Vamos!

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FALSOPIANO

CINEMA


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EDIZIONI

FALSOPIANO


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Ringraziamenti. I consigli di Oreste De Fornari mi sono stati, come sempre, utilissimi. Non posso inoltre omettere il prezioso aiuto fornitomi da Pino Bruni e Fabrizio Di Marco.

In copertina: Franco Nero in Vamos a matar, compaĂąeros (Sergio Corbucci, 1970)

Š Edizioni Falsopiano - 2013 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri e Roberto Dagostini Stampa: Atena - Vicenza Prima edizione - Maggio 2013


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INDICE

Prefazione

p. 9

Caratteristiche fondamentali

p. 15

- La base di partenza - L’ibrido col melodramma - L’ambientazione - L’iperbole - La colonna sonora

p. 15 p. 15 p. 24 p. 26 p. 30

Titoli di testa

p. 35

Antroponimi

p. 41

Interpreti

p. 43

Costumi e attrezzerie

p. 59

Ambienti

p. 63

- Il villaggio - Il saloon - La partita a poker - La banca - L’ufficio dello sceriffo - Treno e diligenza

p. 63 p. 64 p. 72 p. 77 p. 78 p. 80

Caratteri

p. 85

- Il fabbro - Il barbiere - Il becchino - Il vecchietto

p. 85 p. 85 p. 86 p. 88

Dead or alive?

p. 93

Violenza

p. 103

Un limbo affollato

p. 111

I prescelti

p. 121

Bibliografia essenziale

p. 156


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L’uomo che uccise Liberty Valance (1962)


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PREFAZIONE

Fare l’eroe è facile; il difficile è essere un uomo (Adios gringo)

Il fenomeno del western italiano (non useremo la locuzione “western all’italiana” né tantomeno l’inflazionata “spaghetti western”) prende avvio quasi contemporaneamente al tramonto del genere classico: nell’Uomo che uccise Liberty Valance (1962) Ford decreta la morte di Doniphon - Wayne, il gunman per eccellenza dello schermo. Si parte dunque dai primi anni Sessanta e si arriva (stentatamente) fino alla seconda metà del decennio successivo: il periodo in cui fioriscono pure il ciclo di James Bond e (fuori dal cinema) la musica pop col binomio Beatles-Rolling Stones. Ben noti sono poi gli avvenimenti relativi all’anno 1968 e i sanguinosi drammi del decennio successivo. La proliferazione delle pellicole nel periodo suddetto è dunque da porre in rapporto con la temperie artistica di quegli anni, caratterizzata da un vitalismo in qualsiasi campo di attività - musicale, filmico, radiofonico e televisivo - mai più ricomparso. Anche la musica beat e più in generale la pop art lasceranno infatti tracce nel nostro western: si pensi ad esperimenti come Matalo! (la cui colonna sonora è in stretto rapporto tanto con il rock quanto con la musica elettronica), le bizzarrie scenografiche di Tre pistole contro Cesare; l’uso insistito in Keoma del ralenti posto in stretto rapporto con l’audio (pro9


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cedimento di cui si avvalsero anche cineasti minori come Demofilo Fidani); ma si possono citare anche produzioni come Scansati… a Trinità arriva Eldorado a proposito delle quali si può legittimamente affermare che la colonna sonora (eseguita dai Delirium e dagli Osanna) rappresenti il motivo di maggiore interesse; oppure le estrosità di montaggio presenti in Yankee, peraltro inette a salvare la banalità della trama. In alcuni film troviamo poi chiari riferimenti a sostanze allucinogene (Sugar Colt, La notte dei serpenti, Giarrettiera Colt, Vamos a matar companeros). Il personaggio dell’agente 007 - anch’egli di origine anglosassone - pur essendo inizialmente caratterizzato, al di là delle parvenze, da una certa fragilità (quasi un antieroe), diviene col passar del tempo, in grazia del successo, un tipico esempio di superomismo in grado di raggiungere le inverosimiglianze più smaccate. L’intercambiabilità degli interpreti, tuttora in auge, ne dimostra la funzione esclusivamente di perno: James Bond è un eroe senza volto, l’esatto contrario della tradizione divistica hollywoodiana imperniata su produzioni scritte e realizzate per le star. Partendo già dal film successivo (Dalla Russia con amore) assistiamo infatti alle imprese di uno smargiasso sempre pronto a pronunziare battute di pessimo gusto a coronamento delle sue imprese da “sicario in abito da sera” (icastica definizione di Oreste De Fornari): non diversamente si comporteranno molti tra i pistoleri del nostro ciclo.

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Il western italiano si presenta come un fenomeno complesso: oltre quattrocento film nel giro di un quindicennio; decine di registi, sceneggiatori e troupe in costante attività; numerosissimi attori italiani e stranieri coinvolti (compresi divi hollywoodiani di prima grandezza)1 oltre a interpreti allora quasi sconosciuti che da quel momento presero il volo (Clint Eastwood, Charles Bronson, Gian Maria Volonté). Sbaglia chi riduce il filo conduttore all’infallibile pistolero solitario che si allontana dopo aver compiuto la sua vendetta: in realtà le tematiche sono varie, spaziando dalla convenzione più vieta al giallo, al genere bellico, alla farsa, all’horror e perfino al moderatamente erotico; in alcuni casi non ci si perita addirittura di riallacciarsi alle tragedie greche o a quelle shakespeariane2. Per quanto riguarda la vexata quaestio riguardante l’influenza di Leone e seguaci sul genere americano coevo, l’errore compiuto finora dagli studiosi è consistito nell’andare sempre in un’unica direzione. Per quanto non si possa negare che la produzione di Sam Peckinpah abbia risentito dell’influsso italiano non solo in campo western3, in realtà le influenze furono reciproche, come del resto è naturale che accada: a noi sembra pertanto più interessante approfondire in quale misura il tardo western americano abbia inciso sulle nostre produzioni. Per esempio, i bersagli sovente posti sullo steccato e presi di mira provengono dal Liberty Valance; la tortura inflitta a Django nel film omonimo è ricalcata dal film di Brando I due volti della vendetta; il protagonista intabarrato in un soprabito beige che domanda un bicchiere di pulque nella Notte dei serpenti imita una medesima situazione 12


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rinvenibile nel capolavoro di Furie A sud ovest di Sonora, come dal medesimo film proviene certamente la scena del braccio di ferro contenuta in Dove si spara di più; il duello al buio che conclude Un fiume di dollari porta l’eco di una sequenza analoga visibile nel Ballo delle pistole di Springsteen; l’invenzione della mano piagata dal coltello nel Ritorno di Ringo proviene dal Warlock di Edward Dmytryk; il corpo appeso alla campana in ... E Dio disse a Caino ricalca una scena identica del sottovalutato Poker di sangue di Henry Hathaway; i cacciatori di taglie intabarrati nelle pesanti pellicce di California hanno un sicuro precedente nel film di Altman I compari; il gruppo di spensierati delinquenti (due uomini e una donna) inseguiti dallo spietato sceriffo in Lo irritarono... e Santana fece piazza pulita parte sia dal Butch Cassidy di Roy Hill sia, più latamente, dal Gangster story di Penn; e non è escluso che il bizzarro nome “Shaniko” attribuito al protagonista di Vendetta per vendetta sia derivato dello Shalako quasi coevo firmato da Dmytryk. Non possiamo mancar di fare un accenno, in conclusione, al singolare percorso della critica al riguardo. Inizialmente il proliferare delle pellicole fu trattato, più ancora che con disistima, con noncuranza (si arrivò ad affermare che su Per qualche dollaro in più “non c’era nulla da dire” giacché il film era identico al precedente!), mentre attualmente si assiste alla tendenza contraria: gli alfieri del tarantinismo di riporto elevano buoni mestieranti agli altari etichettandoli come cineasti “di culto” (espressione di gran moda), e caratteristi di terza fila vengono definiti “grandissimi attori”. Per un’analisi il più possibile 13


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oggettiva del fenomeno non andrà dimenticato che gran parte dei realizzatori, provenienti dalla gavetta (ex direttori di fotografia o montatori), assursero solo temporaneamente - al ruolo di comando in grazia della suddetta situazione economica (alla regia troviamo anche attori non di primo piano come Carlo Croccolo e Guido Celano): tutto ciò si riflette nelle miriadi di sparatorie e risse montate a casaccio, negli effetti notte grossolanamente ottenuti con la semplice chiusura del diaframma, nelle ambientazioni campagnole (è fuori portata il rigoglio della natura presente nei western originari). In questo saggio tenteremo di evidenziare le caratteristiche fondamentali del filone, ponendo da parte la produzione leoniana di cui troppo si è parlato, per concludere con una serie di schede elencanti i titoli più degni di richiamo.

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CARATTERISTICHE FONDAMENTALI

1) La base di partenza circoscritta in ambito esclusivamente favolistico, moventesi non dalla storia ma dai miti e dalle convenzioni del genere (il “mito del mito” biasimato da Alberto Moravia). La convenzione riguarda costumi e attrezzerie, ambienti (interni ed esterni, che non chiameremo locations), personaggi e situazioni (si vedano più avanti i paragrafi specifici). Poiché il genere western ha consegnato al pubblico un’immagine totalmente falsata del momento storico cui faceva riferimento, paradossalmente il western italiano si dimostra più onesto proprio perché non accampa alcuna pretesa di veridicità4. Il gruppo abbastanza nutrito di opere in cui gli autori si riallacciano al periodo storico relativo alla rivoluzione messicana (Quien sabe?, Tepepa, Vamos a matar companeros, Killer Kid, Un treno per Durango…) sembrerebbe costituire un’eccezione, ma la distanza è più apparente che reale, non solo perché la convenzione lascia il segno anche in questi casi (come dimostreremo), ma anche a causa delle scelte contenutistiche sempre relative al possesso (al posto dell’oro troviamo un carico di armi da vendere clandestinamente o da sottrarre ai “regulares”). 2) L’ibrido con la tradizione melodrammatica italiana: forse la più rilevante differenza rispetto al modello statunitense. Ricordiamo che già nel 1910 15


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Giacomo Puccini aveva composto La fanciulla del West dove non mancano eroi, giocatori di poker e sceriffi; ma si pensi anche ai capolavori del neorealismo italiano ed alla loro ragguardevole componente melodrammatica. La virulenza connaturata al filone ed il cinismo ostentato dai protagonisti hanno impedito di notare il background romanticoidealistico sotteso alle vicende dei nostri eroi, quasi sempre votati ad una vendetta per ragioni affettive. I protagonisti di Una bara per lo sceriffo, Django, Preparati la bara, I corvi ti scaveranno la fossa, L’ira di Dio e tanti altri agiscono per vendicare l’uccisione della moglie, della fidanzata o di qualche fratello, e l’eroe di Prega il morto e ammazza il vivo assume una falsa identità al solo scopo di rintracciare il responsabile dello sterminio della sua famiglia. In Tempo di massacro l’alcolizzato George Hilton entra in azione solo dopo che la madre gli è stata uccisa sotto gli occhi (con conseguente primo piano in lacrime sul corpo riverso). Qualcuno invece (per esempio l’eroe di Django il bastardo o quello dei Lunghi giorni della vendetta) torna imprevedibilmente alla ribalta al fine di prendersi una rivincita nei confronti di alcuni biechi traditori (commilitoni, parenti, amici)5. Il testo della canzone con cui si apre Django, di cui citiamo alcuni versi (scritti da Franco Migliacci), non potrebbe rientrare in un filone più tradizionale:

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Django (1966)

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Django have you never loved again? Django, now your love has gone away. Once you loved her Now you’ve lost her But you’ve lost her forever, Django… E si legga anche il seguente estratto dialogico: Maria: Io ti aiuterò a dimenticare. Io ti amo, Django! Django: L’amore me lo sono lasciato dietro tanti anni fa. Ora giace sotto una delle tante croci del cimitero di Tombstone... Proseguendo, l’intera dialogica di Perché uccidi ancora potrebbe essere stata compilata da un librettista di melodrammi. 1 - Judy: Ti scongiuro, andiamo via, andiamo via! Ho paura! Steven: Capisco la tua pena, Judy. Ma c’è qualcosa dentro di me che è più forte dell’odio. Nessuno mi può far cambiare idea, nemmeno tu. /.../ Judy: Steven, stai rovinando te stesso. /.../ Vi braccate come bestie, e questa sarà la fine di tutti noi. Perché, perché uccidi ancora? (Parte la colonna sonora, con il rituale e solenne assolo di tromba) 2 - L’eroe trova Pilar morente, colpita a morte dai banditi. 18


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Django (1966)

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Steven: Pilar, Pilar! Pilar: Steve... Sapevo che saresti venuto... E’ finita per noi... Sto per morire, Steven... Ti ho amato sempre... Baciami per l’ultima volta... (Si baciano, poi lei reclina la testa in avanti; parte la colonna sonora con un disegno in ascesa degli archi, mentre l’eroe solleva il capo guardando in avanti con un’espressione - nelle intenzioni - di odio) Quest’altro esempio è invece ricavato dal Pistolero dell’Ave Maria: Isabel (al fratello Sebastian): Giurami che la pietà non fermerà mai la tua mano, anche se sarà necessario colpire chi è del nostro stesso sangue! Qui i riferimenti sono addirittura alla tragedia greca, con una Isabel-Elettra che invita al matricidio il fratello Sebastian-Oreste. Queste le parole con cui si apre Chiedi perdono a Dio non a me: Un vento di tempesta un giorno travolse e devastò la mia vita. La morte prese a cavalcare il suo cavallo folle e a seminare morte e distruzione... Infine da Lo sceriffo che non spara: Desirée (riferendosi al futuro sposo): Uccise suo padre. Adesso vive del mio amore. Spero proprio di fargli dimenticare le ombre del suo passato. 20


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Ricorrono poi situazioni che non sarebbe esagerato definire manichee, quali i lavori forzati in cave di pietra eseguiti da galeotti costretti a sfiancarsi sotto la sorveglianza di spietati guardiani (... E Dio disse a Caino, I corvi ti scaveranno la fossa) pronti ad infierire con frustate e compiaciute sevizie (si ricordi l’inizio dei Dieci comandamenti di De Mille o anche Nick mano fredda di Rosenberg). In generale, la contrapposizione tra buoni e cattivi è delineata in modo da ricordare più il cinema popolare (o la letteratura d’appendice) che Ford. Spesso il villain è un proprietario di mandrie di bestiame (che però si vedono in pochissimi film, tra cui Spara Joe... e così sia!, per questione di bilancio) dipinto come individuo capace di ordinare senza batter ciglio massacri di inermi contadini o remissivi peones abitanti in arcadiche fattorie poste al centro di pianori verdeggianti, nelle quali il camino fuma sempre. Provengono inoltre dalla tradizione popolar-melodrammatica taluni personaggi ricorrenti: - la figura dell’imbonitore, che ha un sicuro precedente nell’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti: un diretto derivato è visibile in El Rojo (un personaggio di origine italiana, ex garibaldino che cerca di spacciare un elisir buono per tutti gli usi). E’ un ambulante che si guadagna da vivere imbastendo uno spettacolo miserevole, talvolta in coppia con una procace partner, e tenta alle volte di arrangiarsi esercitando qualche attività a latere (il dentista). Ehi amico 21


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c’è Sabata hai chiuso! offre una variante composta da una poco affidabile coppia di acrobati. Il personaggio possiede un certo rilievo in La vendetta è un piatto che si serve freddo, Il giorno del giudizio e I lunghi giorni della vendetta; diviene antagonista travestito per l’occasione (Dinamite Jim), coprotagonista (La collina degli stivali, Execution) e talvolta anche protagonista (Bandidos, ...E per tetto un cielo di stelle, Scansati… a Trinità arriva Eldorado, Una Colt in pugno al diavolo, dove finge di vendere concessioni aurifere). - il nucleo familiare composto dall’anziano padre vedovo con figli a carico: nella maggior parte dei casi una figlia unica6, ma si dà anche il caso di un erede maschio (Adios gringo, La preda e l’avvoltoio, Tempo di massacro, ...E Dio disse a Caino), di un fratello e una sorella (Lo sceriffo che non spara) o di due sorelle (Arizona Colt). - i bambini utilizzati in maniera leziosa, come figli dell’eroe (Centomila dollari per Ringo, Colorado Charlie) o di una solitaria padrona di fattoria (Vendo cara la pelle); come piccoli amici (Sella d’argento o, ancor più insopportabile, il piccolo glaucopide col cappello sulle ventitré di Clint il solitario) o come pretesto per muovere alla lacrima (nel finale di Johnny Oro il cattivo tiene in ostaggio il figlio dello sceriffo; in Lola Colt e Quindici forche per un assassino un ragazzino raggiunto da una pallottola pronuncia le rituali frasi di commiato prima di spirare quietamente; in Johnny Yuma il sadico Luigi Vannucchi infierisce senza motivo su un bambino e 22


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Ehi amico c’è Sabata hai chiuso! (1969)

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in El Rojo un altro fanciullo è trafitto da una freccia; in Cjamango il perfido Piero Lulli lega addosso al piccolo Giusva un fascio di candelotti di dinamite; in La vendetta è un piatto che si serve freddo il massacro della pacifica famiglia di coloni - ispirato a Senteri selvaggi - non risparmia una bambina messa lì a bella posta). 3) L’ambientazione. Nella maggior parte dei casi la vicenda si svolge in un’indefinita zona meridionale degli Stati Uniti (particolarità evidente anche da molti titoli: Bandidos, E divenne il più spietato bandito del sud, El Rojo, Anda muchaco spara!, Matalo!, Killer adiòs...). Quando c’è un’indicazione geografica, possiamo trovarci nel Nuovo Messico (Un minuto per pregare, un istante per morire) o, sconfinando, nel Messico stesso: la neolatinità dell’ambiente si aggancia agli studi e agli esterni italoiberici nei quali i film sono girati, anche perché taluni personaggi (come il Cuchillo della Resa dei conti) ricorrono a furbizie e stratagemmi palesemente ricalcati da taluni contesti nostrani. Alcune opere sono ambientate nel periodo della rivoluzione, quindi non nell’Ottocento ma ai primi del secolo successivo (Killer Kid porta addirittura una didascalia dedicata “al Popolo Messicano” [con le maiuscole]): scelta temporale che consente tra l’altro l’irruzione in scena delle prime automobili, scrutate come una curiosa novità (W Django, Un treno per Durango, Arriva Sabata, Vamos a matar companeros, O Cangaceiro, in cui il veicolo viene ipso facto smontato; nel goliardico Il bianco il giallo il nero viene invece aggiunta 24


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Ăˆ tornato Sabata... hai chiuso un'altra volta (1971)

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una motocicletta con tanto di sidecar)7. Tale ambientazione comporta una serie di convenzioni nella scelta degli esterni, nel linguaggio, nei costumi: i civili (“peones”) sono abbigliati sempre in bianco (gli uomini con casacca, poncho, pantaloni con cinta di stoffa e sombrero; le donne, pettinate con le trecce, indossano gonna scampanata e camicia bianca scollata), mentre i banditi vestono abiti variopinti con pantaloni a zampa d’elefante e l’immancabile aggiunta di una bandoliera a tracolla puramente decorativa, dal momento che non ne estraggono mai le cartucce; i volti non sono mai rasati e i baffi, sovente alla mongola, sono quasi sempre di rigore. Infine i soldati (“rurales”) indossano divise beige con berretto e stivaloni e sono muniti di fucile. Non esiste notturno senza feste con chitarristi, procaci mujeres danzanti a braccia sollevate e convitati che non fanno altro che bere a garganella e ridere in continuazione non si sa per quale motivo. Le scelte climatiche privilegiano di conseguenza gli esterni assolati, anche se non mancano scene innevate (Corri uomo corri, I quattro dell’Apocalisse, e sopratutto Il grande silenzio di Corbucci, ambientato in un fasullo Utah riacquistato nelle Alpi). 4) L’iperbole come modulo narrativo basilare. Tale peculiarità, evidente nel modello leoniano, differenzia notevolmente il western italiano da quello statunitense: dal pistolero di Per un pugno di dollari fino agli ultimi eroi dei tardi anni Settanta, il protagonista è un imbattibile tiratore in grado di abbattere fulmineamente tre o quattro avversari (anche un numero 26


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Navajo Joe (1966)

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superiore se utilizza un Winchester o due pistole) senza mai riportare serie ferite (nel caso peggiore “E’ solo un graffio”). I suoi colpi vanno sempre a segno e sono mortali anche se tirati in movimento (frequenti le giravolte) o in posizioni scomodissime: generalmente la vittima compie un mezzo giro prima di abbattersi a terra emettendo mugolii vari, grida o rantoli. Questi numerosissimi morituri hanno inoltre la pessima abitudine di affrontare la tenzone in posizioni molto esposte (in mezzo alla strada oppure in piedi sopra balconi o tetti) dimodoché il nostro eroe non deve fare altro che mirare e colpire (quando la vittima, come avviene spesso, cade da grandi altezze, il cascatore cerca di aggrapparsi a qualche sostegno per attutire l’impatto). Se ci si apposta dietro ad una finestra non la si apre mai (anche perché non si vedono maniglie) ma si infrange il vetro. Spesso qualcuno, in piena sparatoria, prende l’infelice iniziativa di spostarsi da un punto a un altro, fornendo così ipso facto al fuoco avversario un altro comodissimo bersaglio: le eliminazioni sono insomma sempre molto plateali. L’eroe e i suoi accoliti ricorrono poi frequentemente alla dinamite come risolutrice di situazioni o come coadiutrice negli scontri collettivi (la miccia può essere accesa, oltre che con i fiammiferi, con un sigaro - anche lanciato - o con un colpo sparato a distanza, e si arriva perfino a colpire candelotti al volo); qualora il tentativo sia invece messo in atto dai cattivi è invariabilmente destinato a ritorcersi contro di loro8. Il protagonista di Joe l’implacabile polverizza senza batter ciglio caterve di nemici servendosi esclusivamente del suddetto mezzo di offesa. Johnny Oro sbriciola un gruppo di messicani 28


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Navajo Joe (1966)

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con l’esplosivo nascosto in una borraccia, mentre il rivoluzionario Redentore del Cangaceiro compie un massacro servendosi della nitroglicerina, similmente all’eroe del film di Caiano Il suo nome gridava vendetta. Spicca per brutalità l’occhialuto protagonista di Uno dopo l’altro, che dopo aver legato alcuni candelotti sulla schiena di un avversario gli spara disintegrandolo. Compare spesso anche la mitragliatrice, retaggio di Per un pugno di dollari e dunque in un primo momento utilizzata dai bravacci per compiere stragi di “rurales”, di messicani o di soldati, nessuno dei quali – in omaggio al capostipite – riesce a trovare il modo di fuggire a gambe levate: ma l’arma viene ben presto in possesso dei buoni che se ne servono per la giusta causa (ovverosia per compiere strage di malvagi)9. Citazioni d’obbligo per il minimitra a tracolla utilizzato da George Martin nel finale di Thompson 1880, mediante il quale l’eroe fino allora inerme fa scempio senza battere ciglio dei nemici limitandosi a girare una manovella a mo’ di proiettore del muto - e per l’ecatombe con cui si conclude Chiedi perdono a Dio non a me, tipico esempio di montaggio del tutto aleatorio. 5) La rilevanza assunta dalla colonna sonora. Il nostro ciclo western ci ha donato molte affascinanti melodie, sia in ambito strumentale sia in quello vocale, anche perché alla colonna sonora, almeno inizialmente, fu conferito un ruolo diverso rispetto a quello rivestito nel western classico: le melodie di Ennio Morricone (sia diegetiche sia extradiegetiche) giunsero a far parte integrante dei western leoniani. 30


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Splendide, per fare un primo esempio, sono le due canzoni composte da Marcello Gigante per Jim il primo, eseguite da Peter Tevis e Renata Filippini; e gradevole la melodia di Lavagnino cantata da Katyna Ranieri a completamento di Johnny West il mancino. L’ammirevole brano di Bacalov che accompagna il cammino di Django lungo il terreno fangoso con la splendida voce di Rocky Roberts segue la medesima struttura di classici quali The 3:10 to Yuma di George Duning o Gunfight at the OK Corral di Dimitri Tiomkin (voce solista supportata dal coro), e non ha nulla da invidiare - quanto a invenzione melodica e costruzione armonica - ai brani suddetti (dispiace solo che per conoscere i tesori di casa nostra ci sia bisogno di farse d’oltreoceano). Sono magnifiche anche le due canzoni di Morricone dedicate a Ringo nel ciclo di Tessari, che Arturo Graf canta con timbro affascinante e simpatico accento falso-inglese, e rimarchevole è il brano di Bruno Nicolai eseguito da Bobby Solo in Centomila dollari per Ringo. Ma se si volesse assegnare una palma non avremmo dubbi nel gratificare l’incomparabile voce di Christy (Maria Cristina Brancucci) nel pezzo di Morricone Run, man, run in apertura della Resa dei conti (una formidabile invenzione che ha l’unico torto di assomigliare al celebre L’estasi dell’oro), senza dimenticare l’altrettanto valida prestazione della medesima interprete in apertura di Tepepa (Al Messico che vorrei). Elenco compilato anche allo scopo di ridimensionare, nei limiti del possibile, l’opera di Ennio Morricone. Sebbene attivo dai primi anni sessanta, il compositore raggiunge la notorietà con la colonna sonora di Per un pugno di dollari, composta princi31


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palmente di due brani: il primo, che accompagna i titoli di testa, avvalentesi di insoliti (ma non rari) strumenti a percussione come la frusta e la campana e il secondo per tromba solista ricavato alla larga dal Deguejo. Le composizioni morriconiane si basano quasi sempre su di un ritmo di marcia: possiamo citare tra i tanti il dittico Giraldi-McGregor, e – se è consentito uscire dal seminato – alcuni film di Elio Petri (Indagine su un cittadino, La classe operaia va in paradiso), Revolver di Sollima e Gli intoccabili in versione De Palma (giacché per l’omonimo film di Montaldo fu composta una partitura piuttosto infelice seppur non afflitta da cadenze); ma a ben vedere (anzi udire) il ritmo cadenzato sostiene anche alcuni dei brani più famosi quali L’estasi dell’oro. Quando accantona i ritmi marziali, il maestro si abbandona a mielose e talvolta pompose armonie per grande orchestra delle quali non resta che un ricordo vago: Il grande silenzio, C’era una volta in America, Baarìa... D’altronde anche in campo western egli non raggiunse sempre grandi altezze, come dimostrano le pesanti cadenze composte per Duello nel Texas, le modeste melodie per Un fiume di dollari o la stanca arietta per La banda J & S. Inoltre la fama da lui acquisita finì per nuocere indirettamente al lavoro di altri preparatissimi musicisti, sia infirmando un potenziale che avrebbe potuto produrre buoni frutti qualora si fosse evitato di seguire il modello, sia lasciando in ombra autori decisi a percorrere strade differenti. Pensiamo per esempio che un compositore come Carlo Savina si sia saputo dimostrare più duttile nell’adattare il proprio notevole talento alle atmosfere di 32


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ciascun film. Si ascoltino infatti le belle melodie intitolate Dynamighty e Love song cantate da Lillian Terry in Joe l’implacabile, e se ne ponga a confronto il timbro scanzonato coi brani eseguiti dalla bella voce di Don Powell per ...E Dio disse a Caino e per Pochi dollari per Django; o col fascinoso Heart of stone (titolo analogo ad un brano dei Rolling Stones) eseguito dalla vibrante voce di Raoul (come Arizona is waiting per il film Testa o croce) udibile nei titoli di Anche nel West c’era una volta Dio. Possiamo ascoltare lo stesso bravo cantante (che condivide con Maurizio Graf l’accento inglese ipercorretto) in alcuni brani di un altro valido compositore quale Francesco De Masi la cui linea melodica – a differenza del precedente – riecheggia maggiormente il modello statunitense (Arizona Colt, ...E venne il tempo di uccidere, Quanto costa morire, Il momento di uccidere, Vado... l’ammazzo e torno; mentre il brano che apre Una bara per lo sceriffo è cantato da Peter Tevis e quello all’inizio di Sartana non perdona da Franco Morselli). Si ascoltino ancora la Ballata per un pistolero di Marcello Giombini che chiude il film omonimo con la voce di Peppino Gagliardi; la struggente malinconia dei pezzi per voce femminile di Mario Migliardi in Prega il morto e ammazza il vivo; la melodia che apre Killer adiòs firmata da Claudio Tallino e la voce di Ken Tobias che esegue Silver saddle in apertura di Sella d’argento. Sempre interessanti infine le partiture di Guido e Maurizio De Angelis, immediatamente riconoscibili per brio e varietà di modulazioni; molto gustosi i temi inventati da Franco Micalizzi per il primo Trinità e l’ironia dimostrata da Carlo 33


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Rustichelli (il Dies irae parodiato in Dio perdona... io no!; il Deguello parodiato in Un treno per Durango), valido compositore in grado di creare anche partiture dal respiro sinfonico (Ognuno per sĂŠ, Il pistolero segnato da Dio)10.

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TITOLI DI TESTA Seguendo l’esempio di Per un pugno di dollari, molto spesso i titoli di testa sono costituiti da sagome in movimento su di uno sfondo rosso (o multicolore) riproducenti alcune situazioni stereotipe come sparatorie, cavalcate, pugni, vittime che cadono a terra dopo aver compiuto un giro a 180 gradi, oppure armi sfoderate e usate per sparare a ripetizione: tra i titoli più dinamici occorre citare quelli che aprono Una colt in pugno al diavolo. In altri casi si ricorre a qualche modesto effetto come la solarizzazione (cioè il viraggio in tinte diverse da quelle naturali) o l’inserimento di righe orizzontali per significare l’imprigionamento dell’eroe (Per pochi dollari ancora). Polselli e Monter riprendono la tradizione fordiana realizzando per Lo sceriffo che non spara scritte su cartelli di legno; mentre un cartello disegnato a forma di croce accompagna i titoli di Quinto: non ammazzare. Altre volte le scritte sono in sovrimpressione sulle prime immagini del film o su immagini generiche di cavalieri ripresi da lontano su di uno sfondo montagnoso o collinoso: in questi casi la grafica è improntata ad un certo dinamismo sia nella scelta dei caratteri (in tinta giallo chiaro, rosso acceso oppure bianchi) sia nei tempi di avvicendamento; talvolta vediamo alcune lettere lacerate da un colpo di fucile fuori campo. Può anche capitare, come in Wanted Johnny Texas, che i titoli siano disposti in fermi-immagine della sequenza iniziale. In rari casi appaiono dopo un breve prologo (Clint il solitario, Sugar Colt, I lunghi giorni dell’odio, Cjamango, Adios gringo il cui prologo dura oltre sei minuti). 35


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Alcuni film si fregiano poi di una grafica maggiormente curata. Di un certo interesse per esempio sono i disegni d’apertura di Killer Kid e All’ombra di una Colt, e molto ben curati quelli realizzati da Favalli e Calabria per Bandidos, l’unico western firmato da Massimo Dallamano. Virgilio Milano all’inizio di Con lui cavalca la morte inventa con un pizzico d’ironia una breve e simpatica sequenza di animazione rievocante la storia dei pony express. Sollima per La resa dei conti ricorre a fotografie colorate della coppia antagonista, per Faccia a faccia divide il fotogramma in varie parti ponendo l’accento sulla diligenza, e per Corri uomo corri propone disegni evocanti stermini di popolani alternati a titoli di giornali. Fotografie colorate relative a vari momenti d’azione (oppure d’epoca, vere o verosimili, sull’esempio del Buono il brutto il cattivo) si trovano anche in apertura di numerosi film tra i quali Una bara per lo sceriffo, Il tredicesimo è sempre Giuda, Sette Winchester per un massacro e Una ragione per vivere una per morire (in viraggio seppia); mentre altre volte si utilizzano disegni più o meno pertinenti (per esempio Thompson 1880, per il quale Biamonte e Grisanti tratteggiano carte da gioco ben poco in tono con l’argomento del film). E giacché siamo in argomento gradiremmo dedicare qualche rigo alle scelte dei titoli. Data la sovrabbondanza produttiva, più di una volta i titolisti rischiarono di trovarsi a corto di fantasia. Molte trovate infatti sono poco o nulla rispondenti alla storia narrata (La collina degli stivali, W Django, La notte dei serpenti, Uccidi Django... uccidi per primo!, Prega il morto e ammazza il vivo, I senza Dio; un 36


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La collina degli stivali (1969)

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Sartana nella valle degli avvoltoi dove non si vede neppure l’ombra di un avvoltoio e un Lo irritarono... e Santana fece piazza pulita dove l’unica novità consiste in una lettera cambiata); oppure risultano applicabili a qualsiasi film (All’ombra di una Colt), o godono addirittura di entrambe le caratteristiche (I lunghi giorni dell’odio). In qualche caso si possono avanzare legittime perplessità di ordine contenutistico (Inginocchiati straniero: i cadaveri non fanno ombra!; I vigliacchi non pregano; Anche per Django le carogne hanno un prezzo) o grammaticale (Non aspettare Django, spara! e Vamos a matar Sartana in cui permane incertezza sul caso del nome: vocativo o accusativo?). Il sopraggiungere del sottofilone farsesco spinge poi i responsabili a premere sul pedale dell’ironia, con risultati talvolta non privi di arguzia (Domani passo a salutare la tua vedova...) ma talaltra sconfinanti nell’ esagerazione (Su le mani cadavere, sei in arresto!). Tra i pochi titoli suggestivi possiamo segnalare E per tetto un cielo di stelle e Ballata per un pistolero (senza molte connessioni con la trama). Ma è sopratutto interessante esaminare le filiazioni linguistiche aventi origine dal primo moralistico titolo leoniano Per un pugno di dollari. Possiamo catalogare tre tipi di derivati: 1) Dalla semplice preposizione iniziale: Per il gusto di uccidere, Per un dollaro a Tucson si muore ecc.; 2) Dalla locuzione “per un pugno”: Per un pugno nell’occhio, Per un pugno di canzoni; 38


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3) Dal vocabolo “dollari”: titoli a iosa, sia al plurale (Cinquemila dollari sull’asso, Un fiume di dollari, Diecimila dollari per un massacro ecc. ecc.) sia al singolare (Un dollaro bucato, Un dollaro di fifa, Le due facce del dollaro...). Esistono infine titoli che assumono la prima e la terza caratteristica insieme: Per una bara piena di dollari (in cui non si vede alcuna bara), Per pochi dollari ancora, Per centomila dollari t’ammazzo.

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La collina degli stivali (1969)

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ANTROPONIMI Uno degli aspetti più interessanti e meno studiati del western italiano consiste nella coniazione di nomi propri. Dato che i personaggi incarnati da Clint Eastwood erano caratterizzati solo da soprannomi, sotto questo aspetto la saga, dopo un primo periodo di ricalco11 prende le distanze dal capostipite. La prima svolta è compiuta nel 1966 da Sergio Corbucci. “Il mio nome è Django” dice il seriosissimo protagonista commettendo l’abituale errore di traduzione letterale (My name is…) al posto del corretto “Mi chiamo”: un’identità di ascendenza gitana, atta forse a rilevare il carattere errabondo del personaggio, che ben si sposa con l’ambientazione meridionale del ciclo. Il successo del film provoca da un lato la creazione di duplicati (W Django, Django spara per primo ecc.) e dall’altro la creazione di antroponimi per assonanza: Cjamango, Durango, Shango e perfino un Sjango. Due anni più tardi, nel 1968, nasce il personaggio di Sartana (dopo un esordio poco fortunato in Mille dollari sul nero): pare che il nome derivi da quello del generale messicano Santana, ma non è impossibile un rimando al gruppo musicale omonimo e conterraneo che esordì in quel periodo. Anche questa seconda coniazione, utile all’ambientazione confinaria, è destinata a passare di mano in mano (di Colt in Colt) creando singolari assonanze (oltre a modificarsi in un solo caso in Santana): troviamo un Sabàta, un Saranda e perfino un Quintana. Talvolta si ritorna alle origini ricorrendo a nomi di 41


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stati USA, anche se l’ambientazione non cambia: Colorado Charlie, Arizona Colt, Wanted Johnny Texas, Dio in cielo Arizona in terra e persino un California tirato per i capelli. Si ricorre anche al Ringo di fordiana memoria (inizialmente del Nebraska) che pur generando qualche assonanza (Garringo) rimane sottotono. Neppure il personaggio di Trinità resta esente da derivazioni: oltre ad una parodia al quadrato (I due figli di Trinità con la coppia Franchi-Ingrassia) lo vediamo tramutarsi in un luogo (Scansati… a Trinità arriva Eldorado; Due fratelli in un posto chiamato Trinità) probabilmente come puro effetto di eco.

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INTERPRETI 1. Uno dei limiti più gravi imputabili al western italo-iberico è consistito nell’incapacità di offrire eroi indimenticabili (escludendo alcuni personaggi secondari fin troppo apprezzati): l’impassibilità di Eastwood, sfruttata a dovere da Leone, diede il la ad una lunga serie di produzioni segnate da pistoleri tanto invincibili quanto limitati nella tecnica recitativa, sebbene ognuno di loro abbia rivelato caratteristiche diverse. Il fulvo Robert Woods, poco assistito da un fisico dinoccolato, non è privo di una certa comunicativa; si resta però perplessi di fronte al messicano impersonato nel breve ciclo di Lucidi (Due once di piombo e Pecos è qui: prega e muori), in cui pare somigliare piuttosto ad un cinese insonnolito. La comunicativa in ogni caso è una qualità che manca all’ingobbito Anthony Steffen, eroe di numerose produzioni forse in grazia di una blanda rassomiglianza con Eastwood ma prigioniero di un palese autocompiacimento (la barba di due giorni, il cappellone sulle ventitré coi laccetti, il giaccone sempre uguale); poco riusciti appaiono del resto i suoi tentativi di aggiungere al personaggio qualche dose di simpatia (Ringo il volto della vendetta), o di affrontare figure più complesse (Pochi dollari per Django, Killer Kid): tentativi che anzi finiscono per porne maggiormente in rilievo taluni impacci di gestualità. Probabilmente la sua interpretazione più accettabile resta quella del Pistolero segnato da Dio, l’ultimo western di Ferroni. Però Steffen, a differenza di altri 43


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attori sia italiani sia stranieri, sapeva perlomeno andar bene a cavallo, come del resto il ricciuto Leonard Mann dalle larghe orecchie e dallo sguardo pallido, che sembra spaesato ogniqualvolta deve impugnare la Colt. Per nulla spaesato invece appare lo statunitense Craig Hill, uno degli interpreti migliori, dal portamento sicuro e dall’andatura dignitosa ed elegante (I corvi ti scaveranno la fossa ce lo mostra impeccabilmente abbigliato con gilè e guanti neri). Soltanto Carlo Lizzani mostra di saper sfruttare con sagacia lo sguardo beige di Mark Damon nella parte di un diabolico proprietario terriero (Requiescant); in altre occasioni l’attore si compiace eccessivamente della sua prestanza, esibendo un sorriso di prammatica anche nelle situazioni meno opportune. Si cambia terreno con l’atletico Giuliano Gemma, i cui primi piani (con dentiera nivea e cicatrice sullo zigomo sinistro) non sono privi di spigliatezza; purtroppo l’aspetto da ragazzo per bene va a detrimento dei ruoli ricoperti, tant’è vero che gli sceneggiatori cercarono di far quadrare il cerchio inventandosi il soprannome di Faccia d’angelo. Analoghe osservazioni possono farsi per Terence Hill, i cui tratti somatici (occhi azzurri, capelli biondi e sorriso cordiale) mancavano delle caratteristiche opportune per raffigurare uno spietato pistolero; cosicché dopo un inizio serio (Preparati la bara) o semiserio (i film con Colizzi) egli finì per abbracciare il successo col western parodistico avvalendosi di una spalla (Bud Spencer) già al suo fianco in precedenza; mentre in Andrea Giordana la bella presenza si può definire inversamente proporzionale alla gamma espressiva. 44


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Franco Nero invece eredita inizialmente la ieraticità leoniana allargando solo in seguito il repertorio: l’invincibilità, sempre garantita, può assumere tratti brillanti (Il mercenario, Vamos a matar companeros) o grotteschi (Cipolla Colt), senza escludere tardi recuperi della precedente compostezza (rinverdita in Keoma fino al limite). Anche con il biondo ed aitante Gianni Garko, proveniente dal teatro classico, assistiamo ad una gestualità più sicura e ad una presenza che non lascia spazi vuoti. Nel personaggio di Sartana, da lui interpretato più volte, si riscontra una certa distinzione non priva di civetteria, forse per influenza del ciclo bondiano: volto ben rasato con baffi e favoriti curati; il cordoncino del cappello a tesa larga sempre dietro le spalle; il vestito nero completato da un mantello alla Sherlock Holmes (o alla Mandrake secondo altri) e decorato persino da un fermacravatta12. L’immaginario Sartana non rimase però privilegio di Garko: ne vestirono i panni, senza grande impegno, il tracagnotto Jeff Cameron dalla dentatura sconnessa e il naso da pugile, somigliante più a Philippe Noiret che a un inesorabile pistolero; occasionalmente George Martin, glaucopide intento a fissare in camera con lunghi primi piani assorti; il biondo William Berger, dignitoso professionista, dal sorriso sardonico atto ad occultare un temperamento sornione solo in apparenza; il riflessivo George Ardisson dalle narici frementi; ed anche, con una certa nonchalance, George Hilton cui accenniamo più avanti. Nonostante la scarsa espressività, il biondissimo Peter Lee Lawrence dal naso a punta e dalla bocca a salvadanaio - anch’egli buon cavallerizzo - s’impe46


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gna in un repertorio di qualche pretesa, con risultati discutibili ma perlomeno encomiabili nelle intenzioni; l’aspetto non manca di eleganza (guanti neri, camicia e cravattino) e talvolta di una certa disinvoltura (Dio in cielo Arizona in terra). Del prognatico Richard Harrison, pistolero mancino dallo sguardo obliquo e dal naso a punta così come del corpulento Ty Hardin difficilmente si potrebbe trovare qualcosa da specificare al di là di una certa prestanza, caratteristica garantita pure da Paul Sullivan e Mike Marshall, entrambi non privi di un certo savoir faire con le signore, a differenza del corrucciato Hunt Powers che oscilla tra misoginia e dongiovannismo (Sugar Colt). Il riccioluto Brad Harris ama esibire un fisico atletico ed un bel volto dal quale ogni tanto sembra provenire un guizzo d’ironia, similmente al prognatico Tony Kendall; una buona percentuale di ironia si riscontra anche nelle interpretazioni di George Hilton (il cui ruolo migliore è forse l’ambiguo partner di Kinski in Ognuno per sé) e del massiccio George Eastman, mentre la seriosità è caratteristica dell’inglese imparruccato Richard Wyler; dal Regno Unito proviene anche John Richardson, di gradevole aspetto e di indubbia simpatia. Mentre il giovane Antonio Sabàto, dai tratti inequivocabilmente latini, si barcamena tra drammatico e farsesco necessitando però di una guida sicura per offrire prove quanto meno accettabili (Al di là della legge), il massiccio Robert Hundar cerca di confrontarsi con un repertorio più vasto, ma quando interpreta il caporione messicano (Un buco in fronte) rimane agganciato ai facili modelli d’attesa che seguono la linea instaurata da Tuco (e dal contemporaneo Chuncho di 47


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Volonté): un personaggio agitato, ridanciano, crudele, del tutto ignorante e affetto da primitivismo. Caratteristiche che si ritrovano appesantite oltremisura nei numerosi ruoli interpretati da Tomas Milian, con l’aggravante di un eloquio “ispano-romano-portoghese” (Marco Giusti). Ambiguo appare anche il personaggio di Lee Van Cleef, a causa dei diversi ruoli ricoperti nei due film di Leone (il giustiziere nel primo e il sadico Sentenza nel secondo): l’attore, di limitate capacità espressive, seppe però in seguito ritagliarsi parti su misura non prive di un certo fascino ma quasi sempre vincolate, anche nell’abbigliamento, al colonnello Mortimer (quando si discosta da tale modello l’attore compie grossi passi falsi, vedansi L’uomo di Santa Cruz o Diamante Lobo). Non riscontriamo una particolare gamma espressiva neppure in Tony Anthony il quale però, dopo un esordio di totale calco eastwoodiano, seppe ritagliarsi un personaggio su misura in Blindman (un pistolero cieco che cavalca nella prateria e riesce a sopravvivere da solo!), mentre Montgomery Ford e il longilineo Sean Todd-Ivan Rassimov (anch’egli di ascendenza eastwoodiana) riuscirono talvolta a costruire figure non prive d’interesse assumendo un modo di porgere più disciplinato (del secondo si può ricordare l’interessante personaggio dello sceriffo in I vigliacchi non pregano). Infine, alcuni attori funzionano meglio se spalleggiati: Peter Martell (Il pistolero dell’Ave Maria, Ciakmull), il serioso Anthony Ghidra, sguardo puntuto e disuguale, labbra taglienti e movimenti cauti (Ballata per un pistolero, L’ultimo killer, ... E venne il tempo di uccidere, Chiedi perdono a Dio non a 48


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me), il citato George Martin dal fisico atletico (Quindici forche per un assassino, Professionisti per un massacro), atto a sostenere anche parti di cattivo (Per il gusto di uccidere, Il ritorno di Ringo). Nel complesso i cast ebbero maggiori punti di forza nel campo avversario, dove potevano schierare attori d’indubbia vitalità come Klaus Kinski, divenuto, dopo il ruolo interpretato in Per qualche dollaro in più, il principe delle nevrosi (con inclinazioni perverse); o Fernando Sancho - il quale però, con poche eccezioni, altro non fece che reiterare per oltre dieci anni il medesimo personaggio abbigliato con giaccone scarlatto fornito di bandoliera e decorato di alamari -; o Frank Wolff, che seppe invece variegare anche fisicamente il suo inventario di villains; o ancora Eduardo Fajardo, interprete spagnolo ricordato soprattutto per il ruolo dell’ex ufficiale in Django13. Il primato dell’antipatia va in ogni caso assegnato al tedesco platinato Horst Frank 14. 2. Forse per i motivi suaccennati ebbe tanto successo l’idea di proporre la coppia. Dobbiamo premettere che nel genere western la coppia maschile segue un duplice binario: in senso lato l’opposizione buono-cattivo, legata spesso da stima reciproca e da uguale padronanza nell’uso delle armi; più strettamente la coppia di eroi testimoniata da una tradizione comprendente classici come Il fiume rosso e Sfida all’OK Corral. Soggiace al mantenimento di tale seconda unione (talvolta anche della prima) una temperie psicologica che non esclude connotazioni omosessuali: in film come Gli fumavano le Colt... lo 50


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chiamavano Camposanto i due pistoleri ostentano una totale assenza d’interesse per il sesso femminile; in C’è Sartana: vendi la pistola e comprati la bara! la coppia Sartana-Sabata (il bruno e il biondo) rinuncia alla bellissima Erika Blanc per fuggire col consueto carico d’oro. Sembra che i protagonisti tengano fede alla frase di Marcos in Lo irritarono... e Santana fece piazza pulita: “Quando tra due uomini ci metti una donna, è sempre la fine di un’amicizia” (per esempio in Quindici forche per un assassino la presenza femminile è causa di contrasto tra gli amicinemici Craig Hill-George Martin). La coppia dev’essere fondata su di un forte contrasto di età, di carattere, di vestiario, altrimenti si cadrebbe in uno sdoppiamento superfluo. Nel genere italiano ne abbiamo il primo esempio in Per qualche dollaro in più e gli ultimi quasi al termine del ciclo (Amico stammi lontano almeno un palmo, I senza Dio). L’eredità leoniana si palesa quando si pongono in scena un anziano e un giovane destinati talvolta a fronteggiarsi (Da uomo a uomo, L’ultimo killer, All’ombra di una Colt, I giorni dell’ira), mentre il raddoppiamento dell’eroe può rivelarsi adatto a rinforzare una basilare debolezza recitativa (sebbene in taluni casi si tratti di una battaglia persa, vedasi Angelo Infanti in Ballata per un pistolero). Un caso particolare è costituito dalla coppia formata da un europeo e un messicano o sudamericano (Quien sabe?, Il mercenario, O’ Cangaceiro), in cui si palesano i limiti del superficiale progressismo dell’epoca: il primo, biondo ed elegante, è tanto sicuro di sé quanto malfidato, mentre il secondo è costantemente rappresentato come analfabeta, rozzo, violento, dai modi e dalla parlata 52


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degni di un facchino portuale. Possiamo citare tra le coppie più rappresentative quelle presenti in Una lunga fila di croci (Steffen contrapposto a “Bibbia” [William Berger] pistolero con palesi connotazioni omosessuali); Cjamango (Rassimov vs Hargitay, rappresentante governativo); Un treno per Durango (in cui un autentico attore come Salerno si associa ad un Anthony Steffen un tantino più disinvolto del solito); Tempo di massacro (che mette in scena due fratelli di padre diverso); Il momento di uccidere (due ex sudisti letali, Hilton e Barnes, il secondo dei quali funge da angelo custode del primo); Il tempo degli avvoltoi (in cui il giovane eroe è affiancato da un macabro pistolero epilettico); Sette Winchester per un massacro (una coppia di agenti governativi formata eccezionalmente da un uomo e una donna. 3. D’altro canto è giusto ammettere che nessuno offrì mai ad Anthony Steffen un copione del livello di Shane, anche perché gli sceneggiatori molto di rado ebbero l’accortezza di conferire una qualche rilevanza al settore femminile. Il western non è un genere misogino: è semplicemente antidivistico per quanto riguarda le donne. Pensiamo ai personaggi interpretati da Vera Miles nell’opera di Ford: Laurie (Vera Miles) conserva un rapporto costante col nomade Martin (Jeffrey Hunter) in Sentieri selvaggi, e diviene un perno narrativo in L’uomo che uccise Liberty Valance. Lo stesso Ford intitolò alcuni dei suoi principali western alle donne: My darling Clementine (che in Italia diviene immotivatamente Sfida infernale) o She wore a yellow ribbon (I cavalieri del nord 53


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ovest, identica osservazione) per terminare la carriera con Seven women. Il pistolero Shane decide di intervenire a sostegno di un nucleo familiare, quel medesimo nucleo che spingerà il capofamiglia Van Heflin ad affrontare il rischio in Quel treno per Yuma; e sarà appena il caso di ricordare la provocante Angie Dickinson di Rio Bravo (in Italia titolo alla mafiosa: Un dollaro d’onore). Nella saga italiana, come accennato, troviamo invece di rado sceneggiatori disponibili a focalizzare con serietà l’attenzione su personaggi femminili: interpreti belle e affascinanti non mancano, però manca quasi sempre la volontà di conferir loro un ruolo chiave. Anche The Belle Starr story, pur scritto e diretto da una donna (con una protagonista insostenibile), ostenta una tipologia narrativa prettamente maschile. Tra le eccezioni non va omessa la saga di Ringo, con i bei personaggi di Lorella De Luca e Nieves Navarro; e indubbiamente la passeggiata di Rosalba Neri lungo la strada di Fulton City in Killer adiòs avrebbe meritato qualcosa di più dello sguardo atono di Peter Lee Lawrence. Di un certo interesse il film di Martìn The bounty killer, in cui vediamo la donna del bandito contribuire attivamente all’evasione del suo compagno. Talvolta è rinvenibile una componente di erotismo: Testa o croce di Pierotti si appaia alla produzione softcore di voga in quegli anni, John il bastardo di Crispino si ispira al mito di Don Giovanni mischiandolo con una scarsamente documentata belligeranza di mormoni, Dinamite Jim tenta di porre in primo piano un Casanova dai tratti singolarmente nordeuropei, mentre in altri casi si tratta di un elemento manifestamente inserito per incrementare 54


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gl’incassi (Il tempo degli avvoltoi, Spara Joe... e così sia!); diversamente, gli intellettuali Baldi e Cerami imbastiscono in Blindman una improbabile storia costruita su cinquanta (!) belle ragazze da scortare nel Texas con abbondante sfoggio di epidermidi e violenze gratuite. Il pistolero dell’Ave Maria elegge coprotagonista una Clitennestra messicana nei panni (non eccelsi) di Luciana Paluzzi; Per pochi dollari ancora ci offre uno dei pochi personaggi femminili simpatici e disinvolti, forse non casualmente interpretato da un’attrice straniera (Sophie Daumier); e una certa rilevanza possiede nel tardo California la storia d’amore tra il protagonista e la bella Paola Bosè. Una discreta focalizzazione sui personaggi femminili può inoltre trovarsi nell’opera di Giuseppe Vari (Degueyo, Prega il morto e ammazza il vivo, dove vediamo quattro donne in una situazione a metà tra Ombre rosse e Ore disperate) e in quella del bravo Giraldi (le allieve pistolere in Sugar Colt, uno dei pochi film “nordisti”, in cui troviamo anche una singolare coppia di bariste). Non mancano d’altro canto le convenzionali prostitute da saloon abbigliate di scarlatto o di azzurro (l’eroe, a differenza di Shane, non si mantiene sempre casto), con le quali è d’obbligo sghignazzare in permanenza, e le donne del bandito da maltrattare ad ogni minima occasione. Ma a conti fatti la maggior parte delle volte la donna è un semplice pretesto. Quando veniamo informati che il protagonista di Preparati la bara! è sposato (un eroe western accasato!) possiamo essere certi della sua imminente vedovanza come della successiva rivalsa (al nostro eroe non è concesso di mantenere alcun legame: anche la promessa sposa del prota56


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gonista viene eliminata proprio all’inizio di L’ira di Dio); quando Pilar in Perché uccidi ancora prima di morire confessa a Steven di averlo sempre amato la cosa non commuove perché non preceduta da una storia d’amore adeguatamente sviluppata15; quando vediamo un cacciatore di taglie in Diecimila dollari per un massacro teneramente coinvolto in una storia d’amore con la bella Mijanou (Loredana Nusciak) non dobbiamo fare altro che attendere il momento in cui quest’ultima sarà eliminata dal crudele avversario. In altri casi abbiamo personaggi che ricoprono un ruolo puramente decorativo, sia dalla parte dei buoni (Cinquemila dollari sull’asso) sia da quella dei cattivi (la donna del capo in Il lungo giorno del massacro); ma in linea generale l’elemento femminile nel western italiano rappresenta una semplice occasione di sfogo per l’aggressività maschile, e non si sottraggono a questa tendenza anche personaggi che sembrerebbero meritevoli d’attenzione come Julie in I vigliacchi non pregano, alla fine involontariamente uccisa dal suo uomo. Lungo sarebbe l’elenco – che rinunciamo a formulare – di opere in cui i personaggi femminili sembrano inseriti solo perché vengano loro riservati i più vari generi di maltrattamenti e soprusi16.

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FALSOPIANO

CINEMA

Alessandro Marini Bertolucci. Il cinema, la letteratura. Il caso Prima della rivoluzione

Ignazio Senatore Conversazione con Giuseppe Piccioni

Claver Salizzato I Gattopardi e le Iene. Gli splendori (pochi) e le miserie (tante) del cinema italiano oggi

LE ARTI

FALSOPIANO

Federica Natta L’inferno in scena. Un palcoscenico visionario ai margini del Mediterraneo

Roberto Morpurgo L’Autoritratto

In libreria e su www.falsopiano.com (le spese di spedizione sono gratuite)


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