Frammenti figurativi

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Frammenti figurativi per la storia di una famiglia piemontese

Con una prefazione di Guido Curto

Gianfranco Cuttica di Revigliasco è nato a Torino nel 1957. Docente di storia dell’arte è autore di numerose pubblicazioni, studi e cataloghi. È membro della “Società di Storia, Arte e Archeologia” per la provincia di Alessandria e Asti. Impegnato nel volontariato ha curato in qualità di esperto mostre e progetti finalizzati alla valorizzazione del patrimonio storico artistico piemontese. Dal 2017 è sindaco di Alessandria.

www.falsopiano.com/frammenti.htm

€ 19,00

Gianfranco Cuttica di Revigliasco

Frammenti figurativi per la storia di una famiglia piemontese

Frammenti figurativi per la storia di una famiglia piemontese

«... Da allora altri quadri si avvicendarono, per eredità, per donazione, per acquisizione o per semplice trasferimento da una sede all’altra, determinando nel sottoscritto una sorta di sindrome di assuefazione all’afflusso di opere che venivano sostanzialmente accolte, accettate ed integrate nella mia esistenza senza chiedermi troppi perché. Forse alcune domande cominciai a pormele durante gli studi classici ma più in relazione ai temi che non allo stile o alla cultura di appartenenza. Tuttavia, queste presenze costanti, continuarono imperterrite ad agire nel mio subconscio ed ebbero la meglio, determinando addirittura la scelta di campo negli studi universitari nonché le successive scelte di vita. Forse proprio perché “inconsciamente cosciente” della grave colpa di cui tali memorie artistiche domestiche si erano ammantate nel determinare le mie scelte di vita, esse furono lasciate ai margini dei miei interessi di ricerca e di lavoro sino a quando i giochi, in tempi recenti, si sono improvvisamente riaperti, proprio in relazione a quel ritorno all’ovile delle stesse e alla necessità dover dare una sistemazione definitiva al tutto...»

Gianfranco Cuttica di Revigliasco

Gianfranco Cuttica di Revigliasco

FALSOPIANO

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EDIZIONI

FALSOPIANO


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BIBLIOTECA DELLA SOCIETÀ DI STORIA ARTE E ARCHEOLOGIA PER LE PROVINCE DI ALESSANDRIA E ASTI fondata da Mario E. Viora N. 40

Gianfranco Cuttica di Revigliasco

Frammenti figurativi per la storia di una famiglia piemontese

SOCIETÀ DI STORIA ARTE E ARCHEOLOGIA ACCADEMIA DEGLI IMMOBILI - 2020


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Dedico questo lavoro ai miei genitori che prima di me hanno conservato gli strumenti della memoria familiare. A Cesare nella speranza che coltivi il rispetto del passato e di chi è stato prima di lui. Ai Miei docenti che ricordo con affetto e gratitudine. Alla memoria di Geo Pistarino che mi ha trasmesso l’entusiasmo e la passione della ricerca. Aldo e Matilde di Ricaldone per avermi fatto “gustare” la storia, fin dalla mia più giovane età. Robero Maestri, caro amico, uno dei primi e più temerari lettori del dattiloscritto originario che per diverso tempo mi ha invano incitato di pubblicare. Plauto, non il famoso commediografo latino, bensì il fedele cane che per giorni e giorni mi ha tenuto compagnia tra la polvere delle carte di archivio e che mi ha lasciato proprio nel momento in cui il lavoro era finito.


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Sommario

Dare sistemazione al tutto di Guido Curto

p. 9

Introduzione di Gianfranco Cuttica di Revigliasco

p. 15

Capitolo primo Gli antefatti

p. 11

Cause ed effetti di un’antica dimora La ricerca di un metodo per una miscellanea collezionistica

p. 11 p. 13

Capitolo secondo Frammenti di mitologia familiare

p. 18

«... Perosinus erat facturus 1520 in Monte regali»: l’opera andata perduta

p. 18

Antenati illustri nella Francia di Luigi XIV Palma e la casa di Leinì

p. 22 p. 27

Capitolo terzo Memorie recenti e acquisizioni documentate

p. 38

Tra antico e moderno e alcune parentele artistiche Il ritorno dei De Rossi: la guerra di Crimea e tre ritratti di Dionigi Faconti

p. 38 p. 43

Capitolo quarto À rebours, a ritroso nel tempo

p. 52

L’archivio storico e l’avvio delle ricerche I Cuttica da Oviglio a Cassine

p. 55 p. 55


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Capitolo quinto Inventari ed estimi dell’inizio del Novecento

p. 63

Decessi e successioni tra XIX e XX secolo Quadri e stampe nella divisione del 1909 La variante del 1910 Ieri e oggi tra dispersioni e sopravvivenze

p. 63 p. 64 p. 68 p. 70

Capitolo sesto Sulle tracce del passato: il patrimonio figurativo degli Scarrone di Revigliasco Per una genealogia della famiglia Scarrone Gli inventari della casa di Leinì tra XVIII e XIX secolo Ritratti, battaglie, temi sacri, fiori e nature morte: orientamenti di gusto e sintomi del decadimento di una dimora aristocratica Per una ricostruzione del patrimonio figurativo di casa Traffano di Montemarzo in San Damiano

p. 87 p. 87 p. 91 p. 101 p. 110

Capitolo settimo Ottocento internazionale

p. 122

Vedute tedesche di Venezia, reminescenze romantiche lombarde e Le chasseur di Eugen Marioton Tommaso Cuttica e Margherita Scholl: la parentela con Adolfo Reichmann Contrappunto piemontese: Gianduja e le fiere di Torino

p. 130 p. 134

Albero genealogico

p. 142

Immagini

Didascalie

p. 122

p. 147

p. 193


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Frammenti figurativi

Dare sistemazione al Tutto di Guido Curto*

“Frammenti” è un libro nato dalla “necessità di dar sistemazione al tutto”. Lo afferma lo stesso autore, ben noto a tanti soprattutto come sindaco di Alessandria. Ma per me Cuttica è soprattutto un compagno di scuola, anzi di Scuola con la S maiuscola. Perché oltre a essere stati entrambi allievi al Liceo classico Valsalice di Torino - anche se preciso subito che Gianfranco è di due anni più giovane di me - nella stessa sezione, la B, con gli stessi docenti, tutti bravissimi e preparatissimi sacerdoti salesiani, ed è stato anche mio compagno di Università, frequentando entrambi l’Indirizzo di Archeologia e Storia dell’Arte presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino. Tutto ciò accadeva negli anni Settanta, e così ora mi ritrovo, quarant’anni dopo, a parlare di un sindaco storico dell’Arte, fatto rarissimo in Italia. Mi sovvengono solo altri due casi: quello rinomato di Vittorio Sgarbi, attualmente sindaco di Sutri, e prima di Salemi e ancor prima di San Severino Marche, e l’altro, oggi quasi dimenticato, di Giulio Carlo Argan, eminente professore universitario di Storia dell’Arte, primo cittadino di Roma dal 1976 al 1979. “Un piemontese buzzurro (epiteto dato dai romani veraci ai piemontesi dopo la presa di Roma nel 1870) e per di più comunista messo a capo della città eterna!”: come chiosava, sardonico, il nostro (di Gianfranco e anche mio) valente professore di Storia dell’Arte al Liceo Valsalice, Don Mario Bonello. E benché fosse apertamente anticomunista, “il Bonello” ci aveva fatto adottare il “nuovissimo”, e per noi un po’ ostico, manuale di Storia dell’Arte Italiana pubblicato da Argan nel 1968. Don Bonello è stato senza dubbio il mio Maestro. Con lui ho impa-

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rato cos’è la Storia dell’Arte studiandola in stretta correlazione con la Storia e la Filosofia, le altre due materie che lui ci insegnava. Certamente è grazie a lui se in me è nata una vocazione professionale che mi ha portato a insegnare per tanti anni Storia dell’Arte nei licei, e poi ad essere professore e anche direttore all’Accademia di Belle Arti, fino a dirigere musei. Credo che questo stesso imprinting, almeno inconsciamente, abbia forgiato Gianfranco Cuttica, perché da Don Bonello noi avevamo imparato a studiare e ad apprezzare le opere d’arte. Opere che il nostro “prof” metteva a confronto in una specialissima “bacheca”, collocata giù in fondo del corridoio delle nostre aule, dove metteva in mostra le immagini dei “Maestri del Colore” di Fabbri Editore, disposte seguendo confronti mai scontati e sempre nuovi, in merito ai quali venivamo poi interrogati in classe. E il pazientissimo Don Bonello si spazientiva solo se quella sua bacheca noi non l’avevamo vista: in questo caso l’interrogazione era insufficiente. Se poi gli sunteggiavamo a commento delle suddette immagini i testi, spesso un po’ ermetici, del suo amico-nemico Giulio Carlo (Argan), il bel voto era assicurato. Grazie al Bonello abbiamo imparato a Saper Vedere, come dal titolo dell’omonimo saggio di Matteo Marangoni, da lui sempre citato, e ci conduceva per mano a una lettura rigorosamente storicista, sintetizzata magistralmente nelle sue dispense che spaziavano dalla Storia dell’Arte alla Filosofia, avendo come base l’Estetica di Benedetto Croce, sempre citato nella apodittica frase: “l’Arte è Autonoma ma non indipendente... dalla morale”, e le asserzioni di un altro grande intellettuale napoletano, Gian Battista Vico, per il quale “idee uniformi nate appo popoli tra essi lori non conosciuti, devono avere un motivo comune di Vero”, tenendo sempre come “base” teoretica Platone, che per il nostro Don Bonello, quando ci leggeva il Fedone, era ben più grande di Aristotele, in aperta antitesi quindi al Tomismo ancor oggi dominante nella Chiesa cattolica. Già perché il nostro amato insegnante era un prete argutamente anticlericale e anticonformista, e persino un po’ edonisticamente militarista: era stato, infatti, e se ne vantava, ufficiale dell’esercito prima di un sacerdozio tardivo, tanto da venire in classe a volte indossando sotto la talare gli stivali da ufficiale. In questi ricordi e aneddoti tanto lontani potrei perdermi. Torno

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quindi al libro di Cuttica, che, come dicevo all’inizio, ci rivela lui stesso come il suo avvicinarsi all’arte abbia avuto origini molto precoci, e ce lo conferma proprio all’inizio del primo capitolo del libro. “Ero bambino quando apparvero in Torino (nella casa di via Mazzini dove viveva con i genitori prima di trasferirsi con tutta la famiglia a Venaria Reale) i primi arrivi da Cassine. (…) Ricordo che un giorno mio padre decise di celebrare il ritorno a casa di un dipinto, che aveva dovuto subire un periodo di degenza presso il restauratore Gaudino. (…) In tale circostanza, pure nei limiti della mia tenera età, si accese la prima scintilla nel rapporto con la cultura figurativa”. Il primo approccio è col dipinto raffigurante Erodiade, con accanto la testa decollata del Battista. E Cuttica ne diede già allora una lettura che il nostro professore di Storia della Critica d’Arte all’Università, Gianni Carlo Sciolla, avrebbe definito Iconografico, perché Gianfranco s’interroga sul cosa rappresenti quella donna esangue e quell’appena visibile testa virile giù in basso a destra nella tela che sembra di bronzo luminescente nella cupa penombra caravaggesca. Dopo un po’ intuisce che si tratti della testa mozzata di San Giovanni, trovando come indizio un rivolo sottile di sangue, dipinto, appena accennato, ad olio su tela dall’autore seicentesco Francesco Cairo. Da quel momento in poi l’Arte lo intriga, e questo lo porta non solo a laurearsi in Storia dell’Arte, ma soprattutto a seguire con passione le vicende delle opere d’arte appartenenti alla sua famiglia. Da qui lo spunto per scrivere questo libro, nel momento in cui tutte le opere sono state radunate recentemente e riordinate nella casa di Cassine. Da qui la volontà di studiare ogni opera, col supporto dei pochi documenti cartacei d’archivio reperiti, ricorrendo alla tradizione orale e al passa parola, ma soprattutto usando le stesse opere d’arte come documento utile per ricostruire la storia estremamente articolata di una grande famiglia, il cui albero genealogico, presentato a tutta pagina nel libro, prende l’avvio dai coniugi Tommaso Cuttica di Oviglio e da Ottavia Sappa De’ Milanesi a inizio Settecento, e arriva fino al 15 marzo del 1998 quando nasce Cesare Antonio, figlio unico di Gianfranco Cuttica. Una famiglia che ha intrecci fecondi con altre importanti famiglie, a cominciare da quella del Notaio Tommaso, nato nel 1784, con gli Scarrone, con i Dogliotti e

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poi con i De’ Rossi, e così via per li rami. Ma non è di questo che io voglio e posso debitamente scrivere e render conto, bensì devo elogiare il rigoroso metodo adottato da Gianfranco Cuttica che studia analiticamente, una a una, le oltre cinquanta opere d’arte oggi custodite nella casa di Cassine, soprattutto dipinti, ma anche alcune incisioni, sculture e oggetti d’arte decorativa, leggendole sia in chiave Puro Visibilista, nel loro stile e forma, sul modello di Heinrich Wöllflin e della Scuola di Vienna d’inizio Novecento, sia nei termini iconologici, propri, di Erwin Panofsky, di Ernst Gombrich e degli altri esponenti di quel Warburg Institut nato ad Amburgo nel 1929 e poi, a causa del nazismo, trasferitosi a Londra. Ambito quest’ultimo in cui gli studiosi vogliono indagare più che la forma o lo stile, i contenuti profondi dell’opera d’arte. Anche Gianfranco Cuttica mette in atto una indagine da investigatore, sul modello della micro-storia di Carlo Ginzburg, fino a ricostruire un grande affresco che descrive, in termini estremamente oggettivi, mai enfatici, e tantomeno agiografici, la bella e lunga storia della sua grande famiglia, i Cuttica di Revigliasco e di Cassine, e così facendo anche più di trecento anni di storia del nostro Piemonte. Il risultato è nell’insieme un lungo, impegnativo, ma anche intrigante saggio storico in primis, che però è anche un’indagine storico-artistica di qualità esemplare, in cui si coglie bene con quanta serietà Gianfranco Cuttica abbia frequentato sia il Liceo sia l’Università, facendo tesoro dei tanti preziosi insegnamenti ricevuti. Anche se io, non vi nascondo, ben ricordo Gianfranco, sia negli ambienti luminosi e lindi di Valsalice, sia nelle aule sorde e grigie, e sozze, di Palazzo Nuovo, come un bel ragazzo, sempre sorridente e allegro, arguto e “scapigliato”, inconfondibile con quei suoi capelli scarmigliati a boccoli, che insieme al suo amico del cuore Marco Basso (diventato poi professore di Storia dell’Arte al liceo Passoni, oltre ad essere giornalista e critico musicale e DJ radiofonico) amabilmente sfotteva sia i professori, sia certi nostri compagni d’università più sussiegosi e manierati, troppo compresi di sé, soprannominandoli con nomignoli azzeccatissimi come Kantorowicz: epiteto affibbiato a un nostro supponente compagno di studi, prendendo spunto dal cognome del massimo studioso dell’imperatore Federico II. Ma non mi perdo in questi pur divertenti aneddoti, debbo semmai

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ricordare in chiusura come, per me, quegli anni trascorsi all’università tra il 1974 e il 1979, non siano stati affatto begli anni. Anzi forse “i peggiori della nostra vita”. Palazzo Nuovo era ed è tutt’ora un edificio immenso, algido, anti-identitario fin dalla sua struttura architettonica a falansterio che racchiudeva, allora, le facoltà di Lettere e Filosofia, Magistero, Lingue, Legge e Scienze Politiche; un triste “Non Luogo”, come ha ben teorizzato Marc Augé, dove costantemente, in quei famigerati “Anni di Piombo”, prevaleva un clima d’odio e imperversavano violente manifestazioni e scontri continui tra fazioni extraparlamentari di estrema sinistra ed estrema destra, e le lezioni erano costantemente sospese da scioperi e sedicenti azioni “di lotta”; e già si percepiva nell’aria l’avanzare della lotta armata che di lì a poco avrebbe portato alle sanguinose azioni terroristiche di Prima Linea e delle Brigate Rosse. Non dimenticherò mai quando nella attigua via Po, il primo ottobre del 1977 ci fu stato il fattaccio dell’“Angelo Azzurro”, dal nome del bar dove un ragazzo, Roberto Crescenzio, seduto pacificamente nel locale, arse vivo per una bomba molotov scagliata all’interno durante un corteo organizzato da Lotta Continua e Autonomia Operaia. Forse non fu un caso se io, di lì a poco, prima ancora di laurearmi, decisi di prestare servizio militare come ausiliario nell’Arma dei Carabinieri dall’agosto del 1978. Ancora oggi vado fiero di questo fatto, perché, nel mio piccolo, difesi il nostro Paese dal rischio di una presa del potere da parte di gruppi eversivi. Ben ricordo, ad esempio, la notte del 15 dicembre 1978, quando furono ammazzati con una raffica di mitra dalle Brigate Rosse i poliziotti Lanza e Porceddu di guardia sotto le mura del vecchio Carcere Le Nuove. Anch’io in quelle stesse ore ero di guardia all’esterno della Caserma Cernaia e come capopattuglia avevo deciso di sorvegliare l’edificio stando dall’altro lato della strada, per non sostare proprio sotto ai muri della caserma, dove insieme all’allievo carabiniere saremmo stati facile bersaglio. Poteva toccare a me, perché la Cernaia era un obiettivo sensibile in quanto nella sezione di via Valfrè operavano i carabinieri del Nucleo antiterrorismo guidato dal Generale Dalla Chiesa e c’erano le celle di sicurezza. Toccò purtroppo ad altri. Questa vicenda personale, che nulla ha certamente a che fare con la storia dell’Arte, rimanda però alla mia volontà di impegno civile sulla base di

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quei valori morali che avevo appreso prima di tutto da mio padre Silvio1 ma che avevo anche maturato nell’ambito di quella educazione salesiana, ispirata a Don Bosco, che ci spingeva ad essere al servizio degli altri. Sono questi stessi ideali, io ritengo, che hanno spinto Gianfranco Cuttica verso una brillante carriera politica, non strettamente correlata a ciò che aveva studiato, ma che lo ha portato a essere sindaco di una città impegnativa come Alessandria, senza mai scordare quell’amore giovanile per la Storia dell’Arte, che questo libro ben restituisce. * Direttore della Reggia di Venaria

Accademico di Francia, Silvio Curto (1919-2015) è stato per lunghi anni docente universitario di egittologia e direttore del Museo di Antichità Egizie di Torino (n.d.e.)

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INTRODUZIONE di Gianfranco Cuttica di Revigliasco

Diversi anni fa ho iniziato a elaborare alcune riflessioni sul patrimonio storico-artistico della mia famiglia, proprio in occasione di una fase di riordino delle memorie con la redazione di un inventario di massima. Man mano che il lavoro procedeva, seppur lentamente, si è configurata la possibilità di mettere a punto una ricerca dalle caratteristiche piuttosto originali. Così il presente lavoro si delinea come una sorta di ibrido, una curiosa opportunità di focalizzare la storia del mio ceppo familiare non tanto attraverso i documenti (seppur debitamente consultati con grande attenzione ma a posteriori) ma proprio attraverso gli arredi superstiti, per la maggior parte dei quali, sino a quel momento, vigeva il più assoluto anonimato e nulla si conosceva circa la loro committenza e origine. Pertanto, facendo “parlare” le opere, ho provato a dedurne la provenienza e i soggetti a loro collegati: una vicenda, insomma, che prende vita dagli arredi per giungere non solo alla storia di singoli membri della famiglia e delle loro residenze, ma attraverso alcuni di loro, seppur in termini tangenti, si entra anche nelle vicende storiche più generali di quei tempi. Un’avvincente e onerosa avventura che mi ha visto impegnato, nei panni di una sorta di detective del passato - avvalendomi largamente del metodo deduttivo seppur non rinunciando del tutto a una buona e utile esperienza intuitiva - nel raggiungere l’obiettivo di delineare un’interessante ricostruzione delle dinamiche familiari che hanno determinato la consistenza di un patrimonio ancora in buona parte - purtroppo non del tutto - esistente. Il risultato finale è senza dubbio “datato” perché risale a più di quattro anni orsono. Ho voluto comunque lasciarlo così, senza drastiche rivisitazioni e ponderosi aggiornamenti proprio perché, a suo modo, anche questo elaborato rappresenta un momento di storia - personale, se vogliamo, ma non per questo meno efficace - in quanto è frutto di una

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sensibilità e di un’istanza interiore che si sono improvvisamente manifestati proprio in quella specifica circostanza. Il rivederlo e aggiornarlo avrebbe in qualche modo significato compromettere quella situazione emotiva e circostanziale che quattro anni fa, in completa autonomia, mi ha fatto intraprendere questo percorso. In tale direzione va interpretata anche la scelta di inserire l’apparato bibliografico non in fondo al volume ma all’interno delle singole note al testo. Se la specificità di questo lavoro non rientra a pieno titolo nei canoni segnatamente accademici, il lettore mi usi clemenza. Dal mio punto di vista era assolutamente prioritario conservare la genuinità e la sensibilità di quel tratto della mia esistenza in cui, attraverso questa ricostruzione, molti antichi personaggi della mia famiglia hanno potuto riprendere vita e vitalità, manifestando al sottoscritto e al mondo odierno l’universo dei loro gusti e delle loro attenzioni nonché gli interessi e le preoccupazioni quotidiane. Mi corre l’obbligo, meglio direi il piacere, di ringraziare la sensibilità degli autorevoli responsabili della Società di Arte e Archeologia per le provincie di Alessandria e Asti e dell’amico giornalista e appassionato storico Alberto Ballerino per avermi convinto a pubblicare ciò che per me era un percorso ormai definitivamente concluso e accantonato nel cassetto virtuale del mio computer. Un ringraziamento doveroso anche a Mauro Conte per il prezioso e competente supporto nella realizzazione dell’apparato fotografico.

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Capitolo Primo GLI ANTEFATTI Cause ed effetti di un’antica dimora La dimora di Cassine custodisce oggi tutti gli arredi della famiglia, obiettivo raggiunto attraverso dinamiche che si sono concluse solo pochi anni orsono con il trasporto delle ultime opere custodite nell’alloggio che i miei genitori occupavano a Venaria Reale. Per essere sinceri c’era già stato un precedente sin dagli anni 1982-1983 allorquando, in seguito al trasloco della mia famiglia da via Mazzini nel cuore storico di Torino alla Venaria, furono riconsegnati alla dimora avita alcuni degli arredi che da essa erano stati precedentemente “depredati” per essere portati in trionfo in quel di Torino. La storia di questi arredi è anche un po’ la mia storia. Da sempre sono stato abituato a convivere con oggetti, mobili, quadri, stampe e quant’altro si avvicendava negli spazi della mia vita. Ero bambino quando apparvero a Torino i primi “arrivi” da Cassine. Ricordo che un giorno mio padre decise di “celebrare” il ritorno a casa di un dipinto che aveva dovuto subire un periodo di “degenza” presso il restauratore Gaudino, dedicando ad esso la porzione centrale della parete di fondo della sala da pranzo al di sopra di una credenza munita di specchiera in stile Chippendale. In tale circostanza, pur nei limiti della mia tenera età, si accese la prima scintilla nel rapporto con la cultura figurativa, animata in particolare dalle difficoltà interpretative di un dipinto antico rispetto agli strumenti di comprensione e di lettura che mi poteva offrire una cultura del “tutto dato per scontato” che iniziava in allora ad imperversare. Quell’immagine appesa alla parete era un tormento. Dominava un fondo scuro dal quale emergeva, per contrasto, il pallore di un volto femminile in atto di svenire. Ma, a ben guardare – cosa per me assai complessa a causa dell’altezza in cui il dipinto era stato appeso rispetto alle mie facoltà infantili - nella parte bassa a destra del dipinto si intravvedeva un altro elemento riferibile all’anatomia del-

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l’umano genere: una testa maschile color bronzo, meno evidente rispetto a quella della donna, proprio a causa del suo stesso timbro cromatico che veniva a confonderla con la massa scura circostante. Ma vedevo solo una testa! Per quanto mi sforzassi di cercare altre parti anatomiche di quella figura maschile non riuscivo a vedere null’altro: tutto era soffocato dall’apoteosi del drappeggio marrone della figura femminile. E poi quel color bronzo che senso aveva? Voleva indicare che era una testa umana o il frammento di una scultura? L’osservazione meticolosa volta alla ricerca altri elementi, mi condusse infine a rilevare, proprio alla base del collo maschile, la presenza di una minuscola, sottile e rapida pennellata color rosso vivo, tracciata irregolarmente in senso verticale: ma sì! era un rigagnolo di sangue! Finalmente era possibile fare un ulteriore passo avanti nell’interpretazione dell’enigma delle parti anatomiche mancanti! La testa non poteva avere altre appendici anatomiche proprio perché era una testa mozzata (che orrore! Doveva essere messa proprio in sala da pranzo?). Dopo aver superato questa reazione di carattere emotivo, e ritornando il pensiero al soggetto dell’opera, si venne finalmente a chiarire, anche per un bambinetto sprovveduto come me, l’evidente rapporto di causa-effetto tra i due personaggi: la donna sveniva o moriva (non lo potevo ancora sapere) a causa della presenza di una testa mozzata! Solo più tardi e con strumenti culturali un poco più avanzati, potei comprendere che si trattava della raffigurazione di Erodiade con la testa del Battista rivisitata attraverso l’interpretazione di un Secentista amante di effetti chiaroscurali intensi e teatrali quale Francesco del Cairo (foto 1). Da allora altri quadri si avvicendarono, per eredità, per donazione, per acquisizione o per semplice trasferimento da una sede all’altra, determinando nel sottoscritto una sorta di sindrome di assuefazione all’afflusso di opere che venivano sostanzialmente accolte, accettate e integrate nella mia esistenza senza chiedermi troppi perché. Forse alcune domande cominciai a pormele durante gli studi classici ma più in relazione ai temi che non allo stile o alla cultura di appartenenza. Tuttavia, queste presenze costanti, continuarono imperterrite ad agire nel mio subconscio ed ebbero la meglio, determinando addirittura la scelta di campo negli studi universitari nonché le successive scelte di

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vita. Forse proprio perché “inconsciamente cosciente” della grave colpa di cui tali memorie artistiche domestiche si erano ammantate nel determinare le mie scelte di vita, esse furono lasciate ai margini dei miei interessi di ricerca e di lavoro sino a quando i giochi, in tempi recenti, si sono improvvisamente riaperti, proprio in relazione a quel ritorno all’ovile delle stesse e alla necessità dover dare una sistemazione definitiva al tutto. La ricerca di un metodo per una miscellanea collezionistica Il primo tempo della partita che si veniva così ad avviare nella dimora di Cassine è stato incentrato nel tentativo di fornire una collocazione fisica a tutte le opere - sia quelle mai rimosse, sia quelle “ritornate a casa” - all’interno di un percorso logico il quale, purtroppo, non sempre si presentava di estrema semplicità. Sarebbe stato troppo scontato il potersi riferire ad eventuali sistemazioni pregresse e abbandonarsi pertanto alla sedimentazione della storia senza se e senza ma. Tuttavia, ciò non era possibile in quanto le turbolenze che caratterizzano la vita di tutti, avevano in anni passati determinato anche il destino delle opere di casa. A causa di rivolgimenti, cambi di destinazioni d’uso, divisioni, suddivisioni, timori, precauzioni e quant’altro possiamo immaginare in tempi che avevano visto di tutto, comprese le terribili battute finali della Seconda guerra mondiale con le scorrerie tedesche nei nostri paesi, le opere furono tolte dalle pareti e ammassate in un’unica stanza ridotta al ruolo di magazzino e qui da noi ritrovate. Pertanto, la scelta di metodo non poteva cadere su di un parametro tematico o tecnico o di gusto personale ma su un orientamento di coerenza storica e cronologica che doveva procedere di pari passo con il recupero storico, funzionale e decorativo degli ambienti. Questa situazione ci ha suggerito di procedere partendo da una delle parti più antiche della casa, il così detto salone di ingresso, caratterizzato da un robusto e monumentale solaio ancora in travatura lignea, riferibile ancora al corpus originario dell’edificio di epoca tardo medioevale. Questo comprendeva, al piano della strada, l’affaccio di due botteghe di una beccaria - di cui una con-

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serva ancora l’originaria volta a crociera - precedute all’esterno da una struttura porticata ancora esistente. Sul piano superiore si estendeva un unico grande vano illuminato da uno o due finestroni, le cui vestigia sono parzialmente intuibili da un’attenta osservazione della facciata esterna. L’interno di questo vano venne successivamente tramezzato, ottenendo altri due camere sul lato nord e implicando all’esterno una revisione generale delle luci. All’interno, pur mantenendo la vecchia travatura del soffitto con mensole sagomate, si realizzarono una serie di nuovi infissi come le porte e sovrapporte, databili a una fase settecentesca. Il salone si presentava quindi come l’ambiente ideale per collocare le opere che potevano richiamarsi a epoche tra il tardo Cinquecento e il Settecento, mentre le altre sale si presentavano al meglio per ospitare episodi artistici risalenti al secolo successivo, in sintonia con le loro attuali caratteristiche costitutive e decorative. Questa presa di coscienza, unitamente al rinvenimento di altre memorie, fatalmente recuperate all’interno di cassetti gremiti di miriadi di cianfrusaglie o strappate a forza dall’anticamera del deterioramento irreversibile, ovvero il solaio, ha determinato l’avvio di un processo di ricerca e identificazione che non poteva essere appagato dalla semplice collocazione, seppur sensata, delle opere sulle pareti di casa ma doveva, per forza di cose, misurarsi con una approfondimento volto a conferire alle stesse una dimensione più definita. Mi chiesi se e che cosa sarebbe stato ancora possibile dire sul piano della provenienza, delle inclinazioni di gusto della committenza, della identificazione dei soggetti e delle aree culturali di produzione. Insomma, poteva essere quantomeno immaginabile l’identificazione di alcuni gruppi omogenei di opere e un loro plausibile collegamento al gusto, alla cultura, agli orientamenti di alcuni personaggi della famiglia? La situazione iniziale appariva comunque molto complessa: le opere, tranne poche eccezioni circoscrivibili ad alcune stampe, a due ritratti ottocenteschi in cui a stento riuscii a leggere la firma di Dionigi Faconti (foto 2-3), e a una bella scena all’aperto dello stesso secolo a firma di certo Giacomo Stabilini (foto 4), non riservavano alcuna indicazione. Determinati dipinti presentavano, sul retro delle loro cornici, brandelli

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insignificanti di vecchie notazioni cartacee ormai lacere e quasi del tutto indecifrabili. Non rimaneva che prendere in considerazione il linguaggio delle opere le quali, comunque, ostentavano un mix di componenti culturali di varia estrazione che andavano riconosciute e ragionevolmente collocate in situazioni storiche circostanziate. Il primo impatto fu quindi caratterizzato dalla constatazione di una situazione di eterogeneità culturale non indifferente. Nonostante una serie di attente osservazioni maturate nel tempo, che lasciavano gradualmente emergere qualche nuovo elemento, continuavano a imperversare molti interrogativi. Non era facile spiegarsi la coesistenza di un nutrito nucleo di dipinti dell’Ottocento napoletano, animati da pescatori, contadini e mucche al pascolo (foto 5-8) con un puro paesaggio privo di personaggi, più correttamente definibile come un «ritratto di un albero in un bosco», dal sentore forse piemontese, paragonabile all’esperienza di un Massimo d’Azeglio in atto di rimeditare in termini più sereni e contemplativi sulle nature inquietanti del tardo Bagetti (foto 9). Avrei dovuto giustificare, nello stesso contesto, l’incisione a stampa della neoclassica Educatio Bacchi (foto 10) in cui Giovanni Martino de Boni a Roma, nel 1800, veniva a diffondere, mirabilmente tradotti sul piano grafico, i rilievi realizzati nel 1797 da Antonio Canova. Di più: che termini di rapporto potevano avere questi modelli con le due suggestive incisioni con vedute notturne di Venezia, tratte nel 1846 da dipinti del tedesco Frederich Nerly (foto 11-12)? Che tipo di cultura poteva aver determinato la scelta di opere derivanti da questo artista di Erfurt - la cui fortuna non mi sembra che in zona sia poi così particolarmente diffusa - tanto da indurci a credere che ancora a lui, probabilmente ancora permeato dall’esperienza romana, potrebbe essere attribuito un dipinto su tela, siglato F.N. e datato 1836 (foto 13)? E se volessimo parlare poi dei soggetti sacri le domande si verrebbero a moltiplicare, proiettandoci in un viaggio a ritroso nell’arco del XVI secolo, tra opere esistenti, altre non più in sito e altre ancora di cui, purtroppo, non rimane che la memoria documentaria. Oggi un’Adorazione dei Magi campeggia al centro della parete del salone di ingresso, racchiusa in una semplice ma dignitosa cornice dorata (foto 14-15). Le dimensioni un poco più ampie rispetto alle altre

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opere ivi esposte e l’elegante composizione, fanno sì che lo sguardo di chi entra ricada immediatamente su di essa. Da sempre ha suscitato la mia attenzione benché, a giudizio di molti, non rappresenti un granché a livello qualitativo. Nonostante tali giudizi tranchant, ne sono stato da sempre affascinato proprio perché non riuscivo a trovare una giustificazione plausibile all’esistenza nella dimora di Cassine di un’Adorazione dei Magi in cui si respira un’atmosfera dal vago sentore astigiano della seconda metà del Cinquecento con riferimenti iconografici in parte tratti dal dipinto di analogo soggetto di Francesco Bassano oggi visibile nella sacrestia del duomo di quella città. Per quale motivo, di fronte a questa testimonianza verosimilmente compatibile con il territorio astigiano, poteva affiancarsi un bel San Giovanni Evangelista di estrazione Monregalese firmato nel 1520 da Giovanni Perosino (foto 16) oppure, per rimanere sempre nell’ambito del Cinquecento sacro, era possibile collocare un’elegante versione della Madonna del Divino Amore di Raffaello, creduta di mano di Giulio Romano (foto 17)? Se con una provenienza da un ambito culturale torinese potevano essere giustificate due forti scene religiose con la citata Erodiade e il Martirio di Sant’Agnese (foto 1 e 18) di stretta derivazione se non repliche, dello stesso Francesco Cairo, permaneva invece una situazione di profonda incertezza nel vano tentativo di poter fornire un’identità alla maggior parte dei ritratti scalabili tra Sei e Settecento. Così come non era certo una passeggiata rivelarne una paternità esecutiva, nonostante alcuni fossero di notevole livello qualitativo. E pur volendo tentare di rifugiarsi in un un’epoca più prossima e pertanto potenzialmente più documentabile, come l’Ottocento, le cose non risultavano poi molto più semplici. Infatti, non era dato di sapere chi potevano essere i personaggi raffigurati nei due veristici ritratti borghesi, opere firmate da Dionigi Faconti, e non poteva esser semplice cosa l’argomentare in che misura questo realismo si veniva a porre con la permanenza di elementi simbolici di un raffinatissimo dipinto, questa volta tutto lombardo, dei primi decenni dell’Ottocento, raffigurante una ragazza ritratta alla moda del Seicento che tiene nelle mani un pomo e un fuso (foto 19). Chi aveva determinato la scelta, ancora lombarda ma ormai en plein air, della “scampagnata” dipinta da Giacomo Stabilini nel 1881, in occasione della Esposizione

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Nazionale di Belle Arti di Milano (foto 4)? Che ragionevole motivo di coesistenza potevano avere queste opere con la litografia francese del 1874 che veniva a riprodurre le Baptême, dipinto del pittore tedesco Ludwig Knaus (foto 20)? Per quali arcani motivi, infine, sempre nello stesso secolo, divenivano parte integrante dell’arredo di casa sia il fascino accattivante, un poco sempliciotto ma del tutto piemontese, di un simpatico Gianduja (foto 21) in terracotta policroma, dalle proporzioni così poco comuni (78 x 24 cm. circa) da essere issato su di un robusto piedestallo ligneo e, forse dopo non molto tempo, l’eleganza pura di un raffinatissimo bronzo di gusto francese come il Chasseur à l’affût di Eugene Marioton (foto 22)? Di fronte a questa intricata ma stimolante situazione, si imponeva di articolare la ricerca su più fronti e campi paralleli. Sarebbe stato possibile reperire alcune memorie storiche sull’arredo della casa? Quali strumenti potevano essere adottati per ottenere maggiori informazioni? Sino a che periodo saremmo potuti risalire? E se da una parte si poneva come atto imprescindibile una ricerca di carattere storico e archivistico che potesse procedere parallelamente alla lettura del linguaggio insito nelle opere stesse, dall’altra il corpus degli arredi doveva essere prioritariamente depurato da quelli che potevano essere più facilmente ricollegabili a dinamiche di acquisizione più recenti o quantomeno documentabili da memoria umana. La stessa memoria “tramandata”, tuttavia, andava verificata e controllata al fine di poterla filtrare e depurare da eventuali tendenze involontariamente mistificatorie o eccessivamente celebrative. Insomma, se potevano prospettarsi dei miti, era giunto il momento di indagarli a fondo.

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Capitolo Secondo FRAMMENTI DI MITOLOGIA FAMILIARE «... Perosinus erat facturus 1520 in Monte regali»: l’opera d’arte andata perduta Sono convinto che tutti i campi dell’umano genere siano permeati da miti. In qualche modo quasi ovunque e chiunque, pensando al proprio più o meno remoto passato, sia esso personale o familiare che sociale, territoriale o politico, si venga irrimediabilmente a ispirare al tema di un’età gloriosa, di una mitica età dell’oro. C’è nell’esperienza di tutti almeno un episodio che rimanda a qualche cosa di importante nel proprio passato: un fatto, un accadimento, una circostanza che rimanda a qualche cosa di mitico che è andato perduto. Il più delle volte l’essenza mitica risiede semplicemente nei contorni estremamente sfumati dell’accaduto, nell’incertezza e nell’indeterminazione della memoria. In altri casi, si attribuisce a un luogo o a un oggetto una carica di importanza straordinaria per sentito dire o perché, più semplicemente, da sempre si è pensato così. Altre volte ancora, un fatto della vita, bello o brutto, drammatico o semplicemente inusuale, rimane così impresso nella memoria di un nucleo familiare da assumere dimensioni più grandi di quello che realmente fu. In alternativa, ma sempre a causa di una sorta di tendenza inerziale della memoria, si viene poi ad attribuire a un unico soggetto, animato o meno, tutta la responsabilità di determinate situazioni, a seconda dei casi positive o negative, quando invece, una visione storicamente più attendibile normalmente riesce a evidenziare, con più verosimiglianza, come l’insieme di tutta una serie di circostanze contribuisca a determinare certi fatti. Così, può capitare - come è capitato - che l’ostinazione e gli sforzi prodotti agli inizi del secondo decennio del secolo scorso, in relazione a una lunga e complessa vicenda legata alla cessione di un quadro, abbiano determinato nella memoria familiare l’insorgere di un vero e proprio mito rispetto a quell’opera “perduta”, benché la sua attribuzione

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risultasse sin da allora dubbia. Al contrario, una vicenda più fluida e lineare che riguarda un secondo dipinto, ceduto più o meno nello stesso periodo ma senza intoppi particolari, ha fatto sì che quest’ultimo cadesse completamente nell’oblio, nonostante fosse corredato di firma e data e sia ancora oggi esistente all’interno di una importantissima collezione pubblica. Nella sbiadita memoria familiare era tramandato che un importante dipinto del Romanino fosse stato venduto a un non meglio precisato museo di Firenze. Non so per quale arcano motivo l’attribuzione tradizionale fosse diventata tale quando, viceversa, dalla documentazione, seppur frammentaria, che ebbi modo di recuperare dall’archivio, era evidente che allora si insisteva sulla paternità di Giulio Romano. Probabilmente fu a causa di quello strano fenomeno riassumibile nelle dinamiche del tradizionale gioco del “passaparola” per cui un fatto, una frase, un nome o un concetto, dopo essere passato attraverso più persone, sulla scia di Marc Bloch, giunge al fruitore finale profondamente alterato rispetto al messaggio originale. Il fortuito recupero di alcune lastre fotografiche dell’epoca mi permise di conoscere visivamente l’opera e quanto fossero problematiche in allora le sue condizioni di conservazione. Si trattava a tutti gli effetti di una replica in scala ridotta (cm. 64x48) (foto 17) della Madonna del Divino Amore di Raffaello, il cui originale è stato recentemente confermato nell’esemplare conservato nel Museo di Capodimonte a Napoli1. Tuttavia, non molto tempo fa, anche in quest’ultimo caso, benché assai più noto e studiato, la paternità al Sanzio era stata messa in dubbio, inducendo alcuni studiosi a orientare l’attenzione verso un seguace di Raffaello quale Giovan Francesco Penni. Finalmente, un recente restauro (2012) con i relativi supporti scientifici e approfondimenti analitici, ha posto la parola fine alla diatriba, riportando l’attenzione della critica sulla retta via dell’urbinate. La cosa curiosa è che nel periodo a cui si riferisce la nostra vicenda, il dipinto di Capodimonte era già attribuito a Raffaello anche se, per alcuni studiosi, potevano essere presenti interventi di Giulio Romano o del Penni2. Se ancora in tempi recenti abbiamo assistito alla precarietà di un’attribuzione a Raffaello per un’opera che già agli inizi del Novecento si riteneva tale, credo che venga spontaneo il chiedersi che

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cosa potrebbe mai essere e quali disquisizioni potrebbe aver comportato un dipinto, come quello documentato in quegli anni nella nostra dimora, che deriva dall’originale raffaellesco pur non essendo di mano di Raffaello ma presenta al contempo un eccellente livello qualitativo. Non mi sento di addentrarmi in un percorso intricato come quello relativo alle copie da opere di Raffaello e della sua scuola, tuttavia ritengo di poter escludere tassativamente che si tratti di copia risalente all’Ottocento. Credo che si possa tranquillamente parlare di una restituzione cinquecentesca in scala ridotta della composizione raffaellesca esente da una specifica volontà di simularne lo stile a tutti i costi. Infatti, nonostante la difficoltà di lettura derivante dall’analisi esclusiva di copie fotografiche “datate” di un originale che presentava non pochi problemi di conservazione, è possibile individuare uno stile distinto e personale dell’autore nella realizzazione di alcune parti come per esempio il volto della Madonna, che gode di una sua specifica raffinatezza e armonia formale, oltre che di un suo delicato cromatismo eburneo con un tocco leggermente più intenso nelle guance, molto distante dal generale tono più corposo sia dall’originale napoletano che, in generale, dai più stretti seguaci e imitatori di Raffaello, compreso Giulio Romano. Allo stesso modo è possibile ravvisare delle varianti anche nella impostazione del volto del san Giovannino, ripreso - pare - in un deciso profilo a differenza di quanto appare nell’originale di Napoli e di conseguenza nelle copie successive che lo riproducono leggermente reclinato verso destra, al fine di dialogare visivamente con il Gesù Bambino, posto in un piano più avanzato. Infine, la raffigurazione del volto di Sant’Anna un poco più dilatato rispetto all’eleganza affilata dell’originale napoletano porrebbe il nostro in rapporto più stringente con le copie documentate al Louvre e alla Galleria Borghese di Roma. Depone ancora a favore della tesi di una sorta di “variante d’autore” e non di una pura e semplice copia dell’originale raffaellesco il fatto che l’esemplare di Cassine si distinguesse anche per la delicatissima stesura cromatica del manto della Madonna di un color rosa pallido, ben diverso dal tono più rossastro intenso dell’originale e delle copie note da esso derivanti3. Mi rattrista il fatto di non essere ancora riuscito a recuperare la destinazione finale di questo dipinto. A nulla è valsa la ricerca documen-

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taria se non a evidenziare un certo numero di contatti, che si collocano tra il 1913 e il 1917, con autorevoli personaggi del mondo degli studi storico artistici o del mondo della tutela i quali, in ogni caso, non si pronunciarono in modo netto sull’opera se non per generiche dichiarazioni di “non interesse” rispetto a un’eventuale acquisizione da parte di collezioni pubbliche, proprio perché esisteva già l’originale di Raffaello a Napoli. L’unica traccia rimasta che rimanda al mito della destinazione fiorentina è un rapporto epistolare con un commerciante di quella città, tal Giovanni Berardi. Anche lui, comunque, pare unirsi al coro tematico dello “scarso interesse” anche se, in questo caso, sembrerebbe più dettato da una operazione di strategia commerciale che non da una profonda convinzione critica. Un’ulteriore traccia, purtroppo non datata e di cui non ho trovato alcun seguito, ci rimanda a una fase di studio e di valutazione dell’opera da parte dell’allora direttore della Pinacoteca di Modena. Poi il tutto si tace. Ad ogni modo mi piace osservare come anche in questa circostanza appaia un’ulteriore tipica azione deformante collegata al sorgere del mito: cioè la destinazione di quell’opera al tempo ritenuta – a torto o a ragione - di capitale importanza, non poteva che essere un museo e questo, per essere importante, doveva potersi collocare almeno a Firenze. La generosità della documentazione superstite, insieme al paziente lavoro di risistemazione dell’archivio fotografico di famiglia, hanno consentito il recupero di alcune immagini che venivano a confermare, all’interno degli arredi pittorici, la presenza di un dipinto su tavola firmato «Io. Perosinus erat facturus 1520 in Monte regali» (Foto 16). Questa testimonianza pittorica di Giovanni Perosino, seppur allora erroneamente ritenuta rappresentare il Redentore (l’erronea interpretazione iconografica perdura sino al catalogo della Pinacoteca Sabauda del 1971), mentre pare evidente trattarsi della raffigurazione di San Giovanni Evangelista, venne rapidamente a sollecitare l’attenzione di un acuto personaggio come Baudi di Vesme, ai tempi direttore della Galleria Sabauda, tanto da farla rapidamente acquisire (1908) nelle collezioni della Pinacoteca, contribuendo a incrementare l’esiguo catalogo di un elegante pittore del Rinascimento piemontese di cui ancora oggi si conoscono pochissime opere4.

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Curiosamente, per questa vicenda, più lineare e fluida rispetto a quella precedente, caratterizzata tra l’altro da un esito del tutto positivo e di grande prestigio, sia nella destinazione finale dell’opera, sia per quanto riguarda l’aver contribuito a definire meglio la figura di un artista piemontese, l’architettura del mito familiare non è scattata. Anzi, si perse completamente la memoria, non se ne ricordò più nulla sin al giorno in cui, studiando il catalogo della Pinacoteca torinese edito nel 1971 e curato dall’ex soprintendente Noemi Gabrielli, ebbi la graditissima sorpresa di imbattermi in un bel San Giovanni Evangelista dipinto su tavola da Giovanni Perosino, opera ceduta dall’ingegner Tommaso Cuttica nel 1908. In sostanza, del primo dipinto, tramandato come opera straordinaria e di eccezionale importanza, oggi non se ne sa più nulla mentre del secondo, depennato dall’architettura del mito familiare, è perfettamente possibile conoscerne l’importanza artistica, le sorti e l’attuale collocazione. Antenati illustri nella Francia di Luigi XIV Un altro mito piuttosto diffuso in determinati ambienti è quello delle parentele illustri. Molti vantano discendenze e rapporti di parentela con personaggi famosi della Storia. Tutto ciò può essere plausibile e vero, soprattutto nel caso di famiglie che hanno radici storiche profonde. Altre volte non si tratta altro che di iperboli inventive che, nel loro reiterarsi per decenni o per secoli, hanno convinto tutti della loro veridicità, mentre, in altri casi ancora, si ha a che fare con una situazione più sfumata che vede verità parziali, forse un poco forzate, ma che tengono conto di situazioni vere e di percorsi plausibili a cui ad un certo momento vengono conferiti i contorni del mito. Un angolo non molto illuminato della cosiddetta camera rossa venne riservato ad accogliere, appese alla parete, due piccole cornici lignee di ugual fattura che al loro interno racchiudevano due incisioni a stampe policrome, all’apparenza piuttosto antiche (Foto 23-24). La scarsa illuminazione e le esigue proporzioni contribuirono per diverso tempo a non alimentare il mio interesse nei confronti di quelli che apparivano

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come due piccoli ritratti, figurativamente immaginati come inscritti in cornici ovali, sino al giorno in cui, armato di apparecchio fotografico, decisi di immortalarle, al fine di inserirle all’interno di un portfolio di immagini delle cose di casa. Questa operazione comportò il loro trasferimento temporaneo in una zona piuttosto illuminata per essere riprese nelle migliori condizioni. La luce favorevole e la discreta qualità delle immagini fotografiche furono in grado di consentire un decoroso ingrandimento che si delineò fatale sia nel dare un nome ai due personaggi, sia per far luce su uno dei miti familiari. Una serie di iscrizioni sapientemente inserite all’interno delle finte cornici o in un cartiglio posto alla base di ogni figura, ne identificavano i soggetti e ne esaltavano i rispettivi ruoli, oltre a restituirci gli autori delle due stampe in miniatura. Il soggetto maschile era raffigurato in uno schema che poteva rimandare alla traduzione in disegno della tipologia del busto scultoreo, mentre quello femminile si richiamava maggiormente alla tipologia del classico dipinto di figura inserito in una cornice ovale. Nel primo caso si poteva leggere: Paul Scarron de l’ancienne famille des Scarrons tres celebre dans la robbe il s’attacha au genre d’écrire Burlesque où il a excellé, il mourut le 4 oct’ 1660 Si […] le Philosophe stoique Pleine d’une constance heroique A souffert sans verser des pleurs Plus digne cent fois qu’on s’admire ce poete badin a seul rire Per la figura femminile, l’iscrizione sulla finta cornice ovale è solo parzialmente leggibile in quanto in parte nascosta dalla attuale cornice lignea. Rimaneva comunque ben identificabile il nome del soggetto: F. d’Aubigny […] Maintenon […] des de M. de la Mais. R. de S. Cir. Nella cartella sottostante venivano riportate in versi le note celebrative del soggetto:

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Rarement la vertu l’esprit et la Beauté Dans une meme Sujet sont de Societé: mais le Ciel de ses dons prodigue sans mesure Les ayant rassemblés dans celle que tu vois ... chef d’oeuvre de la Nature Nel primo caso la paternità dell’opera era indicata in modo succinto con la seguente citazione: «Paris Che Daumont» mentre nel secondo caso, seppur leggibile con grande fatica, si poteva identificare: «Gravé par E. Desrochers et se vend ches luy a Paris rue St Jacques a ...»5. Si trattava a tutta evidenza della restituzione a stampa dei ritratti di Paul Scarron e di Françoise d’Aubigné, meglio nota come Madame de Maintenon. Paul, famoso commediografo francese del Seicento, particolarmente importante per il genere burlesco, in un primo momento intraprese la carriera ecclesiastica poi, semiparalizzato e storpio dall’età di trent’anni a causa di una grave malattia, fu condannato all’immobilità. Questa tragica situazione, tuttavia, fu l’origine di una nuova vita all’insegna dello sviluppo del pensiero e della creatività artistico-letteraria che lo portò ad avere la fama che noi conosciamo. Nonostante le due incisioni fossero da attribuire a due diversi autori, entrambi del XVIII secolo ed entrambi francesi, la loro vicinanza non era affatto casuale. Infatti, Françoise d’Aubigné fu la consorte di Paul Scarron e, dopo la di lui morte, divenne una delle donne più influenti presso la corte di Luigi XIV, con il quale, dopo averne educato i figli illegittimi e in seguito alla morte della regina, nella notte del 10 ottobre 1683, si congiunse attraverso un matrimonio morganatico. Vale la pena di spendere ancora qualche parola sulla raffigurazione della Madame de Maintenon, in particolare, direi, sull’iconografia e sul modello di riferimento a cui guarda l’incisore, proprio perché il personaggio femminile, più che non il defunto ex marito, rientra nei percorsi della ritrattistica ufficiale di corte. Non essendo questa la sede per proporre un discorso approfondito su tale argomento, mi limiterei a indicare qualche percorso di ricerca che, in un secondo tempo, potrebbe essere ulteriormente approfondito. A meno che non si riveli un terzo modello, a tutt’oggi a me ignoto, il riferimento pittorico che mi sembra più vicino

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all’incisione di Desrochers potrebbe identificarsi nel ritratto che Ferdinand Elle – ma in realtà «Louis Elle le Père» - ha realizzato nel 1688 più che non nell’altro celebre esemplare, di mano di Pierre Mignard, che nel 1694 raffigura la Maintenon nelle vesti di Santa Francesca Romana. Quest’ultimo si inserisce appropriatamente nel filone celebrativo del “ritratto nelle vesti di”, allora particolarmente diffuso nell’ambito di corte, sia nei riferimenti mitologici che in quelli di più marcato aspetto religioso6. Il dipinto di Elle viene invece realizzato in stretta sintonia con la fondazione (1686) della residenza di Saint-Cyr, importante istituzione promossa dalla Maintenon e volta ad accogliere le ragazze di nobile origine ma povere, consentendo loro di ricevere una formazione eccellente. A voler essere più precisi, l’incisione di Desrochers, parrebbe prendere avvio dall’opera citata ma scontornandola da tutta l’ambientazione circostante, compresa la figura della nipote fanciulla che si appoggia affettuosamente sulle ginocchia della Maintenon, al fine di concentrare l’attenzione sul soggetto ritratto ma soprattutto, direi, volendone evidenziare in modo ancora più esuberante la dominante scura dell’abbigliamento. Nel nostro caso l’apoteosi del nero viene compensata o forse meglio evidenziata per contrasto, mettendo in luce una morigerata scollatura che, a sua volta, rivela una collana di grosse perle a cui è ancorato un piccolo crocefisso. Al contrario, nel ritratto di Elle, tutta la partita si gioca nel sapiente contrappunto tra il nero della veste e le candide decorazioni della sottoveste che emergono nelle maniche e sul petto, quantomeno nelle zone non interessate dal voluminoso nodo che, proprio sul petto, allaccia la parte inferiore di un ampio velo nero, quasi paragonabile a una sorta di mantilla. Nel nostro caso, tra l’altro, il capo è assai meno coperto tanto da lasciar meglio intendere l’elaborata acconciatura che sembrerebbe più assimilabile al modello di una fontage piuttosto che una mantilla. Rispetto al dipinto di Elle, parrebbe qui trasparire una austerità un po’ meno austera e al contempo più enfatizzata. L’iconografia della Maintenon che ha sortito nel tempo maggiore fortuna e diffusione attraverso le incisioni è senza dubbio quella derivante dal dipinto di Mignard. Al contrario, la stessa nostra matrice d’incisione la troviamo utilizzata, come frontespizio del libro Mémoires pour servir à l’histoire de Madame de Maintenon et à celle du siècle

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passé, pubblicato ad Amsterdam per i tipi di Pierre Erialed nel 1757. Un abbigliamento non troppo dissimile lo si può riscontrare in un’altra miniatura, pubblicata da Claude-Auguste Berey e priva di datazione, che raffigura la Maintenon in chiesa7. Anche se il contesto è completamente diverso e il soggetto viene rappresentato a figura intera, traspare un’eleganza e un portamento non troppo dissimile rispetto alla miniatura di Desorcher, così come appare trattata con pari evidenza la descrizione della stessa collana di perle. A questo punto è lecito chiedersi per quale motivo Françoise d’Aubigné, ormai integrata all’interno della corte di Luigi XIV, a un certo momento è indotta a indossare abiti neri, tanto da determinarne la componente iconografica relativa al suo ritratto, nonostante tale colore non sia mai stato, a quanto pare, di suo gradimento. Sulla base delle nostre consuetudini, saremmo probabilmente indotti a pensare a una sorta di ostentazione di lutto ma, in realtà, tale situazione viene a maturare in seguito alle nozze del Delfino Luigi di Francia, allorquando la Maintenon viene nominata seconda dama d’atour della Delfina, ruolo che comportava il dover vestirsi di nero. La figura di Francoise d’Aubigne e il ruolo che tale donna ha avuto presso la corte del re Sole è stata materia estremamente controversa sul piano storico. La tesi oggi più accreditata è che la Maintenon non ebbe alcuna influenza sulla politica, ma esercitò un’influenza e un potere notevole sul personaggio del re e sulla condizione della corte in tutto il regno, fatto che non è certo insignificante. Pochi giorni prima della morte di Luigi XIV nel 1715, Madame de Maintenon si ritirò nella residenza di Saint-Cyr, dove morì nel 1719. Queste vicende mi richiamarono immediatamente alla mente uno dei topoi della mitologia familiare, ovvero quello dell’apparentamento con un non ben precisato re Francese, fatto che, sino ad allora, proprio per la sua assurdità, non aveva destato in me altro che una compiaciuta ironia. Ma che cosa avevamo a che fare noi con lo Scarron scrittore e quindi, per interposta persona e in via indiretta, con il re Sole? Noti, certi e storicamente documentati sono i rapporti di parentela con la famiglia Scarrone di Torino. Da questa, infatti, ne è derivato per via ereditaria, il predicato «di Revigliasco». Fortuna volle che molte delle carte di tale famiglia siano prevenute all’interno del nostro attuale

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archivio, conservandosi generosamente fino a oggi. Proprio attraverso queste carte viene alla luce tutta una letteratura, un po’ vera e un poco mitizzata, che nel corso del Settecento si era andata sviluppando sul tema del ramo francese della famiglia Scarrone, dal quale sarebbe disceso, insieme ad altri illustri personaggi, proprio il Paul Scarron scrittore. Anzi, venivano prodotte prove che il ramo francese degli Scarrone - famiglia originaria di Chieri poi insediatasi in Torino - derivava da quello italiano in seguito al trasferimento in Francia di alcuni suoi membri già nel corso del Cinquecento8. Per farla breve, quei due minuscoli relitti cartacei incorniciati e appesi in un angolo buio della casa, si sono rivelati preziosi indizi attraverso i quali poter constatare come il mito dell’apparentamento con un re francese non fosse stato frutto della fantasia visionaria di qualche trisnonno ma fosse ben consolidato almeno dal XVIII secolo e, sin dall’origine, fosse stato supportato da dati ed elementi documentari tutto sommato plausibili nonché estremamente interessanti. In conclusione: vale sempre la pena di verificare i miti, sia per quanto riguarda la loro più o meno sostanziale adesione alla realtà, sia per comprenderne l’origine e le possibili cause che li hanno determinati. Anche gli episodi o gli oggetti apparentemente più insignificanti possono rivestire un ruolo straordinario e strategico sul piano della ricerca storica. Infine occorre precisare che il modello della donna abile nelle pubbliche relazioni ma dai costumi seri e austeri, nonché dedita alla preghiera e alle opere di carità, quale è il caso della Maintenon ritorna in diverse occasioni all’interno del mito familiare. Palma e la casa di Leinì Un oggetto piuttosto anomalo ha sempre destato la mia curiosità. Nella sala rossa, adagiata sul piano di un mobile a più mensole, fa bella mostra di sé una voluminosa campana di vetro, montata su di una base in legno di forma ellittica, all’interno della quale sono custodite delle foglie di palma rinsecchite (Foto 25). Le foglie non sono disposte in modo casuale ma costituiscono una sorta di composizione a intreccio. Ben-

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ché il tema delle campane di vetro, utilizzate come vetrinette per proteggere e valorizzare oggetti, sia estremamente diffuso nell’ambito degli arredi delle case del XIX secolo e soprattutto in relazione a prestigiosi orologi da mensola o preziosi e delicati vasi ornamentali con fiori di carta, quello che, nel caso specifico, mi suonava un poco anomalo era il contenuto. Perché delle foglie di palma? Se non fosse intervenuta in soccorso la memoria orale di famiglia, non avrei avuto alternative che orientarmi sulle tracce di simboli religiosi, del tipo di reliquie o consimili. Per la tradizione familiare, invece, la pianta aveva una specifica funzione celebrativa rispetto a un preciso personaggio femminile il cui nome era Palma. Insomma, lo strano soprammobile fu espressamente realizzato in suo onore e oggi segnatamente conservato in sua memoria, in quanto l’antenata fu la prima - ma credo anche l’ultima - di nome Palma nell’ambito della famiglia Cuttica. Ma chi era Palma Cuttica, più confidenzialmente ricordata come zia Palma? Ultima dei figli maturati dal matrimonio tra il notaio Tommaso Cuttica e Agacle Luigia Scarrone, nasce nel 1817. A differenza delle altre sue sorelle Teresa, Giuseppina e Luigia, rimane nubile. Sopravvive anche alla morte dei fratelli Vincenzo, Angelo e Carlo Alberto, divenendo il principale soggetto destinatario dei beni di famiglia. Muore nel 1899. Le sopravvive esclusivamente il fratello Francesco - dal quale discende il ramo della famiglia a cui fa capo anche il sottoscritto - che morirà nel maggio del 1908. Secondo la tradizione, Palma fu il soggetto cardine a cui essere debitori morali in quanto dal suo asse ereditario e dalla sua indubbia abilità nell’amministrare con parsimonia, derivano la casa di Cassine e le opere in essa custodite: una sorta di attenta, austera e seria protettrice della famiglia e dei beni che, proprio grazie a lei, vengono custoditi e amorevolmente curati, conservandosi sino ai nostri giorni. A essere sinceri, non sappiamo molto della sua figura ma i pochi dati documentari in nostro possesso parrebbero sostanzialmente confermare quell’aspetto austero e generoso sempre attento ai fabbisogni delle persone, nonché particolarmente incline alla gestione delle situazioni finanziarie e umane che la mitologia familiare ha costruito su di lei. A titolo esemplificativo, depongono a favore di questa tesi la documentata appartenenza di

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Palma nell’ambito dei cooperatori salesiani come attesta specifico regolamento a firma autografa di San Giovanni Bosco, oppure la presenza tra le consorelle della Pia Società di san Giovanni Nepomuceno di Torino, oppure ancora la sua chiamata in causa come erede universale nel testamento della sorella Luigia in De Rossi «... in attestato e riconoscenza della continua assistenza che sempre ebbe a prestarmi». La sua forza d’animo, il carattere piuttosto energico, fanno sì che, nonostante la sua veneranda età, nel 1896 la si ritrovi a Roma per sbrigare alcune questioni familiari. Insomma, il classico personaggio poco incline all’autocelebrazione, storicamente poco “rumoroso” ma silenziosamente onnipresente e determinante nello svolgersi dei fatti e delle situazioni che hanno segnato la storia di famiglia durante il XIX secolo tanto che, ancora il mio nonno paterno, a suo tempo, ebbe modo di ammonire i suoi figlioli, invitandoli al rigoroso rispetto di quella palma custodita in una campana di vetro. Sino a qui parrebbe tutto nella norma: una situazione per il momento priva di particolari propensioni per quella elaborazione mitologica che, viceversa, abbiamo riscontrato in atri casi. Tuttavia anche la stessa zia Palma cade vittima di tale tendenza non appena la sua azione viene narrata non solo in riferimento alla dimora cassinese ma si estende anche a un altro luogo fondamentale per la storia della famiglia, ovvero la casa di Leinì. A questo punto si assiste all’avviarsi di un processo di identificazione tra un soggetto e la vicenda di più dimore, come se nell’azione di Palma Cuttica si potesse riassumere, attraverso una mirabile sintesi, tutto ciò che è avvenuto in più luoghi e in tempi diversi. In sintesi, nella memoria di famiglia la storia della casa di Leinì e quella della zia Palma si fondono in una mirabile sintesi, riassumendo in un unico soggetto e in un unico luogo la discendenza di tutte le cose importanti che oggi risiedono nella casa di Cassine, ribaltando altresì a un’epoca più prossima fatti e vicende che, viceversa, si diluiscono in tempi ben più ampi. Ma che cosa rappresentò la casa di Leinì e quale ruolo ebbe a rivestire? A quale periodo e a quale contesto ci si riferisce? Iniziamo col dire che tale dimora, oggetto della nostra indagine, intimamente legata alle sorti della famiglia Scarrone, diviene in parte della progenie dei Cuttica nel corso del XIX secolo per poi scomparire dagli

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interessi di famiglia nel secolo successivo. Abbiamo già avuto modo di accennare agli Scarrone, famiglia originaria di Chieri stabilitasi a Torino nel corso del XVI secolo. I primi sintomi di un interesse di tale gruppo familiare per Leinì risalgono al 1685 allorquando il priore don Pietro Francesco Antonio di Torino del fu Giovanni Antonio, sempre di Torino, compra una casa a Leinì. Notizie più circostanziate che documentano il radicarsi della famiglia in tale luogo risalgono al 30 dicembre 1706 data in cui lo stesso Pietro Francesco, che era «prevosto della parrocchiale di Leyni», viene citato con il di lui fratello Francesco Antonio, archivista camerale, in un atto di infeudazione di «lire 7,5 di registro» sul territorio di Leinì. A tutti gli effetti la casa di Leinì era la dimora eletta di quel nucleo familiare: un’ampia struttura extraurbana che custodiva le memorie di quella famiglia che, proprio su quel territorio possedeva diversi beni. Uno dei momenti più importanti nelle dinamiche di quel gruppo familiare - ma che paradossalmente viene anche a segnare l’inizio del suo declino - risale a Giuseppe Francesco Scarrone, figlio di Francesco Riccardo, già tesoriere dell’Ospedale di Carità di Torino, e di Teresa Bertalazone d’Arcahe. Giuseppe Francesco, avvocato, nel 1791 viene nominato da Vittorio Amedeo III sostituto sovrannumerario nell’avvocatura generale del Senato, nel 1797 viene investito col titolo comitale dei feudi di Revigliasco e di Celle e nel 1803 risulta avvocato generale nel Senato di Piemonte e Presidente del tribunale di prima Istanza ad Ivrea. Muore a Leinì nel 1838. Letterato, storico e scrittore, appartenuto all’Arcadia e alle principali accademie del tempo, ha pubblicato diverse opere, dedicando molte delle sue energie ai temi letterari, storici e giuridici e intrattenendo rapporti epistolari con importanti personaggi del tempo come l’editore Giambattista Bodoni e Carlo Denina9 ma sviando forse un poco l’attenzione dalla gestione dei beni di famiglia tanto che nel 1833, alla morte della sua consorte Luigia, nata Gentile, e per sua espressa volontà testamentaria, la gestione del patrimonio venne affidata a una sua figlia di nome Palma, evidentemente ritenuta più consona ad affrontare la situazione economica non troppo brillante che si era determinata. E qui compare per la seconda volta il nome di Palma - alcune volte

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con il suo diminutivo Palmina - che, come detto, non è Palma Cuttica ma sua zia, sorella della madre Agacle, a sua volta figlia di Giuseppe Francesco Scarrone. È quantomeno sorprendente constatare come per due donne dello stesso nome appartenenti a due generazioni diverse si delinei un analogo destino in qualità di numi tutelari del patrimonio di famiglia: la prima in relazione alla famiglia Scarrone, la seconda in relazione alla famiglia Cuttica che, proprio dagli Scarrone, privi di una discendenza maschile diretta, aveva ereditato il titolo comitale. Analogo il loro stile di vita sobrio e morigerato, entrambe attente a una corretta ed efficace gestione del patrimonio. Unica differenza è che la Palma Scarrone si sposa con Cesare Traffano di Montemarzo, con il quale condividerà dimora in quel di San Damiano d’Asti mentre la Palma Cuttica, come già detto, rimane nubile. Della casa di Leinì e dei suoi arredi abbiamo notizie abbastanza circostanziate in almeno tre occasioni. La prima risale alla fine del Settecento (1799) ed è probabilmente da porre in relazione a operazioni di permuta dei beni tra il senatore Giuseppe Francesco Scarrone e il fratello Federico Francesco, fatto di cui cogliamo ancora alcuni esiti - ma che riguardano soprattutto beni terrieri della stessa località – in un atto rogato in Torino nel 1801. La seconda invece riguarda la situazione determinatasi tra il 1848 e il 1852 in seguito alla morte di Palmina Scarrone in Traffano - che dopo la morte della madre era usufruttuaria e affidataria del patrimonio degli Scarrone - con la divisione dell’eredità di famiglia tra le sorelle superstiti Agacle in Cuttica e Cleofe in Villanis. Infine, la casa di Leinì ritorna almeno parzialmente nei primi anni del Novecento nell’ambito delle divisioni seguenti alla morte di Palma Cuttica. Sul tema avremo ovviamente modo di ritornare per analizzare meglio gli inventari dei beni mobili che interessano più da vicino la presente ricerca. Per il momento mi sembra opportuno sottolineare come il ruolo della Palmina Scarrone in Traffano metta in gioco un nuovo elemento, cioè la casa di San Damiano, residenza in cui, con tutta probabilità, erano pervenuti, almeno in parte, gli arredi della casa di Leinì ma, allo stesso tempo, possibile sede elettiva di ulteriori elementi di arredo di estrazione autoctona, più inclini al contesto astigiano, che potrebbero più appropriatamente essere ascritti a eventuali scelte della

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famiglia Traffano di Montemarzo. Ecco dunque un altro passo avanti nel non semplice processo di discernimento tra fatti documentati e rielaborazioni mitizzate nell’ambito della storia familiare. Il caso di Palma Cuttica è emblematico. Infatti, alla luce dei documenti, sarebbe più opportuno parlare delle zie Palme più che non della zia Palma. Ma che cosa è avvenuto? Mi sembra abbastanza semplice: si è assistito a una sorta di crasi storica, in cui il ruolo di più personaggi viene riassunto nella figura di quello più recente il quale, nelle scelte di vita, nel pensiero, nel modus operandi e se non altro per omonimia, può correttamente riassumere lo spirito di tutti quelli che lo hanno preceduto. Di per sé nulla di particolarmente problematico se si escludono alcune conseguenze piuttosto rischiose come l’inevitabile damnatio memoriae di situazioni e luoghi - quale la casa di San Damiano - che, viceversa, sono fondamentali per una corretto tentativo di ricostruzione delle dinamiche di trasmigrazione del patrimonio. Per fortuna, ancora una volta, sono proprio i documenti e il linguaggio delle opere a suggerirci una situazione molto più articolata rispetto a quanto prodotto dal mito familiare. Ma è altrettanto vero che la tradizione orale ha tenuto in vita una versione “di sintesi” della verità storica, uno spunto curioso e suggestivo da cui comunque era possibile partire per andare oltre. Note Cfr. Raffaello: la Madonna del Divino Amore, catalogo della mostra Torino aprile - giugno 2015, a cura di A. Cerasuolo, M. Santucci e P. Piscitello, Mantova 2015. Il dipinto di Capodimonte è un olio su tavola della grandezza di 140x109 cm, realizzato nel 1516. Dal 1824 in poi gli è stato attribuito il titolo di Madonna del Divino Amore, anche se si tratta di una sacra famiglia con sant’Anna, la Vergine, il Bambino e San Giovannino; in distanza appare la figura di san Giuseppe. Dopo il restauro la Madonna del Divino Amore è stata esposta nella mostra dedicata all’ultimo Raffaello (Prado, giugno - settembre 2012; Louvre, settembre 2012 - gennaio 2013), dove è stata sostanzialmente accolta l’attribuzione a Raffaello; per la datazione del dipinto, che in passato si

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tendeva a collocare negli ultimi anni di attività di Raffaello, dopo il 1518, ci si orienta ora verso una data più precoce, intorno al 1516. Molte sono le copie di questo dipinto già apprezzato dal Vasari. Un elenco di copie antiche in collezioni pubbliche e private era già stato formulato nel catalogo di Capodimonte redatto dal De Rinaldis nel 1911 ma che si rifaceva a quanto affermato precedentemente dagli studi del Passavant. Cfr. A. De Rinaldis, Pinacoteca del Museo Nazionale di Napoli, catalogo illustrato, Napoli 1911, p. 214. Particolarmente clamoroso il caso recente dell’esemplare recuperato ad Acquapendente (VT) che pare si debba alla mano di Terenzio Terenzi, anche noto come il Rondolino pesarese, pittore e abilissimo falsario di Raffaello Sanzio, allievo di Federico Barocci. Altre copie sono apparse recentemente sul mercato antiquariale. Tra queste ricordiamo: British & Continental Pictures, London, Tuesday, March 10, 2009, Lot 111 Manner of Raphaël, Raffaello Sanzio, 1483-1520, Title: Madonna del divino Amore; Asta In Monaco di Baviera 2010 Sale: 363 / Old Masters & 19th Century, April 23. 2010 in Munich Lot 71 Raffaello Sanzio, Madonna del divino amore, Oil on panel; si veda anche il sito: http://www.anticoantico.com, scheda articolo 117966: XIX secolo, Madonna del Divino Amore, Olio su tela (cm 100x76), con cornice (cm 124x100). Altre copie antiche sono documentate nella fototeca di F. Zeri consultabile anche on line al sito: http://www.fondazionezeri.unibo.it/it. 2

Cfr. De Rinaldis, Pinacoteca…, cit., pp. 211-214 e bibliografia relativa.

Le osservazioni di carattere cromatico sono state possibili grazie alla sopravvivenza di due lastre fotografiche dell’epoca a colori. Per essere più circostanziati e tentare di fare un passo ulteriore, mi sento di segnalare come opera stilisticamente più vicina, quella raffigurata in una fotografia dell’archivio fotografico della fondazione Zeri (scheda 27398 - busta 0335 - Pittura Italiana sec. XVI. Raffaello: copie - fascicolo 1 - Raffaello: copie, Madonna 1). La fotografia, purtroppo priva delle misure e con una attribuzione ad autore anonimo del XVI secolo, proviene da una segnalazione milanese del 1910. Pare a dir poco straordinaria la particolare coincidenza nella realizzazione delle fattezze fisiognomiche del Bambino, tanto da far presumere che possa trattarsi della stesso pittore del dipinto di Cassine, anche se si rilevano profonde differenze della stesure chiaroscurali del volto della Vergine che, rispetto al nostro, mi sembra maggiormente ispirato e coerente con gli esempi più inclini alla imi3

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tazione dell’originale dell’opera di Capodimonte. Se non fosse per la data troppo precoce della segnalazione milanese (1910) rispetto a quelle che hanno caratterizzato le dinamiche per la vendita dell’opera di Cassine (1913-1917), non avremmo potuto escludere del tutto di trovarci di fronte non solo a una identità di mano ma anche a una specifica identità delle due opere, ravvisando in quella dell’Archivio Zeri il prodotto di un restauro un poco “interpretativo” che ha inteso intervenire sul volto della Madonna al fine di renderlo più coerente con gli esempi più tradizionali della “discendenza” raffaellesca. Per la tavola della Sabauda proveniente dalla famiglia Cuttica cfr. N. Gabrielli, Galleria Sabauda: Maestri Italiani, Torino 1971, p.187. L’autrice attribuisce allo stesso autore un’altra pala della stessa galleria composta da tavola centrale con lo sposalizio mistico di santa Caterina e la cimasa con il Padre eterno e angeli. Tuttavia in tempi più recenti la critica ha invece depennato quest’ultima opera dal catalogo dell’artista. In generale sul Perosino cfr. U. Gnoli, Iungi, Giovanni (Perosino), in U. Thieme, F. Becker, Künstler-Lexikon, XIX, Leipzig 1926, ad vocem (con la bibliografia precedente); A. M. Brizio, La pittura in Piemonte dall’età romanica al Cinquecento, Torino 1942, p. 250; G. Galante Garrone, in Radiografia di un territorio. Beni culturali a Cuneo e nel Cuneese, Catalogo della mostra, [Cuneo] 1980, pp. 212-213; Ead., Per il San Domenico di Alba: ricerche e restauri, in Soprintendenza per i beni artistici e storici, Ricerche sulla pittura del Quattrocento in Piemonte, Torino 1985, p. 28; M. Perosino, in La pittura in Italia, Il Cinquecento, II, Milano 1988, pp.798799. Per l’attività del Perosino con il fratello Jacobino Longo, cfr. ibid., p. 752 e bibliografia relativa. I due realizzano insieme una tavola raffigurante l’Adorazione dei Magi oggi conservata presso il Seminario di Asti. 4

Étienne-Jehandier Desrochers, nato a Lione nel 1668 e morto a Parigi nel 1741, è un incisore francese che ha operato a Parigi anche come mercante ed editore di stampe dal 1699 al 1741 con sede in rue Saint-Jacques. Ha realizzato grandi libri illustrati come le Favole scelte di Jean de La Fontaine, ma è particolarmente noto per i ritratti in incisione che ha fatto dei suoi contemporanei come nella Raccolta di ritratti di persone che si sono distinte in entrambi i campi delle Arti e Belle Lettere del 1726. Cfr. anche A. Montaiglon, Procès-verbaux de l’Académie royale de peinture et de sculpture, 1648-1792, publiés pour la Société de l’histoire de l’art français d’après les registres originaux conser5

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vés à l’École des beaux-arts, Paris 1875-1892. Jean François Daumont, editore e stampatore francese (1740-1775), nel 1768 aveva sede a Parigi in rue St. Martin près St Julien; nota la produzione di vedute ottiche, carta da parati, stampe popolari, e carte da gioco. Cfr. sito British Museum: http://www.britishmuseum.org/research/search_the_collection_database/term_details.aspx?bioId=31 967; si veda anche M. Préaud, Dictionnaire des éditeurs d’estampes à Paris sous l’Ancien Régime”, Paris 1987; W. L. Schreiber, Meisterwerke der Metallschneide Kunst einblattdrucke des funfzehmten Jahrhunderts, Strassburg 1914, 1916, 1926 [Sheets French 1916]. Entrambi i ritratti eseguiti da Pierre Mignard e da Elle sono conservati nella reggia di Versailles. Il nodo storico dell’atelier degli Elle è stato recentemente affrontato in una tesi di dottorato dell’École Nationale des Chartes da Élodie Vaysse (É. Vaysse, Les Elle «Ferdinand», la peinture en héritage. Un atelier parisien au Grand Siècle (1601-1717), thèse de master, École Nationale des Chartes, 2015. La sintesi della tesi è consultabile anche on line sul sito: http://theses.enc.sorbonne.fr/2015/vaysse#3. In effetti la tesi citata ha chiarito meglio l’identificazione dei vari membri degli Elle, famiglia protestante proveniente probabilmente da Malines nei Paesi Bassi Spagnoli e insediatasi a Parigi dal 1601 con Ferdinand Elle (1580-1637). La situazione identificativa dei vari soggetti era resa piuttosto problematica dall’usanza di denominare i diversi membri della famiglia (figli e nipoti) con lo stesso nome del capostipite, Ferdinand. L’autore del ritratto della Maintenon è identificabile con «Louis Elle le Père» (1612-1689), figlio del capostipite Ferdinand, a sua volta padre di «Louis Elle le Jeune». Per la ritrattistica francese «in veste di» presso la corte di Luigi XIV cfr. C. Solacini, Miti ed eroi nella ritrattistica francese tra XVI e XVIII secolo, Tesi di dottorato di ricerca in Storia dell’arte, Storia dell’arte Moderna, Università di Bologna, 2010 e bibliografia relativa. Alla p. 99 si cita anche il caso del ritratto della Maintenon: «L’emulazione degli effigiati spesso tendeva a perpetuare il potere e il carisma di coloro che li avevano preceduti e in seguito anche Françoise d’Aubigné, vedova del poeta Scarron e marchesa di Maintenon, si fece rappresentare in vesti religiose da Pierre Mignard: la vediamo con gli attributi di santa Francesca Romana in una tela datata 1694, dove l’intento risulta essere simile a quello assunto dal ritratto di Maria Teresa d’Austria, sottolineare cioè la propria fede attraverso l’immedesimazione con una figura sacra, con l’aggiunta in questo caso di una forte com6

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ponente biografica capace di specchiare in maniera allusiva la condotta seguita in vita dall’effigiata». In generale, sulla pittura nel periodo di Luigi XIV, cfr. R. Temperini, I pittori del re Sole, in La pittura francese, Milano 1999. Un ritratto di mano di Louis Elle raffigurante Anna Maria Luisa di Orléans, duchessa di Montpensier, è presente presso la Galleria Sabauda di Torino e presenta una impostazione non troppo dissimile dal più tardo ritratto della Maintenon, con la figura seduta sulla destra, il volto orientato verso il riguardante con un’impostazione di tre quarti, il drappo di sfondo che funge da contrasto scuro sulla figura principale e l’apertura paesaggistica che interessa la parte sinistra del dipinto. Per il dipinto di Torino e l’orientamento di corte per la ritrattistica nonché per alcuni accenni al tema sabaudo del ritratto «in veste di» cfr. M. di Macco, in Figure del Barocco in Piemonte. La corte, la città, i cantieri, le province, a cura di G. Romano, Torino 1988, p. 50. 7

Versailles, Public Library, fol Res A 32 m_fol 98.

Per alcune indicazioni sul ramo francese della famiglia Scarrone si veda oltre (nota 33).

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Giuseppe Francesco Scarrone viene infeudato col titolo comitale di Revigliasco e Celle il 7 Luglio 1797). Cfr. Archivio di Stato di Torino: Consegnamenti registro 101, carta 65 volume 21. Risulta appartenente all’Arcadia nel periodo di reggenza del custode Generale Nivildo Amarinzio, 1772-1790, al secolo Gioacchino Pizzi. Per quanto riguarda le opere pubblicate cito di seguito quelle reperite nei repertori: Giuseppe Francesco Scarrone, Ad j.u. prolysin Joseph Franciscus Scarron Taurinensis anno 1780. die 5. Junii hora 5. pomeridiana, (Taurini: ex Typographia Regia); Idem, Ad j.u. lauream anno salutis 1781. die 9. maii hora 5. post meridiem. Joseph Franciscus Scarron Taurinensis, 1781; Idem, De’ tribunali esercenti giurisdizione negli stati di S. M. di qua da’ monti e colli di terra ferma, Torino, dalla stamperia ed a spese di Onorato Derossi 1796; Tiberio Piccolomini, Giuseppe Francesco Scarrone, Nei funerali di Vittorio Amedeo III re di Sardegna orazione detta nella cappella Quirinale alla presenza di sua Santità Pio VI da Monsignore Tiberio Piccolomini volgarizzata da G.F.S. conte di Revigliasco e Celle, Torino, coi nuovi tipi di Pane e Barberis, 1797; Giuseppe Francesco Scarrone, Del diritto de’ governi di far correre il clero personalmente alla guerra. Dissertazione storico9

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politica del cittadino Giuseppe Francesco Scarrone, Torino, presso il cittadino Michel-Angelo Morano, 1799 (Carmagnola, dalla stamperia di Pietro Barbiè); Id., La morale dell’onesto repubblicano. Del cittadino G.F.S. Torino, presso il citt. Michel’Angelo Morano, anno 8 - 1800 (Carmagnola, dalla stamperia di Pietro Barbiè); Id., De’ tribunali esercenti giurisdizione negli Stati di S.M. di quà da’ monti e colli di terra ferma, Torino Onorato Derossi stampatore e librajo, 1815. Cfr. il sito www.internetculturale.it della Direzione generale per le biblioteche, gli istituti culturali e il diritto d’autore del Ministero per i beni e le attività culturali. Inoltre credo che vada valutato il fatto di attribuire allo stesso autore anche le seguenti pubblicazioni, erroneamente attribuite a tal Giovanni Francesco Scarrone di cui non ho alcuna notizia nel periodo in esame, mentre credo che l’errore interpretativo sia dovuto al fatto che l’autore di solito si firmava con la semplice sigla: G.F.S., Giovanni Francesco Scarrone, Precetti per ben dirigere uno stato volgarizzati dal testo greco di Plutarco da G.F.S, Parma, co’ tipi bodoniani, 1796; Id., Precetti per ben dirigere uno stato volgarizzati dal testo greco di Plutarco da G.F.S, Torino, co’ tipi di Pane e Barberis, 1797; Id., Riflessioni imparziali e memorie sopra la vita e le opere dell’abate Carlo Denina piemontese raccolte da G.F.S, Parma, co’ tipi Bodoniani, 1798. Infine va ricordata la pubblicazione: Francesco Giuseppe Scarrone, Del Giubileo. Narrazione istorica colla esposizione delle bolle, costituzioni, notificazioni, indulti e circolari più essenziali dei sommi pontefici al medesimo relative e di altre interessanti notizie sullo stesso oggetto. A S. S. R. M. Maria Cristina di Borbone infanta delle due Sicilie, regina di Sardegna, Torino 1824. Un cospicuo nucleo di opere manoscritte dello Scarrone è custodito nel fondo Bosio della Biblioteca civica di Torino. Altri manoscritti sono conservati nell’archivio di famiglia in Cassine, faldoni n. 5, 17-18.

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Didascalie

1 Francesco Cairo (attr.), Erodiade, olio su tela, cm. 100x84, 1633 ca., particolare. 2 Dionigi Faconti, ritratto di uomo (Giovanni Vincenzo Dogliotti?), olio su tela, cm. 67x53, 1849-1850. 3 Dionigi Faconti, ritratto di donna (Teresa Cuttica?), olio su tela, cm. 67x53, 1849-1850 4 Giacomo Stabilini, Una scampagnata, olio su tela cm. 36x52, 1881. 5 Raimondo Scoppa (Napoli 1820-dopo il 1890) Molino in Giffoni Vallepiana... Salerno, olio su tela, cm. 46x66, quinto decennio del XIX secolo. 6 Raimondo Scoppa (Napoli 1820-dopo il 1890) Pascone di Napoli, olio su tela, cm. 46x66, quinto decennio del XIX secolo. 7 Raimondo Scoppa (Napoli 1820-dopo il 1890) Marina di Cetara in Amalfi, olio su tela, cm. 46x66, quinto decennio del XIX secolo. 8 Raimondo Scoppa (Napoli 1820-dopo il 1890) vicinanze di Monte...”, olio su tela, cm. 46x66, quinto decennio del XIX secolo. 9 Pittore piemontese prossimo a Massimo d’Azeglio, Paesaggio boschivo con un grande albero e riflessi d’acqua, olio su tela, cm. 48x60. 10 Giovanni Martino de’ Boni, Educatio Bacchi, da originale in gesso di Antonio Canova, litografia, cm. 59x78, 1800. 11 Kirchmayr (tip) da dipinto di Frederich von Nerly (Erfurt 1807-Venezia 1878), Piazza San Marco in Venice by Moonlight, stampa arricchita da piccoli ritocchi cromatici in color rosso, cm 48x59, Venezia, 1846. 12 Kirchmayr (tip), da dipinto di Frederich von Nerly (Erfurt 1807-Venezia 1878), Veduta notturna del canal Grande e della chiesa di Santa Maria della Salute, stampa arricchita da piccoli ritocchi cromatici in color rosso, cm. 48x59, Venezia, 1846.

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13 F.N. (Frederich Nerly?), Portico con terrazza panoramica su paesaggio collinare, olio su tela, cm. 59x75, 1836. 14 Pittore Piemontese (astigiano?) L’Adorazione dei Magi, olio su tela, cm. 140x102, ultimo quarto del XVI secolo. 15 Pittore Piemontese (astigiano?) L’Adorazione dei Magi, olio su tela, cm. 140x102, ultimo quarto del XVI secolo, particolare. 16 Giovanni Perosino, firmato (Io. Perosinus erat facturus 1520 in Monte regali), san Giovanni Evangelista, dipinto su tavola, cm. 53x40, oggi conservato presso la Galleria Sabauda di Torino. 17 Pittore del XVI secolo (già attribuita a Giulio Romano), Madonna del Divino Amore, dipinto su tavola, 64x48 cm. (riproduzione da antica lastra fotografica), ubicazione ignota. 18 Francesco Cairo (attr.), Martirio di sant’Agnese, olio su tela, cm. 89x74, 1633 circa. 19 Pittore lombardo prossimo a Giuseppe Molteni, Ritratto di giovane figura femminile che tiene nelle mani un pomo e un fuso, olio su tela, cm. 45x34, prima metà del XIX sec. 20 Goupil & Cie (edit), R. Girardet (inc). da un dipinto di Ludwig Knaus (1829-1910), Le Bapteme, litografia, cm. 93x73 circa, Parigi, 1874. 21 Plasticatore piemontese, Gianduja, terracotta policroma cm. 78x24, 18681870. 22 Eugene Marioton (1854-1933), Chasseur a l’affut, bronzo, h. cm. 58, firmato e intitolato alla base, fine del XIX secolo. 23 Daumon (Jean François ?) (inc), Ritratto di Paul Scarron, Incisione policroma, cm.13x8,5, Parigi, seconda metà del XVIII secolo. 24 E. J. Desrochers (inc.), Ritratto di F. d’Aubigny -Maintenon, incisione policroma, cm. 13x9, Parigi, seconda metà del XVIII sec.

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25 Teca in vetro contenente foglie secche di palma intrecciate a motivo decorativo, XIX secolo. 26 Pittore del XIX secolo, Giulietta e Romeo o Imelda de’ Lambertazzi(?), bozzetto, olio su tela, cm. 24x34, fine XIX secolo. 27 Incisore anonimo, (Luis René Lucien Rollet? 1809-1862), Scena di corte in palazzo orientale ( la corte di re Salomone?), incisione policroma cm. 58x78 circa, seconda metà XIX secolo. 28 Incisore anonimo, (Luis René Lucien Rollet? 1809-1862), da dipinto di Henri Frédéric Schopin (1804-1881), Giuseppe venduto dai Fratelli, incisione policroma cm. 58x78 circa, seconda metà XIX secolo. 29 Giuseppe Falchetti, (Caluso 1843-1918), Natura morta con pesche uva e fico, olio su cartone, cm. 35x44, firmato in basso a destra, fine XIX secolo. 30 Alberto Falchetti, (Caluso 1843-1918), Natura morta con mele e uva su piatto bianco reclinato, olio su tavoletta, cm. 43x55, collocabile ai primi decenni XX secolo, firmato in basso a sinistra, terzo-quarto decennio del XX secolo, 31 Pittore Piemontese, Ritratto di Senatore (Paolo Luigi De Rossi?), dipinto su tavola, cm. 56x43, primi decenni del XIX secolo. 32 Pittore Piemontese, Ritratto di donna (Maddalena Francesca Cuttica?), dipinto su tavola, cm. 56x43, primi decenni del XIX secolo. 33 Dionigi Faconti (attr.), Ritratto di ragazzo (Paolo Luigi Dogliotti?), olio su tela, cm. 45x38, 1849-1850. 34 Dionigi Faconti, Ritratto di donna (Teresa Cuttica?), olio su tela, cm. 67x53, 1849-1850, particolare della firma in basso a sinistra. 35 Acquerellista anonimo, Monumento eretto sulle alture di Balaclava alla memoria degli ufficiali piemontesi morti in Crimea, acquerello, cm. 32x40, post 1856. 36 Acquerellista anonimo, Descrizione del cippo di Crimea con elenco accurato di tutte le lapidi commemorative, verso di lettera a firma di Alfonso Lamarmora, 1856.

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Gianfranco Cuttica di Revigliasco

37 Pittore franco-piemontese, Ritratto di gentiluomo, olio su tela, cm. 82x65, seconda metà secolo XVII, particolare. 38 Pittore dell’Italia settentrionale, Riposo durante la fuga in Egitto, olio su tela, cm. 53,5x97, fine del XVI-inizio del XVII secolo, particolare. 39 Pittore lombardo prossimo a Giovanni Paolo Lomazzo, Preghiera nell’orto, olio su rame, cm. 22x16, seconda metà del XVI secolo. 40 Ferdinando Gregori (inc,), da dipinto di P. Rubens, Le conseguenze della guerra, acquaforte, cm. 50x72, 1771. 41 Incisore anonimo del XIX secolo da dipinto di Bernardo Strozzi, Davide e Golia, stampa su vetro, cm. 47 x 35, prima metà del XIX secolo. 42 Incisore della prima metà del XIX secolo (siglato in basso a dx ma non identificato) da dipinto di Ferdinando Cavalleri (1795-1865), Ritratto del cardinal Tommaso Bernetti, stampa su vetro, cm. 37x31, prima metà del XIX secolo. 43A Girard C. e Foudraz C. (editore), Briola P. (incisore,) da un’opera di Claudio Girard (1683-notizie sino al 1740), La creation et redemption du mond, da un’ideazione da Giuseppe Dalmazzo (probabilmente il venerabile Beningno da Cuneo), incisione su carta, cm. 80x67 circa, 1833. 43B Girard C. e Foudraz C. (editore), Briola P. (incisore,) da un’opera di Claudio Girard (1683-notizie sino al 1740), La creation et redemption du mond, da un’ideazione da Giuseppe Dalmazzo (probabilmente il venerabile Beningno da Cuneo), incisione su carta, cm. 80 X 67 circa, 1833, particolare. 44 Reycned Modesto (edit), Chirio e Mina (tip), Quadro storico statistico politico economico e militare dei domini di S.A. il Re di Sardegna, cm. 59x77, Torino, 1830, particolare con veduta di Torino dal Monte dei Cappuccini, G. Arghinenti (inc.), da disegno di Gaetano Lombardi (1793-1868). 45 Motte C. e Adam V., Malle-Poste. Voiture n. 19, litografia, cm. 13x21 circa, 1839. 46 Pittore piemontese, Ritratto di un anziano canonico (Carlo Luigi Bertalazone di Arache?) olio su tela, cm. 78x61, fine del XVIII secolo, particolare. 47 Pittore franco tedesco, Ritratto di uomo in divisa militare (Gaspare Ric-

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Frammenti figurativi

cardo Maria Scarrone o Federico Francesco Scarrone), olio su tela, cm. 78x61, seconda metà del XVIII secolo, particolare. 48 Pittore del XVIII secolo, Ritratto di San Francesco da Paola, olio su tela, cm. 31x22. 49 Pittore Napoletano prossimo a C. Uva (1824-1886), Veduta dei templi di Paestum, olio su tela, cm. 58x94, settimo decennio XIX secolo. 50 F. N. (Frederich Nerly?), Portico con terrazza panoramica su paesaggio collinare, olio su tela, cm. 59x75, 1836, particolare della sigla e della data. 51 Alfonso Reichmann (firmato), Villaggio costiero, olio su tela, cm. 25x33, 1854. 52 A. R siglato (Alfonso Reichmann?), Paesaggio lacustre con un mulino ad acqua, olio su tela, cm. 30x44, 1854, 7 settembre. 53 Giacomo Stabilini, Una scampagnata, olio su tela, cm. 36x52, 1881, particolare. 54 Pittore lombardo prossimo a Giuseppe Molteni, Ritratto di giovane figura femminile che tiene nelle mani un pomo e un fuso, olio su tela, cm. 45x34, prima metà del XIX secolo, particolare. 55 Studio di fotografia artistica Montabone di C. Marcozzi, Ritratto fotografico di Annetta Reichmann, Milano,1876, fronte. 56 Studio di fotografia artistica Montabone di C. Marcozzi, Ritratto fotografico di Annetta Reichmann, Milano,1876, retro.

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Gianfranco Cuttica di Revigliasco

Frammenti figurativi per la storia di una famiglia piemontese

© Edizioni Falsopiano via Bobbio, 14 15121 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri In copertina: Pittore lombardo prossimo a Giuseppe Molteni, Ritratto di giovane figura femminile che tiene nelle mani un pomo e un fuso, prima metà sec. XIX Prima edizione - Dicembre 2020


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