Il cinema di Mario Martone

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VIAGGIO

IN ITALIA

una collana diretta da Fabio Francione


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EDIZIONI

FALSOPIANO

AVVENTURE DI CONFINE il cinema di Mario

Martone

a cura di Alberto Morsiani Serena Agusto


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Volume realizzato in occasione della rassegna Avventure di confine - Il cinema di Mario Martone, curata da Alberto Morsiani e Serena Agusto per l’Associazione Circuito Cinema, Sala Truffaut - Modena (2 novembre - 21 dicembre 2012) Il volume e la rassegna sono stati realizzati grazie alla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena

In copertina: Noi credevamo (2010)

I curatori ringraziano per la gentile collaborazione Mario Martone, Mimmo Paladino, Emilio Mazzoli, Roberta Scaglione, Maurizio Lanzetta, Monica Biancardi, Pietro Valenti.

Š Edizioni Falsopiano - 2012 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini Stampa: Arti Grafiche Atena - Vicenza Prima edizione - Novembre 2012


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INDICE Conversazione con Mario Martone Serena Agusto

p. 9

L’occhio, l’orecchio e il cuore. Mario Martone tra teatro, musica e cinema di Gianfranco Capitta

p. 19

Corpi sulla corda. L’inquieta fisicità del cinema di Mario Martone di Roberto Chiesi

p. 25

Questi fantasmi. L’amore molesto di Mario Martone e Elena Ferrante di Paola Cristalli

p. 37

Una tragedia per due città: Teatro di guerra di Pierpaolo Loffreda

p. 47

Il matematico e il patriota. Martone e l’opacità della Storia di Alberto Morsiani

p. 57

Dalla natura di Napoli. Qualche nota sui film d’arte di Tullio Masoni

p. 65

Inserto fotografico

p. 75

Mimmo Paladino per Mario Martone

p. 77

Antologia della critica

p. 117

Filmografia

p. 145

Bibliografia

p. 153

Cenni biografici

p. 167

Nota editoriale di Fabio Francione

p. 169


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CONVERSAZIONE CON MARIO MARTONE Serena Agusto Mario Martone grande regista prima teatrale e poi cinematografico, inizia la carriera a Napoli che diventa protagonista del suo primo ciclo produttivo da Morte di un matematico napoletano (1991) a La salita... Prima del ’91 non avevo mai direttamente affrontato Napoli nei miei lavori teatrali, sebbene mi sia sentito sempre molto legato alla città. Vivevo a Napoli ma i miei spettacoli guardavano altrove, pieni di riferimenti all’arte contemporanea e di citazioni cinematografiche. Poi nel 1991 c’è stata la svolta: a teatro ho realizzato lo spettacolo Rasoi insieme a Toni Servillo ed Enzo Moscato (diventato successivamente anche un film) e poche settimane dopo ho iniziato le riprese di Morte di un matematico napoletano. Erano i miei primi lavori che avevano la città come protagonista. Napoli è indubbiamente una città potente dal punto di vista cinematografico, ma per me, nell’affrontare il mio primo film, contava soprattutto la dimensione biografica: Morte di un matematico napoletano si svolgeva nel palazzo dove avevo vissuto con la mia famiglia. Ho trascorso tutta la mia giovinezza nello stesso palazzo dove aveva vissuto Caccioppoli, il matematico di cui trattava il film. La porticina della sua casa rappresentava per me un mistero, una soglia da varcare con la macchina da presa. Caccioppoli era una sorta di fantasma della mia adolescenza. Non a caso in questo “viaggio” mi fece da Virgilio Fabrizia Ramondino, una scrittrice il cui rapporto tra la dimensione biografica e la scrittura era molto stretto. Anche per lei lavorare a questo film significava avere a che fare con i suoi ricordi, con la sua famiglia (sua madre e sua zia erano state amiche di Caccioppoli). Per noi tutto il periodo delle “visite” (così chiamavamo gli incontri con le persone che avevano conosciuto il grande matematico, cercando di farci un idea, di costruire un mosaico) costituiva anche un percorso introspettivo. Da allora, dal mio esordio al cinema, questo corpo a corpo biografico non è mai venuto meno. Anche Noi credevamo, ambientato nell’800, che potrebbe sembrare quanto di più lontano dalla mia dimensione biografica, è pieno di riferimenti personali. Il Cilento,

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dove ho girato gran parte del film, dove ha origine la storia che vi si racconta, è l’altra mia terra, quella dove andavo in villeggiatura sin da piccolo per tre, quattro mesi all’anno. Chiaramente per me quei luoghi, quel dialetto, quei volti rappresentavano l’ancora biografica che mi ha permesso di tornare indietro nella storia e allontanarmi poi nel film verso Torino, Parigi, Londra… Insomma ho sempre bisogno di un elemento della mia esperienza. Infatti credo che quello più lontano dal suo vissuto sia L’odore del sangue... In realtà non è così. Intanto perché se il libro di Parise da cui è tratto il film ti colpisce è perché ti tocca in punti dell’inconscio sensibili, è un libro troppo oscuro e strano per poter attrarre il lettore senza un suo coinvolgimento personale, figuriamoci un lettore che vuole farne un film... Ma pur lasciando stare l’inconscio, nel romanzo la campagna dove si isola il protagonista è in Veneto, invece nel film ho spostato la storia nella campagna laziale, dove ho vissuto per due anni, in modo da attingere anche in quel caso ad emozioni legate a un luogo che mi corrispondeva. Al cinema ho sempre bisogno di qualche legame col mio vissuto: è un’esperienza totalmente diversa dal teatro. Ho fatto molti spettacoli in teatro, e molto diversi tra di loro, i miei pochi film invece hanno bisogno dei miei spazi, dei miei ricordi, di un lungo tempo di maturazione: rappresentano quello che mi è più caro del mio lavoro. Si potrebbe dire che l’insieme tumultuoso del mio lavoro in teatro produca il grande cantiere in cui poi riesco a realizzare i miei film. Ritornando a Napoli e al suo abbandono, cosa l’ha determinato? Forse si è trattato di un distacco emotivo dovuto a una certa disillusione politica che mi sembra di cogliere nella lettera a Goffredo Fofi?1 No di certo. A Roma avevo preso a vivere già dal ’90, e mi ci avevano portato scelte personali, sentimentali e non lavorative. La distanza con Napoli, la città in cui lavoravo e dove ho ambientato i primi tre film, mi era preziosa. Andavo a lavorare a Napoli e poi tornavo a Roma, che in questo modo prendeva ai miei occhi le sembianze di un magnifico paese di campagna. Nel 1999 ho poi avuto la chiamata del tutto inaspettata dal Teatro di Roma, che ho diretto per due anni. Da allora il mio rapporto con entrambe le città è cambiato e Napoli si è allontanata. Teatro di guerra ha 11


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finito per essere il film conclusivo di una trilogia napoletana che chiudeva una fase della mia vita. E pensare che proprio questo film fece pensare a Gianni Borgna, l’assessore alla cultura di Roma, di chiamarmi per cambiare il Teatro Stabile di Roma! Quel film per tanti versi profetico, che sentiva la crisi già in atto, Teatro di guerra, era centrato sul rapporto conflittuale tra il teatro istituzionale e quello di sperimentazione. Mi chiamava dunque a una precisa responsabilità: nel momento in cui avevo assunto una posizione critica nei confronti del teatro tradizionale, era importante che da direttore riuscissi a cambiare le cose. Tutto determinò un rapporto con la città molto forte ma anche conflittuale. Ci sono state diverse polemiche e scontri, sfociati nelle mie dimissioni dopo due anni di direzione. Due anni vissuti intensamente e pericolosamente ma che hanno lasciato tracce importanti, a partire dalla nascita del Teatro India. È cambiato il rapporto con il pubblico e gli abbonati, sono entrati in cartellone anche spettacoli non convenzionali, una rivoluzione che si è estesa via via a molti altri stabili e di cui molte tracce sono attive ancora oggi. E poi Torino... Torino è arrivata durante la lavorazione di Noi credevamo, anzi i due eventi sono strettamente connessi. Il film era previsto per metà in Cilento e l’altra metà in Piemonte, che rappresentava la locomotiva del film dal punto di vista finanziario e produttivo attraverso una Film Commission molto attiva. Purtroppo però la gestazione del film è stata estremamente lunga, a tre anni dall’inizio eravamo ancora impantanati. Nessun finanziamento in occasione del 150° anniversario? Non ci si pensava di certo nel 2004, quando il progetto prese vita. Se mi avessero detto che il film sarebbe uscito in sala nel 2011 forse avrei rinunciato. Diventa difficile alimentare un lavoro col passare degli anni, tenere vive tutte le ragioni, ma ormai ero arrivato ad un punto di non ritorno, dovevo proseguire ad ogni costo. Il Piemonte quindi è stato fondamentale nella risoluzione dei problemi e quando mi è stata proposta la direzione del teatro ancora una volta si è realizzata quell’idea di cantiere di cui parlavo prima: teatro e cinema si incrociavano, dal confronto con l’Ottocento di Noi credevamo è nato lo spettacolo tratto da Le operette morali e in seguito all’esperienza di questo lavoro mi sono messo all’o12


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pera per realizzare il prossimo film su Leopardi, che a sua volta mi riporterà a Napoli. Insomma tutto questo per dire che non ho lasciato Napoli polemicamente, è la vita con le sue circostanze che me ne ha allontanato. Poi, certo, tante cose nella città mi fanno soffrire e a volte mi irritano. Ma Napoli va anche presa così com’è, e come del resto è sempre stata, capace delle più estreme contraddizioni. Mimmo Paladino, nelle “memorie” che le ha dedicato in questo libro, ricorda i vostri inizi nella galleria di Lucio Amelio. Era la fine degli anni ’70, anni straordinari in cui tutto si mescolava: le arti visive, il cinema, la musica, la danza, il teatro sperimentale. Ho fatto i miei primi lavori in teatro a diciassette anni e in seguito ho partecipato, formando gruppi come Falso Movimento o Teatri Uniti, al grande flusso di creatività partenopea, che si è espressa in maniera incisiva negli anni a cavallo del terremoto del 1980. Sono stati anni importantissimi per la cultura alternativa napoletana. Anni di resistenza, come racconto nella lettera che citavi a Goffredo Fofi. Dopo il terremoto, a parte la devastazione, è stato un dilagare di corruzione: la camorra ha gestito i soldi che arrivavano per la ricostruzione, la politica era complice. L’ambito culturale ha rappresentato la sopravvivenza stessa dell’anima napoletana. Lei scrive che non si può parlare di rinascimento partenopeo come di un grande movimento della seconda metà degli anni ’90. Si tratta di uno slogan strumentale alle campagne elettorali e poco più. Allo stesso modo quando si parla di un nuovo corso napoletano adesso, alla luce dei premi vinti da Sorrentino, Garrone e Marcello, penso si tratti di un’illusione. Non esiste nessun sistema produttivo coerente e sinergico, ma singole realtà, singole personalità che sono emerse. Le correnti, come sempre, servono a dare delle coordinate di massima ma alla fine lasciano il tempo che trovano. Quello che è importante e vero è che negli anni ’90, da tutto questo clima culturale che ho provato a descrivere sono emerse delle figure nuove. Noi abbiamo fatto il cinema inventandocelo con Morte di un matematico napoletano. Eravamo tutti debuttanti. Era il mio primo film, Fabrizia non aveva mai scritto una sceneggiatura, Luca Bigazzi aveva fotografato solo L’aria serena dell’ovest, Jacopo Quadri era praticamente al suo esordio come montatore. Avevo 13


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chiamato questi due giovani cineasti perché mi attraeva il gruppo di filmakers milanesi di quegli anni, da Soldini a Bigoni. Condividevo la loro visione politica del fare cinema, dell’organizzazione, della produzione. E non sbagliavo, perché sia Luca che Jacopo sono stati preziosi e hanno seminato bene a Napoli. Via via sono emerse altre personalità, come Pasquale Mari, Cesare Accetta o Giogiò Franchini, ma in tutti i settori del fare cinema sono fiorite persone forti e capaci. È da questa fioritura che si arriva a Sorrentino, Garrone e Marcello. Questione di persone e di rapporti umani, non di correnti. Si parla quindi di una matrice comune per gli autori e in generale per gli artisti partenopei. Il suo rapporto con Mimmo Paladino inizia negli anni ’70 ma approda molto più avanti ad una vera e propria collaborazione... Il mio rapporto con gli artisti è sempre stato molto intenso fin dai tempi di Falso Movimento, allora nel gruppo compariva anche un pittore, Lino Fiorito, che ha successivamente curato anche le scenografie dei film di Paolo Sorrentino. Lo scenografo con cui lavoro da molti anni, Sergio Tramonti, è anch’egli pittore e scultore. Di Mimmo ricordo la sua prima mostra da Amelio, che mi impressionò tantissimo, c’era un quadro immerso in un blu che mi è rimasto dentro come un paesaggio, o una musica. La prima volta che abbiamo lavorato insieme in teatro risale al ’92 con Veglia, in seguito abbiamo realizzato gli spettacoli Edipo Re, Edipo a Colono e Le operette morali. Ho ripreso anche una sua bellissima mostra a Forte Belvedere e ci sono state persino delle felici coincidenze che ci hanno unito: mentre io giravo Morte di un matematico napoletano, anche lui lavorava su Caccioppoli. Ci lega una forte affinità ed è straordinario incontrarci nei nostri rispettivi “viaggi” per farne un tratto insieme. Tornando invece alla sua produzione cinematografica, sarebbe interessante approfondire il discorso sul rapporto con gli attori. In un’intervista 2 ho letto quanto per lei siano importanti le persone con cui lavora (vedi Anna Bonaiuto e Carlo Cecchi) più che i personaggi che interpretano... Si tratta della stessa ragione esistenziale di cui parlavamo prima. Dentro i miei film è come se ci fosse sempre una sorta di segreto documentario che riguarda non solo me, luoghi e circostanze della mia vita, ma anche gli attori. Senza Carlo Cecchi il personaggio di Caccioppoli non sarebbe esi14


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stito, e non è una questione di recitazione, ma di personalità e intelligenza. Solo Carlo poteva trasmettere il suo genio non ingabbiabile al personaggio di Caccioppoli che interpretava nel film. Scelgo gli attori, come è ovvio, per la loro bravura e la loro capacità di adesione al personaggio, ma questi non sono gli unici motivi: devo sentir vibrare qualcos’altro, qualcosa che mi faccia approdare ad una possibile verità. Lo Cascio e Binasco, per esempio, portano molto della loro dimensione umana nei personaggi che interpretano in Noi credevamo: possiedono una grande abilità di recitazione ma anche una forte capacità di abbandono. Per non parlare di Anna Bonaiuto ne L’amore molesto, o di Teatro di guerra in cui i personaggi sono tutti scritti in dialettica con gli attori che li interpretano. Anche ne L’odore del sangue si percepisce che i personaggi colti, aperti ma anche ipocriti, “radical chic” sono i veri Michele Placido e Fanny Ardant... Michele e Fanny adoravano come me il romanzo di Parise e desideravano realizzarlo. Si è trattato in questo caso di un cast che non ho formato io all’origine (tranne che per il ruolo della ragazza, Giovanna Giuliani), ma che è nato dall’intreccio delle passioni di noi tutti. È stata una esperienza molto bella, ho molto ammirato questi attori così importanti e straordinari che si gettavano coraggiosamente in un film assai difficile e controverso. È stato anche molto criticato Sicuramente è il mio film più sfortunato dal punto di vista sia del pubblico che della critica, anche se ha un nutrito gruppo di accaniti sostenitori. È un film che spiazza, come del resto è accaduto anche al libro di Parise quando è stato pubblicato. Partendo da Le operette morali e Leopardi potremmo affrontare il discorso dell’ispirazione letteraria e cinematografica Per il cinema amo i grandi maestri italiani: Rossellini, certamente, ma anche Pasolini. È difficile descrivere la costellazione dei registi che mi hanno segnato, da Scorsese a Bresson, in ogni caso non sono un cinefilo, mi nutro del cinema con grande libertà, non in modo sistematico. Per quanto riguarda la letteratura il primo libro da adulto che lessi (a tredici15


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quattordici anni) fu La storia di Elsa Morante, poi ricordo che mi gettai nella lettura dell’Ulisse di Joyce, che certamente non capii a fondo, ma l’impatto fu forte e ne sento ancora oggi la portata. Ogni film che faccio si porta dietro una serie di altri film che sono stati fonte di ispirazione. Per esempio, per quanto riguarda Morte di un matematico napoletano potrei citare Ricordi della casa gialla di Monteiro e Un angelo alla mia tavola di Jane Campion, per L’amore molesto Viaggio in Italia di Rossellini, e così via. Stesso discorso per i libri: non avrei scritto Noi credevamo senza aver letto I Demoni di Dostoevskij, o Teatro di guerra senza i racconti di un giovane scrittore bosniaco, Miljenko Jergovic. Ogni lavoro ha i suoi punti di riferimento. Mi piace realizzare film molto diversi tra di loro, e più in generale mi piace sperimentare, viaggiare da un’isola all’altra nell’arcipelago dei miei lavori. Ad esempio, l’opera lirica è entrata prepotentemente nella mia vita dal ’99, dopo oltre vent’anni di teatro e tre lungometraggi. Curiosamente, con l’opera, è tornato nel mio lavoro un forte legame con la musica che caratterizzava i miei primi spettacoli con Falso Movimento, come Tango glaciale, Otello, Rosso Texaco. Certo, si tratta di esperienze molto diverse, ma chi ha visto i miei primi lavori oggi ritrova qualcosa nelle opere che metto in scena, e non nella forma, ovviamente, ma nella pulsione ritmica, nel rapporto tra azione, suono e immagine. Ho visto un suo spettacolo di prosa molto interessante, L’opera segreta... Quel lavoro conteneva il mio primo contatto con Leopardi. Si trattava di un trittico dedicato a artisti/anime che avevano trovato in Napoli una rivelazione fatale di “disperata vitalità”: nella prima parte veniva proiettato il breve film Caravaggio, l’ultimo tempo; nella seconda parte invece i palchi diventano balconi dei vicoli di Napoli vissuti dalla dolente umanità dei Granili descritta da Anna Maria Ortese ne Il mare non bagna Napoli. La terza era un monologo di Enzo Moscato su Leopardi a Napoli. Caravaggio, l’ultimo tempo fa parte dei suoi documentari sull’arte, da Nella città barocca (1984) passando per Lucio Amelio Terrae Motus (1993) e Nella Napoli di Luca Giordano (2001). Lavori che riconoscono al video e al documentario una precisa identità espressiva oltre a rivelare una notevole sensibilità artistica che lascia tracce anche nei lungometraggi: dominanti cromatiche scure e cupe, il rosso saturo che riempie lo spazio dell’inquadratura... 16


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I lavori sul barocco, su Luca Giordano e su Caravaggio sono nati dallo stimolo dello storico d’arte Nicola Spinosa, sovrintendente a Napoli per molti e vivissimi anni, il quale non voleva quale corredo a queste sue grandi mostre dei documentari tradizionali, ma mi chiedeva di realizzare dei film liberi, in cui ogni volta risaltasse il rapporto tra la pittura e la città: così, alla, fine questi lavori, oltre a mostrare tele e sculture, costituiscono un “trittico” su Napoli. Il documentario su Lucio Amelio è un atto d’amore e di riconoscenza verso il grande gallerista a cui abbiamo più volte accennato nella nostra conversazione e che è stato fondamentale per una intera generazione di artisti a Napoli: ricordo quando Lucio chiamò me e Toni Servillo ventenni e ci disse di andare con lui ad accompagnare Joseph Beuys a vedere l’antro della Sibilla a Cuma. Esperienze indimenticabili. Grazie a Lucio, che era un figlio della Napoli più popolare, eravamo in contatto con gli artisti più radicali della scena internazionale.

Note 1

Mario Martone, L’omologazione a Napoli e il ruolo degli artisti, in Petrolio (un progetto di Mario Martone a partire da Petrolio di Pier Paolo Pasolini), Edizioni Cronopio, Napoli 2003, pp. 159-160. 2

Intervista a Mario Martone di Bruno Roberti in Bruno Roberti (cura di), Su carta che brucia: per Mario Martone, Città di Savignano, Assessorato alla Cultura, Centro Culturale di Palazzo Vendemini, 1997, p. 32.

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Edipo re (2000)

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L’OCCHIO,  L’ORECCHIO  E  IL  CUORE.  MARIO  MARTONE TRA TEATRO, MUSICA E CINEMA Gianfranco Capitta

A ripercorrere oggi la ricca storia artistica di Mario Martone, per chi l’ha seguita fin dai primi passi sulla scena (almeno su quella pubblica, perché già a scuola il regista cominciò a misurarsi con il teatro e la ricerca di linguaggi spettacolari), è forte - e chissà quanto legittima - la tentazione di riconnettere tanti spettacoli e tante visioni in un unico grande puzzle, dove ad ogni tappa si sprigionano connessioni e “scintille” che sorprendono e insieme “giustificano” e arricchiscono di senso le visioni precedenti. Perché, nell’attraversamento e nella illuminazione di linguaggi, paesaggi e corpi diversi di attori, resta fermo in lui un senso critico indomabile, che pure non si esime mai dal dare pietas e valore civile ai dubbi come ad apparenti debolezze, alle esitazioni della riflessione come all’intraprendenza eroica. E questo nel campo classico di tanti miti sviscerati ed amati (dall’antica Grecia al Risorgimento), come in squarci lancinanti sulle generazioni di oggi. Il teatro di Mario Martone è in questo senso davvero esemplare come sviluppo di un processo artistico che nato su una dimensione “piccola” e raccolta (quasi amicale), di messinscena, si è poi saputo sviluppare fino a diventare grande teatro, in cospicue realizzazioni da teatro stabile. Ma questo senza mai tradire una coerenza e una onestà di intenti, e il desiderio di sperimentazione linguistica, e di rapporto col pubblico, che l’avevano contrassegnato dalla sua nascita. Bisogna anzi aggiungere subito che dalla “idea” di teatro iniziale (che ha sempre potuto contare su un respiro e una complessità che già naturalmente rompevano e oltrepassavano le pareti del palcoscenico, perfino quello della iniziale cantina, per chi ha avuto modo di vederli a Roma nelle primissime performance alla Piramide di Memè Perlini) ha fatto sì che quasi naturalmente il regista si volgesse al cinema e al grand théâtre dell’opera lirica. E l’esercizio di questi (anche a prescindere dal successo trionfale e internazionale ottenuto) ha a sua volta dato sempre più slancio, e luce e montaggio e complessità drammaturgica, alle creazioni più precisamente teatrali. È un caso felice e isolato quello di Martone, nello spettacolo italiano. 19


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Prima di lui, mezzo secolo prima, solo Luchino Visconti ha mostrato la stessa naturale capacità di unire in un’unitaria maestria la diversità di tre linguaggi specifici e peculiari – teatro, opera e cinema - travasando o lasciando filtrare dall’uno all’altro la stessa ricchezza creativa, e addirittura la costanza di un “punto di vista”, che vuol dire anche un coerente rigore morale. Poi certo ci sono personaggi, miti o interi cicli che a posteriori appaiono davvero “di affezione”, sui quali il regista è tornato più volte, ogni volta accendendo luci nuove, riuscendo a dare quindi ulteriore spessore a temi e nuclei già affrontati. Dall’iniziale rapporto privilegiato con le arti visive e quindi con il paesaggio americano, pop e non solo, all’abbraccio con l’infelicità di Filottete, e poi con Edipo e la sua stirpe e le sue implicazioni (che ancora oggi promette sviluppi, attraverso la riscrittura potente di Elsa Morante per La serata a Colono), fino alla passione creativa per un ciclo storico e culturale, quello del Risorgimento in cui affonda e si rispecchia l’oggi, che con felice determinazione Martone ha strappato alla retorica celebrativa e alle scarse simpatie di cui quei “padri della patria” godevano nella cultura contemporanea e tra i giovani. Come è evidente, si tratta di un lavoro culturale (perfino pedagogico, si potrebbe dire se non suonasse ambiguo il termine), di non poco spessore, ma costruito con molta discrezione attraverso “indizi” di teatro ma anche di cinema e di opera lirica. Quella famosa permeabilità che si diceva prima, comunicazione tra vasi di diversa peculiarità, riesce a metabolizzare testi e immagini in un continuum immaginifico di grande respiro e altrettanto interesse. Per puro senso di responsabilità cronologica della memoria, bisogna partire dal primo titolo di grande successo, che lo fece conoscere e amare, complice una fortunata apparizione alla Biennale teatro veneziana, in tutta Europa. Tango glaciale era il titolo di questo primo affacciarsi sul mondo, anche se prima c’erano stati Rosso Texaco e altre performances che avevano subito conquistato Beppe Bartolucci, gran guru della critica e di ogni sperimentazione in quegli anni di straordinario fervore. Tango glaciale era uno spettacolo suadente e fascinoso come il sound che gli dava il tempo, anche se quelle cesoie (imbracciate a suon di musica dai tre interpreti Tomas Arana, Licia Maglietta e Andrea Renzi) tagliavano via tutte le convenzioni, a dispetto del look seduttivo che parevano assecondare, appena affacciati sui rovinosi e incombenti anni ’80 tutti da bere... È stato invece un decennio assai fertile quello per Martone, che contro la patina un po’ fasulla di quegli anni dominati dall’immagine, aveva dalla 20


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sua la forza quasi di riscatto che a quella generazione di artisti, a Napoli, pareva avesse impresso il terremoto spaventoso del novembre ’80. In pochi anni Martone e il suo gruppo (più una factory partenopea che una compagnia, dal nome che omaggiava Goethe attraverso Wenders, Falso Movimento) intrapresero un percorso che ancora oggi appare denso e straordinario: il lavoro appuntito attorno all’infelice destino di Filottete vincitore di guerra e insieme sconfitto dalla malattia, ripetuto e ampliato nei mezzi (il video permette all’eroe greco di sdoppiarsi, da Remo Girone a Andrea Renzi); l’incursione brechtiana di Coltelli nel cuore; l’originalissima invenzione dedicata a Godard e al suo eroe Lemmy Caution, Ritorno ad Alphaville, variazione fantascientifica a tutto campo, panoramica a 360°, che gli spettatori seguono seduti su sgabelli girevoli, con l’ingresso prepotente del filmato cinematografico fin dentro la drammaturgia. Fino a una data importante, storica nel suo campo, il 1987. Quell’anno le tre maggiori esperienze del nuovo teatro napoletano, rinunciano alla propria autonomia per fondersi nei Teatri Uniti: sono Falso Movimento di Martone, Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller, il Teatro Studio di Caserta di Toni Servillo. Non è certo una “holding”, ma un laboratorio artigianale e fecondo, un modo di lavorare “allargato” che fa patrimonio comune della ricchezza artistica di ognuno. Lascerà segni clamorosi, come la ricerca visiva di Neiwiller da cui era nato l’omaggio a Picasso e ai colori de Il desiderio preso per la coda. Di lì a poco Martone e Servillo presenteranno, in un fine stagione quasi dimesso, Rasoi, opera fondante di un teatro (trasformato poi in film) che nasce dalla scrittura di Enzo Moscato ma lancia il filo che riconnette una intera generazione con la grande tradizione napoletana, mentre la reinventa di sana pianta. E quasi fisiologicamente quella factory allargata produce il suo primo film, quel Morte di un matematico napoletano che è quasi una biografia apocrifa di quella stessa generazione, mentre racconta il genio e le disavventure dell’intellettuale comunista Caccioppoli. È la scintilla, un’altra e decisiva, che lancia Martone nel cinema. Da quel momento teatro e cinema giocheranno per lui di rimbalzo, e da volano l’uno per l’altro (il caso paradigmatico è Teatro di guerra, film lancinante su una generazione, nato da uno spettacolo “edipico” nei Quartieri spagnoli). Non solo, ma sempre in quella fine di decennio, Martone mette in scena la sua prima opera musicale. A Gibellina, sul Cretto di cemento che Burri ha steso come sudario sulle macerie del terremoto del Belice, su una scena che le sagome di Consagra, ispide e rugginose, ritagliano e molti21


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plicano, appare l’Oedipus Rex, nel suo latino misterico che dispone il francese di Jean Cocteau alla rivoluzione musicale di Strawinski. Ha il volto pasoliniano di Franco Citti: l’intera valle terremotata echeggia della sua tragedia, e apre nuovi filoni, di ricerca e di visioni, per il regista. Martone da quel momento dispone il suo lavoro su tre diversi scenari, strettamente connessi, preservando di ognuno la originale particolarità, ma lasciando ben evidenti le connessioni. In teatro torna alla contemporaneità attraverso Terremoto con madre e figlia di Fabrizia Ramondino, che gli era stata accanto in Morte di un matematico, e mentre al cinema procede a realizzazioni memorabili, diviene metodica l’esplorazione dell’opera, con la progressiva realizzazione della “trilogia italiana” di Mozart che lo consacra sguardo nuovo sulla scena lirica, i cui allestimenti continuano ad essere ripresi con successo nei teatri più importanti. Così fan tutte, che era stata la prima, avrà addirittura tre successive versioni, di cui quella finale a Ferrara con la direzione di Claudio Abbado ha assunto il ruolo e la fama di canone definitivo dell’opera: l’equilibrio perfetto che il regista visivamente dispone tra allegria del gioco amoroso e sconfinata crudeltà dei rapporti tra le due coppie di amanti, disegna per la bacchetta del direttore una sorta di insuperabile teorema. Alle soglie del cambio di secolo, Mario Martone ha avuto la ventura e il modo di dimostrare una capacità di regia che trascende il singolo spettacolo. Fu quando venne nominato alla direzione del Teatro di Roma, superando opposizioni e incrostazioni fortissime nel sistema teatrale pubblico italiano. Le due stagioni che è riuscito a disegnare e firmare, prima di venir costretto alla “resa”, costituiscono un modello virtuoso che resta davvero “ideale”. Un mix di linguaggi e investimenti che parte dalla volontà di creare uno spazio come il teatro India che consenta una più contemporanea libertà di invenzione rispetto al settecentesco Argentina. Poi un cartellone che si apre al nuovo come scelta politica, dandogli forza e legittimità in un contesto dove il poco conosciuto Ascanio Celestini appare a fianco a Pina Bausch, che con Oh Dido compie la sua seconda perlustrazione, davvero mozzafiato, in un calidarium di sensazioni, su Roma (unica città a essere “rivisitata” sulla scena dall’artista tedesca dopo Viktor del 1986). Da parte sua Martone, proprio dell’augusto Argentina oscura ori e velluti in una memorabile versione di Edipo che con l’ausilio creativo di Mimmo Paladino scopre nel cuore della città eterna “l’altra” città, quella “malata” degli emarginati e degli stranieri, della precarietà e della miseria che non ha mai avuto visibilità istituzionale. Un colpo di tea22


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Crediti fotografici Ritorno ad Alphaville

Cesare Accetta

Riccardo II

Accetta e D’Elia

Veglia

Ferdinando Scianna

Rasoi

Cesare Accetta

L’amore molesto

Cesare Accetta

Morte di un matematico napoletano

Cesare Accetta

I vesuviani

Alessia Bulgari

I dieci comandamenti

Monica Biancardi

Teatro di guerra

Monica Biancardi

L’odore del sangue

Alberto Novelli, Angelo Caligaris

Noi credevamo

Franco Bellomo, Giuseppe Cucco, Marco Piovanotto

Operette morali

Simona Cagnasso

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nota editoriale di Fabio Francione Con la pubblicazione di Avventure di confine. Il cinema di Mario Martone, la collana “Viaggio in Italia” giunge ad un punto di svolta che avviene a dieci anni dal suo varo. Lo stesso titolo, smaccato e spregiudicato prelievo rosselliniano, ha presupposto un indirizzo mobile, d’andirivieni tra le secche e le maree della critica e della storia con innesti internazionali, al di qua e al di là dell’Oceano, mai colonizzanti, ma anzi riflessivi dello stato del cinema e delle cose in Italia. La considerazione di andare ad indagare e a diagnosticare un corpo minato come quello rappresentato dal cinema italiano nella sua filiera più espansa (per certi versi evitando la mediazione di una certa critica esterofila più attratta verso l’estraneità alle matrici della tradizione nazionale) non ha fatto che acuire ancor più lo stato di crisi. Allo stesso tempo, l’esplosione non più virtuale, nondimeno affascinante, di un modo nuovo di produzione editoriale sta cambiando, al pari della forza ormai sociale dei “new media”, la concezione sia del lettore come individuo sia della lettura come intrattenimento. Dunque, non più solo piacere, ma continuo ed espanso gioco di rimandi. Avendo, ormai, la certezza di poter disporre a portata di click intere biblioteche, cineteche, ecc., con la conseguente possibilità di costruire un proprio palinsesto non più solo personale ed esclusivo, ma condiviso, stratificato e modificabile. Insomma, interi mondi in cui il commento, la glossa, la risposta, le note a piè di pagina scoprono di possedere un senso e una dignità prima confinati ad una ristretta e paludata élite di individui. D’altronde, non forse è un caso o una fortuita coincidenza che il giro di boa arrivi con Mario Martone, un cineasta che fa della sintesi tra drammaturgia, storia, sperimentalismo e letteratura, i suoi punti di forza e che tra le sue ispirazioni ha proprio il capolavoro di Roberto Rossellini. Alle soglie del 2000, infatti, scriveva: “Ogni volta che comincio un film, terminata la proiezione, riunisco la troupe il giorno prima dell’inizio delle riprese. In quell’occasione proietto un film che amo e, che in un modo o in un altro, mi sembra una devota relazione con il film che ci apprestiamo a girare. Prima del “Matematico” abbiamo visto Il giudizio universale di De Sica e prima di Teatro di guerra, La règle du jeu di Renoir. Viaggio in Italia l’ho proiettato prima de L’amore molesto; e questa è una relazione stretta, e a me molto cara”. 169


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FALSOPIANO

CINEMA

Claver Salizzato I Gattopardi e le Iene. Splendori (pochi) e miserie (tante) del cinema italiano oggi

Mario Gerosa Telefilm d’autore

Matteo Pieracci Aids. Le storie, i personaggi, i film

LE ARTI

FALSOPIANO

Federica Natta L’inferno in scena.  Un palcoscenico visionario ai margini del Mediterraneo

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