimi comunisti ad oggi e più in generale per comprendere gli assetti mondiali di questi ultimi trent’anni. A dire il vero Senza il muro non è un libro nuovo, nel senso che il volume raccoglie una serie di saggi già editi. Di nuovo, però, ci sono l’introduzione e il primo capitolo, scritti appositamente per il pubblico italiano. L’uscita del volume è stata voluta fortemente da Guido Crainz, che ha consigliato all’editore Donzelli la realizzazione di questo tipo di operazione. La forza interpretativa di Rupnik scaturisce anche dal considerare la caduta del muro non tanto come un evento, ma come l’inizio di un processo, o meglio, di processi, con una transizione lunga, incompiuta, verso dei modelli di democratizzazione politica cui originariamente ci si ispirava. Per le nazionalità post sovietiche, secondo l’autore, la spiegazione degli esiti differenti che in quell’area si stanno manifestando sta nel diverso dosaggio di alcuni fattori.

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Fattori quali, il grado e la forza di insediamento del precedente regime sovietico, la forza o la fragilità di suggestione del modello liberaldemocratico d’ispirazione occidentale, la presenza di fattori di intorbidamento, quando non di corruzione, la diversa torsione delle derive identitarie che stanno alla base delle istanze più o meno forti di tipo nazionalistico. Che cosa dice Rupnik? In sostanza dice che se a Est del Muro sta riprendendo a spirare un vento dai tratti inediti di una democrazia illiberale, è vero anche che dall’altra parte del muro un muro che ormai non c’è più - si sente sibilare un vento simile. L’obiettivo di questo convegno è di provare a decifrare e a interpretare il 1989 e il suo portato, una questione che non è solo dell’Europa centro-orientale, ma che attraversa lo spazio europeo e mondiale. Posto il 1989 come fuoco di attenzione, primo avvertimento è quello di non confondere le cause immediate con le ragioni profonde che hanno portato a quel rapido e imponente cambiamento che, da un lato, veniva considerato necessario e impossibile e, dall’altro, imprevedibile e inevitabile. In estrema sintesi, Rupnik indica come ragioni profonde il decadimento a lungo termine del sistema politico-economico del socialismo reale combinato con l’erosione dell’impero sovietico e come cause immediate - vale a dire ciò che ha consentito e reso possibile il cambiamento - il rifiuto di usare la forza da parte del leader del Cremlino. Questa decisione di Michael Gorbačëv aprì uno spazio decisivo a Lech Wałęsa in Polonia con Solidarność e anche un possibile spazio per il Forum civico di Havel a Praga, nulla sarebbe stato possibile senza l’accettazione tacita di Mosca. Gorbačëv, nel 1988, abbandona la dottrina Bréžnev della sovranità limitata. La dottrina della sovranità limitata nel 1968 aveva consentito e giustificato l’invasione della Cecoslovacchia, Gorbačëv la sostituisce con una dottrina definita scherzosamente

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“dottrina Sinatra”, dal titolo della famosa canzone My Way (A modo mio), una definizione usata per descrivere la nuova politica estera di Mosca, improntata alla non ingerenza negli affari interni delle nazioni del Patto di Varsavia: ogni paese del blocco aveva la facoltà di muoversi in una certa autonomia. Sempre nel 1988, Gorbačëv alle Nazioni Unite dichiara che nessuno può rivendicare il monopolio sulla verità. Si tratta di una dichiarazione molto importante, perché il monopolio sulla verità, dalla rivoluzione bolscevica in poi, costituì la principale legittimazione dei regimi comunisti. Per queste ragioni al presidente Gorbačëv venne imputato un contributo decisivo nel crollo dell’Urss, gli fu attribuita l’immagine di decostruttore involontario, ebbe poco credito nell’Europa centrale ed ebbe il disprezzo dei compagni cinesi che lo vedevano come colui che aveva abbandonato un impero e il suo potere senza ottenere nulla in cambio. I cinesi, d’altro canto, nel giugno 1989 a Piazza Tien’anmen avevano già tristemente dimostrato di percorrere un’altra via: quella del capitalismo autoritario. Un’ altra via per ragionare sul 1989, è riflettere su come sia stato l’esito del lungo processo, iniziato nel 1956 con la rivoluzione di Budapest, proseguito nel 1968 con una riforma radicale a Praga, poi con Solidarność in Polonia nel 1980. Solidarność ha rappresentato l’emergere del più grande movimento operaio dell’Europa postbellica. Date che riconducono a movimenti dissidenti, in continuità con il passato e al contempo volti ad andare avanti, oltre il 1968, oltre al socialismo dal volto umano che era stato schiacciato dai carri armati sovietici, verso un linguaggio più liberale sui diritti umani e sulla società civile. Ancora, per il 1989, è possibile parlare di rivoluzione, anche se in realtà non ci fu nessuna idea realmente nuova che accompagnò questo evento, diversamente da quanto era avvenuto in Francia nel

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1789, o in Russia nel 1917? Fu una rivoluzione pacifica e negoziata - a parte la Romania di Ceaușescu - niente di riconducibile all’immaginario dell’assalto alla Bastiglia o al Palazzo d’inverno, non a caso a Praga il processo politico che, tra novembre e dicembre 1989, condusse alla dissoluzione dello stato comunista cecoslovacco venne chiamato Rivoluzione di velluto. Gli studiosi ritengono che si possa parlare di rivoluzione dal momento che mutarono i fondamenti di un sistema politico ed economico, certamente è stata la prima rivoluzione della storia a non proporre un nuovo modello di società, il motto fu per così dire “niente esperimenti”, come afferma Rupnik nell’interessante intervista a cura di Marcello Flores, pubblicata su “La Lettura” del 21 luglio 2019. A prevalere fu l’imitazione dei modelli occidentali, in particolare di quelle che sembravano le due più affermate democrazie liberali: quella degli Usa e quella del Regno Unito. Soltanto decenni dopo si è compreso come si stesse imitando un qualcosa che era in seria difficoltà, che aveva grossi problemi, basti pensare agli Stati Uniti nel 2008, o al Regno Unito con le vicende attuali sulla Brexit. Se il 1989 ha avuto successo nel portare tanti Paesi dell’Europa Centro-orientale nell’Unione Europea e nel condurre a un così forte allargamento dell’Unione che è arrivata a 28 membri, ora ne vediamo tutti i limiti. Nei paesi centro-orientali, in questi trent’anni, si è passati dalla rivoluzione democratica alla crisi della democrazia, o alla stanchezza verso la democrazia. Un articolo, su “La Stampa” del 4 novembre 2019, riportava un’indagine realizzata in sette Paesi dell’Europa orientale, un’indagine assai interessante che ha coinvolto più di 12.000 persone, con l’obiettivo di comprendere come i cittadini avvertissero la realtà in cui vivevano. Alcune domande erano: “Nel vostro Paese le elezioni, a vostro avviso, sono libere?”, “Avete timore per la

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democrazia nel vostro paese?”, “è stato un bene passare al libero mercato?”. Le risposte non sono confortanti, mostrano il successo di populismi nazionalisti e indicano innegabilmente una regressione democratica. Dal 2015, sembra esserci di nuovo una spaccatura tra Est e Ovest in Europa, e certamente non va dimenticato come l’ondata migratoria del 2015 abbia funzionato come catalizzatore del processo di chiusura all’esterno, con la difesa dell’identità nazionale. Il ciclo liberale successivo al 1989 sembra, se non esaurito, sicuramente in grossa difficoltà. L’Unione Europea ha un peso sempre più limitato nel contesto della globalizzazione, ci sono gli Stati Uniti, la Cina, la Russia. L’Unione Europea sembra contare poco, non sembra sia stata in grado di costruire quello spazio pubblico europeo che sembrava davvero possibile dopo il 1989. L’augurio è che i diversi contributi di questo convegno, innanzi tutto pensando alla comunità scolastica, possano aiutarci a districare la matassa intricata di questi ultimi trent’anni, a fornire qualche risposta ai nostri interrogativi di oggi, a sciogliere, se non le nostre paure, per lo meno alcuni dubbi. * La giornata di studi “Oltre il Muro: 1989-2019”, a cura dell’Isral, si è svolta a Tortona il 6 novembre 2019, presso la Sala Convegni della Fondazione CR Tortona.

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Il sistema internazionale a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino di Luigi Bonanate Premetto che parlerò di una cosa impossibile, e spiegherò perché sia tale; passerò poi a discutere un concetto sconcertante (almeno nel nostro contesto), quello di maionese “impazzita”. Dopodiché mi occuperò di come funziona (metaforicamente) la centrifuga in una lava-biancheria; nello stesso spirito assisteremo poi a come possa succedere che delle uova cadendo di mano, facciano una frittata. Discuteremo infine di divorzi nonché di terremoti, intervallati da maree, nuvole e temporali. Come vedete il programma è inquietante, burrascoso e tutt’altro che scherzoso. I. Incominciamo dall’evento impossibile: il vero inizio della rivoluzione del 1989 avviene nel 1975. Non che il 1989 inglobi in sé il 1975, ma in realtà da quest’ultima data era stato incubato. Il 1975 segna la svolta (quasi segreta) della storia contemporanea. Immaginiamo allora di essere al 1° agosto 1975, quando viene firmato un documento che si chiama “Atto finale della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa”. Questo Atto finale degli accordi di Helsinki contiene una serie di intese (dalla portata innovativa e pacifica) che vengono firmate da molti Paesi, e comunque da tutti gli Stati più importanti del pianeta, dal Canada agli Stati Uniti, all’Unione Sovietica. Che cosa c’era di importante nelle decisioni prese e alle quali pochi, sul momento, prestarono molta attenzione? In uno dei suoi “canestri” (come vennero chiamati allora), ce n’è uno che annuncia – paradossalmente – che la Seconda guerra mondiale è appena

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finita: infatti, soltanto allora gli Stati Uniti firmano un trattato di pace con la Germania orientale e l’Unione Sovietica firma un trattato di pace con la Germania occidentale, sentenziando conseguentemente che la Germania non esiste più. Esisteranno, da allora in poi, uno Stato che si chiama Repubblica Federale di Germania e un altro Stato che si chiama Repubblica Democratica tedesca, cioè due stati sovrani distinti, in atteggiamento reciprocamente neutrale, se non indifferente, ma non “divisi”. La Seconda guerra mondiale dunque finisce soltanto e davvero in quel momento, quando viene risolta la “questione tedesca” (sulla quale erano stati spesi fiumi di parole, perché la Germania ipotizzata dagli strateghi del tempo doveva essere il campo di battaglia della successiva guerra mondiale finale tra i due mondi): si era sgomberato il tavolo dalla più grande minaccia mai vissuta dall’umanità. Siamo al primo agosto 1975, noi ora possiamo ormai constatare che il 9 novembre del 1989 il principio sacrosanto che per decenni aveva retto la pace internazionale (con il terrore della guerra nucleare) e che era stata la ferita mai sanata della Seconda guerra mondiale svaniva per sempre. Il 9 novembre 1989 finisce il bipolarismo, finisce la Guerra fredda, nasce qualche cosa che poté sembrare una svolta storica (e probabilmente lo fu): ma il fatto è che non esisteva più una “Germania” (dunque divisibile), ma due stati sovrani, indipendenti e autonomi. Vediamo di capire che cosa era successo in quei quattordici anni, perché contengono evidentemente al loro interno una anomalia, un mistero, come quando una maionese “impazzisce” – qualcuno disse persino un “miracolo”. Quella successiva al 1975 è una storia che si muove a balzelloni, di biennio in biennio. A due anni soltanto dal 1975 abbiamo una inaspettata e straordinaria novità: inizia infatti quella che i manuali di teoria strategica chiamarono “seconda guerra fredda” dopo che si era appena chiusa la prima guerra fredda, aggiungo che l’Unione

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Sovietica in quel contesto aveva accettato persino di firmare il canestro dei diritti umani: tutto il mondo ne rise, trovando menzognero che l’Unione Sovietica sottoscrivesse i grandi principi dei diritti umani di tipo occidentale; ma da quel momento in poi l’Unione Sovietica iniziò una lenta, ma continua marcia verso la liberazione delle vittime della repressione poliziesca russa. Quindi anche da quel punto di vista il 1975 era stato enormemente innovativo, ma nel 1977, improvvisamente, succede una cosa curiosa: perché una seconda guerra fredda? Mi si conceda un’altra piccola parentesi: la teoria strategica, specialmente americana, dalla metà degli anni Cinquanta al 1975 e dintorni è l’elemento dominante di tutte le teorie delle relazioni internazionali e di tutte le analisi scientifiche e giornalistiche su come funzionava il mondo, era la spina dorsale dell’universo. Ma pare che con il ’75 – in un clima di apparente distensione – si siano paradossalmente abbassate le difese della invulnerabilità. L’argomento era questo: l’Occidente è diventato talmente forte, talmente pronto a ogni evenienza, che potrebbe tranquillamente ridurre la spesa militare e abbassare la difesa del “mondo libero” perché tutto sommato non ce n’è più bisogno, come sintetizzava un personaggio allora molto noto, Colin S. Gray, nel sistema difensivo occidentale-americano si era aperta una “finestra di opportunità” che si era spalancata e poteva essere sfruttata dall’Unione Sovietica (che era ancora sempre il “regno del male”). La conseguenza di tanta scoperta dunque apparve allora ovvia: rialzare i livelli di difesa, riprendere la spesa militare e la corsa agli armamenti. Naturalmente questo produsse da parte dell’Unione Sovietica un provvedimento analogo. Si spalanca una finestra, dalla quale entrano la corsa agli armamenti, la tensione internazionale, la fine della distensione. Ma non è finita. Nel 1979 abbiamo, da una parte, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, che inaugura quella che sarà la ripresa

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dell’infelice storia dell’Afghanistan, e che ritroveremo una ventina di anni dopo; dall’altra parte, quasi negli stessi giorni gli Usa (lasciamo indeterminato chi abbia incominciato per primo) lanciano l’idea dei cosiddetti “euromissili”, da installare tutt’intorno alla storica “cortina di ferro”. Non tutti i membri della Nato sono concordi nel costruire una cintura di postazioni missilistiche di media gittata per circondare il lato occidentale dell’Urss. La rottura rispetto a ciò che era successo nel ’75 sembra sentenziare che un qualche immenso e non visto trucco sia stato smascherato e che un immenso castello di sabbia sia crollato. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto capire (dalla loro posizione di maggior forza e sicurezza) che la situazione era complessa: ci volle un paio di anni perché lo capissero, e arriviamo così al 1981. Che cosa succede? Gli Stati Uniti, visto che la situazione permane incerta, lanciano una proposta originale e inaspettata: che le due superpotenze congelino i loro arsenali nucleari, favorendo così il rilassamento della tensione attraverso la cosiddetta “opzione zero”. Idea né banale, né in sé sbagliata ma che rende conto brutalmente dello stato delle cose: non rappacificazione e accettazione reciproca, ma pura e semplice rinuncia a difendere la propria concezione del bene e del giusto. Passano così altri due anni – siamo nel 1983 – e la notizia importante è che a questo punto l’Unione Sovietica non ha ancora dato (o ha inteso non dare, facendo orecchie da mercante) alcuna risposta alla proposta del 1981, e ha taciuto ostinatamente. C’era una ragione contingente e fisiologica: quella nomenklatura ormai asfittica – che ha governato il dopo-Chruščëv dal 1971 – dopo la morte di Bréžnev aveva individuato in Jurij Andropov, uno degli ultimi rappresentanti di un mondo comunista ormai tramontato, il Segretario generale del Pcus e, subito dopo, in lui il Presidente dello Stato (dal 1982 fino alla morte nel 1984). Andropov dovette affrontare la situazione di stallo provocata proprio dal suo

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predecessore, l’ormai decotto Bréžnev. L’unica idea chiara tra i dirigenti sovietici era la necessità che qualsiasi loro iniziativa potesse ottenere in cambio qualche sostanzioso vantaggio. Ma a scrollare la leadership sovietica dalla sua costante incapacità decisionale, penserà, nel frattempo, Ronald Reagan che, portandosi alla Casa Bianca uno staff di consiglieri del tutto diverso da quello che aveva circondato il democratico Carter, scrollò improvvisamente il grande albero del duopolio politico-strategico Usa-Urss, annunciando addirittura che il suo Paese aveva deciso la costruzione di un sistema militare dal famosissimo nome di “scudo spaziale”(o guerre stellari) che – se realmente costruito – avrebbe dovuto dotare gli Stati Uniti di una vera e propria invulnerabilità. L’ascesa di Andropov comporta, tuttavia, non un consolidamento del regime, ma una crescente incertezza ai vertici del potere sovietico, causata dal fatto che il cosiddetto scudo spaziale potrebbe inverare uno straordinario mito eterno: l’invulnerabilità! La possibilità è infatti che gli Usa siano in grado di rivestire il pianeta, o quantomeno quella parte di pianeta che loro interessa proteggere, da qualsiasi tipo di attacco missilistico, seppure al prezzo di investimenti finanziari enormi. Ma che non si farebbe per la sicurezza? Intanto che questa novità sconvolge il quadro, Andropov muore ed è sostituito, nel 1984, da Kostantin Černenko. Ma quest’ultimo morirà all’inizio dell'anno successivo al suo insediamento e non potrà imprimere una nuova svolta alla politica estera e militare dell’Urss. La svolta decisiva arriva a marzo 1984, e vede apparire il successore di Černenko, Michail Gorbačëv, che è un personaggio “tragico”, interprete e protagonista di un evento che rimarrà nella storia del mondo perché ne è stato uno dei grandi e sfortunati protagonisti. Come quasi sempre succede, raramente chi conduce il suo popolo verso la Terra promessa riuscirà a vederla. Gorbačëv aveva capito

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quale fosse la situazione, e nel 1987 fa una cosa importantissima. Propone a Reagan di firmare un nuovo Trattato sulle armi nucleari (missili intermedi) che sospenda la corsa agli armamenti, non dimentichiamo l’“opzione zero” e lo “scudo spaziale”. Gorbačëv a Washington il 7 dicembre 1987 firma con Reagan il trattato, con una penna dalla marca famosissima, che diede l’opportunità a quest’ultima di lanciare una pagina pubblicitaria sui quotidiani di tutto il mondo che mostra Reagan e Gorbačëv che firmano il trattato con quella penna. Fin lì, pura e semplice pubblicità, sfruttamento di una coincidenza fortunata. Ma la cosa importante, ed esemplare, fu che lo slogan posto sotto la riproduzione di quella fotografia recitava “Più che la spada, poté la penna”: una straordinaria ed efficacissima interpretazione della portata (almeno ideale) di quel patto. In quel testo c’era una clausola che sconvolse e cambiò l’inerzia della partita: mentre le trattative tra i due blocchi sul disarmo e dintorni erano incominciate nei primi anni Cinquanta – Ginevra era stata la sede di migliaia di sedute di contatto tra di loro che si erano sempre fermate sulla soglia della verifica della distruzione delle armi proibite – e l’Unione Sovietica aveva sempre rifiutato di accogliere ispezioni internazionali (mentre gli Stati Uniti le richiedevano formalmente), l’8 dicembre 1987, per la prima volta, l’Urss accettò i controlli nei suoi siti nucleari. Questo cambiò completamente il mondo. Qualcuno disse: “la Guerra fredda è finita”, due anni dopo succederà quello che sappiamo e che è al centro della ricorrenza del 9 novembre 1989. Sappiamo che c’era stato un antecedente più lontano, il 1975 (Helsinki, e l’Atto finale), un antecedente più vicino e già più intenso che è quello del 1987: l’Ottantanove è il coronamento di una fase delicata di straordinaria importanza della storia internazionale. A questo punto, una risposta alla domanda che avevamo

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immaginato come “impossibile” (come è potuta succedere una cosa che era stata considerata impossibile da tutti quattordici anni prima?) deve essere obbligatoriamente data, chiedendoci che cosa sia cambiato. Naturalmente tantissimi piccoli sintomi materiali avevano annunciato l’evento: ad esempio, a partire dal 1987, viene fondata una banca per dare dei contributi alla ricostruzione nei Paesi del blocco socialista; vengono autorizzati i viaggi turistici infra-blocco che erano stati rigidamente contingentati se non proibiti. Si attraversano i confini, che erano stati sempre chiusi anche all’interno del blocco socialista: insomma, tutta una serie di piccoli eventi che sembrava dirci già allora che stava per succedere qualcosa. Ma come è stata possibile una svolta così importante? Una serie di aspetti hanno scardinato la struttura strategica del tempo: Stati Uniti e Unione Sovietica si erano lasciati, alla fine della seconda guerra, examici se non mortalmente nemici, in una situazione di contrapposizione totale e irredimibile. Questo aveva provocato la corsa agli armamenti che produsse spese per miliardi e miliardi di dollari che – adesso per fortuna lo possiamo dire – erano stati sprecati visto che queste armi non sono mai state usate. Nel corso degli anni, evidentemente, si era diffusa progressivamente una constatazione che gli americani e i sovietici – i vertici – avevano già fatto da tempo, e cioè che una guerra nucleare tra Usa e Urss era “impossibile” perché sarebbe finita nello spazio di poche ore con una vittoria schiacciante, perché la capacità militare produttiva tecnologica e industriale degli Usa era enormemente superiore a quella sovietica. I sovietici avevano più carri armati, più missili, più soldati, molto più di tutto, ma i loro missili mancavano il bersaglio, quelli americani potevano colpire un cent sulla Piazza Rossa: questo è il dato che ha orientato in modo totale e perentorio il cosiddetto bipolarismo, che nascondeva il trucco che c’era sotto. Ecco dunque

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che quando questo meccanismo incomincia a incepparsi e a perdere valore, quanto più cresce la consapevolezza che non ci sono più ostilità politiche indomabili, arriva finalmente l’occasione per attenuare la situazione e per arrivare alla caduta del Muro, l’evento più importante del nostro tempo. Tutto questo è storia. Ma qual è il significato più profondo di quell’evento? Che per la prima volta nella storia uno dei più grandi imperi del mondo, il secondo stato più potente della Terra (perché anche se inferiore agli Usa, l’Urss era comunque una stragrande potenza militare), lo stato telluricamente più grande della Terra, quindi con più risorse, con più popolazione, con più di tutto sul piano degli elementi che costituiscono una potenza, come è possibile dunque che il secondo stato più potente decida di “suicidarsi” un po’ alla volta? Il 9 novembre 1989 l’Urss cede il primo pezzo del suo impero, lascia cadere il Muro, poi rinuncia alle “colonie” nel Nord, nel Sud, nel centro dell’Europa orientale e nel 1991 addirittura l’Urss in quanto tale scompare. Nel 1991, la casa editrice De Agostini, come tutti i grandi editori nel mondo fanno periodicamente, pubblicava un suo nuovo grande atlante geografico mondiale, ma durante la stampa i confini dell’Europa orientale scomparvero e cambiarono, e l’editore dovette pubblicare un opuscoletto di aggiornamento. Era avvenuta quella che si potrebbe chiamare una “mutazione genetica”. Il pericolo nucleare, dagli anni Cinquanta in poi, aveva progressivamente modificato il concetto di guerra (sulla base di una sua relativa e ipotetica “impossibilità” per eccesso) che era andato disperdendosi. L’’89 celebra questa straordinaria ancorché delicatissima scoperta: per paura il mondo imparerà a governarsi! La scoperta non era del tutto nuova: già Thomas Hobbes, uno dei grandi filosofi dello stato moderno, aveva sostenuto che si potesse governare felicemente solo con la paura ed ecco che questa comincia

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a presentarsi anche nelle relazioni internazionali. Ma quanto a lungo un tale regime può durare? Questo è stato lo straordinario e “impossibile” Ottantanove, ma il 1991 annuncia nuovi problemi: nel ’91 si materializza il problema delle ex-repubbliche socialiste, la più importante delle quali è la Jugoslavia (ecco che i panni contenuti nel cestello dalla lavabiancheria incominciano a liberarsi della forza centrifuga), che pur essendo stata sempre dissidente, apparteneva pur sempre al mondo del socialismo reale; ma senza la “forza centrifuga” (alias, controllo e repressione) con la quale l’Urss controllava gli alleati, la solo apparente unità jugoslava si dissolve perché non era mai stata uno stato unitario e la sua unità era stata inventata nel 1918-19, nei trattati di pace alla fine della Grande guerra. Incomincia così quell’episodio atroce che è la guerra nei Balcani che finisce soltanto nel 1995 quando, finalmente, l’Onu autorizza la Nato a intervenire militarmente. Si poteva immaginare allora che con questa (pur sanguinosissima) conclusione la vicenda della dissoluzione dell’Urss e dei suoi postumi potesse concludersi definitivamente, e in un certo senso fu così, ma per rendere più scultoreo quello che succederà a partire dal 1989 fino al ’95-’97, vale ancora la già annunciata metafora della lavabiancheria, nel funzionamento della quale, a un certo punto, la forza centrifuga tende eliminare l’acqua. In questo modo tutti i panni si schiacciano, per così dire, contro le pareti del cestello. Questo è esattamente ciò che era successo ai diversi alleati dell’una e dell’altra coalizione durante la Guerra fredda: tutti fermi, immobili, ciascuno se ne sta abbarbicato alla parete del cestello per evitare che qualche movimento interrompa il ciclo operativo, inceppando la macchina – il che farebbe scoppiare la guerra! Il cestello (ovvero, l’anarchica situazione balcanica) rallenta, tende a fermarsi e i panni – non più pressati – si liberano e cadono: ciò

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succede dapprima, logicamente, ai più pesanti. Quale era il problema più importante sul confine tra i due mondi? Era la Jugoslavia, che per prima dovette affrontare le conseguenze della caduta del Muro di Berlino, non essendo essa altro che un insieme artificiale mai prima unito in una storia condivisa. Questo spiega anche un po’ perché l’Occidente sia stato così ignavo e inetto di fronte alla violenza brutale e spaventosa che portò fino allo stupro etnico, una forma di violenza sessuale con un mostruoso fine razziale: far nascere figli di una nuova etnia. La tristissima pagina della guerra in Bosnia – improvvidamente definita in Italia come una “guerra umanitaria” – porta a conclusione (nel peggiore dei modi possibile) il ventesimo secolo, mentre l’ingresso nel ventunesimo è officiato da un evento, ancora una volta, straordinario. Si tratta dell’11 settembre del 2001, del tutto imprevedibile. All’inizio del nuovo millennio, molto si era favoleggiato sul significato di un passaggio di secolo; tutto sommato, poteva avere una funzione rigeneratrice dell’umanità, essere una di quelle grandi tappe storiche che mutano la direzione della storia. Negli Stati Uniti, ad esempio, in quasi tutti gli anni Novanta, nei più importanti centri di ricerca scientifica nell’ambito delle scienze umane, si sviluppano le ricerche sul nuovo millennio, si prefigura il “new american century”, nella convinzione che il nuovo secolo sarà “americano”. Questa novità si incrocia con la dinamica della globalizzazione che allora appariva come una specie di nuovo “sol dell’avvenire” (ricchezza ed eguaglianza per tutti...). Ma gli Stati Uniti erano sopravvissuti all’Urss, e il comunismo era morto, Piazza Tien’anmen – il 4 giugno del 1989 – aveva addirittura anticipato quello che sarebbe successo a Berlino: l’idea era che gli Stati Uniti avrebbero dominato il mondo e di questo erano assolutamente convinti, alcuni in modo benevolo, come Clinton che pensava di poter essere il presidente della trasformazione economica per il mondo. C’è, però,

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anche una versione un po’ meno positiva, anzi negativa, quella del suo successore, George Bush. Bush è il presidente che si trova ad affrontare il secondo più grande problema della storia americana, dopo quello dell’entrata nella Seconda guerra mondiale (a cui andrebbe aggiunta la disavventura vietnamita): l’11 settembre, il crollo delle Torri gemelle colpite dagli aerei, l’evento che sconvolge la società americana, che si trascina dietro tutto il mondo, che assiste attonito a una vera e propria “frittata ” (non quella cucinata da un cuoco, ma quella prodotta dalla caduta di un cesto pieno di uova). L’undici settembre – sia ben chiaro – è una cosa terribile, spaventosa, ma non è una guerra. Il fatto che gli Stati Uniti l’abbiamo invece vissuta come una violazione del loro territorio nazionale, come una guerra, è comprensibile: l’undici settembre sconvolge tutto e mette in discussione un aspetto che per noi può apparire forse sotto traccia, ma che è importantissimo ed è la qualità della democrazia degli Stati. Noi sappiamo che la democrazia, rebus sic stantibus, è quanto di meglio si possa avere. Possono esistere soluzioni migliori, ma diceva saggiamente Churchill: “la democrazia è il peggior sistema di governo che esiste, ma tutti gli altri si sono rivelate peggiori”! Questa situazione ci conduce a quell’altra metafora annunciata, quella dei divorzi, perché la salda armonia occidentale, incardinata sulla Nato, non è più lo strumento sicuro e collegiale deputato a garantire senza falle la difesa occidentale. Gli Stati Uniti l’avevano sempre considerata così (per mezzo secolo, e gli alleati europei vi si erano comodamente appoggiati), ma tutto ciò si reggeva su una condivisione degli alleati minori che tutto sommato negli Stati Uniti vedevano la garanzia anti-comunista per il futuro. Ma la Nato si svuota progressivamente (per fortuna, si potrebbe dire, se davvero non c’era più bisogno di grandi organizzazioni militari) e al momento del rinnovo periodico del patto (4 aprile 2019) Trump

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ne mette addirittura in dubbio la permanenza facendo della difesa una questione di stati e non più di blocchi di stati. Seguendo la quotidianità dell’informazione internazionale assistiamo a piccole (normalmente) scosse telluriche, che vanno dalle azioni terroristiche di gruppi variabili (di idee e di consistenza), a tentativi di costituzione di nuove entità (come l’Isis), a colpi di stato o guerre civili (dal Libano al Sudan, dallo Yemen alla Libia, eccetera), a scontri e rappacificazioni continue tra Trump e Kim Jong-un (Nord Corea), al braccio di ferro tra Usa e Iran sul nucleare; un giorno tocca al presidente francese Macron creare qualche strappo, un altro giorno la cancelliera Merkel, alza la voce, in un altro ancora è Putin a non mollare la presa sull’Ukraina, ma c’è anche un attacco al condominio franco-tedesco, l’Inghilterra se è andata dall’Unione Europea, altri minacciano di farlo. Sull’onda di queste cicliche eruzioni vulcaniche, questa situazione ha finito per produrre dei terremoti, alcuni dei quali di grande magnitudine, non solo geografico-politica ma anche ideale. Arriviamo al 2011, cioè a quando si forma quella nuvola che è poi diventata un temporale, come succede ormai anche a queste forme di precipitazione, ma per fortuna limitate, come è stato, purtroppo, per le primavere arabe. Fu un momento straordinario in cui sembrò possibile il risveglio dell’Africa, che è il continente del futuro, che a sua volta ci annuncia che qualche cosa di analogo a ciò che stiamo vedendo si estenderà non soltanto a tutta l’Africa, ma anche a buona parte dell’Asia centrale e meridionale, poi dell’America del Sud, eccetera. Nel 2015 la Tunisia ricevette il premio Nobel della Pace per la capacità di governo dei partiti e di gestione della transizione verso un sistema democratico; ma più recentemente tale movimento (per altro non sostenuto dall’Occidente) si è inceppato; abbiamo avuto il terribile bubbone della Siria (più di mezzo milioni di vittime), osservando il quale non riusciamo a capire perché un

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dittatore sanguinario abbia potuto combattere per quattro anni contro un’insurrezione democratica, contro gli alleati occidentali democratici che la sostenevano, perché alla fine di tutto ciò Assad continui a essere al potere: tutta quella violenza, tutte le distruzioni, tutte le vittime non sono servite assolutamente a nulla! E si badi, in realtà questa è proprio una delle leggi di natura della vita internazionale: le guerre distruggono, non costruiscono. Questa situazione ci costringe ad affrontare la portata della crisi democratica mondiale. Come è possibile che i paesi democratici vivano in quella loro sorta di ingenua ignavia, di sonnolento abbandono e immaginino che con la loro incuria i problemi possano risolversi spontaneamente? La Russia e la Turchia si sono litigate a sangue, alternativamente con le loro riappacificazioni: qual è la posizione corretta? Dobbiamo capire che la democrazia è come un fiore: se la si abbandona alla sterpaglia o in un deserto, che cosa ne sarà mai? Concludo facendo riferimento all’ipotesi, che si è molto discussa, nel recente passato, sulla nuova architettura dell’ordine internazionale. Il ragionamento sarebbe questo: per cinquant’anni avremmo convissuto con il bipolarismo, finito quest’ultimo (come abbiamo visto), adesso avremmo una specie di tripolarismo, perché la Cina è vicina ma è anche lontana perché ha dato vita a un tipo di grande potenza con caratteristiche del tutto diverse dagli altri due poli, è possibile che ci troviamo di fronte a un tripolarismo, una figura geometrica che non s’è mai vista? Ma a questo punto, non ci si può che fermare di fronte a ipotesi di scuola. È facile immaginare che si sia sempre discusso moltissimo su quale potrebbe essere l’assetto migliore dell’ordine internazionale. C’è stata la scuola di chi immaginava che il bipolarismo fosse il meccanismo più sicuro, più stabile, l’unico capace di garantire il mantenimento della situazione esistente – perché appoggiato su due

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soli poli – e quindi la sopravvivenza, vivere in pace, anche se non nella migliore situazione possibile. La soluzione alternativa è quella classica del multipolarismo storico, su cui gli storici modernisti hanno immaginato che il concetto di equilibrio fosse quello che governava (una sorta di deus ex machina delle relazioni internazionali) la realtà internazionale. Il punto è molto complesso e non può essere ora affrontato. Accontentiamoci di osservare che il multipolarismo sembra un meccanismo più libero, che offre la possibilità a più Stati di muoversi, di cambiare alleanze, di modificare la situazione, ma più pericoloso. Dunque il bipolarismo è solido ma poco libero, il multipolarismo è più libero, ma troppo poco solido. Negli studi, si è sempre escluso che un vero e proprio tripolarismo possa darsi: l’argomento è che il tripolarismo produrrebbe sicuramente, prima o poi, l’associazione di due contro il terzo ed è evidente che essi finirebbero per aggredirlo. L’ultima immagine, che non era stata proposta all’inizio, ma che forse è quella che più può colpire la nostra fantasia riflessiva è quella del puzzle. Nessuna scoperta: come metafora è stata più volte usata, ma bisogna dire che nessuno ha la più pallida idea di come questa nostra storia andrà a finire. Le tessere del disegno progettato le abbiamo tutte, non è che manchino dei tasselli, ma come comporli appare enormemente problematico. Ci sono tantissime, interessantissime, ricerche di tipo statistico e quantitativo sul numero di guerre nella storia, sul loro ritmo, su chi sono i protagonisti, su chi le vince e chi le perde. Ci sono anche molte previsioni sulla prossima guerra mondiale. Ma, nell’incertezza, è meglio che non le riveli!

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a cura di Luciana Ziruolo © Edizioni Falsopiano © Isral via Bobbio, 14 15121 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri Per l’immagine in copertina: © Dan Budnik, Rear Woman. Berlin Wall, 1961. Le immagini del libro sono tratte, salvo altra indicazione, dalla raccolta Wall Gallery. Falsopiano ringrazia l’autore Guy Percival per la cortesia. Prima edizione - Dicembre 2020


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