Conversazione con Giuseppe Piccioni

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FALSOPIANO

CINEMA


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EDIZIONI

FALSOPIANO

IgnazioSenatore

conversazione con

Giuseppe Piccioni


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Š Edizioni Falsopiano - 2013 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini Stampa: Arti Grafiche Atena - Vicenza Prima edizione - Aprile 2013


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INDICE Under the rainbow di Roberto Lasagna

p. 9

Introduzione

p. 11

Intervista a Giuseppe Piccioni

p. 15

I film

p. 81

Il grande Blek

p. 83

Chiedi la luna

p. 93

Condannato a nozze

p. 101

Cuori al verde

p. 111

Fuori dal mondo

p. 119

Luce dei miei occhi

p. 131

La vita che vorrei

p. 153

Giulia non esce la sera

p. 169

Il rosso e il blu

p. 185


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Giuseppe Piccioni con Riccardo Scamarcio


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UNDEr thE raINbow di Roberto Lasagna

Giuseppe Piccioni definisce il cinema “arte dell’esteriorità” e questa espressione traduce in modo scoperto la vocazione del regista di portarsi al di la’ di una presunta esteriorità tutta di forma di molto, troppo, cinema contemporaneo, per fare invece, dei racconti portati in scena, un materiale umano incandescente. Il libro appassionante che si intitola Conversazione con Giuseppe Piccioni appartiene alla tradizione dei libri-intervista sul cinema e al contempo ci offre qualcosa di nuovo: una dichiarazione di poetica che è anche una dichiarazione di intenti. Ignazio Senatore, psichiatra e critico dalle passioni rinascimentali, si fa morbida e accogliente sonda del mondo poetico di Giuseppe Piccioni lasciando che sia il regista a svelarsi con generosità sovente disarmante. Senatore e Piccioni non amano le etichette e i luoghi comuni, per questo il loro discorrere è sempre caldo, limpido, avvolgente. Le vicende di individui soli, con grandi speranze esistenziali e sogni da condividere, riaffiorano nei ricordi di un autore personalissimo, un cantore dei sentimenti e delle passioni (civili), analista sensibile dei colori che animano le immagini interiori dei personaggi, anch’egli come Senatore grande appassionato di cinema e raffinato cultore di individui mai ordinari e invece imprevedibili, pronti a scommettere la loro esistenza a fianco dell’altro. Piccole-grandi figure umane che vivono di un immaginario acceso, ma che di quell’immaginario sono anche ombre diffidenti. Il classico protagonista mattatore, ancora superstite nel cinema dei colleghi registi nell’Italietta sul finire degli anni Ottanta, in Piccioni, nei suoi film, non c’è più. Al suo posto compaiono figure in transito, in partenza da una memoria non sempre all’altezza del proprio sentire più profondo. La vita dei personaggi di Piccioni è quella delle figure nella tempesta di un’Italia per fortuna non colta con sguardo astrattamente obbiettivante ma riproposta con attenzione delicata attraverso una riflessione personale e mai superficiale. I molti volti del cinema di Piccioni attraversano storie che si intrecciano e sovrappongono disegnando una visione emotivamente stratificata del reale. Sono individui al crocevia di decisioni assolute; protagonisti, più che “fuori dal mondo”, intensamente “dentro” la loro vicenda umana, pronta a confrontarsi con le insidie del sociale e della Storia. La lunga “lotta” di Piccioni con9


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tro le accuse conformiste della critica rivolte al suo cinema, presto etichettato come “carino” ed invece profondamente rispettoso delle traiettorie esistenziali dei suoi personaggi, trova sin dai suoi esordi lo sprone nella naturale “unicità” dei caratteri, raramente modelli fungibili, ma anime illanguidite di una società alienante e in perpetua trasformazione. Piccioni, diversamente da molti suoi contemporanei, conosce bene il cinema e lo cita amorevolmente nei suoi film; attraversa la finzione e ne mette in scena le apparenze giocando sottilmente con uno spettatore rispettato e condotto ad una sfida continua. I suoi personaggi, veri più del vero, sono figli di un immaginario affettivo e potrebbero anche esistere nominalmente nei film di un altro regista, ma se presenti nel cinema di Piccioni palesano una densità enigmatica talvolta dissimulata (Giulia forse prodotta dall’immaginazione del protagonista-scrittore in Giulia non esce la sera). Perché ciò che vediamo in un film è ciò che la riflessione sull’immaginazione lascia decantare ed è anche quanto appare dopo un lungo lavoro di scavo e sperimentazione con gli interpreti. Un lavoro illuminante che si offre come uno degli elementi di maggiore pregnanza nel cinema di Piccioni.

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INtroDUzIoNE Ho incontrato la prima volta Giuseppe a luglio del 2009 per la proiezione a Napoli del suo Giulia non esce di casa, nell’ambito della Rassegna “Accordi e Disaccordi”, ideata da Pietro Pizzimento, alla quale collaboro da alcuni anni. Dopo averlo presentato al pubblico, demmo loro appuntamento al termine della proiezione per il consueto dibattito sul film. Per ingannare l’attesa, invitai Giuseppe a mangiare una pizza in un locale vicino al Parco del Poggio, il magnifico spazio all’aperto che ospita ogni anno la rassegna napoletana. Sono sempre stato un suo ammiratore e, come uno scolaretto che voleva fare bella figura, per rompere il ghiaccio, mi affrettai a dire che ero rimasto abbagliato da Giulia non esce di casa e che lo avevo ricoperto di elogi nella mia recensione su “Segno Cinema”. Giuseppe non l’aveva letta e gli promisi che gliel’avrei spedita tramite e-mail. Tra un sorso di birra ed un trancio di pizza, iniziammo a chiacchierare del più e del meno ed ebbi la netta impressione di conoscerlo da sempre. Pacato, riflessivo, misurato, Giuseppe rispose con estrema disponibilità alle domande sul suo cinema, sulla scelta degli attori e quando, per stuzzicarlo, lo presi in giro per la pasticciata rappresentazione della psicoanalista di Condannato a nozze, dopo essersi inizialmente difeso, concordò, divertito, con le mie critiche e mi raccontò qualche simpatico aneddoto relativo al film. Gli accennai poi alla proiezione che avevo organizzato nel dicembre 2001 in Aula Magna dell’Università “Federico II” di Napoli di Fuori dal mondo, con Silvio Orlando in veste di ospite d’onore ed, incuriosito, mi fece alcune domande sulla mia capacità di conciliare la mia passione per il cinema e la mia attività professionale. Ritornammo al Poggio e l’incontro tra Giuseppe ed il pubblico fu frizzante e schioppettante. Fioccarono, come prevedibile, domande sulla scelta della napoletana Valeria Golino come attrice protagonista, sull’ambientazione in una piscina, sui riferimenti al premio letterario... Giuseppe era in gran forma e, giocando anche un po’ gigionescamente con il pubblico, confidò che era un po’ geloso di quegli autori che scrivono canzonette e che, acquistata una repentina notorietà, entravano facilmente nel cuore delle persone. Senza enfasi ed eccessive sottolineature ricordò al pubblico quanto il mestiere del regista fosse più complesso di quello del cantautore e sottolineò la fatica per metter in moto la macchina - cinema; dai contatti con i produttori, alla scelta delle location, degli attori... Giuseppe salutò il pubblico e lo accompagnai in albergo. Mentre continuavamo a chiacchierare, mi accennò alla “Libreria del Cinema” che aveva aperto a Trastevere ed io, dopo avergli promesso che alla prima occasione avrei fatto un salto, gli proposi di presiedere la giuria del secondo concorso di cortometraggi 11


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“I corti sul lettino - Cinema e psicoanalisi” che si sarebbe tenuta a Napoli due mesi dopo al Parco del Poggio. Con mia grande gioia, Giuseppe non me lo fece ripetere due volte ed accettò immediatamente l’invito. Come presidente della giuria fu impeccabile e piuttosto di far valere il suo “peso” professionale, ascoltò i giudizi degli altri giurati e “pilotò”, con garbo, una votazione che non scontentò nessuno. Dopo qualche mese, trovandomi a Roma, feci un salto alla “Libreria del Cinema”. Non appena entrai in quel piccolo ma delizioso spazio, mi venne la pelle d’oca; aggirarsi tra gli scaffali di una libreria che esponeva solo volumi dedicati al cinema fu per me un’emozione sovrapponibile solo a quella del Museo del Cinema di Torino. Al di là dei classici del settore, di alcune “chicche” dedicate ad autori più disparati e di nicchia ed allo spazio riservato alle cinematografie straniere, scorsi una serie di Dvd e mi colpì che tra questi non erano presenti tutti i film di Giuseppe; non mi meravigliai però più di tanto, perché da una persona schiva e riservata come lui c’era da aspettarselo. Nel locale si respirava un’atmosfera intima e familiare e, con mia grande sorpresa, scoprii che, la sera si poteva anche gustare un bicchiere di vino e qualche prelibatezza. Entrambi avevamo degli impegni e, dopo una breve chiacchierata, ci salutammo. Continuammo a cercarci ed un po’ per scherzo, gli lanciai l’idea del libro. Lo prendevo in giro. “Ma come è possibile, un regista che ha messo in piedi una libreria del cinema non ha un libro a lui dedicato?” Di rimando Giuseppe si scherniva e rilanciava: “Il libri di cinema non si vendono. Che lo facciamo a fare?”. Questo gioco andò avanti per un po’, ma sapevo che dentro di lui l’idea di questa avventura stava scavando un solco. Superate le sue ultime resistenze, decidemmo di rivederci in libreria e, di primo acchito, gli chiesi come mai alle pareti non ci fosse nessun manifesto dei suoi film. Lui mi fece cenno di aspettare e, come un bambino divertito, dopo qualche secondo, da un angolo nascosto della libreria, tirò fuori un bellissimo manifesto della versione americana di Fuori dal mondo, dove campeggiava un’intensa ed inedita Margherita Buy. Per ragioni di comodità ci trasferimmo a casa sua, in quella che definisce la sua “tana”. Alle pareti nessun manifesto dei suoi film, né un premio che testimoniasse la sua storia di regista. Nel soggiorno una libreria stipata di libri (non solo di cinema) e diversi Dvd, sparsi tra il tavolo, posto al centro della stanza ed impilati alla rinfusa su dei ripiani. Il pezzo forte dell’appartamento? Un terrazzo che Giuseppe utilizzava nei mesi caldi per qualche cena con amici. Abbiamo incominciato l’intervista quasi per gioco e, sin dalle prime battute, sono rimasto colpito dalla sua grande voglia di raccontarsi. Mentre riandava con 12


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i suoi ricordi a ritroso nel tempo, alle sue passioni cinefiliche dell’infanzia e dell’adolescenza, alle sue frequentazioni ai cineclub romani, dentro di me, mi chiedevo: “Perché amo il suo cinema?” Alcune risposte risalirono immediatamente a galla; perché si muove con passo felpato sullo schermo; perché le storie che racconta, intime e sospese, sono ammantate di spiazzante e dolorosa umanità; perché è il regista più “francese” del nostro cinema; perché con le sue storie “semplici” riesce a trapassare il cuore dello spettatore; perché il suo cinema non è definitivo e fa nascere desideri, perché con genuinità e leggerezza mette in campo lo smarrimento di chi vorrebbe vivere senza scosse ed assapora, invece, il vuoto, l’inutilità e l’insensatezza della propria esistenza.... Chi è forse Razzo, l’irregolare ed impulsivo co-protagonista de Il grande Blek? E non sono forse dei “perdenti” la svampita Elena ed il metodico Marco di Chiedi la luna?; il nevrotico e“sdoppiato” Roberto, protagonista di Condannato a nozze, i teneri e “sfortunati” Lucia e Stefano di Cuori al verde, gli “infelici” Caterina ed Ernesto di Fuori dal mondo, i dispersi Antonio e Maria di Luce dei miei occhi, i tormentati Stefano e Laura de La vita che vorrei e gli irrisolti Giulia e Guido di Giulia non esce la sera? Del resto lo stesso Giuseppe, nel descrivere il proprio cinema, in alcune pagine del suo sito, ha rilasciato questa poetica dichiarazione:“Nelle mie storie i protagonisti sono un po’ naufraghi, sempre sul punto di perdersi. Non sono dei vincenti, non riescono a far tesoro dei loro errori. Non sono soddisfatti di sé, hanno dei difetti di fabbricazione, si sentono inadeguati rispetto agli standard di efficienza e buon senso richiesti dalla vita normale. Insomma sono un po’ ‘fuori dal mondo’. (…) La loro quindi non è un’infelicità media in cui tutti si riconoscono. Non hanno certezze e cercano di aggrapparsi alla prima vera occasione di felicità che capita loro. Vogliono riempire quella distanza che li separa dalla possibilità di vivere una vita normale”. Ma il cinema di Giuseppe non è solo fatto di storie. Che dire del suo sguardo leggero, ironico e disincantato dei suoi primi film, della sua cura, quasi maniacale, per i dialoghi, della sua impeccabile scelta delle colonne sonore, delle sue indiscusse capacità di dirigere attori del calibro di Silvio Orlando, Sergio Rubini, Valerio Mastandrea, Luigi Lo Cascio ed attrici come Margherita Buy, Valeria Golino, Francesca Neri, Valeria Bruni Tedeschi, Asia Argento, Sandra Ceccarelli, Piera Degli Esposti? “La mia vanità non arriva al punto da farmi desiderare che qualcuno scriva un libro su di me ad ogni costo. La verità è che personalmente mi sento in grande difficoltà quando qualcuno pubblica una mia intervista, un mio intervento, insomma qualcosa che ha a che fare con le mie parole”, mi ha confidato, quasi sottovoce, mentre raccoglievo l’intervista. 13


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Schivo, riservato, nel corso delle nostre amichevoli chiacchierate, Giuseppe si è dato con impeto, passione e disponibilità, rispolverando dai cassetti della memoria, nomi, eventi, passaggi, che non aveva (forse) mai raccontato prima. Fedele al proprio cinema, nel corso dell’intervista, non hai mai cercato di impormi un proprio punto di vista ma, con garbo, mi ha spinto, invece, a percorrere dei sentieri inesplorati, invitandomi, assieme al lettore/spettatore, ad abbandonare quella sorta di sguardo “pigro” ed a rileggere i suoi film con la curiosità di chi, abbandonate le “solite” certezze, di fronte al flusso delle immagini, desidera solo perdersi e smarrirsi. “Bisogna che prima l’occhio dello spettatore abbandoni le sue abitudini, e che l’immaginazione e l’intelligenza accettino di seguire altre vie”. Ricordava il grande Krzysztof Kieslowski. Ed è proprio questo il suggerimento più accorato che Giuseppe Piccioni sembra suggerire al lettore/spettatore. “Non perdete tempo a dire male dei film che detestate, parlate invece dei film che amate e dividete con gli altri il vostro piacere”. Fedele a quest’affermazione di Jean Renoir proverò in questo volume a spingere il lettore a conoscere più a fondo Giuseppe Piccioni, autore di film che mi hanno rapito, commosso ed ipnotizzato, regista, a mio parere, ancora troppo misconosciuto presso il grande pubblico.

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Intervista a Giuseppe Piccioni

IS: Sei nato ad Ascoli Piceno, città cinematograficamente nota perché Pietro Germi vi girò nel 1972 Alfredo, Alfredo, uno dei suoi piccoli capolavori. Allora avevi diciannove anni. Eri lì, hai vissuto la lavorazione del film? GP: Mi è capitato spesso di incrociare la troupe. Quello che mi colpiva era questo grande assembramento di persone e di mezzi intorno ad un evento che non riuscivo a decifrare, perché nascosto agli occhi dei passanti. Avevi la sensazione che, oltre il muro di aiuto registi, maestranze, addetti della produzione, accadesse qualcosa di misterioso e di eccitante. Curiosando qua e là qualche volta scorgevi in un passaggio fugace, Dustin Hoffman o la Sandrelli, che venivano portati sul luogo delle riprese, protetti da un seguito di persone. Ricordo che si diceva che Hoffman fosse molto gentile e disponibile, che frequentasse le case di alcuni miei concittadini ma io non avevo il privilegio di far parte di quella cerchia di persone. IS: Perché lo girò ad Ascoli Piceno? GP: Non so dirtelo perché. C’era qualche frequentazione della zona. Non mi ricordo se Alfredo, Alfredo fu prima o dopo Serafino che fu girato nelle vicinanze. IS: Serafino è del 1968... GP: Tieni conto che prima di Germi ci fu Maselli con I delfini... IS: Un film straordinario con Claudia Cardinale e Tomas Milian... GP: Lì c’erano i caffè, la città da sfondo, riconoscibile. Un film ambientato in gran parte nel Caffè Meletti, questo caffè liberty dei primi del Novecento che insieme alla piazza è uno dei motivi di orgoglio dei miei concittadini. IS: Questi film hanno arricchito il tuo immaginario e spinto a fare il regista? GP: Incuriosito... Il mio immaginario si è formato in maniera piuttosto frammentaria, non del tutto consapevole. Io non vengo da una famiglia dove poteva essere naturale che nascesse un regista. La mia famiglia è di origini piuttosto semplici, con i classici genitori che facevano molti sacrifici per far studiare i figli e che mettevano al primo posto appunto lo studio, come momento fondamentale dell’educazione. Io sono l’ultimo di quattro fratelli (tre fratelli e una sorella) e forse, essendo l’ultimo, ho avuto contemporaneamente, insieme a un certo grado di protezione, la possibilità di schivare le aspettative eccessive che, per esempio erano tutte a carico del fratello maggiore. Insomma godevo di una certa libertà 15


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ed il fatto di avere dei fratelli maggiori costituiva una specie di cerniera di trasmissione di esperienze, ma anche di gusti musicali: dalle canzoni degli Anni Cinquanta (Neil Sedaka, Paul Anka) alla musica della mia generazione (i Beatles, il rock degli Anni Settanta). Il cinema è entrato in me con forza, più come spettatore televisivo, nei cicli del lunedì sera, piuttosto che sul grande schermo... Si trattava di cicli di film su grandissimi autori ed erano presentati da Rondi, Vieri Razzini, Claudio G. Fava... Mi ricordo un ciclo di film classici del muto, film dell’orrore: “Quando il cinema non sapeva parlare”. Io ero piccolo, li guardavo terrorizzato. Non ero un bambino che andava a letto dopo Carosello, nella mia famiglia non c’era quella disciplina così ferrea... Poi scoprii più tardi che quei film non erano semplici film dell’orrore (Nosferatu di Murnau, Il dottor Jekill e Mr Hyde di Rouben Mamoulian) e ne rimasi impressionato, spaventato, suggestionato. Capisci cos’era la televisione allora? Mi ricordo di aver visto Il settimo sigillo e, sebbene non ci avessi capito granché, ero totalmente soggiogato dal fascino di quelle immagini; la partita a scacchi con la morte, il volto di Max Von Sidow... Queste esperienze valevano di più del cinema della domenica, che era tuttavia presente nella mia vita. Mi ricordo quella sensazione di aver perso un pezzo di storia della mia generazione perché mi ammalai e non riuscì a vedere Ben Hur che mi sembrava bellissimo già solo dall’album delle figurine che fecero in occasione del lancio del film. Quell’album lo avevo completato e non ero riuscito a vedere il film. IS: Non sapevo questa storia delle figurine... GP: Erano bellissime. C’era, ad esempio, tutta la corsa delle bighe. Quelle foto erano talmente evocative che la sequenza vera e propria del film fu per me quasi una delusione. È stato con la televisione, grazie appunto ai miei fratelli maggiori, che ho cominciato ad avere familiarità con questi strani nomi che sentivo pronunciare da loro. Nomi suggestivi, nomi misteriosi: Robert Mitchum, Montgomery Clift, Richard Widmark, Rita Hayworth... Io sono nato come spettatore di cinema attraverso la televisione, lo ripeto, grazie ai miei fratelli maggiori. IS: Quanti anni avevano più di te? GP: Il più grande ne aveva otto, l’altro sei... Il primo era l’appassionato di cinema mentre dall’altro ho ereditato la passione per i primi gruppi di musica beat, le chitarre elettriche, è lui che portò in casa il primo disco dei Beatles, Help. Mia sorella aveva solo due anni più di me, con lei passavo la maggior parte del mio tempo. Quell’ondata di canzoni, film, riviste giovanili, fumetti eccitavano la fantasia di noi adolescenti. Erano il nostro pane quotidiano, la spinta verso un mondo diverso da quello della generazione dei nostri genitori. Si incominciava16


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no a incrinare i miti della carriera, di un avvenire fatto solo di denaro, famiglia, lavoro. I primi inquietanti interrogativi sull’esistenza di Dio... IS: Poi lo vedesti Ben Hur? GP: L’ho visto da grande. Sono quegli appuntamenti mancati che recuperi molto, molto avanti. Un po’ deludente... IS: Ma la corsa delle bighe... GP: Quello era tutto il nucleo del film, la violenza, la morte... Nel cinema di quegli anni quando vedevi i trailer, quello che ti colpiva era sempre una scena dove c’era qualcosa di raccapricciante, un braccio mutilato, una decapitazione... Il cinema conteneva questa specie di odore di zolfo e di sangue, suscitava emozioni primordiali, stupore... IS: Eppure nei tuoi film non muore quasi mai nessuno o più precisamente non vediamo mai la morte... GP: Nei miei film muoiono Razzo nel Grande Blek e Giulia, in Giulia non esce la sera. Eppure sono sempre stato attratto ed impressionato da certe sequenze. Non era sufficiente dire a me stesso: “E’ solo un film...” Una delle morti più incredibili è quella di Marlon Brando ne Gli ammutinati del Bounty... È trascinato fuori dall’incendio, i suoi compagni hanno appiccato il fuoco alla nave e non possono più andar via da quell’isola, e lui, tremante, fa quel discorso... Tutti lo guardano con un’espressione pietosa e capisci che è agli sgoccioli e non c’è più niente da fare e pensi: “Mo’ muore, mo’ muore, sta morendo”. Ci sono altre immagini nella mia memoria: Il testamento del mostro di Jean Renoir, una specie di remake de Il dottor Jekill e Mr Hyde... Il giorno dopo a scuola tutti imitavamo Monsieur Opale che ne combinava di tutti i colori; toglieva il bastone al vecchio e con quello lo picchiava con ferocia... Camminavamo tutti come lui, imitavamo la sua andatura strana, dinoccolata. Una grandissima interpretazione di Jean Louis Barrault. Questi film classici, quando anche noiosi, come poteva essere noioso vedere I sette samurai, oppure certi film d’avventura, lasciavano sempre un segno... Devo riconoscere che, stranamente, crescendo, ho messo da parte il piacere che avevo per il cinema d’avventura. I titoli di testa di un film western erano una promessa di eccitazione e di piacere e l’ingenuità di quello sguardo è stata irripetibile negli anni successivi. I western erano davvero qualcosa di elettrizzante: gli indiani... IS: Era un cinema che liberava l’immaginario... GP: Sì... Spero, andando avanti negli anni, di ritrovare da qualche parte quel pia17


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cere primitivo. Penso che nel nostro cinema un po’ manchi quella possibilità... Pensa a Cocteau che fa La bella e la bestia... S’affida a qualcosa che ha un carattere apparentemente popolare, anche se raffinato, però insiste su un elemento forte del codice del cinema fantasy. Quel piacere lì, mi piacerebbe sviluppare... IS: Un risveglio dell’Io infantile... GP: Sì. Ultimamente sono stato molto colpito da un film Lasciami entrare, quel film svedese... IS: Su quella bambina che è una vampira con gli occhioni spiritati. Un horror freddo e silenzioso. GP: Penso poi a certi film del realismo poetico francese, visti anche quelli grazie a mio fratello, interpretati da Jean Gabin e pensavi a quest’uomo dallo sguardo malinconico e tuttavia forte, un perdente affascinante, che non si corrompe. Un uomo che aveva il coraggio di andare incontro al suo destino, che parlava e si muoveva in modo essenziale, senza retorica o narcisismo. Senza mai perdere in dignità. IS: L’opposto dei personaggi un po’ meschini ed imbroglioni presenti nella commedia all’italiana... GP: Sì. Io prediligevo un cinema dove non c’è il piccolo eroe meschino, sempre sconfitto dalle circostanze, sempre un po’ patetico... IS: Personaggi come Jean Gabin per un ragazzino erano dei modelli d’identificazione molto forti... GP: Noi abbiamo vissuto un periodo in cui, metabolizzavi i vizi degli attori italiani che hanno dominato la scena e che hanno riempito il nostro immaginario. I loro modi di dire facevano parte di un sentire comune che irrompeva immediatamente nella tua vita e, nel bene e nel male, diventavi complice di quei comportamenti, fino ad assolverli. Però bisogna anche dire che la televisione era anche un luogo, negli spettacoli del sabato sera, dove questi attori difficilmente perdevano la faccia, cosa che adesso succede molto di frequente. Allora vedevi Mastroianni che andava a Studio Uno ed avevi la sensazione che anche lì ci fosse una promessa di spettacolo, che non saresti rimasto deluso. IS: Andava Totò... GP: Vedevi Alberto Sordi, lo stesso De Sica che cantava e non avevi la sensazione che potesse rendersi ridicolo. Mastroianni lavorava con Visconti e con Fellini ma non è che quando andava in televisione non facesse spettacolo. In 18


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generale, nonostante le censure di quella televisione, il pubblico era rispettato molto di più di quanto accada oggi. Mia madre, che era una donna semplice, si fermava a vedere in televisione I Miserabili oppure I Fratelli Karamazov, con le lentezze di Anton Giulio Majano, con quei grandissimi attori... IS: Umberto Orsini, Salvo Randone, Tino Buazzelli, Valentina Cortese, Rossella Falk... GP: Tino Carraro, Lea Massari... Alla fine mia madre si alzava dalla sua sedia in fondo alla stanza e diceva: “Che bel lavoro...” IS: Una televisione che ti nutriva ancora... GP: Certo era una televisione piena di contraddizioni, era quella di Bernabei ma anche felicemente divulgativa... C’è qualcosa che mi fa sentire fortunato di essere vissuto in quell’età dell’oro del cinema e della televisione. IS: Hai fatto il pieno di cinema con la televisione e ti sei laureato in sociologia ad Urbino. Volevi prenderti il “pezzo di carta”o già allora pensavi di fare il regista? GP: No, avevo qualche velleità ma questa spinta dentro di me era sempre piuttosto clandestina. Ci sono degli amici che mi raccontano che avevo già intenzione, che avevo già manifestato... A me non sembra sia andata così. La sensazione che avevo era quella, anche un po’ velleitaria, di cercare qualcosa che mi facesse sfuggire dal destino di una vita “normale”. Dico velleitaria perché era condivisa da quelli della mia generazione, quello che contava era l’espressione di sé, non certo la carriera. Per alcuni ha avuto effetti devastanti; l’incapacità di adattamento, di stare al passo con la realtà... Molti si sono perduti, in maniera anche drammatica. Provammo a quei tempi a fare un gruppo musicale, come molti, poi ci fu la politica, sempre alla ricerca di qualcosa che ci salvasse. Quando andò in crisi il modello “politico”, e quindi la convinzione di poter cambiare il mondo attraverso l’attività politica, il cinema fu una scoperta, una visione del mondo, un po’ come uno scopre la religione cattolica o il rock and roll, qualcosa in grado di mostrarti un orizzonte più ampio. La sensazione era che quella cosa ti riguardasse da vicino, come un richiamo. E poi la scoperta del cinema indipendente americano Quel pomeriggio di un giorno da cani, Il laureato... Il laureato è un film sconvolgente; nessun “autore” lo cita tra i suoi film preferiti, tutti lo sottovalutano, forse perché ebbe un grande successo commerciale. Ma quel film sembra girato oggi e Mike Nichols è stato uno dei più grandi talenti di quegli anni. Mi piacque moltissimo Jack Nicholson in Conoscenza carnale. Erano grandi film, diretti da grandi registi che, pur non essendo italiani, riuscivano a raccontarti qualcosa che riguardava la tua vita, il tuo mondo, i tuoi problemi con la famiglia o con le ragazze. Ti dicevano qualcosa di più di quel19


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lo che potevano dirti i film italiani di quegli anni. Poi la commedia italiana viveva il suo momento di declino. Gli attori di quegli anni; De Niro, Pacino... La conversazione di Coppola. Come spettatore ho vissuto anche periodi in cui sono stato uno spettatore medio, nel senso che non snobbavo l’intrattenimento puro, la serie dei Trinità... e tutti il western italiani. Con un gruppo di amici avevamo sviluppato una predilezione un po’ elitaria, intellettualistica, verso i film “peggiori”; andavamo a vedere tutti i film giapponesi di Kung-fu, i Godzilla, ma anche tutti film di Franco e Ciccio, i film di fantascienza giapponesi e tutti film della Hammer, quelli dell’orrore. Difendevamo quei film contro tutto e tutti, non facevamo che citarli, prenderli a modello a volte anche contro il cinema d’autore, quello ufficiale. IS: E Roger Corman? GP: Sì, Il pozzo ed il pendolo... Quando poi sei ragazzo privilegi una specie di devianza che c’è nell’attrazione per l’horror e, in letteratura, sei più legato ad Edgar Allan Poe che a Pascoli, preferisci I fiori del male a Manzoni. Eravamo in contatto con dei gruppi milanesi che avevano fatto una rivista che si chiamava Frankenstein. Boris Karloff era il nostro idolo. Insieme a Vincent Price, Cristopher Lee, Peter Cushing. Questi nomi per noi erano estremamente familiari. Il primo romanzo che ho letto, prima ancora di Guerra e Pace, è stato Dracula di Bram Stoker, una lettura indimenticabile. IS: Film con quei colori sparati... GP: Quei rossi... È stato importante. Mi ricordo tra l’altro un film più recente, un film in cui Dracula s’innamorava di un’infermiera che aveva trovato l’antidoto per poterlo fare uscire di giorno, credo fosse ancora Peter Cushing ad interpretare Van Helsing, il suo cacciatore. Beh un giorno, con suo grande stupore, Van Helsing vede Dracula camminare tranquillamente di giorno in una strada cittadina e gli dice: “Ed adesso lei vorrebbe farmi credere che un vampiro può uscire di giorno...”. Battute paradossali come questa, erano il nostro pane... Poi Roma per me è stata l’incontro con tutto il cinema d’autore. Avrò avuto ventuno anni... Andai a Roma per seguire una donna di cui ero innamorato e che frequentava l’università. Con lei mi sono anche sposato. Ero un ragazzo che non sapeva bene cosa fare della sua vita, senz’arte, né parte, appunto. Facevo piccoli lavori, mi ero appena laureato e cominciai anche a fare delle supplenze... Ero fortunato perché passavo gran parte del tempo in questi cineclub, Roma ne era piena; potevi vedere un ciclo di film su Isa Miranda oppure su Vincente Minnelli, Bergman, Hitchcock, Kurosawa, Lang o una rassegna sul cinema noir. In un solo giorno potevi vedere tre film e sentivi che avevi ancora più fame di cinema, più voglia di conoscere, di sapere tutto su certi registi, su quegli attori. Questo terremoto 20


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emotivo era vissuto in gran parte in solitudine. Qualche volta mi è capitato di andare con qualche amico o con qualche amica, però la decisione veniva presa in fretta, non si poteva aspettare “quello viene, non viene”. In quei luoghi, che erano veri e propri luoghi di culto, trovavi tante anime affini, molti spettatori solitari. Negli anni successivi mi è capitato di conoscere molte di quelle persone che incontravo nei cineclub, in particolare tutte quelle che hanno ideato e organizzato queste rassegne e che lavoravano nelle associazioni che hanno fatto la storia di quegli anni. A loro non smetterò mai di essere grato per quello che hanno fatto. Forse non ne sono del tutto consapevoli, ma hanno lasciato un segno così significativo nella vita di tutti. Non mi sembra che il loro lavoro sia stato riconosciuto come avrebbero meritato. Agli amici de L’Officina, Il Labirinto, il Filmstudio, L’occhio, l’orecchio, la bocca, il Sadoul e a tutti gli altri il mio grazie. IS: Sei un truffauttiano purosangue... GP: Truffaut. L’ho scoperto appunto in quei cineclub... È stato veramente una grande scoperta. Poi c’era il mio amico Antonello (Grimaldi) con cui condividevo questa specie di culto. IS: Amavi Fritz Lang? GP: Tantissimo... La donna del ritratto con quel finale. Ma lì fu Hollywood però... A me non importa però se i finali sono un po’ camuffati, un po’ voluti dai produttori. Non giudico mai un film dal finale... Io penso che i film finiscano sempre un attimo prima dei finali veri e propri. Tanto è vero che anch’io mi sono un po’ portato dietro questa cosa; se ci fai caso in Chiedi la luna, La vita che vorrei, faccio una specie di finale del desiderio, un “finalissimo” che non è un finale del tutto coerente con l’impianto narrativo. La vita che vorrei finisce con la scena dell’ultimo giorno di riprese del film in costume e poi però c’è la scena dell’ospedale che trovo preziosa, soprattutto per la bravura dei due attori. A quel punto della storia il film si avventura in una zona diversa, c’è uno scalino da fare, un piccolo passo verso l’improbabilità. C’è quasi in tutti i miei film, un finale del desiderio, che non è nell’impianto narrativo della storia, in Chiedi la luna, in Luce dei miei occhi, i finali li lascio sempre un po’ aperti... IS: Per non lasciare l’amaro in bocca alo spettatore? GP: Non è nei confronti dello spettatore, è come se si trattasse di me. IS: Per non salutare bruscamente la storia? GP: Ho bisogno che questi pupazzetti possano guardare davanti a sé con un minimo di speranza. 21


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IS: Non c’è il rischio di un finale consolatorio? GP: Dire che un finale è consolatorio non mi sembra opportuno, se un film nel suo complesso non lo è. Non lo so; lo ripeto, non ho mai giudicato un film per un finale, o forse sì, nell’età dell’innocenza. Certo posso essere deluso... Però mi sembra anche consolatorio il finale di Butch Cassidy dove Robert Redford e Paul Newman escono con le pistole... IS: E si capisce che dopo un secondo verranno uccisi... GP: C’è il fermo fotogramma che li rende immortali... Poi è stato ripreso da altri, da Bruce Lee... Penso più a quello, ad una sorta di patto che faccio con i miei protagonisti. E con il pubblico, ma è un patto leale. Trovo meschino mettersi lì a giudicare un film dal finale. IS: È custodirlo in un cassetto e rendere più soffice la morte del film? GP: Sì, forse sì. È che mi spaventa la parole FINE… Che poi io sono un gran fifone pure nei confronti di questa cosa (morire), ancora non ci ho fatto i conti veramente... Sul desktop del mio computer c’è immagine della morte de Il settimo sigillo... IS: Mi colpiva, infatti, già nel tuo primo film Il grande Blek c’è questo dialogo sulla morte che fanno i due giovanissimi protagonisti: “Certe volte penso alla morte, al fatto che morirò, io c’ho paura; quelli che dicono di non aver paura della morte non li capisco, non ci credo. Ci sono persone che prima di morire si mettono addirittura a fare discorsi, si mettono a dare conforto agli altri. È assurdo! “, e poi “Avrò 46 anni nel 2000, faremo in tempo a vedere il terzo millennio?” GP: Sì, sì... Questo pensiero era più ossessivo quand’ero giovane, La morte di Ivan Illic di Tolstoj è stata una delle mie letture preferite di quegli anni, ma anche una delle più inquietanti. Però non mi rendevo conto di quanto la morte fosse un fatto fisico, la mutazione di uno stato... Di questo ti accorgi, invecchiando, capisci che la morte non è un processo di estinzione, di esaurimento progressivo delle energie. Certo l’invecchiamento, la perdita di una certa efficienza fisica, sono fuori discussione, ma si può morire relativamente in buona salute, passando da un relativo stato di efficienza, di buona salute appunto, ad un altro stato... Quindi è un passaggio relativamente brusco, penso a Monicelli alle sue interviste fatte davvero pochissimo tempo prima della sua scomparsa. Ma che discorsi mi fai fare? IS: Hai frequentato i cineclub e poi iniziato la scuola Gaumont diretta da Renzo Rossellini.. GP: Era una scuola creata all’interno di un’industria, la Gaumont, e fu una deci22


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sione di Renzo Rossellini. Funzionò per due trienni e ebbe termine con la crisi della Gaumont Italia. IS: Chi c’era che frequentava la Scuola con te in quegli anni? GP: C’erano Daniele Luchetti, Carlo Carlei, Antonello Grimaldi, Valerio Jalongo, direttori della fotografia come Sandro Pesci, montatori come Angelo Nicolini (ha montato i film di Rubini e i miei primi) e poi Domenico Procacci, che poi è diventato il produttore che è adesso. E sceneggiatori come Gualtiero Rosella, Maura Nuccetelli, Fabrizio Bettelli e tanti altri... IS: Hai iniziato con dei cortometraggi? GP: Feci un paio di Super8 ed un 16 millimetri che si chiamava Il prologo che non ho mai editato e non ho mai finito perché non mi piaceva quello che avevo fatto. Era una specie di esercitazione, era così scombinato. Lo feci proprio durante l’esperienza della scuola di cinema Gaumont. Per fortuna se ne sono perse le tracce... IS: L’anno successivo, nel 1983 hai partecipato al soggetto Juke-box commedia scritta insieme a Luchetti, Carlei, Jalongo, Antonello Grimaldi... GP: Era il film saggio della Scuola Gaumont. Dove ho partecipato alla sceneggiatura di un episodio. Ma non è un episodio fondamentale del mio curriculum. Nel senso che la mia partecipazione alla scrittura fu piuttosto blanda, marginale. IS: Hai mai fatto l’aiuto-regista? GP: No, niente... Sono andato un paio di volte sui set... Dico la verità, ho avuto la sensazione, un po’ presuntuosamente, di capire subito cosa stesse accadendo, insomma di non aver bisogno di quel tipo di apprendistato per capire come si gira una scena. Non ho mai portato un caffè, non ho mai fatto la cosiddetta gavetta. Può non risultare simpatico ma è qualcosa che, a conti fatti, mi inorgoglisce. IS: Hai girato Il grande Blek, il tuo primo film a trentaquattro anni. Eri vecchietto... GP: Ero vecchietto perché avevo fatto la scuola di cinema a ventisette anni, che è il limite d’età per essere ammessi al corso di regia del Centro Sperimentale di Cinematografia. A quel tempo facevo delle supplenze, insegnavo materie assurde; “Matematica applicata” ed avrei potuto insegnare addirittura “Ragioneria”... Ero laureato in Sociologia e avevo bisogno di lavorare. Ho fatto supplenze per tre anni e qualche volta mi davano anche lo stipendio estivo... Ero il più ricco di tutti i miei amici. Ho fatto piccoli lavori qua e là. Era difficile per noi sperare di sopravvivere lavorando nel cinema, perché quello era un momento di crisi profonda. I film ita23


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liani, soprattutto degli esordienti, quasi mai uscivano nelle sale o venivano distribuiti. Quando uscì Il grande Blek fu un piccolo evento. Incassò molto poco ma il fatto che avesse una distribuzione sembrò già un piccolo miracolo. Ho fatto questa scuola e dopo ci sono stati anni di attesa, di grande fatica. Scrissi questo trattamento e finalmente incontrai Roberto Faenza e Elda Ferri che avevano la cooperativa Jean Vigo. A loro piacque la storia e decisero di chiedere dei finanziamenti al Ministero. Maura Nuccetelli scrisse con me la sceneggiatura. La Jean Vigo ottenne il finanziamento ma non se la sentì di produrlo. Così insieme ad alcuni compagni di scuola della Gaumont, tra cui Domenico Procacci che iniziò a fare il produttore proprio con Il Grande Blek, formammo una cooperativa che si chiamava Vertigo Film, decidemmo di produrre noi il film, grazie anche al fatto che la Jean Vigo fece trasferire il finanziamento del Ministero alla nostra società. Per sopravvivere cercammo anche di fare qualcosa di non indimenticabile come piccoli spot o documentari aziendali. Esistono certi siti che dicono che ho iniziato facendo spot e videoclip. Non è vero; ho girato un solo videomusicale perché vinsi un concorso che si chiamava Fame (parola inglese), forse saranno famosi, dove partecipai scrivendo la sceneggiatura di una canzone di Ron. Al vincitore veniva data la possibilità, appunto, di fare la regia di questo videoclip. In questo concorso c’era tutta gente che usciva dal Centro Sperimentale, alcuni sono oggi registi importanti. Io vinsi questo premio, era una piccola soddisfazione, nient’altro. Ma mi diede un piccolo incoraggiamento a continuare. Poi prendemmo il finanziamento per il film... Domenico Procacci era uscito dalla Scuola Gaumont con l’idea di fare il regista e realizzò anche un cortometraggio dal titolo: Zucchero? No grazie. Lui era già un ragazzo molto sveglio e capace, sapeva fare un piano di lavorazione, aveva già un atteggiamento molto propositivo sul piano organizzativo ed era anche capace, già allora, di trasmettere un certo entusiasmo. Sebbene fosse molto giovane era capace di rassicurarti, incoraggiarti. Fui io a chiedergli di fare il produttore e di accantonare, per un po’, il suo progetto di diventare regista. Subito dopo Il Grande Blek Domenico fondò la Fandango e produsse La stazione di Rubini. IS: Il Grande Blek fu subito premiato con il Premio De Sica... GP: Sì, nonostante una stroncatura memorabile di Paolo D’Agostini su “La Repubblica”. Il Grande Blek andò al Festival di Sorrento di cui era direttore Gianluigi Rondi dove vinse e fu accolto con grande calore… Quando uscì la recensione di D’Agostini io ero molto preoccupato, pensavo ai miei amici, a mia madre, a mia sorella che mi telefonò preoccupata. Insomma fu un impatto abbastanza difficile con la critica. Invece quello stesso giorno fui premiato come miglior film. 24


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IS: Nel film compaiono la lambretta, accenni al Giro d’Italia con Gimondi, Zilioli, all’uccisione di J.F. Kennedy, all’acquisto della prima televisione con un omaggio a La signora delle camelie con Greta Garbo, compare sullo sfondo la lotta politica con gli scontri giovanili tra destra e sinistra... GP: Di quel film ho un ricordo affettuoso e quello che mi piace è proprio quello che è meno narrativo; la frammentarietà di quei quadri che sono slegati, tutto ciò che è legato al colore, a un certo tipo di luce; era anche il primo film di Alessio Gelsini, il direttore della fotografia... E poi c’era il tentativo di parlare di quegli anni con la semplicità di un raccontino illustrato, come in un piccolo fotoromanzo d’epoca anche perché, in provincia, accadeva spesso che fascisti e comunisti si conoscessero, o appartenessero a famiglie che si conoscevano e c’era anche questo lato un po’ superficiale della lotta politica. Ci sono dei momenti che provo imbarazzo nel rivedere questo film ed altri in cui lo vedo con indulgenza. In qualche caso con soddisfazione. C’è qua e là qualche piccola perla... IS: C’era la locandina di Zabriskie Point, dei riferimenti a David Bowie, come colonna sonora le canzoni di Little Tony, di Adamo, di Rita Pavone e tanto Lucio Battisti … GP: Ho sempre pensato che la mia carriera fosse nata con Fuori dal mondo, nonostante Chiedi la luna rappresenti un piccolo importante momento di passaggio. Ho come la sensazione che non fossi del tutto consapevole nei miei primi film. È come se avessi, tardivamente, raggiunto la compiutezza e una maggiore consapevolezza di me, eppure Il grande Blek era visivamente più generoso di tanti altri che ho fatto dopo. Ci sono nella piazza tre carrellate ripetute, sullo stesso movimento, su questi amici che passano il tempo seduti in una specie di nicchia sulla facciata di una chiesa. IS: Con Fuori dal Mondo entri in partita... GP: Sì... È come se avessi detto a me stesso: “Basta, finora hai fatto solo dei tentativi...”. Intendiamoci devo moltissimo a Il grande Blek, sono felice di averlo fatto, anche se ritengo Fuori dal mondo il mio vero film d’esordio o per meglio dire un mio nuovo esordio, più consapevole. IS: Ne Il grande Blek eviti qualsiasi riferimento ad Ascoli Piceno e descrivi un luogo non facilmente identificabile. Era per nascondere le tue origini? GP: Non volevo nascondere niente, anzi. Ma non volevo indulgere in una caratterizzazione localisitica della storia, andare nei dialetti… Volevo che quella città fosse rappresentativa di un’idea di provincia più estesa.

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IS: Ne Il grande Blek c’è un bel cast di attori... Francesca Neri è al suo film d’esordio... GP: Usciva dal Centro Sperimentale e litigammo moltissimo. Lei fu scelta perché era molto bella, ci conquistò tutti. Però si presentò sul set, ingrassata, aveva tagliato i capelli che avevano una tinta inguardabile... Per cui, diciamo che fui un po’ punitivo nei suoi confronti e ridimensionai la sua partecipazione. IS: Anche Roberto De Francesco era al debutto... GP: Roberto anche lui, era un allievo del Centro, un pupillo di Giuseppe De Santis. Per me era una specie di Jean Pierre Leaud, il personaggio-testimone che racconta, l’Io narrante di una generazione... È strano poi che non abbiamo più fatto film insieme. IS: E poi Rubini che aveva già interpretato alcuni film; Figlio mio, infinitamente caro di Valentino Orsini, Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, L’intervista di Fellini... GP: Credo che Rubini in quel film trovò qualcosa che gli permettesse di orientare meglio la sua carriera d’attore… Ne Il grande Blek, come in teatro con Umberto Marino, inventò questa specie di “meridionalese”, una misto di pugliese/romano. Fu durante le riprese de Il Grande Blek che Rubini cominciò a capire qualcosa della macchina cinema e ad interessarsi alla regia. IS: Un film ingenuo ma intimo e delicato… GP: C’era la voglia di fare un film dove s’inventassero delle cose, ci fosse una pretesa d’immediatezza emotiva. Più che ingenuo, direi con delle ingenuità anche un po’ naif. Lo farò riuscire, lo riedito in Dvd. IS: Si intravede però sin da questo tuo film d’esordio la cura per i dialoghi. GP: Sì, già allora c’era questo tentativo di mettere insieme delle parole non ovvie. Quel “Vorrei partire ma non vorrei perdermi tutto quello che succede qui”. IS: Molti critici del tempo, prendendo spunto dall’incipit e soprattutto dal finale del film (Yuri è in stazione che aspetta il treno che lo porterà lontano dalla cittadina di provincia dove è nato) lo paragonarono, secondo me a torto, a I vitelloni di Fellini... GP: Naturalmente, I Vitelloni è uno di quei film che avrò visto decine di volte... Può aver in comune l’ambientazione in provincia ed una fase della vita, la cosiddetta linea d’ombra che separa l’adolescenza dalla maturità, e poi alcune suggestioni che sono la stazione, la partenza, la passeggiata al mare, in spiaggia, il fatto 26


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che ci siano comunque alcuni segnali di questa inesorabile ciclicità del vivere, la morte di Razzo, anticamera della nuova esistenza di Yuri, ma, ovviamente, credo un paragone tra i due film sia del tutto a mio svantaggio. IS: Amavi veramente il “grande Blek”, l’eroe del fumetto ideato da Giovanni Sinchetto, Dario Guzzon e Pietro Sartori, a cui si ispira il titolo del film? GP: Io ed i miei fratelli, ancor più di me, leggevamo Il grande Blek e Capitan Miki. Capitò, una volta di ammalarmi e il giornalaio sotto casa mi portò i primi cento numeri di Tex. Tex era più “cool”, più duro, Blek era un personaggio più lineare, privo di ombre. Alla fine di ogni storia quasi sempre c’era un tipo con la faccia da traditore, barbetta ispida non rasata e con una pistola in pugno, appostato dietro un nascondiglio nell’intento di uccidere Blek. Immancabilmente ogni volta c’era il fumetto che riportava il suo pensiero, i suoi propositi malvagi: “Ecco Blek è davanti a me, non posso fallire, prenderò con cura la mira e lo ucciderò ed intascherò i soldi della taglia”. Poi la storia si interrompeva con la classica didascalia “Continua”. Il numero successivo ripartiva dalla situazione che avevamo lasciato in sospeso. C’era sempre questo tizio, il traditore, e sempre con il suo pensiero: “Blek è davanti a me, non posso fallire”. Il tizio sparava, Blek si gettava a terra, riuscendo ogni volta a schivare le pallottole. Gli eroi dei fumetti non muoiono mai e nemmeno invecchiano. Un romanzo di formazione per usare una formula pigra e abusata. IS: Quattro anni dopo è la volta del delizioso Chiedi la luna... GP: Stavolta Paolo D’Agostini, il critico di “Repubblica” che aveva stroncato Il Grande Blek scrisse che si trattava di “Un piccolo capolavoro di garbo e leggerezza”. Il film andò a Venezia, venne invitato a quelle che erano chiamate Le Mattinate del Cinema Italiano. Era nato come un film per la televisione, doveva durare cinquantadue minuti ed aveva dei forti limiti di budget. Io tentai in tutti i modi di convincere il produttore Mario Orfini e Rai 2 a fare una versione di un’ora e mezza e farlo uscire nei cinema. In questo ebbi il sostegno di Max Gusberti che dirigeva la struttura di Rai 2. Gusberti era davvero affezionato a questo progetto. L’avevo scritto con Franco Bernini da un soggetto suo e di Enzo Monteleone. Guglielmo Biraghi, allora direttore del Festival di Venezia ci chiese se poteva vedere il film. Chissà perché rimase da solo a vedere il film, nella grande sala dell’International Recording, la sala dove stavamo mixando il film. Rimase colpito, toccato emotivamente: “Lo mettiamo nella Mattinate italiane...” ci disse. Per noi già il fatto di essere invitati equivaleva ad un premio. Quando il film andò a Venezia non c’era nessuna attesa e, forse, anche per questo motivo, la proiezione in sala grande ebbe un’accoglienza incredibile. In Chiedi la luna racconto queste due persone che all’inizio sembrano stereotipate; l’uomo in gri27


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saglia, la ragazza un po’ svampita... Poi nei passaggi successivi della storia questo cliché si modifica, anche grazie ad alcuni eventi esteriori, il conflitto tra i due sfuma sempre più, le loro rispettive immagini cambiano ed emergono tra i due dei punti di contatto. IS: Lui mette il giubbotto rosso, lei si toglie gli orecchini... GP: Sì, attraverso tutti questi segni i due finiscono per trovarsi in una specie terra di nessuno dove emergono delle somiglianze; lei non è più la rappresentazione macchiettistica di se stessa, lui non è più il nevrotico piccolo yuppie di provincia e scoprono di essere semplicemente una donna ed un uomo. IS: Nel film assistiamo, infatti, ad un’evoluzione del personaggio di Elena... GP: Elena è ancora innamorata di Giacomo; ostenta, inizialmente, un atteggiamento di indifferenza ma in realtà ha delle aspettative... È la solita cattiva ragazza, svampita, negativa, dietro la quale si nasconde una donna che ha delle debolezze, ha paura di invecchiare, di restare sola, è stanca di girare a vuoto, di recitare sempre la parte di quella che non ha preoccupazioni per sé e per il suo futuro. Attraverso questo viaggio e lo sguardo di Marco, acquista man mano consapevolezza di sé, diviene adulta. IS: Marco mi sembra una persona responsabile; il fratello è andato via con dei soldi, con un’auto di rappresentanza e lui è costretto a mettersi sulle sue tracce per capire cosa sia successo… GP: Sì, ma il suo senso di responsabilità è a scapito della sua felicità. Non ha affetto per sé stesso, non si concede nulla. Per questo teme Elena ma ne è fatalmente attratto, è la sua occasione, la possibilità per una volta, di fare un giro sulla giostra, senza pensare a doveri, responsabilità e altro. IS: Una sorta di romanzo di formazione? GP: C’era questa idea di tratteggiare, in maniera molto elementare, i personaggi nelle loro differenze più esteriori e di rivelarli in maniera più attenta, più sincera e vera nel corso della storia. In fondo quelli erano anni di passaggio. Si cominciava a pensare al denaro, alla concretezza, si mettevano da parte le illusioni di una generazione che cominciava a cambiare pelle. Il comportamento di lei in fondo era quello di molti che continuavano a seguire l’idea di una vita ai margini, un po’ folkloristicamente legati a una sorta di integrità nei comportamenti e nelle scelte, sempre preoccupata di non piegarsi, di non farsi prendere dal sistema al contrario di altri che lo abbracciavano con altrettanta stoltezza. Un film che mi ha aiutato ad andare avanti, con dei dialoghi interessanti che mi 28


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ha fatto scoprire Margherita Buy. Ricordo che chiesi a Scarpati di fare, in chiave di commedia, quello che Cary Grant fa in Notorius... Irriducibilmente immusonito, sempre contrariato. IS: In questo film Laura esclama: “È fuori dal mondo”... GP: Mary Sellers... un’attrice bravissima, avrebbe potuto fare tanti più film in Italia ma era americana e il suo accento e la pigrizia del nostro cinema non l’hanno aiutata. IS: Il personaggio di Rubini era molto divertente e singolare… GP: È un personaggio di cui sono molto contento. “L’uomo inutile” è una citazione dostojevskiana in chiave parodistica e poi ho un ricordo efficace di questo personaggio così scoperto, indifeso. Uno che teme di essere sminuito dal fatto di non avere una partita Iva... IS: Chiedi la luna è la prova che hai nelle tue corde la commedia… GP: Penso alla scena del casolare… Questo film è stato girato in quattro settimane e due giorni, una specie di record per quegli anni, per cui le riprese dovevano essere estremamente semplici. Eravamo in ritardo sulla lavorazione ed in scena avevo tre attori; Citran, Buy e Scarpati. Dovevamo andare via da questo casolare e mancava una scena in cui loro parlavano, si spostavano, la classica scena in cui c’è bisogno di fare molte inquadrature. Non avevamo tempo a disposizione così decisi di fare di necessità-virtù e, con la macchina da presa, scelsi un solo punto d’osservazione, come in certi vecchi film in bianco e nero. IS: A proposito di inquadrature, fai piani sequenza? GP: Li faccio però non mi spavento, se vedo la necessità di tagliarli al montaggio. Però sì, mi capita di farli. IS: Perché secondo te c’è questo mito dei piani sequenza? GP: Sono di derivazione scolastica, di iniziazione al cinema e purtroppo molto spesso non denotano maturità, ma al contrario un atteggiamento tipico del principiante che pensa che la regia sia lasciare un segno evidente, come rendere apparentemente molto visibile il movimento di macchina. Quando giri un piano sequenza sai che devi arrivare alla fine della ripresa senza che ci siano errori, che i movimenti di macchina devono essere tutti giusti; l’assistente operatore deve riuscire a mantenere il fuoco sui personaggi dall’inizio alla fine, non devono esserci difetti dal punto di vista tecnico, della luce ecc... e poi tutta la recitazione deve essere all’altezza dall’inizio alla fine. Al primo errore sei costretto a rico29


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