Rincorsa alle ombre

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Rincorsa alle ombre Scritti di cinema

Guido Gerosa

Guido Gerosa

Primo volume: gli inizi

Guido Gerosa (1933-1999), è stato una delle grandi firme del giornalismo italiano. Giovanissimo, ha iniziato a collaborare al quotidiano “La Notte”, per poi diventare inviato speciale e corrispondente dagli Stati Uniti di “Epoca” (di cui sarà in seguito direttore) e dell’“Europeo”. Vicedirettore del “Giorno”, nei suoi articoli ha raccontato ogni aspetto della società contemporanea: le guerre, la politica, i più significativi fenomeni di costume. Grandi fatti e movimenti della storia che ha descritto anche nei suoi libri, da Cronache dell’età atomica a I cannoni del Sinai. La sua grande passione per il cinema risale ai tempi del Liceo (dove conosce il poeta Vittorio Sereni), un interesse che ha coltivato per tutta la vita. Non a caso, le sue prime prove giornalistiche, contenute in questo volume, sono recensioni di film e saggi su autori e registi, spesso con intuizioni lungimiranti che hanno anticipato di molti anni certe riscoperte della critica, come la precoce analisi dei film di Ferdinando Maria Poggioli (in Da Giarabub a Salò, pubblicato nel 1963 dalle edizioni di “Cinema Nuovo”). Negli anni ’50 e ’60, dopo avere vinto il prestigioso Premio Pasinetti-Cinema Nuovo, Gerosa pubblica un gran numero di saggi sulle riviste più autorevoli del settore, da “Cinema” a “Bianco e Nero”, dalla “Rassegna del film” a “Schermi” (dove è stato redattore), affiancando il suo nome a quello dei più importanti critici e studiosi, da Guido Aristarco a Luigi Chiarini, a Morando Morandini. Negli anni ’60 continua ad occuparsi di cinema a “Epoca”, con interviste esclusive a dive come Gene Tierney e a maestri del calibro di Mario Soldati. Successivamente riprenderà l’antica passione per il cinema e la televisione scrivendo una serie di interventi su “Telesette” e “Film TV”, raccontando con immutato entusiasmo, con la profondità del teorico e la curiosità del cronista, un mondo che l’ha sempre affascinato. Questo libro, il primo di due volumi a lui dedicati, racconta i suoi primi passi, in larga parte inediti, come critico e studioso di cinema.

www.falsopiano.com/guidogerosa.htm

Rincorsa alle ombre. Scritti di cinema Primo volume: gli inizi

Con una prefazione di Roberto Lasagna

Guido Gerosa

Rincorsa alle ombre Scritti di cinema

Primo volume: gli inizi

€ 19,00 FALSOPIANO FALSOPIANO


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LA NOBILE

ARTE

una collana ideata da Lorenzo Pellizzari


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“Il giornalismo è un appassionante illudente e deludente rincorsa alle ombre. Ma è anche l’unica forma di poesia rimasta al nostro tempo”. Guido Gerosa


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FALSOPIANO

Guido Gerosa

Rincorsa alle ombre Scritti di cinema Primo volume: gli inizi

LA NOBILE

ARTE


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Ringraziamenti: Un grande grazie a Giorgio Lotti per la foto di copertina, un sentito ringraziamento a Davide D’Alto e a Roberto Lasagna per l’entusiasmo e la passione. Un ringraziamento a Irene Lodrini e allo studio editoriale Lettori Sperduti, per il paziente lavoro di trascrizione dei testi. Mario Gerosa


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INDICE

C’è sempre un domani, nonostante tutto di Roberto Lasagna

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I QUADERNI (1949-1954) I sacrificati Cielo sulla palude Il sole sorge ancora Stanotte sorgerà il sole I cavalieri del Nord-Ovest Altre annotazioni su I cavalieri del Nord-Ovest Il giardino di Allah La vergine scaltra Dio ha bisogno degli uomini La volpe Il massacro di Fort Apache La malquerida La fonte meravigliosa Il sentiero del pino solitario Bill, sei grande! C’è sempre un domani Lettera a tre mogli Alba di gloria Rio Bravo Prima colpa

p. 17 p. 18 p. 20 p. 21 p. 23 p. 25 p. 33 p. 34 p. 35 p. 38 p. 39 p. 41 p. 43 p. 44 p. 45 p. 46 p. 48 p. 50 p. 51 p. 53


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Due bandiere all’Ovest Il Cristo proibito Uragano L’eterna illusione Viale del tramonto Il grande campione Nata ieri Eva contro Eva Don Camillo Rommel, la volpe del deserto Umberto D. Desiderio Personaggi de La terra trema Stromboli (terra di Dio) Mezzogiorno di fuoco La prova del fuoco Operazione Cicero Max Linder Il cammino della speranza Un uomo tranquillo Il tesoro di Arne Le chapeau de paille d’Italie La gente mormora A me la libertà Giochi proibiti Dura lex L’incrociatore Potemkin

p. 55 p. 55 p. 58 p. 61 p. 62 p. 64 p. 64 p. 66 p. 68 p. 69 p. 70 p. 74 p. 77 p. 83 p. 84 p. 86 p. 88 p. 89 p. 92 p. 94 p. 95 p. 96 p. 97 p. 98 p. 102 p. 103 p. 103


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La kermesse heroique Strada sbarrata Roma città aperta Due soldi di speranza Roma ore 11 Le ragazze di Piazza di Spagna Walt Disney Doppio gioco Furore Vittoria sulle tenebre Sotto il cielo di Parigi Viva Zapata Monsieur Verdoux Festival Charlot I dannati Altri tempi - Zibaldone n. 1 Teresa Le sedicenni Mata Hari Fantasmi del mare Fanfan la Tulipe Il brigante di Tacca del lupo I miserabili (3 episodi) La gang Morte di un commesso viaggiatore 1860: un film vivo Pietà per i giusti

p. 104 p. 105 p. 107 p. 108 p. 110 p. 112 p. 113 p. 114 p. 115 p. 117 p. 118 p. 121 p. 121 p. 124 p. 127 p. 129 p. 132 p. 134 p. 137 p. 138 p. 140 p. 141 p. 141 p. 142 p. 143 p. 145 p. 149


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Io sono un evaso Carica eroica Quatorze juillet Ragazze da marito Vivere in pace La provinciale Il sole splende alto Lungo viaggio di ritorno Ragazze viennesi Europa ’51 Dies irae Maria di Scozia Il bandito della Casbah Vite vendute Il bruto e la bella Il grande cielo Un americano in vacanza Ruby fiore selvaggio Molti sogni per le strade Napoletani a Milano Il cacciatore del Missouri La lupa Moulin Rouge Un marito per Anna Zaccheo Il cavaliere della valle solitaria La marsigliese

p. 152 p. 153 p. 154 p. 155 p. 157 p. 158 p. 159 p. 161 p. 162 p. 163 p. 164 p. 164 p. 165 p. 166 p. 167 p. 168 p. 172 p. 173 p. 174 p. 175 p. 176 p. 177 p. 181 p. 183 p. 185 p. 188


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Uomini sul fondo Stazione Termini Miracolo a Milano Ultime della notte Amore in città Il tesoro dell’Africa Odio implacabile Pane, amore e fantasia Narciso nero Gli orgogliosi Un tram che si chiama Desiderio Panico Mogambo Grisbì Poetica e poesia di Chaplin in Limelight Le belle di notte Les bas-fonds Terza Liceo La regina Cristina Da qui all’eternità La sete del potere La vita del Dr. Koch La romana

p. 188 p. 189 p. 192 p. 193 p. 193 p. 198 p. 198 p. 199 p. 200 p. 201 p. 204 p. 207 p. 208 p. 210 p. 211 p. 214 p. 215 p. 216 p. 217 p. 218 p. 222 p. 223 p. 224


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DOPO I QUADERNI: UN CRITICO E IL SUO PUBBLICO La viaccia

p. 231

“Marienbad”: favolosa ricerca del tempo perduto. L’anno scorso a Marienbad (L’annèè dernière à Marienbad)

p. 233

I “fusti” della celluloide

p. 235

Le voci in technicolor

p. 238

Si facevano prestare i mobili i registi del neorealismo

p. 241

Le correnti ideali del cinema italiano sono diventate la negazione p. 243 Realismo borghese e “generazioni bruciate”

p. 246

I tradimenti del vitellone ed il belletto della Romana

p. 248

“I Mille” di Blasetti salvarono il cinema italiano

p. 251

Il cinema italiano è morto: viva il cinema italiano

p. 254

Quando possiamo dire che un film è bello?

p. 257

Come si giudica un film!

p. 260

Perché un film è bello

p. 262


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Rincorsa alle ombre. Scritti di cinema

C’è sempre un domani, nonostante tutto di Roberto Lasagna Una raccolta degli scritti sul cinema di Guido Gerosa, grande giornalista e scrittore il quale, sin dagli anni dell’immediato secondo dopoguerra - frequentati da ideologie prevaricanti -, seppe smarcarsi e coltivare l’arte della recensione cinematografica con il gusto personale di un osservatore-viaggiatore, difendendo punti di vista aperti e in grado di comprendere i tempi. Stile, competenza, sguardo ampio, cultura senza steccati, per una scrittura calda e mai pedante, propria di un conoscitore del suo tempo in grado di coinvolgere il lettore, appassionandolo, per indirizzarlo in una rigorosa lettura come visione, scelta di campo, introduzione al conoscere attraverso il cinema. Nemmeno maggiorenne, Guido Gerosa, classe 1933, iniziò ad appuntare minuziosamente le sue recensioni sui suoi taccuini, e questo libro documenta quei primi scritti inediti, testimonianza dell’incontro tra una mente fertile e il maggior mezzo di comunicazione culturale dell’epoca. Sin dai precoci esordi, sorprende come egli sapesse rivolgersi al potenziale lettore per aiutarlo a formarsi un giudizio, in un’adesione sentita agli eventi che coinvolgevano tutti. Ed è impressionante riconoscere come Gerosa comprese quello che molti altri non riuscivano a percepire con uguale vibrante pienezza. In questo primo libro (cui seguirà un secondo) possiamo già ammirare spunti e pagine di precoce giornalismo, una professione un giorno vissuta con la stessa fede per l’esperienza del vero degli esordi; Gerosa, attraverso l’argomento cinematografico, filtra il presente offrendo una prospettiva in grado di darsi quale testimonianza autorevole anche e soprattutto per i giovani lettori sempre alla ricerca di un orientamento tra le opere dei cineasti. Un dialogo tra il giovane critico e il lettore, con i doni della musicalità, della chiarezza e di una naturale raffinatezza, per incorniciare ogni film in un divenire disposto a riflettere una prospettiva precisa e personale del proprio tempo. Gerosa non si dedica a lapidarie sentenze, ma accoglie l’aspetto interessante, anche in un film meno riu-

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Guido Gerosa

scito. E sa guardare al valore, portarlo alla luce, interpretare la coerenza come risultato armonico di un discorso e mettere in primo piano anche il coraggio. Così, l’opera faro del neorealismo cinematografico, Roma città aperta, è per l’autore una delle più ricche di verità umana, di potenza espressiva, di poesia. Sono le qualità stesse che non soltanto il cinema, ma anche il giornalismo, dovrebbero sempre possedere, caratteristiche puntualmente rintracciate dalle analisi dei film ad opera di Gerosa, animate da passione civile e vibranti di un respiro disposto a lasciar emergere, con gusto poetico, aspetti che un film è in grado di restituire. Rossellini è accolto come l’artista incline per temperamento a certi eccessi di dannunzianesimo ma che in Roma città aperta seppe dimenticarli “per creare un mondo di ansie, di passioni, di sopite speranze: il più vero che fosse mai apparso nel cinema italiano”. E in questo neorealismo, Gerosa coglie l’arte nuova che dona vera umanità al percorso di un artista, come Rossellini (ma non soltanto lui), il quale si smarca dalla letteratura realista e guarda al nuovo cinema come a un regalo del futuro. Una maturazione che è qualcosa di atteso e auspicato, strettamente legata al discorso portato avanti dal cinema ma che in Gerosa si declina presto in attitudine di metodo, di cultura, quale rincorsa alle ombre, secondo la sua splendida definizione di giornalismo, per lui “appassionante, illudente e deludente” ma anche la sola “forma di poesia rimasta al nostro tempo”. Una poesia che deve essere ricercata, inseguita, nei servizi giornalistici e nei racconti cinematografici, e che ritroviamo nelle descrizioni del critico, in grado con originalità di cogliere definizioni ancora oggi emblematiche dei protagonisti dei molti film analizzati, tra cui, propriamente, quelli del rosselliniano Roma città aperta: “figure evocate da una fantasia creatrice ed elevate nella sfera della poesia: quella popolana, così immediata nei suoi affetti, sincera e dolorosa; il prete che condivide il tormento dei suoi fratelli, pure chiede a Dio perdono di aver maledetto quegli altri, espressione di una fede non ipocrita ma luminosa; e Manfredi, il martire, presago del suo destino; e Marina, tragica creatura che, nelle sue apparizioni, vive tutto un dramma interiore”. Elegante, articolato, intenso, il quadro di riferimenti che Guido Gerosa restituisce con i suoi scritti possiede un gusto letterario calato in

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Rincorsa alle ombre. Scritti di cinema

profondità: scandaglia un itinerario di domande ai film e le replica al lettore. L’autore va alla ricerca di una verità prediletta nei toni della poesia, riconosciuta nell’esempio di alcuni maestri: tra tutti, quelli americani e quelli francesi. In questa raccolta di meditazioni attente, spicca, tra gli altri, il magistrale brano “Poetica e poesia di Chaplin in ‘Limelight’”, in cui Gerosa introduce alla poetica chapliniana lasciandoci comprendere molto bene le scelte e il dramma del personaggio. Il critico dipinge con note sapienti ipotesi di risposte a interrogativi, tra cui “cos’è la vita, per Chaplin?”, e invita a pensare come la grandezza delle scelte del personaggio, e insieme il suo dramma, siano racchiusi in questa definizione gerosiana così vibrante e umana della condizione di Calvero: “È il seguire il dettame della nostra coscienza, superiore al vano brillare delle stelle od alla luce del sole priva del pensiero”. Un’interpretazione dell’esistenza dell’artista interpretato da Chaplin il quale, sul finir della vita, sente di non poter accettare il sacrificio (l’amore) a cui l’amata Therry si dice disposta. Ultimo gesto che regala al film il grande pathos che Gerosa e lo spettatore gli riconoscono. Ma questa, come altre analisi contenute nel libro, sono tra le numerose gemme di una scrittura da riscoprire, da portare oggi a nuova luce. Un percorso di incontri con film e cineasti ritrovati, laboratorio di riflessioni e dialettica che porterà Guido Gerosa a scrivere, giovanissimo, sul quotidiano La provincia per incontrare nel 1952 il primo vero incarico per il giornale La notte, cui farà seguito nel 1964 la nomina di corrispondente dagli Stati Uniti per Epoca dove potrà intervistare Martin Luther King e il senatore Bob Kennedy. La sua luminosa carriera di giornalista e scrittore (nel 1968 Guido Gerosa lascerà Epoca e sarà assunto all’Europeo diretto da Enzo Biagi, scriverà numerosi articoli di costume e di cinema per Gente e sarà poi vice-direttore de Il giorno fino al 1994), la sua passione viva per la storia e i suoi protagonisti (con molti libri e saggi divenuti dei modelli), trova le sue premesse di freschezza e intensità anche nelle pagine delle recensioni raccolte nel presente volume, dove il racconto in successione dei film si propone come un romanzo del proprio tempo. Una stimolante collezione di punti di vista in cui si ritrovano, immancabili, gli

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amati John Ford e John Huston, la concezione moderna secondo cui i “personaggi di un’opera sono sempre immagini di uno stato d’animo del loro autore” (proprio così inizia la recensione de La fonte meravigliosa di King Vidor), l’attenzione per quei narratori - tra i quali, ad esempio, Delmer Daves - in grado di valorizzare aspetti storici e di cogliere la psicologia dei personaggi femminili. Ma il libro racchiude in pagine profonde anche il riconoscimento del valore di umanità tributato ad alcuni autori del cinema italiano, al confronto con altri cui difetta, secondo il giovane critico, una prospettiva condivisibile, al di là del sensazionalismo più o meno dominante. Un viaggio tra gli esiti espressivi del cinema dei vari paesi, dove la scrittura di Guido Gerosa conserva tutta la modernità del suo sguardo, l’elevatezza di una misura frutto di un’elaborazione personale e di una concezione poetica e comunicativa del cinema: forma d’arte in grado di sperimentare l’artificio, di aprirsi alla dimensione simbolica e lasciare nel giovane critico i prodromi di quell’attitudine eclettica che il giornalista e scrittore maturo sperimenterà, senza preclusioni geografiche e senza pregiudizi, regalando pagine memorabili già finemente anticipate dai suoi esordi. Osservazioni e punti di vista che assumono molto presto una forma elegante, coerente, matura. E quello di Guido Gerosa è sempre un racconto alto e coraggioso, ma rispettoso, dichiaratamente personale, in cui il giovanissimo critico prende posizione e si scopre aperto a nuovi orizzonti, gli stessi che la sala cinematografica e il giornalismo restituiscono a una mente curiosa e generosa, l’indomani dei tremendi conflitti e nell’euforia di un nuovo futuro. Un’ultima annotazione: la cura di questo volume (e di quello successivo) era stata affidata all’appassionata competenza di Lorenzo Pellizzari. Aveva accettato con entusiasmo: lo incuriosiva ricordare un amico che aveva conosciuto ai tempi di “Cinema Nuovo”. Purtroppo Lorenzo non ha potuto portare a termine il lavoro. Il suo contributo, ne sono certo, avrebbe reso questo libro ancora più prezioso.

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Rincorsa alle ombre. Scritti di cinema

I QUADERNI 1949-1954 I testi che seguono, presentati in ordine cronologico, sono tratti integralmente dai quaderni di recensioni e riflessioni sul cinema scritti in età giovanile da Guido Gerosa (nato a Fiume nel 1933). Un diario personale che corre parallelo all’esordio giornalistico (sul quotidiano “La Provincia”) e poco dopo alla prima collaborazione professionale con il quotidiano del pomeriggio “La Notte”, diretta allora da Nino Nutrizio. I sacrificati regia: John Ford I sacrificati, opera mediocre sulle gesta delle siluranti americane nel Pacifico. Ford, che era stato capitano con una di queste unità navali, “doveva” scrivere qualcosa in merito: e fece dai documentari a questo “Sacrificati”, cronachistico per la maggior parte e scarso di vera umanità, stracco come stile, valido solo per due o tre sequenze in cui s’avverte il tono epico-lirico della poesia fordiana. Il difetto del film sta nella non vitalità dei suoi personaggi: c’è in essi un che di meccanico, di arido che li rende immaginabili solo a bordo della motosilurante, senza sentimenti od affetti, esseri come sono oratorii, propagandistici. La guerra, poi, è sentita come documento, cronaca, senza uscire dai limiti di una descrizione prosastica. La poesia si trova in una o due sequenze che potrebbero essere inserite in una futura antologia dei brani significativi contenuti nelle opere minori di Ford. Citiamo: la sequenza del S. Francisco, in una casa della foresta filippina i marinai americani si sentono alla radio la notizia della caduta di Bataan, quindi la cara musica di S. Francisco - voci di patria, di madri, di mogli, di amanti - rasserena il loro animo e i loro volti scavati succedentisi in uno splendido ritmo di immagini. Una pagina epica e la salita dell’ammiraglio sulla motosilurante, la bellezza del brano sta

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tutta nel movimento spaziale, continuo, bello, compientesi nei quadri fissi cari a Ford; e l’avanzare ritmato delle persone da destra verso il centro del quadro, lo spostarsi dell’attenzione verso la grande motosilurante che ondeggia nel mezzo, danno il senso del movimento dell’esercito, del concretarsi di quella nuova epopea dello spirito americano, che fu la lotta di Bataan, di Luzon, di Corregidor. (Dicembre 1949) Cielo sulla palude regia: Augusto Genina Cielo sulla palude è una delle opere più interessanti ed impegnative viste ultimamente, ricca com’è di pregi ed anche di difetti; e rivolta verso problemi sociali, psicologici e stilistici. Veramente, l’angoscioso “grido sociale” pianto sulla miseria umana ed insieme atto di accusa, è escluso dal film di Genina che risolve il problema sociale posto - la condizione umana dei lavoratori del malarico Agro Pontino, con una quieta concezione che potremmo chiamare “della Provvidenza”. Genina non intende loro lotta sociale come una ribellione dell’uomo spinto da passioni interessi di classe. Per lui, i casi umani sono regolati dalla Provvidenza che, anche quando ci manda delle disgrazie, prepara gioie più certe e trasmuta in bene quello che, dal nostro limitato il relativo punto di vista, ritenevamo male. A Dio si crede o non si crede. Non fare cose cattive, arresto ci penserà la Provvidenza - questa è l’etica dei Goretti, rassegnati e speranzosi fronte agli schiaffi della vita. Il centro dell’opera non è però la Provvidenza o l’ansia sociale, quanto la tragedia di un animo, quello della candida Maria Goretti, la quale fu realmente uccisa da un giovane che invano aveva tentato di farla sua, agli inizi di questo secolo. È inteso che in queste note mi riferirò ai caratteri psicologici della Maria Goretti di Genina, e non di quella vera. Fanciulla prevalentemente inclinata al senso nell’accezione vichiana, cioè a divinizzare e teologizzare tutto ciò che la circonda, ella avverte dappertutto, nella realtà, simboli visioni e fantasie: si spiega

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così la poetica adorazione per il mare “quasi grande come il cielo” nelle cui onde azzurro chiare costellate di spume intuisce forse l’eterna armonia della creazione, così l’estasi di fronte alla chiaroscurale campagna del tramonto, che parla di musica, di chiesa, di paradiso, di Dio. Ed allorché il vecchio contadino le dice, in tono oscuramente profetico, della serpe che “si vendica ed uccide chi l’ha colpita”, se non la si previene, Maria ci pensa su, e ricerca quasi una spiegazione simbolica di quelle parole così dure. Il contrasto che la spezza è quello delle anime mistiche, tra l’amore e la fede, tra la vita che è amore, che è esistenza febbrile, e la morte che è la non-vita, il riposo, un gaudio trascendente (e Maria pensa che deve dare le stesse emozioni del vedere il mare turchino o dell’udire la musica in chiesa). La creatura fantasiosa, portata ad ingrandire e divinizzare ciò che non conosce, ripudiate confusamente le cose cattive, si sente attrarre irresistibilmente dalla morte, da questa non-vita strana e bella appunto per il suo mistero. E qui si rivela una debolezza di analisi psicologica. Maria decide per la morte dopo che conosce la vita, l’amore trionfa su questi sentimenti, affermando la sua santità: tra Dio e il mondo sceglie Dio. Le sue reazioni prima della scelta e del conseguente martirio, la conoscenza del male, la tragedia del suo animo, non sono sufficientemente spiegate. Perché Maria, essere mitico e quindi passionale e facilmente mutevole non cede ad Alessandro? Quali sono i “moti” che la inducono alla morte? Manca, in parte, quella poesia dell’adolescenza che si tramuta in maturità, della vita che si manifesta, quella poesia di Ditte Menneskebarn. E forse ciò è da imputarsi alla vena di Genina, che, salvo in alcuni momenti (sequenza della “preghiera serale” e del “mare”) non è un regista-poeta. D’altronde gioca in queste insufficienze drammatiche uno dei principali pregi (o difetti?) Del film: il pittoricismo. Si avvertono assai l’influenza pittoriche che vanno da Segantini a Patini: certi cieli densi di “colore”, la stessa composizione del quadro con la dosatura di effetti chiaroscurali che che valgono a mostrare le grandi possibilità di Ines Orsini, affatto conscia della sua posizione nel quadro ed a volte esempio di pudovkiniano attore illuminato. Se talora questa pittura crea la voluta atmosfera di “suspense “lirica quasi in isolamento dal tempo e dallo spazio, astrazione dalla realtà che, proprio in quanto astrazione, può essere espressa in toni non ci-

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nematografici, altre volte toglie aria al clima fortemente drammatico, determina una dispersione di valori. È uno dei difetti stilistici più ricorrenti: ve n’è anche di altri. Comunque il livello artistico del film e notevole; ed attesta, se ve n’è bisogno, la vitalità del cinema italiano. (Gennaio 1950). Il sole sorge ancora (1946) regia Aldo Vergano Il gruppo di “Cinema”, sorto all’ombra della rivista omonima, fu un movimento culturale che in tempo di dittatura radunò le nostre migliori intelligenze cinematografiche e pose le basi di quell’attività critica che doveva dare i suoi frutti nel dopoguerra. Alcuni di questi studiosi collaborarono a realizzare il precorritore film di Vergano, Il sole sorge ancora. In quest’opera, il tema dominante è dato dall’aspirazione alla libertà, alla pace casalinga, dal contrasto fra il lusso e la miseria. La società descritta da Vergano è quella dei miseri, mondo di affetti paesani e di semplicità: ad essi va tutta la simpatia dell’artista allorché descrive la multiforme popolazione del paese che assiste, in composto dolore, alla fucilazione del parroco, e l’idillio reticente e silenzioso che fiorisce tra Cesare e Laura e la sofferenza della lotta partigiana. E la catarsi si ha allorché, terminata la guerra ed inaugurato il primo ballo pubblico, i giovani sposi guardano dalla finestra, felici di aver conquistato la pace del focolare domestico, la tranquillità. Siamo alle stesse sorgenti che arricchiscono l’arte del Verga: anch’egli ritrae una “verità” insita nelle figure reali, un popolo, l’amore è riservato e schivo di Alfio e Mena Malavoglia. E ritorna, in entrambe le opere, quello stesso lirismo del focolare domestico, della tranquillità raggiunta dopo aver tanto sofferto. Inoltre Vergano aggiunge un altro aspetto alla sua visione, il contrasto fra il lusso degli “sfollati” e la miseria degli abitanti del luogo: il quale è contenuto nel contrasto tra Matilde, impasto di carnalità e di malcontento, tipo di “foemina mors animae” baudelairiana, E la riservata, ma

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Rincorsa alle ombre. Scritti di cinema

fiera Laura, dalla bellezza più semplice ed immediata. Ma se nella descrizione dell’ambiente Vergano è felice, manchevole appare nell’analisi interiore dei personaggi, tanto che alcuni rimangono oscuri o retorici: il padre di Laura, gli sfollati ad eccezione di Matilde, il traditore, il tedesco. Personaggi completi sono invece Matilde, Cesare e Laura il cui primo incontro è reso molto efficacemente: lo stupore del reduce per la fresca bellezza di lei, l’allegria di Laura, quindi il suo riserbo. Lo stile di Vergano è volto ad una narrazione viva, realistica che ricorda la scuola russa: primi piani “lirici”, fotografia cruda che eleva di tonalità le ombre e le luci, figure che occupano il quadro di prepotenza con la loro procacità (Matilde), rusticana bellezza (Laura), drammaticità (il popolo); nel montaggio v’è una ricerca di emozioni continua, alla Eisenstein. È un linguaggio rigoroso che sottolinea il robusto lirismo del film che, visto a tre anni dalla sua pubblicazione, quando molti motivi d’attualità sono caduti, convince non di meno. Stanotte sorgerà il sole regia di John Huston L’amore per il romanzo di avventure è insito nella natura di John Huston; avventuroso era il suo Treasure of Sierra Madre, legato all’espediente non nuovo della ricerca di un tesoro ed a certi “effetti romanzeschi”, come i colpi di scena nel finale, dalla fuga alla morte di Dobbs. Su schemi di romanzo avventuroso e pure costruito We Were Strangers, storia di un tentativo rivoluzionario in Cuba gemente sotto la dittatura di Machado, in parte riassuntivo dei temi e delle esperienze di Houston. È un’opera che presenta dei personaggi inconsuetamente veri e coerenti, linguisticamente ricca, e per molti versi rivolta “contro corrente”, nel tentativo di svincolarsi dalle pastoie commerciali in cui si dibatte il cinema hollywoodiano; le nuoce la passione di Huston per il romanzo d’avventura risolventesi in situazioni e colpi di scena che, se aumentano la carica drammatica, disgiungono la descrizione da fini più rigorosamente artistici: così, ad esempio, la sparatoria finale che si

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chiude con una “morte dell’eroe” per nulla retorica ed anzi suonante aperto affronto al consueto convenzionalismo ipocrita di Hollywood, e la rivoluzione, che pare quasi un “surrogato “da lieto fine già evitato brillantemente. Fortunatamente, i personaggi non sono i soliti manichini dei romanzi d’avventura e, al contrario appaiono costruiti con scrupolosa cura per la loro verità e coerenza interiore quantunque, seppure completi come analisi psicologica non siano da considerare “persone poetiche”. Il personaggio poetico lo si crea con un continuo annotare, scoprire caratteristiche, affetti, slanci, momenti particolari: Huston non è un poeta, quindi le sue figure sono ottimamente delineate, credibili, coerenti, ma non escono dai limiti di una ben condotta narrazione, salvo in qualche punto particolarmente felice. Figure, quelle di Huston che rivelano la visione del loro regista, un senso di stanchezza, di infelicità, d’impotenza umana: la più vera è quella di China, la ragazza tutta presa nel vortice della lotta per l’esistenza, sofferente, “scalognata” - bruttissima parola di gergo che però rende l’idea -, un personaggio che appartiene ad Huston per la crudeltà espressiva con cui è tratteggiato (certe luci che “scavano” il volto mettono a nudo la fisionomia; e l’insistenza su una miseria, su un qualcosa di picaresco - si ricordi che il Tesoro della Sierra Madre aveva molto del romanzo picaresco - nella donna: ella si chiama China per quei suoi strani occhi obliqui, dorme nella stanza vicina a quella degli uomini che a volte vengono a svegliarla, lavora e vive insieme ad essi senza timori) e per eventuali delle derivazioni che ci sembra aver riscontrato dal cinema messicano la cui influenza su Huston è indubbiamente è forte, ma appartiene anche a Jennifer Jones, questa grande, magnifica attrice che sa infondere nel personaggio la sua irriverenza vitale, la passionalità, la sensualità che era il fondamento della figura di Perla Chavez, e lo fa vivere con le sue singolare capacità recitative: brano stupendo come recitazione, ad esempio quello in cui China, ferma sempre nella stessa posizione, col corpo che le trema un poco, fiera della sua bellezza di donna non bella, guarda Ariete ingozzarsi di cibo e vino. Anche le altre figure sono ben delineate: Toni, Ramon, il meccanico di biciclette che non vorrebbe uccidere ma alfine si persuade che “disubbidire ai tiranni è ubbidire a Dio”

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ed il rivoluzionario che canta accompagnandosi con la chitarra (canto che, anche perché ritornerà ad accompagnare la morte dell’eroe, ha un valore lirico a parte il fatto che l’idea di riso e del suo impiego sembra derivata almeno a noi, dal cinema messicano, segnatamente da Enamorada). Alla coerenza dei personaggi nuoce, s’è detto, l’esteriorità di certe soluzioni romanzesche; e ciò è peccato, in quanto pregiudica un’opera vigorosa, ricca pure linguisticamente. La lingua di Huston è costruita in parte su modelli di film-gangster in parte sulle opere messicane. Ma è stata rielaborata da una forte personalità, e lo si comprende dall’uso ch’egli fa dell’illuminazione e dei mezzi plastici in funzione psicologica (vedi seduta al Senato di Cuba) e dalla scelta delle angolazioni, sempre accuratissima. Doti che, in Stanotte sorgerà il sole, appaiono più che nelle opere precedenti: e questo dato di fatto può, senz’altro, ragguagliare sulla notevole importanza dell’opera. (Ottobre 1950) I cavalieri del Nord-Ovest regia: John Ford Ne i Cavalieri del Nord-Ovest sono individuabili alcuni motivi della poetica fordiana, segnatamente dell’ultimo Ford. Il capitano Nathan Brittles non è più il leggendario eroe del West, come in un altro senso non lo era il colonnello Thursday, ma piuttosto un uomo soggetto a tutte le debolezze e le meschinità umane; l’atteggiamento che l’artista prende nel confronto degli indiani e favorevole: Nathan, l’uomo bianco, e Pelle di Volpe, il pellerossa sono posti sul medesimo piano in quanto cacciarono assieme il bufalo ed assieme si ubriacarono, ed ora sono entrambi vecchi e stanchi, inetti per la guerra. Immutata è la “simpatia” di Ford per l’esercito, per la “servitù e grandezza militari”, la comprensione per i problemi dei “sacrificati” (l’abito borghese è chiamato ironicamente “vestito da prete”; e sulla vita militare il capitano fa amare considerazioni: “quando si è comandanti di uno squadrone sono in cento ad ubbidirti e servirti; ma il giorno dopo che sei andato in pensione, il maniscalco ti fa un gran piacere se ti ferra il cavallo”), la polemica con-

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tro le accademie militari e le scuole di guerra, i pivellini, i “primi della classe” contrapposti ai soldati formati nell’esperienza. E c’è anche, nel film il Ford poeta della storia, l’artista che alimenta la poesia con la fedeltà alla storia introducendo per incidente personaggi ed eventi (Custer, Sheridan Ulysses Grant presidente degli Stati Uniti, la Guerra di secessione) che danno un senso di concretezza storica alla creazione fantastica; ed è il Ford poeta nazionale, che comprende l’importanza della colonizzazione americana e fa l’apoteosi dei cavalieri del Nord-Ovest, che “dovunque andarono fecero la terra ove si svolgevano le loro imprese terra degli Stati Uniti”. Ma nella filmografia di Ford l’opera in questione è poco più di un’opera minore per la scarsità che vi si nota di analisi e rigore psicologico dei personaggi, per lo più convenzionali. Una figurina della quale Ford avrebbe potuto ricavare molte notazioni, quella di Olivia, - interpretata con freschezza e semplicità da Joanne Dru che ricorderete protagonista de Il fiume rosso - riesce piuttosto fredda, ridotta ad una stupida schermaglia amorosa con due pretendenti, ricalcata pedestremente dalla ragazza che c’è in Western Union (Fred il ribelle, 1941) di Lang. Solo per un momento acquista vitalità: quando, vedendo che il giovane da lei amato sta per rischiare la vita, cessa di stuzzicarlo, di ingelosirlo e lo bacia piangendo. Mancando l’unità interiore dei sentimenti, il racconto è tutto esteriore, concepito come un romanzo d’avventura alla maniera di Salgari, Mioni, Cooper. Lo stile è quello solito di forti, riscontrabile nell’uso dei movimenti di macchina nel modo di rappresentare il movimento attraverso il ritmo interno del quadro. Non mancano brani di singolare bellezza formale: le sfilate dello squadrone, l’avvistamento degli Arrapaohes in marcia della pianura, il guado del fiume. Ma sono parole cinematografiche prive di valore intrinseco, avulse da un contenuto umano quale c’era in Ombre rosse: parole senza un significato, come accade da un decennio nella produzione americana. Ma in questi tempi si sta verificando il mutamento: e forse l’opera di transizione è Cristo fra i muratori che, se non altro, ha il merito di dare alla vecchia parola cinematografica un contenuto, un concetto da esprimere, una dignità rinnovata. (Novembre 1950).

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Altre annotazioni su I cavalieri del Nord-Ovest Chi volesse accingersi all’opera invero non semplice di compiere una revisione storica e dare un giudizio sulla personalità di John Ford, tenendo conto delle sue opere importanti e meno importanti (e la lettura di esse costituisce un problema a se stante, superando il centinaio a detta dei più accreditati filologi), dovrebbe considerare una “caratteristica” di Ford, quella che è stata chiamata l’attitudine, di natura romantico-religiosa, a guardare criticamente la psicologia dei suoi personaggi. In mezzo ai giudizi più diversi e contrastanti, appare dalla letteratura sull’argomento il perfetto accordo su un punto: riconoscere a Ford una densa, fertile, calda umanità di personaggi. Ma non bisogna pensare che le creature fordiane siano così analizzate, fatte segno di una accurata e finissima introspezione, come quelle di Wyler: esse sono piuttosto ampi e profondi motivi psicologici in cui vive per lo più un monito ed un’esigenza morale. Ed è comprensibile la differenza fra i due artisti: in Wyler fine ultimo è il racconto, la prosa narrativa, perciò vi è una accurata e fine descrittiva dei personaggi che animeranno la finzione cinematografica; in Ford, invece, il personaggio è l’importante punto di partenza e di arrivo per sviluppare una visione complessa e talora poetica della vita. E siccome i personaggi di un autore sono sempre in fondo il loro autore stesso, diaspora ideale del suo sentimento, nelle figure femminili wyleriane troviamo Wyler, la sua precisa conoscenza dei moti del cuore umano, l’attenzione per i movimenti più segreti e riposti in esso, e nelle figure di Ford troviamo qualcosa di più complesso, il rapido scherzo psicologico viene tracciato nella mente, l’interesse morale, le inclinazione di un uomo irlandese, cattolico e religioso, la lezione del romanticismo. Nella concezione di Ford romanticismo e religione s’incontrano sempre, ma il primo assoggetta sempre la seconda e la piega ad una poetica che è quella di un romantico, non di un poeta cristiano. Un Ford poeta religioso è credibile solo per gli americani e per certi giornalisti cattolici: l’America, si sa, è un paese moralista e nelle opere d’arte le basta di trovare della religione, della psicologia, della morale, non importa se più o meno raffinate. Il popolo americano, notava giustamente Luigi Russo, è di facile e puerile con-

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tentatura in fatto di religione; e l’insigne critico ne traeva il corollario di una povertà della democrazia americana. Corollario errato, a mio parere, perché un popolo facilone in materia religiosa può essere acutissimo nello svolgimento della vita politica, tanto che i Romani, veramente puerili in fatto di religione, ebbero quel lustro politico e giuridico che tutti sanno. Comunque, solo in America potrebbe incontrare pieno credito una concezione religiosa vaga e romanticamente per null’affatto originale come quella fordiana; e se Ford può passare per il Paul Claudel cinematografico d’America, questo non fa tanto torto a Ford quanto all’America. O, meglio, fa torto alla scarsa penetrabilità di certi critici di giornaletti ecclesiastici nelle cose cinematografiche. Per difendersi dal laicismo e talora dall’estremismo degli scrittori cinematografici più noti, la Chiesa giustamente deve ricorrere all’opera di critici strettamente osservanti che però all’atto pratico non hanno neanche quella cultura formalistica e grammaticale che per lo meno era patrimonio dei padri Cesari di letteraria memoria. Incapaci a leggere, nei film, la vera concezione fordiana, costoro si perdono in strane interpretazioni: ed ecco creato il mito di un Ford poeta pienamente cattolico e religioso, il cui verbo sarebbe contenuto nel mediocre e calligrafico The Fugitive. Anche di queste deformazioni storiche dovrà necessariamente tener conto la critica su Ford: perché critica è, e dev’essere, anche storia della critica precedente. Cattolicesimo, sì, nella poetica fordiana, ma cattolicesimo mescolato ed unito ad elementi romantici, vagamente mistici, miracolistici. La concezione di Ford la possiamo ricostruire in base ad un’opera interessante, se pure propriamente poetica, Com’era verde la mia valle (1941), il film tratto dal bel romanzo di Llewellyn. Gli uomini, nello svolgersi della loro vita, sono chiusi come monachi, solitari e lontani: vivono esperienze spirituali pericolose, come accade ad Angela e al signor Gruffydd ad esempio, ma non riescono a comprendersi né tra loro che insieme compiono l’esperienza né tanto meno a farsi comprendere dagli altri. Non vi è una sincera solidarietà, una fraternità cristiana fra di essi: e Cyfartha si rifiuterà anche di scendere nel pericolo della miniera insieme al suo compagno Dai Bando. Lega queste creature una forza che, se fosse la provvidenza, giustificherebbe in gran parte il cre-

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dito ad un pieno cattolicesimo di Ford: ma non è la provvidenza, è qualcosa di più vago e nebuloso, un “destino” romantico. Quello stesso destino che unisce la moglie dell’ufficiale e il medico e la prostituta e lo sceriffo e gli altri sulla diligenza di “Ombre rosse”, e gli uomini sul camion di “Furore”, ed i marinai sulla nave del “Lungo viaggio di ritorno”. Drammi non tanto di Dio quanto del destino, presente anche nelle parole della madre dei Morgan quando dice: “Per me non esiste carta geografica né continenti; i miei figli sono tutti sparsi per il mondo, ma io li sento tutti vicini a me e questo basta”. Ad un certo momento il destino lascia il posto alla fiducia in Dio: ma anche qui essa ha qualcosa di miracolistico, di romantico, le donne “sentono” oscuramente nel finale che Morgan è morto. Religiosità sì, ma contaminata da motivi e da ansietà tipicamente romantiche, palesi in pagine tormentose ed agitate come quelle dei vibranti colloqui di Gruffydd ed Angela e del matrimonio di Angela. Questa concezione fordiana, per la sua religiosità più umana e romantica che totale, può estendersi anche a vicende che non riguardino strettamente conflitti spirituali e religiosi; la si ritrova così nei maggiori film fordiani, dai “western” alle opere “sociali”. Essendo una poetica vaga ed agitata, è la più adatta per una vita drammatica dei personaggi, ricchi proprio per il romanticismo, la mancanza di organicità nel pensiero del regista, la sua vena patetica. Ne escono figure insolitamente ricche di tormento interiore, di umanità che inutilmente va alla ricerca della luce. E, nei suoi momenti migliori, quest’arte rispecchia, molto più profondamente che non il giuoco narrativo di un Wyler, la vita morale dell’America, cogliendola in quella sua appassionata ricerca di un moralismo pratico, naturale, che è una delle necessità più profondo e sentite nella società americana. Ben poca attenzione ha dedicato la critica a I cavalieri del NordOvest (She Wore a Yellow Ribbon, 1949): mentre questo film ha una notevole importanza per quel che riguarda uno sfiorire dei motivi poetici fordiani, una vena che va facendosi sempre più fiacca, una lenta decadenza del regista. Nel passato, allorché Ford, vincendo gli ostacoli pratici e impellenti alla realizzazione dei suoi progetti, riusciva ad impostare un film secondo la sua visione, questo film acquistava dei valori poetici o, per lo meno, vi si notava la fertile umanità di Ford. She

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Wore a Yellow Ribbon risponde pienamente alla poetica fordiana, eppure è un film decisamente mancato: segno di decadenza, quindi, mancata rispondenza tra l’ispirazione felice e la capacità di concretare in fantasmi poetici questa vena particolarmente fruttuosa. Ci troviamo di fronte ad un’opera in cui sussistono le condizioni ideali per creare qualcosa di duraturo: siamo in pieno mondo fordiano, nelle immense pianure dell’Arizona e dell’Utah, terre del nord-ovest, battute dai bufali e dagli indiani, un paesaggio a tratti aspro e roccioso, a tratti aperto e verdeggiante. Qui si svolge la favola caratteristica di Ford: i personaggi sono distanti, chiusi in se stessi, inaccessibili a più vasti rapporti umani. Nella figura di Olivia Ford ci ha dato il microcosmo dell’opera: per molto tempo essa sarà la ragazza sdegnosa e chiusa nella propria solitudine, che tormenta gli innamorati per tormentare se stessa. Tra lei e Bennett e Cornell non vi è comprensione, come non vi è tra lei e Brittles, tra Brittles e i tenenti, tra tutti costoro e la fiera, militaresca zia Emma. Penserà il destino fordiano, solo in parte identificabile con la fiducia in Dio, ad accostarli: avanza lo squadrone nella notte e porta gli uomini verso l’ignoto, Olivia ha appena finito di litigare con Philip e nasconde il viso nel mantello lasciandovi una cocente lacrima di rabbia, il vecchio capitano Brittles le si accosta e paternamente le passa la mano sulla spalla, procedono poi lentamente appaiati: il “destino” li unisce. Dopo aver visto il massacro alla fattoria, la giovane sinceramente si accusa: “è tutta colpa mia, che ho voluto vedere il nord-ovest, e credevo di essere forte come un soldato, mentre poi ho resistito soltanto un inverno!”, e Nathan: “Non siete un soldato, se lo foste, sapreste che scusarsi è segno di debolezza. La colpa non è vostra, è stato come il cielo ha voluto”. Insorge alfine nei personaggi la fiducia in Dio. In un primo momento, più che Dio, è l’inconscio, l’al-di-là, un segreto impulso, il Dio dei romantici e dei tormentati: per Nathan la tomba della moglie, cui egli si accosta tristemente, dopo gli eventi più importanti della sua carriera, per parlare all’ombra della consorte. Ma al punto cruciale, quando il destino li sconvolge, li agita, i personaggi fordiani si rivolgono fiduciosi a Dio: quando muore il soldato Smith, la voce ed i pensieri dei cavalieri del Nord-Ovest corrono subito al Signore. Ma accorre sempre un turbamento, un’agitazione: la commozione religiosa deve essere preceduta

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dalla commozione romantica. Oltre alla concezione-base, tutte le voci della poetica di Ford sono presenti nel film. Secondo l’evoluzione subita da quella poetica, il capitano Nathan Brittles non è più il leggendario eroe del West, come in un altro senso non lo era il colonnello Thursday di Fort Apache, ma è un uomo soggetto a tutte le debolezze e le meschinità della nostra natura: un eroe con gli occhiali, che sa anche commuoversi. L’atteggiamento fordiani riguardo gli indiani, quantunque, come vedremo, non storicisticamente spiegato, è contrario alla prammatica: Nathan, l’uomo bianco, e Pelle di Volpe, la pellerossa, sono posti sul medesimo piano in quanto cacciarono assieme il bufalo ed assieme si ubriacarono, ed entrambi sono vecchi e stanchi, inetti per la guerra; cadranno i giovani “yankees” e cadranno i giovani pellirosse, potrà piangere Olivia come qualsiasi “squaw” indiana che abbia perso il suo caro in guerra. Immutata è la simpatia per l’esercito e sono considerate con interesse la servitù e grandezza militari: l’abito borghese è chiamato “vestito da prete”, i giovani delle accademie sono “pivelli”, e sulla vita militare Nathan fa amare considerazioni: “quando si è comandanti di uno squadrone, sono in cento ad ubbidirti e servirti, i tenenti scattano sull’attenti, ma il giorno dopo che sei andato in pensione il maniscalco ti fa un gran piacere se ti ferra il cavallo”. Ford cerca inoltre di fare la poesia della storia, alimentare la creazione artistica con la fedeltà della storia, introducendo per incidente personaggi ed eventi reali che diano concretezza alla narrazione fantastica (la strage di Custer, avvenuta sul Little Big Horn nel 1876, e la guerra santa di Toro Seduto, cui parteciperanno i Sioux, gli Arrapakoes ed i Cheyennes, la guerra di secessione, i nomi di Sherman, Sheridan, Ulysses Grant presidente degli Stati Uniti e del generale sudista Lee, l’uomo che voleva fare la guerra da “gentleman” e fu annientato dal brutale “piano Anaconda” di Sherman: Robert Lee fu una specie di Gamelin americano), volendo giungere così alla celebrazione di un’epopea: “eccoli qui tutti, i volontari e i regolari, gente che per 50 cents al giorno difendeva i confini della nazione, dal forte Colorado al fort Apache; eccoli, i cavalieri del Nord-Ovest, dovunque essi cavalcarono, dovunque essi combatterono, quella terra divenne terra degli Stati Uniti”.

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I personaggi fordiani sono vivi per le rapide notazione con cui è colta la loro umanità; vivi per un gesto, un movimento, anche se poi non sono analizzati pazientemente. In quel gesto, in quel movimento c’è già tutta la vita poetica del personaggi. She Wore a Yellow Ribbon è invece il trionfo di un’analisi paziente, minuziosa, tanto minuziosa quanto superficiale: manca lo scherzo, la notazione immediata, la si avverte solo in pochi momenti. Il resto è fatto tutto o di un esteriore romanzo d’avventura o di un’analisi stracca, inconcludente. Interni freddi visti in campo totale, ambienti che non risentono della visione di un personaggio, non legano con esso, dialoghi inutili, sequenze che hanno del meccanico, del forzato, dell’interpolato, talora obbligate da una comicità per null’affatto naturale. L’umorismo di Ford sta nel contrasto tra le cose grandi, le cose serie, l’epopea da una porte e la bonarietà dei personaggi dall’altra. Comico può essere il discorso di Nathan alla moglie morta: “Hanno ucciso Giorgio Custer con tutti i suoi; le cose si mettono male per noi. Ed è morto anche…: ti ricordi quel bel ragazzo che ballava sempre con te al forte? Sai, è morto: lo ricordi, vero?”. Il comico fordiano è in questo contrasto, fra l’ombra triste del cimitero alla sera e la bonaria semplicità di Nathan Brittles, il tono amenamente e scherzevolmente conversevole che prende il suo monologo e la sua consapevolezza del luogo in cui ci troviamo; una comicità funeraria, se si vuole, ma nel vero Ford, il comico non è mai schietto, genuino, porta sempre con sé un carico di pena nascosta. Il comico tutto comico sarebbe quanto di più antiromantico si potrebbe immaginare. Solo a tratti in questo film c’è la vera comicità fordiana; il resto è un susseguirsi di trovate meccaniche. Non essendovi dei personaggi ben definiti nella loro grandezza, manca il contrasto necessario all’umorismo fordiano. Solo nella descrizione di Olivia Ford ha tratti felici quasi ad ogni pagina, seppure ne sciupi la freschezza talora con l’insistere su una stupida schermaglia amorosa ch’ella conduce con i due pretendenti. Ma la presentazione è efficace: capricciosa e ribelle, Olivia vorrebbe uscire dal forte per un picnic con il tenente Bennett … di fiamma quando Cornell le nega il permesso. Poi v’è il tratto assai grazioso quando ella vorrebbe dare un bacio al suo segreto amore Philip e la zia li sorprende. È deliziosa, con quel vestito da soldato, quella baldanza tutta femminile che

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ostenta perché ha indosso abiti maschili: le aggiunge leggiadria il nastro giallo, segno di un amore in cavalleria, “a yellow ribbon”, in forma di fiore che aumenta la freschezza del suo viso così pronto alle lagrime coma alla gioia. Più complessa e femmina la si sente allorché al cimitero pone i fiori sulla tomba della signora Brittles; e quell’ombra, quella figura che si staglia nelle tenebre della tarda sera, suggeriscono un che di tormentato, di commosso. Olivia si sente sola, chiusa in se stessa, incapace di esprimersi e cerca di rivelare a qualcuno il suo cuore. Solo più tardi, potrà farlo: allorché vede che il giovane amato si appresta a rischiare la vita, cessa di stuzzicarlo, di ingelosirlo, e lo bacia piangendo. Poco dopo, troviamo un’altra singolarissima notazione: risalita a cavallo col cuore colmo di pianto, ella si rivolge a Bennet dicendogli: “Ha capito adesso?”, al che l’altro risponde: “Credo di sì”. Poche parole in cui è pienamente ritratta quell’inconscia crudeltà femminile che rende più penose le sconfitte in amore: rare volte ci è sembrata così naturale la descrizione dell’epilogo di una passione non condivisa. E delicata è un’altra sfumatura: al forte, mentre pensa a Philip e si sente venire il nodo alla gola, a chi la conforta, ella dice, piano: “Non piango… vorrei soltanto abbracciarlo”. A parte queste poche felici notazioni, manca al film l’unità interiore o dei sentimenti; il racconto si svolge per lo più esteriormente, concepito come un romanzo d’avventura alla maniera di Salgari, Mioni, Cooper. Lo stile si fa anch’esso avventuroso, “western”, interessante solo per quel che concerne certi movimenti di macchina ed il modo di rappresentare il movimento attraverso il ritmo interno del quadro. Non mancano brani di singolare bellezza formale: le sfilate dello squadrone C, l’avvistamento degli Arrapahoes in marcia nella pianura, il guado del fiume. Ed anche la musica acquista certi valori simbolici e di emozioni. Ma sono parole cinematografiche prive di valore intrinseco, avulse da un contenuto umano: senza significato, quindi. La storia è vista con occhio poco acuto e le ragioni per cui gli indiani collegati si mossero e massacrarono le truppe di Custer non sono affatto spiegate: non vi è neppure una cronaca, un resoconto di ciò che accadde in quei tempi tra pellerossa e soldati degli Stati Uniti, cronaca che persino nei libri di Salgari troviamo sviluppata. Gli indiani qui

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hanno molta meno importanza concreta che in Fort Apache, e vago è l’accenno al pacifismo: semmai più che di pacifismo bisogna parlare di nazionalismo, molto scoperto in certi tratto apologetici e nella pagina della morte del “soldato” Smith, per altro non del tutto priva di calore umano e di romanticismo fordiano. Qui fanno la loro apparizione retorica le tradizione della cavalleria , di cui il morente tessa l’elogio, mentre il sergente non sa che ripetere “Oh, signore” Oh, signore!”; ed alle tradizione della cavalleria, si rifanno altri tratti retorici come quelli che concernono il soldato ferito, operato durante la ritirata, i quali danno l’avvio ad una strana notazione sociale che cade nel nulla, perché estranea alla natura romantico-religiosa di Ford: il battibecco tra Philip e Olivia perché la fanciulla sostiene contro il tenente la dignità umana e sociale del povero soldato e questi, negandola, accusa lei di sostenerla soltanto per un attaccamento romantico, perché potrà raccontare a tinte forti la storia di quel miserabile nei salotti delle sue amiche. Il contrasto tra Philip e Olivia è lo stesso che, in Fernandez, avviene tra il generale Josè Juan Reyes e Beatriz l’“enamorada”: ma il romanticismo meridionale di Fernandez non è scevro da un certo realismo sociale, laddove Ford anche nelle sue opere più apertamente e dichiaratamente “sociali” non mostra che un interesse parziale per i problemi dell’uomo moderno. Tanto meno, quindi, in She Wore a Yellow Ribbon. Di fronte a queste deficienze, palesi nel film, è possibile che si tratti di una soltanto temporanea caduta dell’ispirazione che avrebbe potuto dare i frutti migliori, accostandosi Ford alla materia più sua e prediletta. Ma si può anche pensare che quel tramonto infuocato, con dei rossi addirittura sanguigni (“pretenzioso, infantile simbolismo”? forse sì), che vede l’incontro della staffetta e di Nathan Brittles il quale apprende la sua nomina a colonnello degli esploratori, sia inconscia ipotiposi di un altro tramonto, più triste e più grave. Il tramonto di un regista: John Ford. (s.d.)

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Il giardino di Allah regia: Richard Boleslawski Oggi il cinema americano ha messo in voga l’usanza di mostrare le donne umiliate e picchiate dagli uomini: non che sia una cosa completamente originale, perché anche la letteratura, da Metastasio a Dumas figlio, registra esempi di vendette platoniche dell’un sesso contro l’altro. Negli anni che seguirono il 1930, la polemica giornalistica, letteraria, teatrale, cinematografica contro la donna era impostata altrimenti: la femmina era la “tentatrice”, la corruttrice, elemento di catastrofe nella vita altrui, rovina di padri di famiglia, di uomini navigati, di cassieri di banca. Esempi: Mata Hari, Lola Lola, ecc. Su un tema del genere - una bellissima e peccaminosa viaggiatrice che, nella cornice del deserto, trascina al peccato un uomo avviato al redenzione -, si imperniava un romanzo di Hichens, Il giardino di Allah, di cui già esisteva una versione cinematografica di Rex Ingram, autore di opere un tempo apprezzate, che oggi sono soltanto materia di erudizione (I quattro cavalieri dell’Apocalisse, Il prigioniero di Zenda, Scaramouche). Boleslawski ne trasse un film, in cui la critica del 1936, avida di paragoni pittorici e letterari, pur denunciandone il fallimento, volle vedere rapporti con la cultura europea, con il Flaubert de La tentazione de Saint Antoine, e il France di Thais: troppa grazia! Un’altra, e cinematografica, era la fonte di Boleslawski: Sternberg. Ma lo Sternberg peggiore, quello di Shanghai express, di certe parti di Capriccio spagnolo: quello che dell’esotismo faceva una retorica, pretesto per comporre inquadrature strane e grottesche, giochi di luce appagamento di un calligrafismo edonistico, arabeschi e decorazioni e mosaici illuministici. Il descrittore di un ambiente falso, retorico, di cattivo gusto. Vale a dire Marocco. Di questa retorica molti furono gli imitatori e gli epigoni, fino a Dieterle. Boleslawski fu uno dei primi: ed Il giardino di Allah è l’antologia della retorica sternberghiana, dallo sfruttamento di motivi di decorazione ed illuminazione a quello di un personaggio Marlene che, svuotato della simbologia baudelairiana di foemina mors animae, conserva di Lola Lola solo i caratteri esteriori rappresentando una figura - spauracchio di donna dia-

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volo, di carne tentatrice, che ricorda le grossolane figure femminili che, nei drammi per sole giovani all’oratorio rappresentano le forze del male. (Novembre 1950). La vergine scaltra regia: Marcel Carné Il motivo centrale della Maria del Porto di Carné e un contrasto: il contrasto tra la realtà e l’idealità, tra la vita quotidiana e le rosee illusioni. Odile sogna di andare a Parigi, ma poi rimane legata al suo mediocre destino di donna da alcova; Marie, nella suggestiva penombra che vede i suoi colloqui con Marcel, pensa a tante cose, a Cherbourg, all’amore, ad una evasione, ma poi accomoda tutto con un baratto, si dà al maturo Chatelard per averne in cambio la proprietà; e Marcel, il personaggio più ingenuamente sognatore, è il più ridicolizzato di tutti e se ne serba il ricordo mentre è intento alla più prosastica della realtà: a letto, a godersi i favori della prosperosa Odile. Ha dunque abbandonato l’idealità per la realtà, E dopo la parentesi di tortuose simbologie, Marcel Carné? Questo è quanto sembra voglia dire la Vergine scaltra, film che non ha alcun peso in sede artistica ma semmai può considerarsi una sorta di manifesto della nuova poetica di Carné: disprezzo per ogni idealizzazione romantica, interesse per le grette e meschine passioni della gente modesta, ritorno alla realtà. Una realtà che non fa la sua comparsa, però, né la Vergine scaltra: malgrado i caffè del porto e la presenza di Jean Gabin. I personaggi sono tutti piuttosto arbitrari, astratti da ogni caratterizzazione sociale, psicologica, ambientale: poco comprensibili anche per chi abbia letto il libro di Simenon da cui il film è tratto. Del quale libro il film leviga certe crudezza di linguaggio (nel libro: “Era seduta in fondo al letto, ripiegata su se stessa, e le sue cosce si scoprivano fino a lasciare intravedere un’ombra, umida, sericea”; nel film vi è soltanto Marcel che tocca i capelli di Odile con una punta di desiderio represso, al che lei si schermisce dicendo “Non fare lo stupido”) ma non riesce poi

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ad evocare con analoga intensità l’ambiente marinaresco di Port-enBessin. La figura di Maria appare dettata anche da ragioni extra-artistiche: desiderio di venire incontro ai gusti di certo pubblico, all’appagamento di esigenze calligrafiche, per cui si può dire che Maria per Carné non è esistita come personaggio ma come interessante volto da fotografare. In rari momenti ella raggiunge una certa comunicativa poetica: sul molo, ad esempio, o nel colloquio finale con Chatelard, in cui certi contro campi valgono a chiarire la situazione umana dei personaggi, per il resto anonimi e fuori della realtà. (Marzo 1951) Dio ha bisogno degli uomini regia: Jean Delannoy Jean Delannoy non ama i preti: sia il pastore de La symphonie pastorale che il curato di Dieu a besoin des hommes son visti sotto una luce non benevola, ironizzati, scoperti nella loro riposta povertà morale. Il primo cerca di sedurre una cieca che aveva raccolto da piccola allevata; l’altro pone una cortina di incomprensione fra gli abitanti dell’isola di Sein, con una serie di atti scarsamente poetici; il presentarsi all’isola accompagnato dai gendarmi, il rifiuto alla richiesta di dar cristiana sepoltura ad un suicida benvoluto da tutti, la mancanza di tatto nei rapporti col sagrestano, unico possibile intermediario fra lui e la gente, le stesse dure parole che hai nei confronti dell’adultera che, inginocchiatasi davanti a lui, non osa poi, intimidita dal silenzio della folla, condurlo alla canonica: “Allora potevate far a meno di inginocchiarvi!”. Quasi che l’inginocchiarsi fosse un male se seguito da una incertezza nell’ubbidienza, ragionamento del tutto gretto e meschino che da solo basta a mettere in cattiva luce la figura del curato. Ma laddove la cieca aveva reagito alla violenza fisica che dall’uomo di chiesa stava per esserle fatta, gli isolani non reagiscono alla violenza morale portata dal curato, dal “continentale”, alla loro inciviltà, al loro vivere primitivo. Diversità apparente, in quanto in entrambi i casi trionfa l’identico pessimismo di Delannoy: la fanciulla del racconto gidiano muore tra le nevi, Thomas

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il sagrestano si arrende e decide di farsi perdonare. In entrambi casi, il pessimismo conduce da una concezione ad un’altra: soffocato il germe protestante che allignava, si fanno strada le posizioni cattoliche. Non mi pare che si possa parlare qui di compromesso o di “happy end-teologico”, com’è stato fatto: allo stesso modo che non si può parlare di happy end politico, mettiamo, ne La terra trema. Al contrario trattasi di un triste finale teologico. Questo almeno appare dal confronto con La symphonie pastorale: se l’evidenza dei fatti non lo impedisse, anche lì si potrebbe avanzare l’interpretazione che a molti è piaciuta nel caso di Dieu a besoin des hommes, di una concezione protestante, anti-religiosa, con soluzione conformistico-cattolica. Il pastore ama la bella cieca di un amore sensuale, diabolico, simile a quello del vittorughiano padre Claude per la bruna Esmeralda: dove mai si potrebbe trovare un tema più anti-religioso, più anticlericale, di un anticlericalismo che sfiora persino il feuilleton? Ma - prosegue la storia - il pastore non può possedere la giovine perché ella sì uccide ed allora egli rinunzia (per forza) alle sue brame: finale che se la tragedia e loro ore non lo impedissero, se il pessimismo non fosse così trasparente da escludere ogni altra possibile interpretazione, potrebbe dar luogo all’equivoco in cui si è caduti a proposito di Dieu a besoin des hommes: il prete non ha peccato, si è salvato dalle tentazioni, quindi si tratta di un “happy and teologico”. Un morto è ciò che manca al finale di Dieu a besoin des hommes (veramente un morto c’è: Giuseppe, ma ha il torto di non essere il protagonista) perché lo si interpreti rettamente: è un finale pessimista, in cui il protestante Delannoy vede i suoi uomini di Sein umiliati, abbassati, costretti a cedere al continente. E l’inquadratura finale di Thomas che grida “È ora di farci perdonare: andiamo a messa”, dopo aver baciato il povero volto di Giuseppe suicida, ha l’identico valore che assume, ne La symphonie pastorale, il primo piano di Gértrude morta con gli occhi aperti. Ribellione infranta. Se al posto di Thomas si fosse messo un pappagallo, in chiesa, sarebbe stato lo stesso: Thomas è stato uno sciocco. Si tratta di un amaro pessimismo, cieco in fondo, perché non saprebbe trovare vie d’uscita diverse da quelle adottate da Thomas e Gértrude; a chi chiedesse “Che potrebbero fare gli isolani di Sein senza il prete?” oppure “È necessario uccidersi per sfuggire alle impure profferte di un

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indegno pastore?”, Delannoy, chinando il capo, risponderebbe, come Thomas al curato “Non so”. Si può anche vivere senza messa, coerentemente all’antireligiosità di Delannoy, gli isolani potrebbero anche continuare così, senza prete; e non è necessario uccidersi per sfuggire il peccato, si deve trovare in sé la forza morale per vincerlo. Ma un artista non è un filosofo od un teologo, e spesso lascia non risolti i problemi che suscita nel suo mondo: e Delannoy sospinge i sui problemi nel vicolo cieco di un pessimismo amaro ed inconcludente. Questo significato, almeno per me, il finale di Dieu a besoin des hommes. Delannoy si chiude nella torre da Borio del suo pessimismo: ma in questo lume di sfiducia egli crea un mondo, dei personaggi indimenticabili. E bisogna elogiare la sua abilità inconsueta di psicologo, la sua finezza nel leggere addentro nel cuore umano, la delicatezza del vigore nello scolpire caratteri delle sue “personae poeticae”. Se Gértrude può essere considerato un personaggio manchevole per lo scarso equilibrio dimostrato dal Nostro sul filo teso tra la descrittiva psicologica ed il romanzo d’appendice (pericolo che Gide poteva evitare ma un Delannoy non in perfetta forma no), gli isolani di Sein, il sagrestano, Giovanna, Scolastica, Giuseppe, la pazza sono figure esemplari costruite con una misura ed una abilità psicologica singolari. Ed in funzione psicologica e vissuto tutto il film, dall’ambiente ai particolari, dalla ricostruzione storica alla magnifica recitazione: il tutto concorrente a creare un quadro superbo di vita primitiva, di passioni elementari, di moralità complessa appunto per l’elementarità e quindi la fondamentalità dei problemi su cui sorge. Regge questa descrizione uno stile ricco e sicuro, che ridonderebbe nella calligrafia se il contenuto così concettoso non lo giustificasse (vedi La terra trema); ogni situazione è risolta nel modo migliore, con inquadrature e montaggio rispondenti pienamente al valore umano, emotivo, psicologico di essa. E la maggior ricchezza formale si ha nelle sequenze più dense di contenuto umano: quella, a torto spregiata per il suo preteso eccessivo naturalismo (ma anche Baudelaire e Verga furono spregiati per questo), della donna in doglie nella barca, in cui il dolore della donna, ben diversamente che nell’epilettico e melodrammatico finale di Stromboli è messo in risalto dalla stessa “musica visiva” dei qua-

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dri, dalle visioni del mare agitato, dal turbamento virile e dall’offesa fisionomia del cognato, dalla “nonchalance” del marinaio; ed il finale della processione e del volo di barche sul golfo, bellissima fantasia poetica in cui il clima lirico è suggerito dagli elementi naturali, dallo spumeggiare delle onde, dalla brezza, dal cielo che assume un significato simbolico: ma immediato, spontaneo adatto ai puri di cuore, lontano, oh quanto lontano!, dal fumoso e letterario significato del cielo trapunto di stelle che pare alla Karin rosselliniana. (Marzo 1951). La volpe Regia: Michael Powell e Emeric Pressburger La volpe (Gone to Earth) è uno dei peggiori film usciti negli ultimi tempi: con esso, Powell e Pressburger, già noti per una blanda tendenza al cattivo gusto ed a posizioni di retroguardia, hanno superato se stessi. Il film è al livello di un romanzo per serve: ma non per le serve di oggi, bensì per quelle di cinquant’anni fa. In esso la tetra storia di una donna che non si capisce bene cosa voglia alla fin fine, legata da uno strano sentimento di una volpe, sensibile ai sortilegi, alle magie e dai richiami carnali, è narrata con un gusto infame, quasi con compiacimento della falsità e della retorica contenute nella vicenda. Falsità e banalità che vanno dalla ragazza che di notte viene portata nella casa di un turpe seduttore e ne resta affascinata, al marito che vuole conquistare prima l’anima che il corpo della sua sposa e rinuncia ad adempiere ai suoi doveri coniugali finché non l’abbia catechizzata, e si ritiene superiore all’amante di Hazel in quanto Hazel non ha mai chiamato colui “anima mia”, mentre il consorte la chiama così (e qui c’è da ridere: malgrado il tono truculento e pesantemente ottuso, anche quando si vuol fare dell’umorismo, del film); ad un salto finale della protagonista in un pozzo profondo 100 metri. Salto che farà piangere qualche anima primitiva e sensibile. (Aprile 1951).

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Il massacro di Fort Apache regia: John Ford Fort Apache è il trionfo della concezione di John Ford. Gli uomini che vivono nel più remoto forte della prateria, lungi dall’accostarsi e nutrire sentimenti di fraternità e reciproca comprensione, sono distanti, sordi ai richiami altrui, chiusi in se stessi come nomadi. Tra Thursday, York, Collingwood, O’Rourke, non esiste l’amicizia o l’affetto. Giunge però momento in cui essi si avvicinano, accostati da una forza vaga, nebulosa, da un destino “romantico”: ed il colonnello griderà a York di mettersi in salvo insieme con l’innamorato di Philadelphia, mentre già nel vortice della danza aveva sentito qualcosa nel suo spirito mutarsi e nuovi sentimenti premere impetuosi. Al fine, dovrebbe sopraggiungere, nei personaggi fordiani, la fiducia in Dio: ma, a riprova che la religiosità di Ford è piuttosto vaga e casuale, qui Dio viene sostituito da un’altra forza superiore. Nel finale di Com’era verde la mia valle, le donne, spiccanti sullo sfondo di un cielo pallido, “sentono” confusamente Dio, comprendono che papà Morgan è morto e riposa in gloria. In Fort Apache, prima del massacro, Philadelphia e le mogli dei soldati guardano svanire la polvere del reggimento che si allontana; e la signora Collingwood, richiesta se scorga ancora il marito, risponde: “non vedo lui: vedo il tuo stendardo”. Lo stendardo, qui, prende il posto di Dio: perché la divinità, in Fort Apache, è il reggimento, il reggimento che non muore e che si perpetua, il simbolo della Patria. Dove i personaggi dovrebbero innalzarsi e aver fiducia in Dio, essi hanno fede soltanto nello stendardo. Ma - e qui sta l’originalità del film rispetto agli altri film fordiani - vi è un elemento che rompe l’equilibrio di quella concezione, che la spezza, un ribelle insomma. Ed è il colonnello Thursday. Solo, forse, in tutta l’opera fordiana, egli ardisce levare il capo contro il destino, maledire le forze che lo hanno portato all’attuale condizione, muovere contro di esse. Di qui, la sua grandezza epica. Allorché Thursday da l’ordine di procedere alla carica per quattro, sapendo di sfidare le leggi e dell’amicizia e dell’onore. E dello stesso stendardo ch’egli sacrifica (e potrebbe avere un valore simbolico di fatto che i portaban-

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diera è il primo a morire, nella carica), egli fa ciò che nessun altro personaggio fordiano ha fatto: si ribella al destino. Quando Nathan Brittles, in She Wore a Yellow Ribbon, vede il massacro compiuto dagli indiani in una fattoria, egli china il capo ed esclama: “È stato come Dio ha voluto!” Thursday no: Thursday non ha fiducia in Dio né nello stendardo, mosso da una sfrenata superbia egli crede solo in se stesso, e perciò si fa arbitro di una strage senza pari. Dal carattere di Thursday, il film prende la sua fisionomia: un grido, più che non un canto od una poesia. Il dramma di quest’uomo che fin dall’inizio vediamo scontento, inquieto, incapace rassegnarsi (“non mi silureranno… dovevo finire qui, io”; e la severità e di rigore per le uniformi non regolamentari, l’astio contro O’Rourke, il macerarsi interno). I suoi momenti buoni, comprensivi, il maturare della risoluzione, la sua bestemmia contro Dio e la Patria (mandare tanti giovani a farsi uccidere, solo per accontentare la propria ambizione di vincere Cochise), ed infine il suo triste, accurato pentimento sfociante nella catarsi, sono narrati con estremo vigore, in una forma che esclude ogni compiacimento descrittivo o letterario e mira soltanto all’espressivo, alla sintesi alla notazione rapida e precisa. Chi cercasse in Fort Apache un indugio sulla psicologia dei personaggi, resterebbe deluso: pure queste psicologie sono chiarissime, colte direi quasi al volo, in particolare, in un gesto, in un’azione. Tutto il film è tipicamente fordiano: non peregrino nella sua concezione poggiante su un tipo di narrazione romantico, la cui “tragicità” ricorda molto quella di certi buoni (ma non ottimi) narratori dell’Ottocento, spiega il suo valore in alcuni momenti invero poetici di cui, com’è naturale, non possiamo in alcun modo rendere l’espressione: la partenza dei cavalieri all’alba, con quelle donne che guardano dal terrazzo, il ballo del colonnello Thursday, il momento che precede l’ultima carica. E non è detto che anche le scene del reggimento che si muove-scene che ritornano in She Wore a Yellow Ribbon, disprezzate per il troppo timore della retorica da parte di critici, retorica palese in alcuni momenti del film suddetto è piuttosto lontana dallo spirito di Fort Apache - abbiano una loro comunicativa, un loro caldo e sincero senso patriottico. Quell’avanzare gagliardo, quegli stendardi al vento, e soprattutto la musica, hanno il potere di sugge-

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rire delle emozioni. E bisogna tenerne conto, perché questi momenti sono forse la sola cosa che resteranno della complessa e macchinosa concezione fordiana. (Aprile 1951). La malquerida Regia: Emilio Fernandez La malquerida di Fernandez vorrebbe essere una tragedia romantica: i personaggi sono tipi “superiori alla media comune” (Esteban ha in sé il “colore del sole” al contatto del quale è impossibile che le donne non ardano e rimangano bruciate, ed Acacia è una creatura strana, tormentata, sangue torbido e dagli occhi profondi), il dramma appare mosso non tanto dalle loro volontà quanto da forze invisibili, occulte e misteriose, sull’impronta dei “destini” classici ed il desiderio di Fernandez di rifarsi al classico è palese nell’apertura del film, (“elogio” a Jacinto Benavente). I dialoghi, l’atmosfera, il concatenamento dell’azione, tutto è volto alla ricerca di una interiore tragicità. Ed invero improntate ad una solennità tragica sono le parole, pronunciate da Raimunda, che chiudono il film. Materia di questa tragedia è una vicenda ottocentesca, ricca di effetti e di un non pellegrino patetismo: una giovane donna, che ha perso il proprio marito e si trova sola con una figlia, sposa un uomo sanguigno e violento che, quando la figliastra è divenuta una donna, ed una donna complessa, egocentrica, passionale, se ne innamora. E compie per lei delle pazzie, finché per una di queste viene ucciso. C’è, in questa trama, materia sia per un’opera d’arte che per un volgare drammone a forti tinte: Fernandez, per lo più, a preferito il secondo. In Enamorada, da un soggetto banale e anacronistico, egli seppe trarre un’opera di poesia: ché il romanticismo idealistico e le contese ottocentesche tra le “l’enamorada” e il generale erano vissute con piena partecipazione, con mirabile intuito poetico, con un caldo romanticismo meridionale. La malquerida invece non va al di là delle forti tinte già insite nella trama: del contrasto madre-figlia sono colti i lati più melodrammatici, affettuosi, scenici, i dialoghi tra le due donne non

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si elevano mai al di sopra dell’enfasi teatrale e di quel che di proibito, di satanico, quel sapore particolare che acquistano le rappresentazioni di simili contrasti. Tutti personaggi pur prodigandosi in tirate retoriche, sono scarsi di vita interiore ed il loro motivo dominante non è la poesia ma la ricerca dell’effetto: ricerca a cui sono subordinate molte cose, dal dialogo insolitamente “fiorito” e letterario (abbiamo riferito sopra l’immagine, alquanto barocca, del sanguigno Esteban che reca il calore del sole a cui le donne si bruciano) alla musica che ripete dei “leit-motifs” emozionali e facilmente patetici. Un film tragico senza reale tragicità, dunque. Il che non toglie che abbia dei momenti delle situazioni in cui era giunto a quella poesia calda, comunicativa, romantica che è propria di Fernandez. E sono ancora in momenti in cui hai descritto l’amore sensuale che lascia il posto all’amore di anime: come José Juan Reyes e Beatriz, Esteban e Acacia si stringono forte, si accostano, si parlano, e c’è in questo avvicinarsi un intenso respiro sensuale, una viva personalità, ma nel contempo altre cose - lo sguardo sfuggente e “fatale” di lei, il sangue torbido di entrambi, quella particolare seduzione che emana dalla “malquerida”- fanno sì che il loro amore appaia viziato da nubi, da un intenso tormento spirituale, dal contrasto bruciante ch’è proprio dell’anima messicana. E ancora, è sempre il Messico amoroso, il Messico passionale che commuove Fernandez: un Messico dalle grandi chiese animate da una decorazione fiammeggiante, da un gusto sensibilissimo al pittorico, all’ornamentale (le chiese della pittura messicana e di Figueroa), lussuose case di Dio che acquistano un loro pathos in quanto vedono l’ardere e di consumarsi delle passioni di quella strana gente; un Messico da romanceros, con i canti sensuali nella notte, con l’Elisa degli ubriachi (bellissima è la sequenza del rosso che canta: La malquerida); un Messico che è difficile da comprendere per noi europei. Ma che vive interamente nella poesia romantica di Fernandez, quella poesia che tanto spesso luccica e rifulge e nel ciarpame della Malquerida. (Aprile 1951)

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La fonte meravigliosa regia: King Vidor I personaggi di un’opera sono sempre immagini di uno stato d’animo del loro autore. Pulham è il personaggio che più riflette la personalità di Vidor: il “molto onorevole” e il tipo dell’uomo arrivato, scevro da preoccupazioni di sorta, che ha raggiunto quel che si suol dire una posizione, eppure non è soddisfatto di sé. La realtà quotidiana, la vita dell’uomo medio lo soffoca, lo intristisce: ed egli anela ad una liberazione, ad una evasione, al sogno, aspirazione che può avere un suo fondamento. Anche Vidor, al pari del suo personaggio, aspira ad una evasione: evasione dal suo mondo bonario, quotidiano, attinte smorzate, per liberarsi in un’atmosfera di fantasia, di “romanzo”, di passione. Crea così Duello al sole e La fonte meravigliosa. Se sulla genesi e sull’unità stilistica del primo possono venir mosse obiezioni legittime, The Fountainhead va attribuito a Vidor: e da ciò nasce la difficoltà critica di stabilire un legame tra esso e l’opera precedente vidoriana. Semplicemente, si tratta di questo: Vidor intende uscire dal suo mondo grigio, limitato, borghese ed entrare nel campo del risonante, del fantasioso, del romanzesco. Ma la sua natura è contraria a siffatte espressioni arrivato un film confuso, sbagliato ed ambizioso. La storia narrata sarebbe comprensibile solo se riferita all’immaginazione di un personaggio vidoriano: John Sims o Henry Pukham. Infatti, solo nei sogni o nell’immaginazione concitata e galoppante di un uomo medio, può aver credito una storia così strana ed incoerente come quella di Howard Roark e Dominique. King Vidor ha assunto la mentalità di uno dei suoi personaggi ed approvato a scorrazzare con la fantasia: creata così una storia assurda, ha cercato di darle un significato artistico, ed ha confuso il mondo poetico con una simbologia fumista ed a volte ridicola (si veda soprattutto il finale: Howard Roark in cima al grattacielo), l’umanità dei personaggi con una confusione di psicologia, lo stile con una ricerca barocca del sorprendente e del meraviglioso. In sé, il film non è più di un qualunque melodramma un romanzo d’amore confezionato dai mestieranti hollywoodiani; ma il dialogo abilmente retorico, le intenzioni

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simboliche, il barocchismo dello stile volto tutto la ricerca dell’inconsueto, dello strano (tanto che si assiste a movimenti di macchina che servono a mostrare le cose più ovvie come la mano che forma il numero del telefono, primi e primissimi piani ingiustificati, ad acrobazie scenografiche di ogni genere), fan sì che l’opera appaia gli occhi di molti come qualcosa di eccezionale. Peraltro, basterebbe che si facessero caso i momenti in cui Vidor non ne può più del suo gioco, del suo ambizioso preziosismo, e cade scopertamente nella volgarità, riprendendo inquadratura per inquadratura i motivi del peggior cinema melodrammatico: valga per tutti il brano allorché Roark entra nottetempo nella stanza di Dominique e la stringe a sé furiosamente. Lui si rivela la seconda natura di Vidor (e spiega in parte Duello al sole): una nostalgia dei fumetti, del melodramma, del cattivo gusto. La qual cosa servirà a rivedere giudizio critico sulla sua personalità. (Aprile 1951). Il sentiero del pino solitario regia: Henry Hathaway Chiunque abbia studiato un po’ di cronistoria del cinema, sa che Il sentiero del pino solitario fu il primo esperimento di technicolor in esterni. Questa è la sua unica importanza: e probabilmente il film rimarrà, come documento, nella storia del cinema. Per il resto, il racconto degli amori contrastati tra Dave e June e l’ingegnere, le contese tra i Tolliver e i Falin, la patetica morte di Buddie (un patetismo, peraltro, facile ed ovvio), non vanno aldilà di una narrativa superficiale, volta a ritrarre e a concatenare i fatti nella loro esteriore drammaticità più che a scavare nel fondo della psicologia. Tutti i personaggi vivono in superficie, privi di un’esistenza poetica, privi di colore, di rilievo, di anima. Né vale la recitazione di Sylvia Sydney o di Henry Fonda a scavare nell’intimo di creature vuote. Rimane, di accettabile, l’azione nel suo svolgersi esteriore, una certa abilità tecnica nel tenere le fila del racconto, e qualche tratto delicato in cui si avverte l’impronta della poesia affettuosa (siamo in pieno periodo di cinema americano intimista: vedo

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Wyler). E comunque bisogna dire che, pur nella sua mediocrità, questo film rimane una delle cose più ispirate di Henry Hathaway, passabile mestierante che diede opere dignitose o almeno vedibili, ed ora non ne dà più: a meno che qualcuno non voglia spezzare una lancia in favore della Barriera d’oro o della Rosa nera. (Maggio 1951). Bill, sei grande! Regia: John Ford È la storia di Bill, giovane “tommie” la cui abilità nell’istruire le reclute ha reso infelice: egli deve, con malumore dei genitori, leggero scontento della fidanzatina e disapprovazione del volgo, fare la guerra come istruttore di piloti, in un campo che - per sua somma disgrazia - è a cinque miglia da casa sua. Tanto che il buon Bill Mezzogiorno va a casa a mangiare ed ogni domenica in famiglia. Sperato, riesce finalmente ad andare in guerra; e qui, dopo strane circostanze si trova con una banda di “maquisards” francesi a capo dei quali è una bellissima figliola. Da essi riceve informazioni tali che, in patria, diviene una specie di eroe; e tutto finisce qui. Si tratta di un film del tutto inconsistente, non privo però di tratti gustosi. Inutile cercare un briciolo di umanità o di profondità psicologica nel lungo Willie o nella provocante partigiana Yvonne o nella fidanzatina: fantocci mossi senza alcuna preoccupazione di verità e di consistenza. Ed anche la vicenda si svolge in modo del tutto arbitrario, inconcludente e vago. Pure, entrati nell’ambito dello scherzo, del divertimento senza pretese, della battuta improvvisa, si può anche a trovare nel film anche gustosa. È bene chiarire che le situazioni o i moti comici sono per lo più di vecchia data o comunque non tali da sbalordire: ad esempio, allorché Yvonne ripone in seno gli oggetti consegnati, Bill esclama: “Che splendida cassaforte!”, e a lui che non riesce a riprendersi da una sbronza colossale tutti, credendo via via che abbia il mal di mare, il mal d’aria, l’emozione, danno da bere forti liquori. Comicità antiquata: ma le battute le situazioni sono presentate con finezza, senza indugiare, con felice scelta del tempo, opportuna-

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mente. Che c’è nel film, pur nella sua vacuità, una scorrevolezza di periodi, una facilità di racconto e di ritmo che ne fanno uno “scherzo” discreto. Ben diverso, per finezza e per diletto, uso e del tutto stupido Francis il mulo parlante, a cui è stato accostato. Film come Francis non sono accostabili dalla critica, sono esattamente a livello dei fumetti per ragazzi, film come Bill, sei grande sono invece parte della “cinematografia”, intendendo con questo termine l’equivalente di “letteratura” per il cinema, di quell’insieme di opere che pur non presentando valori poetici possono interessare per il loro contenuto espresso in modo acconcio e conveniente: opera di diletto, di lettura amena, farsesche oppure anche serie, scientifiche, specializzate. In questo senso, Bill sei grande appare a livello di un romanzetto umoristico che non abbia altre preoccupazioni se non una comicità avulsa dal reale e dall’umano. E non si può inserire il film nell’opera fordiana se non appunto come un passatempo uno “scherzo”; allo stesso modo che la trilogia di Ford sulla Seconda guerra mondiale si spiega solo con un bisogno oratorio e propagandistico. Ed è inutile discettare sul passaggio dal tema dei “sacrificati” al tema dell’eroe per burla, e dal concetto della donna che vive la guerra accanto ai combattenti, al ridicolo patriottismo di Marcha e Yvonne: quest’ultima del tutto assurda e risibile. Se Ford è o meno un poeta lo si può dedurre da film significativi, Stagecoach o The Informer, The Lost Patrol o The Grapes of Wrath, My Darling Clementine o Fort Apache: non mai dalla trilogia bellica o da When Willie… Nei primi un’umanità da documentario nell’ultimo un’umanità da barzellette, uccidono in modo irrimediabile l’ispirazione poetica. (Maggio 1951). C’è sempre un domani regia: Delmer Daves Tra i “narratori” del cinema americano, Delmer Daves è, dopo John Huston, il più convincente. Innanzitutto è da notarsi la serietà dei suoi intenti, che la portato, in Broken Arrow, a trascurare volutamente la parte romanzesca per preferirle una interessante indagine storico-politica. Ed

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in secondo luogo, la caratteristica della sua narrativa: un impegno psicologico costante, soprattutto nella descrizione di figure femminili, ed una verità di caratteri che salva i suoi personaggi anche quando questi sono lasciati un po’ come se stessi in navigano verso le convenzionali tipologie hollywoodiane. Forever in Love è un film che risale alla fine della guerra, Svela il miglior Daves. La vicenda è frusta, sfruttata: il giovane” yankee”, sportivo e pieno di vita, che torna dalla guerra mutilato e non vuole la “pietà” della fidanzata e degli amici. Su questa trama non nuova Daves ha composto un film nuovo: interessante per il risalto dei vari caratteri, per la sincerità delle situazioni, per la loro “verità”, solo di rado offuscata da qualche blanda concessione al sentimentalismo ed alla retorica. Intendiamoci: i personaggi situazioni di questo film non giungono che radissimamente a delineare un mondo poetico, sono “carattere” più che “personae poeticae”, figure la cui psicologia è perfettamente resa più che non riflessi di un sentimento, di una visione del mondo. Ma quale ricchezza interiore, quale molteplicità di movimenti umani, quali espressioni di affetto e di umanità risplendono in questi personaggi! Come sempre in Daves, la figura femminile è ritratta con assoluta sincerità: Ruth, perfettamente coerente a se stessa nel gioco amoroso scherzoso, nel sorgere di un sentimento profondo, nella totalità dell’amore comporta sacrificio affetto intenso… Ritratta nelle sue note fisiche con calda simpatia da parte del regista ed un che di malizioso (quel suo far studentessa in vacanza, il suo ottimismo), sfiorante forse la retorica in quel suo accogliere senza accenni di crisi la disgrazia di Al (“Perché dovrei disperare? Io l’ho amato non per i suoi occhi, ma per lui, per tutto l’insieme…”), ma così umana e palpitante nel colloquio con l’amato accanto all’albero di Natale rovinato, una delle pagine più belle del film (“ma caro, pensa se ci fossimo sposati ed in una disgrazia io fossi rimasta cieca, tu avresti per questo cessato di amarmi? Io ti ho amato, ti ho desiderato in questi anni, non voglio perderti”); e Loretta, una “donnina (?) d’America”, con quei suoi moti così giovanili e pieni di entusiasmo, l’emozione dei primi baci, e cantare per sottintesi le proprie avventure sentimentali. Anche i caratteri degli uomini sono rappresentati con evidenza: Al, l’orgoglioso e quindi più sofferente della sua di-

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sgrazia, il sentirsi inferiore e bisognoso rispetto agli altri (un gioiello di psicologia episodio del Natale passato a casa, dopo la disgrazia: Al, orgoglioso ma contrario alle scenate in presenza altrui, si piega alla richiesta di Ruth di cenare degli amici, ma per tutta la sera, con quella specie di gusto che hanno i minorati nel far sentire in imbarazzo i sani, quasi a compensare l’inferiorità il dislivello esistente, mortifica la fidanzata, con il suo nervosismo ed il celato malumore. Quando gli amici se ne sono andati, esplode in parole irose. E solo l’incidente che gli occorre - non vedendo l’albero di Natale, cade e lo trascina nella caduta , rammentandogli la sua disgrazia, lo rende umano, debole spezza il suo orgoglio e gli fa sentire un infinito bisogno di protezione. Esprimendo con una scelta efficacissima di particolari di azioni questa situazione, Daves è giunto - qui soltanto - alla poesia. Una poesia accurata, affettuosa e malinconica, a lui insolita); Diamond, liceale ebreo; l’amico di Al, ottimista. È schiavo della sua puerile mania della meccanica. Queste figure danno vita e colore ad un film che, se per il suo tono dimesso e prosaico, non può essere chiamato opera di poesia (il suo mondo e le sue conclusioni non acquistano infatti un significato spirituale duraturo e profondo, quale acquistava ad esempio il mondo di Pulham in Vidor). È certo parte di una narrativa ricca e sostanziosa, di una attività seria e circostanziata. Ed anche formalmente il livello di Forever in Love più che dignitoso: forse il più dignitoso tra i film di Delmer Daves. (Maggio 1951). Lettera a tre mogli Regia: Joseph Mankiewicz Joseph Mankiewicz è un artigiano di un certo valore: ed in un repertorio dedicato ai narratori cinematografici americani potrebbe, per questo Lettera a tre mogli, degnamente figurare accanto agli Huston, ai Daves, ai Kazan, ai Wise: romanzieri tutti di classe. Mankiewicz è un allievo di Lubitsch: ha diretto, fra l’altro, un film sul problema negro, No Way Out, non del tutto privo di introspezione psicologica, ed un me-

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Rincorsa alle ombre. Scritti di cinema

diocre Il fuggitivo, storia affatto falsa ed arbitraria, in stile “fumetti”. Lettera a tre mogli è una commediola ricchissima di notazioni, di finezza descrittiva, di humour. L’idea di partenza, soprattutto, è felicissima: e non è dovuta al romanzo da cui il film è tratto, ma unicamente al regista. Le tre mogli rispettivamente di George, Bill e Berto, ricevuta la lettera in cui la “sirena” Eva Ross annuncia di aver rapito uno dei loro mariti, con il dubbio nel cuore, partono su un vaporetto per una gita precedentemente progettata. Ora, il film avrebbe potuto ricollegarsi ai ricchi filoni della letteratura fluviale e narrare una storia di “tre donne in vaporetto”, alla Jerome. Non l’ha fatto, e noi non muoveremo certo il processo alle intenzioni. Ma certo non si può non avvertire la mancanza di sviluppo del film, in questo senso; ed il rapido perdersi di quel che di marino, di salmastro, di arioso e - perché no? - di poetico, che si avvertiva nelle prime sequenze del film, costeggiando il piroscafo le rive cariche di verzura, con a bordo tre belle angustiate. Mankiewicz ha preferito, su una linea beninteso non posciadistica e sturgesiana, condurre una storia a base di ricordi, la cui formula può appunto ricordare vagamente Unfaithfully Yours. Ma, appunto, il film dell’allievo di Lubitsch non è così basato sulla trovata, meccanico, alieno da alcunché d’umano, come la “pochade” hollywoodiana di Preston Sturges; anzi, è ricco di una descrittiva psicologica, umoristica, di costume. E le figure di Rita e George, di Deborah, di Dorothy e Berto balzano fuori disegnate con bel garbo, si muovono elegantemente nello svolgersi della commedia, animano una vivace e delicata storia. Qualche critico dei più attenti si è chiesto quale sia la morale di questa commedia: e noi concordiamo con chi avanzato l’idea che si tratti di una morale sbarazzina, lubitschiana. Il segreto dell’arte del buon Ernst stava - molte volte - nel saper contemplare, con quella sua finezza tutto europea, dei fatti comunissimi della vita e quindi trasportarli, elevandoli in una sfera di divertita contemplazione, nei suoi film. Il cielo può attendere, oltre che il rimpianto di un mondo scomparso, è anche la storia di come si renda consapevoli, riandando con la memoria a situazioni passate, della meschinità di come si è comportati in occasione di esse. (Maggio 1951).

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Guido Gerosa

Rincorsa alle ombre Scritti di cinema Primo volume: gli inizi

© Edizioni Falsopiano - 2021 via Bobbio, 14 15121 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri In copertina: Guido Gerosa e Mario Soldati in un’immagine di Giorgio Lotti In apertura: Guido Gerosa e Robert Taylor in un’immagine di Lando Landi (New York, luglio 1964) Prima edizione - Dicembre 2021


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