L'inferno in scena

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LE ARTI

FALSOPIANO

una collana diretta da Mario Gerosa


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EDIZIONI

FALSOPIANO


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In copertina: San Fiorenzo di Bastia MondovĂŹ, Cavalcata dei Vizi, Inferno, terzo quarto del XV secolo

Š Edizioni Falsopiano - 2012 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini Stampa: Arti Grafiche Atena - Vicenza Prima edizione - Novembre 2012


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INDICE Premessa

p. 11

Capitolo primo LA DOTTRINA DELLA PUNIZIONE ETERNA: STORIA DELL’INFERNO

p. 14

1. La preistoria e il contesto delle rappresentazioni giudaico-cristiane dell’Inferno

p. 14

2. Protostoria 2.1 Il mondo degli Inferi nell’Oriente antico: Egitto e Iran 2.2 L’Ade greco 2.3 L’Orco romano

p. 16 p. 16 p. 18 p. 20

3. L’Antico Testamento e la teologia non ufficiale del giudaismo e del cristianesimo 3.1 Inferno e Primo Testamento 3.2 L’Apocalittica Giudaica 3.3 Il Libro di Enoch Etiopico: prima descrizione dell’Aldilà 3.4 Il IV Libro di Esdra: scadenza della Misericordia divina 3.5 L’Apocalittica Cristiana. Sguardo retrospettivo sul Nuovo Testamento 3.6 L’Apocalisse di Pietro

p. 22 p. 22 p. 24 p. 25 p. 28 p. 29 p. 30

4. Testi fondamentali sull’Inferno secondo la concezione cristiana 4.1 Presupposti e orizzonti dell’Inferno nei Vangeli sinottici 4.2 Il Vangelo di Giovanni: nessun Inferno 4.3 Paolo: Giudizio e Ira 4.4 Altre lettere neotestamentarie 4.5 L’Apocalisse di Giovanni 4.6 La Discesa di Gesù Cristo agli Inferi 4.7 I successivi sviluppi della concezione infernale nei primi tempi del cristianesimo

p. 36 p. 36 p. 38 p. 39 p. 40 p. 42 p. 43

5. Un nuovo movimento apocalittico 5.1 Apocalisse di Paolo (VISIO SANCTI PAULI) 5.2 L’Apocalisse greca di Esdra e la sua Visione

p. 48 p. 48 p. 52

6. Agostino e il trionfo dell’eternità della pena

p. 54

p. 45


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7. Gregorio Magno

p. 58

8. La teologia dell’Inferno nei secoli XII-XIII 8.1 Lenta sparizione della dilazione 8.2 La natura del supplizio dell’anima 8.3 Schema della condizione eterna dei dannati 8.4 La letteratura morale e il modello delle nove pene 8.5 Gli exempla e la retorica dell’inversione

p. 60 p. 60 p. 62 p. 65 p. 69 p. 72

9. La visione del Castigo 9.1 Gli esordi: Gregorio di Tours 9.2 Due visioni del VII secolo: il monaco Fursy e Baronto

p. 79 p. 81 p. 82

10. Nuovi racconti sull’Inferno 10.1 Drythelmo 10.2 La Visione di Wetti e di Carlo III il Grosso 10.3 Brandano il Navigante 10.4 Excursus: Benedetto e la liturgia

p. 85 p. 85 p. 86 p. 88 p. 90

11. Seguito delle visioni nel Medioevo 11.1 Le visioni di Alberico e Tnugdal 11.2 La visione del monaco Guglielmo 11.3 Inferno o Purgatorio?

p. 93 p. 94 p. 97 p. 98

12. Verso una ricomposizione dei luoghi dell’Aldilà 12.1 Il Purgatorio di San Patrizio 12.2 Edmondo di Eysham 12.3 La visione di Thurchill: un “teatro infernale” 12.4 Un vuoto nella serie delle visioni infernali del XIV secolo 12.5 Ultime considerazioni

p. 101 p. 102 p. 103 p. 104 p. 106 p. 107

Capitolo secondo MODALITA’ DI RICEZIONE E STRATEGIE D’USO DELLA TEMATICA INFERNALE TRA LETTERATURA E DRAMMATURGIA

p. 108

1. Due considerazioni iniziali

p. 108

2. Incipit

p. 109

3. L’Inferno come sistema penale

p. 110


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4. L’Inferno come campo pulsionale

p. 115

5. La paura dell’Inferno 5.1 A Poena Inferni Liberari: passioni, misteri, laudi 5.2 L’Inferno negato 5.3 L’Inferno deriso

p. 122 p. 122 p. 128 p. 131

6. Conclusioni al capitolo

p. 135

Capitolo terzo INFERNO IN SCENA. LA RAPPRESENTAZIONE DELL’INFERNO TRA ARTE E TEATRO

p. 140

1. Il Descensus

p. 143

2. L’Inferno quale pena. La parabola di Lazzaro e del ricco Epulone: il confronto tra l’eletto e il dannato 2.1 Scelta e organizzazione delle scene

p. 144 p. 145

3. La Caduta degli Angeli: la sconfitta di Lucifero

p. 147

4. L’Inferno nelle rappresentazioni degli ultimi episodi dell’Apocalisse p. 149 5. Il motivo della gola dell’Inferno 5.1 Prime immagini 5.2 Le fonti scritturali 5.3 Lo scarto testo-immagine 5.4 Evoluzione del motivo iconografico della gola e suoi caratteri

p. 152 p. 152 p. 153 p. 158

6. L’Inferno alla Fine dei Tempi: l’immagine del Giudizio Universale p. 164 6.1 Le immagini fondatrici p. 165 6.2 Un’eclissi del Giudizio p. 169 Capitolo quarto L’INFERNO E RITO NEL PONENTE LIGURE DI FINE QUATTROCENTO

p. 179

1. L’Inferno secondo Canavesio: Pigna e Briga La cappella di S. Bernardo al Cimitero di Pigna Il Giudizio Universale di Nôtre Dame des Fontaines a La Briga

p. 183 p. 191 p. 197


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2. La rappresentazione infernale nei contesti di Montegrazie, Albenga, Triora, Solva, Rezzo e Lavina

p. 202

3. L’Inferno di Buonamico Buffalmacco: i segni della rottura 3.1 Trionfo del supplizio 3.2 Struttura e logica dei luoghi infernali 3.3 Leggibilità dei supplizi e logica penale 3.4 Inferno e Giudizio: verso un’autonomia

p. 203 p. 203 p. 204 p. 207 p. 210

4. La variante ligure 4.1 L’Inferno secondo i Biasacci: il Santuario di Montegrazie... 4.2 ... e la chiesa di S. Bernardino da Siena di Albenga 4.3 L’Inferno di Triora 4.4 Gli Inferni di Solva, Rezzo, Lavina 4.5 Un modello a parte: Campochiesa S. Giorgio

p. 214 p. 222 p. 231 p. 241 p. 249 p. 266

5. Un bilancio sull’iconografia dell’Inferno nel Ponente ligure

p. 279

6. Il teatro come fonte dell’immagine: Canavesio e Biasacci e l’iconografia escatologica 6.1 Drammaturgia e pittura in Matteo e Tommaso Biasacci 6.2 Il teatro di Giovanni Canavesio

p. 283 p. 285 p. 291

Capitolo quinto IL TEATRO, LE VISIONI, LA LETTERATURA CLERICALE: ELEMENTI DI CONFRONTO

p. 299

1. L’Inferno sulla scena 1.1 Le laudi drammatiche italiane 1.2 I Misteri Francesi 1.3 Inferno e dispositivo scenico 1.4 Le fauci sceniche

p. 299 p. 299 p. 305 p. 308 p. 310

2. I Visitatori dell’Aldilà 2.1 Un nuovo trattamento del tema infernale 2.2 Dante e il totale disvelamento dell’Aldilà

p. 314 p. 314 p. 316

3. Il discorso morale 3.1 Un uso consueto del tema 3.2 Importanza relativa dell’Inferno 3.3 Considerazioni

p. 318 p. 318 p. 321 p. 326

Conclusioni - Tavole - Bibliografia

p. 328


PREMESSA I fatti dello spettacolo nel Quattrocento si presentano come oggetti dallo statuto epistemologico ambiguo e sfuggente. Un qualunque tentativo di definizione è costretto a misurarsi con due ordini di difficoltà. Un primo aspetto da considerare è dovuto all’evidenza documentaria di eventi che solo tangenzialmente si possono definire spettacolo, ma che più idoneamente si collocano tra le espressioni del vivere civile e religioso; una copiosità di notizie tale da surclassare in quantità e qualità ogni altro tipo di documentazione. E ormai da più di un secolo, dalle Origini del teatro italiano di Alessandro D’Ancona, questa molteplicità di oggetti è entrata a pieno titolo negli studi teatrali. Da ciò deriva la seconda questione: la necessità di dover ripensare gli studi sullo spettacolo non alla luce di un mero allargamento dei loro oggetti e della legittimità di tale operazione, misurata sul grado presunto di pertinenza, quanto in forza di un’acquisita consapevolezza della costante pluralità e irriducibilità del fatto teatrale. Questo comporta una ridefinizione dello spazio dello spettacolo come spazio antropologico di uomini che fanno e pensano, talvolta tra tante altre cose, teatro, vale a dire organizzano materiali disparati in funzione di un intento comunicativo e simbolico preciso. Come osserva Cruciani “non si tratta di ricorrere all’abusato e consumato schema interpretativo di «teatro e società», quanto di indicare lo spazio antropologico della società del teatro all’interno delle molte società compresenti: uno spazio di uomini che hanno tecniche, idee, esperienze, progetti”1. Questa apertura, non dunque di classi di oggetti ma di classi di relazioni, ha permesso nel caso dello spettacolo rinascimentale di coglierne le visioni attraverso la lente di un istituto culturale, la festa, inteso come insieme di “forme espressive autonome; di comprenderne la dimensione spettacolare non in forza di un’intrinseca spettacolarità delle sue componenti, ma in ragione delle loro relazioni e della loro organizzazione simbolica, in ragione cioé dell’incontro tra il «tempo diverso» segnato dalla sua cornice e la qualità dei suoi elementi”2. Stretti dunque tra le “origini sacre e la fisionomia di creazione collettiva attribuita allo spettacolo medievale e le forme, apparentemente compatte, dello spettacolo rinascimentale”3, i fatti del “dramma” nel Quattrocento stentano a trovare una loro collocazione. Se per tutta la prima parte del secolo è la prossimità ai moduli spettacolari propriamente medievali a essere posta in rilievo, per quanto riguarda la metà del secolo, come osserva Guarino, a una accennata struttura dello spettacolo convergono alcuni fatti distinti, in particolare “l’apparire e il sovrapporsi confuso ma relativamente omogeneo sul piano del progetto ideologico, di espressioni e pratiche di

F. CRUCIANI, Gli attori e l’Attore a Ferrara: premessa per un catalogo, in G. PAPAGNO, A. QUODAM (a cura di), La corte e lo spazio: Ferrara estense, Atti del Congresso (Ferrara 1980), Bulzoni, Roma, 1982, 3 voll., I, pp. 451-466.

1

2

R. GUARINO (a cura di), Teatro e culture della rappresentazione. Lo spettacolo in Italia nel Quattrocento, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 12. 3

Ivi, p. 9.

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vertice della catechizzazione e poi della recitazione, dell’intrattenimento”4. In un certo senso, nel momento in cui più chiaramente si delinea una dimensione dello spettacolo e un suo dominio di riferimento, questo dominio viene a coincidere con le pratiche di intrattenimento o con le prassi pedagogiche delle classi dominanti (soprattutto religiose, trattandosi della tematica infernale). E avviene in pratica che laddove non si hanno informazioni specifiche su fatti teatrali, sono valorizzate le notizie, pur minime, di frammenti testuali piuttosto che figurativi, in qualche modo riconducibili a una dimensione spettacolare, spesso insistendo su aspetti comunitari di tali eventi, a cui pertanto si attribuiscono lineamenti di creazione/ispirazione collettiva. Al contrario, tali notizie, pur presenti, vengono trascurate quando ci ragguagliano su ciò che dalla nostra prospettiva giudichiamo teatro. Ma una tale impostazione fa sì che si trascurino alcune questioni: si tace, ad esempio, della complessità di quella cultura definita subalterna, popolare che, per quanto sfuggente alla consistenza documentale, è largamente condivisa (e non propriamente di classe), a quest’altezza cronologica. La tematica infernale, in effetti, tocca ogni uomo e ogni donna del Quattrocento in modo diretto. D’altra parte spettacolo e teatro nel XV secolo vivono di molteplici realtà: “danze figurate, liturgie pubbliche e private, rappresentazioni allegoriche come azioni e come figurazioni, il discorso oratorio, il comico, la predicazione…”5. Questa molteplicità è propriamente la potenzialità del teatro quattrocentesco, prima che tale potenzialità si incarni nella concretezza di un genere rappresentativo. Il teatro è il luogo, fisico e metaforico, dell’interrelarsi dei “possibili espressivi”. Tacere questa molteplice possibilità, significa tacere la densità del teatro, la sua varietà gravida di espressioni. Il presente studio esplora una dimensione multidisciplinare finora non chiarita. Come tale, incontra molti assunti studiati e approfonditi, ma non collegati. La relazione fra gli assunti, su tematiche precise, propone delle soluzioni. Tali soluzioni sono però oggetto di possibili nuovi interventi e precisazioni. La ricerca è dunque un work in progress, che si intende proseguire ulteriormente nel tempo, suggerendo, per ora, solo alcuni percorsi critici-costruttivi. Si fa riferimento a molte indicazioni, in questo volume. C’è comunque una logica consequenziale, frutto di un metodo di lavoro. La conoscenza dell’inconoscibile è un punto di riferimento. Tutta la prima parte è legata alla definizione del concetto di “Inferno” in un percorso diacronico, che tocca diversi livelli di civilizzazione. L’immagine infernale è analizzata nella dimensione religiosa oltrevitale di plurime civiltà. Segno di un’attenzione al momento del trapasso e di una moralità costruita. Il Cristianesimo è ovviamente scandagliato nelle sue forme più antiche ed originali, venendo avanti fino alla creazione dell’“idea”, sempre più moderna, di Inferno. Ne

Ibidem.

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5

F. CRUCIANI, Materiali del teatro – teatro materiale: la scena, gli attori, “Quaderni di teatro”, a. III, X, 1980, p. 77. 12


nasce una dimensione filosofico-letteraria che è il primo fattore della visione di ricerca, in un contesto che si fa europeo e, dunque, frastagliato e schizofrenico. La tematica infernale viene dunque percepita in vario modo e secondo diverse costruzioni mentali, dalla filosofia cristiana fino alla dimensione popolare. In quest’ultimo contesto, si arriva alla “visione” effettiva, ad una immedesimazione, mediata, come si vedrà, attraverso l’espressione artistica, dalla pittura al teatro sacro. Nascono anche “luoghi deputati”, tipi fissi della realtà infernale, come il tema della “gola”: un topos a un tempo letterario, figurativo e poi anche, in qualche modo, teatrale. A questo punto l’obiettivo si restringe e si pone in un contesto legato al territorio delle Alpi marittime. La verifica dell’immagine infernale costruita nei secoli cristiani, viene distillata nell’iconografia tardo quattrocentesca di un’area marittima, collinare, alpina; macroregione europea a cavallo di Liguria occidentale, Provenza e Piemonte sud-occidentale. Gli esempi presi in esame non sono molti, ma appaiono alquanto significativi per ampiezza e sicura fama contemporanea. L’immagine infernale è sempre al centro di quest’analisi figurativa e si traduce immediatamente in una necessità di considerare la trasposizione della scena pittorica in scena vissuta, in drammatizzazione. Da qui il legame con il rito che seppure non relato al tema infernale in modo diretto, causa una lacunosità documentaria, chiarisce la circolarità dei sistemi visivo-teatrale-popolare-rituale. Per compiere questa operazione si rende necessaria la considerazione di un’ampia gamma di confronti, che spaziano dalla drammatizzazione sorgiva e confraternale centro-italiana a quella francese. La Liguria occidentale, in fondo, è in bilico tra queste componenti territoriali. Così la Sacra Rappresentazione o il Mistero francese considerano l’Inferno come “luogo deputato”, ma, al tempo stesso, non si può ignorare la dimensione filosofico-religiosa e quella artistica che rimangono un punto di riferimento per il contesto di applicazione scenografica e poi di azione teatrale. Ne nasce un quadro, su di un tempo tardo-medievale, sedimentato e finalmente affrontato in ogni sfaccettatura di presentazione. A sugello dunque le conclusioni che riannodano i fili dell’iconografia e della drammaturgia, dei motivi letterari e dei dispositivi scenici, a testimoniare, per il contesto quattrocentesco ligure e non solo, l’impossibilità di una rigorosa demarcazione tra i diversi ambiti culturali.

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CAPITOLO PRIMO LA DOTTRINA DELLA PUNIZIONE ETERNA: STORIA DELL’INFERNO

1. La preistoria e il contesto delle rappresentazioni giudaico-cristiane sull’Inferno Né il giudaismo, né il cristianesimo possono ritenersi all’origine delle rappresentazioni sull’Inferno. L’idea di un luogo di soggiorno dei morti, sotterraneo e poco invitante, è un tratto che si ritrova già in molte religioni antiche. La sua genesi è strettamente legata alla convinzione che l’uomo sia qualcosa di diverso della semplice specie animale e che pertanto la sua sorte, nella morte, sia nettamente distinta da quella di qualsiasi altro essere vivente. In riferimento alle scoperte dell’età della pietra, Eric Hornung1 stabilisce che “la primigenia espressione religiosa dell’uomo primitivo è la sua fede in una forma di anima immateriale presente in lui. A tale fede era legata la concezione che, nella morte, questo lato immateriale dell’uomo lasciasse il corpo per raggiungere il Regno dei Morti e restarvi per l’eternità”. La separazione dal tipo di esistenza connesso alla vita corporea non veniva pensato come qualcosa di piacevole; con la distruzione del corpo, lo spirito veniva privato di innumerevoli gioie, prima tra tutte la possibilità di comunicare con i propri simili. Agli inizi, il Regno dei Morti viene considerato del tutto indipendente dell’idea di una possibile punizione: è piuttosto un luogo di privazioni. La strutturazione di un Inferno dei supplizi viene a precisarsi in epoca tarda, in concomitanza alla definizione di un sistema penale più rigoroso e sotto questo aspetto una tappa importante è rappresentata dal Codice di Hammurabi del 1750 a. C.. Le rappresentazioni del mondo degli Inferi di questo periodo spesso risultano riflessi della giustizia terrena; non sorprende quindi la presenza, nelle religioni babilonese ed egizia, di un tribunale installato nell’Aldilà per giudicare i nuovi arrivati. Allo sviluppo di un Inferno di tormenti contribuirà poi l’ampliamento dell’immaginario demonologico con successivo accrescimento in potenza di alcuni spiriti del male, ritenuti capaci di interagire direttamente con il mondo dei viventi. A Babilonia e ad Assur, la vita era fortemente influenzata dalla paura dei demoni2; spesso poi le idee sulla morte e sui defunti erano associate a fantasie spaventose, anche se non era ancora presente un Aldilà di supplizi. Da rilevare che le paure collettive

1 2

E. HORNUNG, Altägyptische Höllenvorstellungen, Akademie Verlag, Berlin, 1968.

Nel mondo ideale degli Assiri abbiamo la presenza di divinità spaventose, particolarmente crudeli e violente. Le si riteneva capaci di appartenere alla terra e agli Inferi e di compiere malefatte in entrambi i mondi. Oltre ai sessanta demoni conosciuti, riferibili a malattie, e a quelli del mondo sotterraneo, gli Assiri ammettevano anche la possibilità che i morti non sepolti potessero andare errando come spiriti del male e ritornare dai loro parenti. 14


costituiranno il miglior terreno di coltura per il sorgere di terrificanti rappresentazioni del Regno dei Morti. All’interno dell’ambito che si va analizzando, un aspetto importante riguarda infine la scenografia di questo Inferno, indipendentemente dal contesto di riferimento. Nelle diverse immagini del Regno dei Morti compaiono molti degli elementi che successivamente saranno tipici delle rappresentazioni infernali: “un fiume di fuoco che inghiotte gli uomini” o un grande mare; un battello con un nocchiero per la traversata; una discesa nel mondo sotterraneo, un palazzo, porte degli Inferi rigidamente sorvegliate; il motivo del giudizio dell’anima.

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2. Protostoria 2.1 Il mondo degli Inferi nell’Oriente antico: Egitto e Iran L’analisi di questi due contesti è necessaria in ragione di alcuni elementi che verranno successivamente assimilati nelle concezioni giudaiche, cristiane e greche sull’Inferno. Per quanto riguarda l’ambito egizio, risulta particolarmente interessante il motivo della “pesata dell’anima”; prevedeva l’impiego di una bilancia a due piatti sui quali erano posti, rispettivamente, l’immagine o il simbolo della dea della Verità (Maet) e il cuore del defunto. Il mostro Ammit, con testa di coccodrillo e corpo di leone, stava in agguato per divorare colui che non superava il verdetto di liberazione. Nel vasto cerimoniale giudiziario rientravano anche la confessione della propria vita dinanzi a 42 giudici, nella classica forma negativa: “Non ho commesso ingiustizie. Non ho oppresso i poveri...”. I responsabili di male etico venivano puniti severamente con pesanti pene: si trattava di supplizi fisici e spirituali, inflitti da diabolici aiutanti del boia. A partire dal periodo tolemaico (332-330 a. C.) si hanno poi descrizioni dettagliate della geografia dell’Aldilà, con regioni, spelonche, mura e porte, paludi e mari di fuoco. Questi tratti saranno riferimento indispensabile delle successive rappresentazioni infernali. Il contesto iraniano risulta invece utile referenza in specifico per due dati: la sua concezione lineare della storia, tendente a un fine, come in Israele; la corrispondente fede nella resurrezione, che concerneva l’attesa di una nuova vita piuttosto che il pensiero di un prolungamento nell’Aldilà della vecchia esistenza terrena, come invece si voleva in Egitto. Anche nella religione iraniana, soprattutto successivamente alla rigorosa riforma del sacerdote Zaratustra, si riscontra il motivo del giudizio individuale. L’anima, immaginata come materia sottile, quattro giorni dopo la sua separazione dal corpo e accompagnata da demoni cattivi e spiriti buoni, giungeva davanti a un tribunale presieduto da tre giudici. Le sue azioni erano poste sulla “bilancia d’oro”; secondo diversi testi, essa poi doveva attraversare un ponte dal quale i malvagi precipitavano nell’oscuro Inferno. Si conoscono punizioni concrete, basate sul caldo e sul freddo, tormenti da parte dei demoni; si lasciava però aperta la possibilità verso una conclusione positiva: secondo i più recenti testi Avesta, dopo che il mondo e i malvagi avevano subìto una purificazione, era possibile una salvezza di tutti, nell’unione con Ahura Mazda. Elaborazioni simili saranno formulate anche in ambito giudaico e cristiano innescando problematiche complesse sui cui si confronteranno per secoli i teologi3. Una sorte definitivamente cattiva veniva invece riservata al dio malvagio Ahriman

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Origene. 16

Il riferimento per l’ambito cristiano sono, per esempio, le concezioni elaborate da


che, dopo aver tentato l’ultimo assalto alla fortezza celeste, veniva precipitato nelle tenebre e incatenato in perpetuo nell’Inferno. In questo caso non sfugge il ricordo di alcuni passi dell’Apocalisse di San Giovanni relativamente alla sorte del “Serpente Antico”4. La morte invece dell’uomo pio, al quale era promessa l’eredità del regno del bene, “era come la sosta dello stanco viandante nella locanda, un’affettuosa accoglienza da parte dell’albergatore al termine di un giorno di attesa”5. All’interno dei due contesti analizzati, il dato principale è però costituito dall’importanza attribuita alla responsabilità individuale: il giudizio sulla condotta di vita in terra, che è discriminante per la dannazione o la salvezza dell’anima. Il motivo è rilevante per poter comprendere soprattutto l’affermazione della tematica infernale nel contesto cristiano. La definizione di quest’ultima è, infatti, strettamente legata alla valorizzazione del tema del Giudizio Universale che si realizza in particolare con l’opera di predicazione degli apostoli. Il motivo, nel messaggio del Cristo, non ha, in effetti, una posizione dominante. Il compiersi del Giudizio avrebbe comportato un annuncio di gioia relativo alla salvezza proveniente da Dio (esso costituisce, infatti, il presupposto dell’avvento del Regno Celeste, ma per Gesù è prioritaria soprattutto l’accettazione del suo insegnamento e la conversione. L’insistenza sul tema si ha in concomitanza delle apostasie dalla fede nelle comunità cristiane, man mano che venivano meno il fervore, l’amore, che avevano caratterizzato la vita dei primi proseliti. Per questo le minacce di giudizio pronunciate da Cristo vengono amplificate, affinché tali cristiani si sentissero interpellati in prima persona. In merito all’ambito di analisi è però interessante valutare soprattutto i modi attraverso cui si realizza la sottolineatura del motivo; essa si appoggia nello specifico a due dati: il contatto, nell’opera di predicazione, con popoli di cultura diversa da quella giudaica (e in funzione della possibilità di poter fornire risposte a coloro che, da individualisti, pensavano secondo le categorie ellenistiche, viene valorizzata la concezione, retaggio orientale, dell’ANIMA/PSICHE che, alla morte, entra in contatto con la realtà spirituale di Dio); la morte di Cristo e la sua Resurrezione (che rappresentano il segno dell’avvento di un mondo nuovo che ha ragione di tutte le forze ostili, in primis della morte, sconfitta da Gesù con il suo ritorno in terra). Ciò che è importante e che giustifica il riferimento alle religioni egizia e iraniana (zoroastriana, ancora esistente per una parte della popolazione in particolare in Iraq), con attenzione all’elemento della responsabilità individuale, è che nel cristianesimo, accanto all’annuncio di un nuovo sistema, si mette in luce la possibilità di un accesso immediato ad esso attraverso la morte individuale a cui però è necessariamente

Ap. 20, 7-10: “[…] Liberato dalla sua prigione, Satana seduce le nazioni e parte in guerra contro la Città Santa; il fuoco celeste si abbatte sulla sua armata; Satana è gettato nello stagno di fuoco a raggiungere l’Anticristo per l’eternità”. 4

L. MORALDI, L’aldilà dell’uomo nelle civiltà babilonese, egizia, greca, latina ebraica, cristiana e musulmana, Mondadori, Milano, 1985, p. 43. 5

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connessa l’idea che ogni uomo, avrebbe dovuto rendere conto dinanzi al volto di Dio, di ciò che ha fatto e di ciò che ha omesso. Questo è esemplificato visivamente, nelle due religioni orientali, dal motivo della pesata dell’anima. 2.2 L’Ade greco Tra l’Inferno della concezione cristiana e il mondo degli Inferi greco-romano, chiamato Ade o Orco, si intrecciano molteplici rapporti. In parte ciò dipendeva dal fatto che gli autori antichi erano tenuti in alta considerazione nel cristianesimo, nonostante fossero “pagani”; altro dato da considerare è la circostanza che non ci fosse una distinzione netta, nell’antichità, tra l’ambito divino e il mondo degli uomini. L’esistenza degli Inferi rientrava nell’“immagine della vita”; non era solo la fede religiosa a credere nei racconti sui viaggi nell’Ade, li si considerava delle vere realtà di fatto del mondo empirico. Questo spiega l’appropriazione di alcune concezioni proprie del contesto greco-romano e la sopravvivenza diretta di alcune di esse nell’Inferno cristiano. Relativamente all’ambito greco, riferimenti importanti sono rappresentati dalle descrizioni di Omero; in specifico il libro X dell’Odissea che narra del viaggio di Ulisse nell’Aldilà. L’interminabile punizione di tre celebri personaggi “penitenti”, Tizio, Tantalo e Sisifo, empi contro gli dei6, in particolare, condizionerà successive rappresentazioni infernali. Le modalità del loro supplizio saranno riprese e generalizzate per essere poi applicate a specifiche categorie di dannati (per esempio, il tormento di Tantalo, condannato a soffrire la fame e la sete, in mezzo a cibi e bevande deliziose, sarà una modalità di punizione ricorrente per il peccato di gola). Diventeranno inoltre elementi consueti della casistica infernale figure come quella di Cerbero, il cane custode degli Inferi e Caronte, il nocchiero, cantate dalla poesia e dal mito. Di notevole rilevanza è poi l’opera di Platone. A partire dal II secolo d. C., viene considerato da molti teologi cristiani come il “filosofo per eccellenza”. Il suo pensiero religioso, infatti, si avvicina tanto alla tradizione giudaico-cristiana su Dio da far supporre che avesse conoscenza almeno dell’Antico Testamento. A conforto di tale ipotesi si fa riferimento ad alcune affermazioni come la seguente: “È difficile trovare il padre e fattore di questo universo, e, trovatolo, è impossibile indicarlo a tutti” (Timeo 28 c). Giustino, teologo e filosofo della prima epoca cristiana, constatava senza esitazione: “Tutto ciò che anche da voi è stato formulato in modo egregio, appartiene a noi cristiani” (Apol. II 13, 4). Appare certo, in ogni caso, che senza Platone la teologia cristiana non avrebbe trovato il suo linguaggio. Tre le opere che hanno stretta attinenza con il messaggio biblico e che saranno riprese nell’elaborazione cristiana vi sono i dialoghi Gorgia7, Fedone e Repubblica.

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OMERO, Odissea, a cura di G. Paduano, Einaudi, Torino, 2010, XI 576-600.

PLATONE, Gorgia, 523 A – 526 A; trad. it. di F. Adorno, Laterza, Roma-Bari, 1971,


Nel primo testo risulta interessante la nozione di morte: è la possibilità di ricompensare il retto agire e di punire quello ingiusto; questa riflessione è poi successivo spunto per trattare sulle pene dell’Aldilà. Queste hanno duplice effetto. Presso alcuni producono, oltre la soglia della morte, retta conoscenza e comprensione, e quindi sono delle punizioni che risanano. Altri rimangono incorreggibili; vengono puniti per sempre e i loro supplizi servono allora a far paura agli altri. Nel Fedone Platone approfondisce il tema della giustizia: “i cattivi”, si dice, “non possono trarre alcun vantaggio, dato che vengono separati non solo dal loro corpo, ma anche dalla loro anima, insieme alla sua malvagità, e così son del tutto morti”8. L’aspetto etico viene tanto radicalizzato che anche i semplici desideri vengono inclusi nella malvagità. Tuttavia la sorte nell’Aldilà è costruita in modo rigoroso e quasi scientifico, con una descrizione dettagliata del luogo, una vera e propria geografia dell’Oltretomba. Si ha un baratro che incanala le profondissime acque del mondo degli Inferi; Socrate si sofferma sui quattro fiumi: Oceano, Acheronte (il quale “inabissandosi sotto la terra giunge alla palude Acherusiade: quivi convengono la maggior parte delle anime dei morti”), Piriflegetonte, che è ribollente e infuocato, e, infine, Cocito, il fiume che scorre in una regione orrida e selvaggia (Stigia) e che ha il colore del cìano. Là i defunti vengono suddivisi in quattro gruppi (gli stessi che poi, nella tradizione cristiana, Agostino ha rielaborato in modo rigoroso). Si distinguono i buoni (pii e santi), i mediocri (che hanno compiuto sia il bene sia il male), i grandi malfattori correggibili e quelli incorreggibili. Gli ultimi tre gruppi scontano le pene nella medesima regione desolata. Platone contempla per tutte le categorie una prospettiva positiva possibile, anche per i grandi malvagi; essi, infatti, possono venire aiutati attraverso sacrifici. Nonostante si tratti di “anime”, essi si muovono nei vari luoghi, a volte in zone orride, dove scorrono torrenti spaventosi. Giustizia vuole che nessuna colpa rimanga impunita. La Repubblica9, l’opera platonica in dieci libri sullo Stato, può essere considerata come la sintesi di tutta la sua filosofia. Il complesso e ampio dialogo si svolge all’insegna del tema della giustizia e, sotto tale motivazione, viene discussa la questione di come considerare lo Stato, non nel senso di un ideale inaccessibile, di un’utopia, ma come una possibilità reale. Le trattazioni dell’opera, composta forse nel 375 a. C., contengono una dura requisitoria contro i tiranni. Anche in tale contesto Platone esprime il proprio convincimento di fondo: la giustizia non può rimanere senza compenso e l’ingiusto deve perdere i vantaggi conseguiti; entrambe le cose sono però impossibili in questa vita, la realizzazione dunque dovrà avvenire nell’Aldilà. pp. 252-253.

PLATONE, Fedone, 107c – 114 b; trad. it. di M. Valgimiglio, Laterza, Roma-Bari, 1971, pp. 176-177. 8

PLATONE, Repubblica, X 614 d – 616 a; trad. it. di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari, 1971, pp. 345-347. 9

19


Platone descrive quel che si deve attendere, riprendendo il mito di Er della stirpe panfilia, il quale, caduto in battaglia, dopo dodici giorni viene richiamato in vita per narrare dell’Oltretomba. La scelta della forma linguistica del mito si giustifica in ragione della sua adeguatezza a trattare dell’“oscuro Aldilà”, contemporaneamente è utile strategia per avvertire della necessità di non interpretare alla lettera il racconto. Al centro del discorso rimane comunque fondamentale l’ammissione di una realizzazione della giustizia che prevede una ricompensa per gli uomini virtuosi e un castigo per i peccatori; Platone indica anche i rispettivi soggiorni: il cielo per i giusti, le profondità della terra per le anime colpevoli. Da rimarcare però il dato della temporalità della permanenza nell’Aldilà: i soggiorni nell’Oltretomba sono provvisori e rientrano nel ciclo della reincarnazione della psiche; solo gli “incurabili” dimorano nel Tartaro. Le diverse pene hanno una funzione di espiazione ma hanno una durata determinata. Rimane dominante l’idea che dopo la morte ci sia uno sviluppo e che (quasi) ognuno abbia una certa possibilità di capire e migliorare. Diversa la concezione cristiana, la cui specificità consiste nel porre la punizione, dopo la morte, al centro del proprio sistema religioso. 2.3 L’Orco romano Nel contesto romano sarà soprattutto il libro VI dell’Eneide10 di Virgilio il testo di riferimento delle successive elaborazioni infernali. Si descrive in esso il viaggio di Enea nell’Averno, in compagnia della Sibilla Cumana. L’aspetto da rimarcare è l’assimilazione di alcuni elementi di tale discesa al Mondo dei morti, nella letteratura successiva e nell’arte figurativa, definendosi poi come casistiche ricorrenti del consueto inventario dell’Inferno. Un ruolo importante e fondamentale sarà svolto, per esempio, dalle porte degli Inferi, descritte come inviolabili. La topografia con fiumi, caverne e palazzi, troverà costanti riproduzioni. Entreranno a far parte dell’immaginario fondamentale dell’Inferno forze personificate come la Morte, figure mitiche come demoni e Furie. La forza suggestiva di alcune descrizioni virgiliane sarà spunto di pagine altissime della Commedia dantesca; il passo con il fiume Acheronte e il nocchiero Caronte risulta emblematico: L’acqua e il fiume spaventoso nocchier Caronte guarda, d’orribil squallore, a cui dal mento folta s’effonde canizia incolta; gli occhi ha di brace ardenti e, sulle spalle, pende da un nodo lurido mantello. Egli la barca con un palo regge e con la vela, e dall’altra riva i morti nella ferraglia chiglia oltre trasporta11.

10 11

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VIRGILIO, Eneide, trad. it. di A. Bacchielli, Paravia, Torino, 1985.

Ivi, v. 416-428. Dante nel canto III dell’Inferno riporta alcuni tratti della figura


Come in Platone, comunque, quintessenza del comportamento retto, che a sua volta protegge dall’Inferno, è la giustizia (discite iustitiam, 829). Qualsiasi tipo di azione dichiarata “reato” a partire dalle concezioni di fondo del diritto romano, trova, in ogni caso, una punizione nell’Aldilà. A conclusione del percorso di analisi sulla nozione di Inferno nel contesto antico, si sottolineano alcuni dati che accomunano gli ambiti di lavoro valutati: come la credenza nella realtà fisica del Regno dei Morti, posto a margine del mondo empirico o nella profondità della terra; la dominanza di una rappresentazione relativa a un rendiconto riguardante la vita terrena e a una sentenza di giudizio delle potenze divine in base al modello etico di una giustizia equilibratrice; infine la contemplazione di sole tre possibili sorti nell’Aldilà: perfezione beata, sofferenza con finalità terapeutica, talvolta connessa con l’idea di una possibile reincarnazione, infine punizione eterna. Questi elementi saranno successivamente rielaborati nella concezione cristiana, modificati anche attraverso il filtro dell’esegesi veterotestamentaria.

del traghettatore che mostrano la dipendenza dal modello virgiliano: “[…] Ed ecco verso noi venir per nave/ un vecchio, bianco per antico pelo,/ gridando: “Guai a voi, anime prave!” (cfr. ALIGHIERI DANTE, La Divina Commedia, ed. E. Pasquini, A. Quaglio, Garzanti, Milano, 1988, Inf., III, v. 82-84), “[…] Caron demonio, con occhi di bragia/ loro accennando, tutte le raccoglie;/ batte col remo qualunque si adagia” (Inf., III, v.109-111). 21


3. L’Antico Testamento e la teologia non ufficiale del giudaismo e del cristianesimo 3.1 Inferno e PrimoTestamento In molte pagine l’Antico Testamento sviluppa il tema della morte dell’uomo, ma non si riferisce in modo chiaro né quale sia la sorte nell’Aldilà, né si fa esplicita menzione di una possibile retribuzione delle sofferenze patite in terra. Nemmeno il Libro di Giobbe, che tuttavia costituisce un’interrogazione sul paradosso del giusto perseguitato, non adotta tale soluzione: il fatto che Jahvé restituisca finalmente a Giobbe i suoi beni e la sua discendenza, convalida semplicemente la tesi di un necessario adeguamento tra le qualità morali dell’individuo e la sua sorte terrestre. Le stesse conclusioni valgono per i Salmi: quando il giusto annuncia il castigo dei suoi persecutori, si invoca una risoluzione terrestre dell’ingiustizia. Come indica lo studioso Cazelles: “il Dio d’Israele agisce sulla terra […], non è il Dio dei morti”12. Con gli scritti profetici, la situazione diventa più complessa. A quest’epoca, l’idea di un giudizio post mortem sembra essere diffusa senza che i testi dell’ortodossia ne facciano esplicita menzione. La speranza per la sorte dell’uomo al di là della morte sorge in Israele da una determinata concezione di Dio che si precisa meglio in questi scritti. Tra le particolarità riscontrabili nel patrimonio di idee giudaiche c’è il fatto di pensare Jahvé come assolutamente inattaccabile dalle potenze del male e dal Regno dei Morti. Non ci sono parallelismi con le divinità della natura e della fecondità, venerate nell’ambito circostante e soggette al morire e al risorgere. Inoltre Jahvé è superiore alla morte e al suo regno, il mondo degli Inferi. Non si ha ancora riferimento esplicito alla resurrezione della carne. L’affermazione di Ezechiele 37, 1-4 relativa alla realtà di Dio che, mediante il suo Spirito, sarà in grado di rendere nuovamente viventi delle ossa inaridite, deve essere letta come metafora del rinnovamento di Israele. “I diversi elementi sono ancora integrati nella prospettiva di una realizzazione messianica del Regno terrestre del popolo eletto”13. Successivamente, l’incipiente apocalittica offre la speranza che al di là della morte sia possibile una comunione con Dio, la forma di una vera fede nella resurrezione (per esempio Qo 3, 19 ss.)14.. Anche se non vengono sviluppate le modalità di tale “risorgere nella carne”, le aggiunte alla cosiddetta Apocalisse di Isaia, composte tra il IV e la fine del III secolo a. C., mostrano la ferma fiducia nella vita eterna e nella rinascita del corpo (Is. 25, 8a; 26, 19). L’attesa della resurrezione viene poi espressa in modo inequivocabile dalla Visione del profeta Daniele, composta nel 165 a. C. (Dn. 12, 1-3). Comunque, in ogni caso, gli annunci sull’attesa di una ricompensa da

H. CAZELLES, Les Jugement des morts en Israël, “Sources Orientales”, IV, Paris, 1961, p. 103-114. 12

J. BASCHET, Les Justices de l’au–delà: les représentations de l’enfer en France et en Italie (XII-XV siècles), École Française de Rome, Rome, 1993, p. 17. 13 14

B. DALEY, H. E. LONA, J. SCHREINER, Eschatologie in der Schrift und Patristik, (HDG IV 7), Herder, Frieburg, 1986, p. 28, anche su ciò che segue.

22


parte di Dio, sono segnati dal convincimento che si compirà la giustizia equilibratrice di Jahvé. L’affermazione della retribuzione post mortem appare un meccanismo di compensazione, in forza dell’insufficiente realizzazione terrena della giustizia divina e dello “scandalo” costituito dalla prolungata prosperità degli empi. Per ciò che concerne invece la concezione dell’Inferno, non è ancora presente la sua qualificazione come luogo di punizione. Le più antiche testimonianze relative a un “castigo” dei peccatori dopo la morte, parlano solo della cancellazione del loro ricordo: Nella generazione che segue sia cancellato il suo nome […] ed Egli [il Signore] disperda dalla terra il loro ricordo (Sal. 109, 13.15)

In altri testi (Is. 38,18; Sal. 115, 17; Gb. 17, 13) la frattura del rapporto con Dio viene espressa invece dicendo che i morti non lodano più il Signore15. Il mondo sotterraneo viene descritto come luogo delle tenebre più profonde, da cui non c’è possibilità di ritorno16. Come accade anche nell’Asia Anteriore e nell’antichità mediterranea, ai morti viene attribuita una sopravvivenza sotto forma di ombra, avvolta da molteplici tratti di tenebra, che però non viene qualificata come punizione. Il passaggio dal Regno dei Morti in Inferno, inteso come realtà destinata al castigo, si ha in concomitanza alle affermazioni della sovranità di Dio sugli Inferi ma soprattutto al conferimento al mondo sotterraneo di determinate proprietà. Colpisce, in particolare il singolare enunciato secondo il quale l’Inferno ha un “ruolo attivo”: Quale vivente non vedrà la morte, sfuggirà al potere degli Inferi? (Sal. 89, 49)

Spesso, nei testi veterotestamentari si ritrova la metafora del leone in agguato o l’immagine delle fauci spalancate: Tutta la fatica dell’uomo è per la bocca [degli Inferi] e la sua brama non è mai sazia (Qo. 6, 7; cfr. anche Gb. 36, 16; Is. 5, 14)

Il mondo degli Inferi dispone poi di catene e lacci:

“Poiché non gli Inferi ti lodano,/ né la morte canta i tuoi inni;/ quanti scendono nella fossa/ non sperano nella tua fedeltà” (Is. 38, 18). 15

“Una nube svanisce e se ne va,/ così chi scende agli Inferi più non risale” (Gb. 7, 9); “Lasciami, sì ch’io possa respirare un poco/ prima che me ne vada, senza ritornare, verso la terra delle tenebre e dell’ombra di morte,/ terra di caligine e di disordine, dove la luce è come le tenebre” (Gb. 10, 20-22). 16

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Già mi avvolgevano i lacci degli Inferi, già mi stringevano agguati [legami] mortali (Sal.18, 6) Mi stringevano funi di morte, ero preso nei lacci degli Inferi (Sal. 116, 3)

Nello scenario infernale requisiti proverbiali sono vermi e fuoco: Guai alle genti che insorgono contro il mio popolo: il Signore Onnipotente li punirà nel giorno del giudizio, immettendo fuoco e vermi nelle loro carni, e piangeranno nel tormento per sempre (Gdt. 16, 17) Poiché il loro verme [quello dei cadaveri degli uomini che si sono ribellati contro Dio] non morirà, il loro fuoco non si spegnerà (Is. 66, 24)

3. 2 L’apocalittica giudaica Costituisce un’osservazione globalmente corretta l’affermazione che nei primi cinque secoli a. C., si sia affermata l’idea di un Inferno come luogo di punizione in vista della giustizia divina piuttosto che una concezione dell’Oltretomba quale ambito caratterizzato da indifferente serenità17.

Essa però non spiega le notevoli differenze nella “descrizione” dell’Aldilà e nella concreta immaginazione delle pene dell’Inferno; su entrambi gli aspetti, le fonti ebraiche sono estremamente parche. Se è possibile dedurre dai testi dell’Antico Testamento la tendenza a una “personificazione” del Regno dei Morti, nel senso di una potenza che agisce in modo attivo, è pur vero che tale aspetto non corre il rischio di trasformare il mondo degli Inferi in una potenza opposta al Dio di Israele. Ancor meno il Diavolo o Satana svolgono il ruolo di principe dell’Oltretomba. Il passaggio dai testi veterotestamentari sulla morte e sull’Inferno a quelli del Nuovo Testamento e, soprattutto la combinazione di entrambi i gruppi in quelle che possono essere definite “le concezioni tipicamente cristiane sull’Aldilà”, risultano incomprensibili senza la letteratura formata dagli apocrifi giudaici. Relativamente al nostro ambito di analisi, l’interesse è soprattutto costituito dagli scritti appartenenti al genere dell’“apocalittica”. Il termine fa riferimento alle “apocalissi”, testi di rivelazione che, nel contesto del Primo Testamento, il profetismo più antico volle consapevolmente sviluppare. Gli esordi del genere sono costituiti, nell’Antico Testamento da Is. 24-27; 65s; Ez. 38s., come pure dai libri di Zaccaria e Daniele18. 17 18

24

G. MINOIS, Histoire des enfers, Fayard, Paris, 1991, p. 60. DALEY, LONA, SCHREINER, op. cit., p. 33.


Secondo Philippe Vielhauer19, le caratteristiche della letteratura apocalittica sono le seguenti: gli scritti si presentano sotto pseudonimo, fingendo una concezione risalente al lontano passato; contengono racconti di visioni connesse a sogni, estasi, rapimenti (mentre in genere la profezia “classica” riporta solo delle parole udite o ascoltate); ciò che viene contemplato nella visione sovente è oscuro e sconnesso, e quindi ha bisogno di un’interpretazione, che spesso nella letteratura apocalittica viene offerta da un angelo-interprete (angelus interpres); la storia accaduta è presentata sotto forma di profezia in modo da conseguire una maggiore credibilità, soprattutto per ciò che concerne gli annunci sulla fine, su cui tanto insiste questo genere di letteratura; la forma letteraria non è pura, ma è generalmente mista: così, spesso, sono inseriti salmi, inni. I temi propri dell’apocalittica sono relativi a una visione dualistica della realtà: il presente o l’antico Eone che si avvia alla fine, sono caratterizzati sempre in senso negativo, soprattutto per la crescente empietà e il degenerare della moralità. Il passaggio al nuovo Eone, imminente, disposto solo da Dio nella sua potenza, non avviene secondo una continuità, ma tra catastrofi e fratture. L’orizzonte di attesa trascende spesso l’ambito nazionale (israelitico), per estendersi all’umanità, ma i presagi valgono soprattutto per gli individui che risorgeranno per il giudizio. “Questo fine è assolutamente imminente: nell’impazienza dell’attesa, si rispecchiano i travagli del presente (come per esempio la distruzione di Gerusalemme nel 70 d. C.), eppure il vero fondamento di tale visione è ancora più profondo: il mondo è diventato vecchio, la creazione si è esaurita”20. Da rilevare infine che questi scritti esprimono una letteratura da setta, che raccoglie una dottrina segreta, non destinata ad un ampio pubblico. 3.3 Il Libro di Enoch Etiopico: prima descrizione giudaica dell’Aldilà Composto ai primordi del periodo biblico dal Patriarca che porta tale nome (cfr. Gn. 4, 17; 5, 18-24), è formato da un’apocalisse, costituita da cinque parti, che solo nella versione etiopica ci è pervenuta per intero. Lo studioso Uhling21 identifica la parte più antica del testo con il Libro dei Vigilanti (I-XXXVI), composto tra la fine del III e la metà del II secolo a. C., da un autore giudaico per il quale Gerusalemme costituiva il centro del mondo. Il veggente dichiara di aver intrapreso, in visioni e sogni, numerosi viaggi nell’Aldilà e nel futuro, durante i quali gli arcangeli gli avevano mostrato le più diverse situazioni di pena e i loro luoghi, per immunizzare dalle tentazioni la cerchia

P. VIELHAUER, Apostoliches. Apokalypsen und Verwandtes, in E. HENNECKE, W. SCHNEEMELCHER, Neutestamentlische Apokryphen in deutscher Ubert-setzung, MohrSiebeck, Tübingen, 1964, 2 voll., II, p. 413. 19

20 21

DALEY, LONA, SCHREINER, op. cit., p. 36.

S. UHLIG, Das äthiopische Henochbuch, Verlaghaus, Gütersloher, 1984, p. 471. 25


degli iniziati; l’autorità del veggente Enoch fece sì che la descrizione fosse presa per autentica informazione. Sono ormai dimostrate le dipendenze del Nuovo Testamento e della primitiva letteratura cristiana dal Libro di Enoch; esso era noto ai primi apologisti, come Giustino; ne avevano conoscenza Ireneo, Clemente Alessandrino, Origene, Cipriano. Tertulliano per due volte espresse il desiderio che esso venisse inserito nel canone biblico, dato che viene attestato negli scritti apostolici e contiene dei riferimenti a Gesù Cristo. Dal Libro di Enoch deriveranno alcune concezioni fondamentali dell’Inferno cristiano. Degno di nota il passo: E di colà andai in una altro luogo e mi mostrò ad occidente un monte grande ed alto e pietre dure e quattro belle località e, nell’interno, era profondo, vasto, liscio assai al punto da essere sdrucciolevole e, a guardar(lo), (era) profondo e tenebra. Allora Raffaele, uno degli angeli che era con me, mi parlò e mi disse: “Queste belle località (ci sono) affinché, in esse, si radunino gli spiriti, le anime dei morti. Sono state costruite qui, per loro, per raccogliere tutte le anime dei figli degli uomini. E questi luoghi dove le si fanno stare, (li) si sono fatti per loro fino al giorno del loro giudizio e fin quando (durerà) il loro tempo. E il tempo sarà grande fin quando vi sarà, contro di esse, il grande giudizio22.

In base a brani come questo, si spiegano le concezioni su una sorte fondamentalmente diversa per i defunti, sulla loro “custodia” fino al giudizio finale. Da rilevare il dato che i morti sono intesi come spiriti o anime ma, tuttavia, sono delimitati da un punto di vista spaziale. Un altro passo interessante è il seguente: Allora io dissi: “Perché questa terra benedetta, tutta piena di alberi e questo maledetto burrone al centro di essi?”. Allora Uriele, uno degli angeli santi che stava con me, mi rispose: “Questo burrone maledetto è per i maledetti in eterno. Qui si raduneranno tutti coloro che dicono, con la loro bocca, contro il Signore, parole sconvenienti e dicono, a proposito della Sua gloria, cose gravi. Qui li raduneranno e saranno il loro tribunale. E nei giorni seguenti, sarà contro di loro lo spettacolo della condanna, giusta, eterna. Qui per tutto il tempo, i misericordiosi benediranno il Signore di gloria, Re eterno”23.

Da tale prospettiva si chiarisce la successiva domanda che si porranno i cristiani relativamente ai sentimenti provati dai beati, alla vista dei peccatori. La seconda parte del Libro di Enoch porta il titolo di Parabole (XXXVII-LXXI). Probabilmente è da collocarsi tra la fine dell’era pre-cristiana e, in parte, nei primi secoli d. C.. In essa si danno informazioni sull’imminente giudizio e sui dannati. Anche

P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento; trad. di L. FUSELLA, XXII 1-4, Utet, Torino, 1981, p. 500.

22 23

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Ivi, XXVII 1-3, p. 507.


in questa circostanza si fa riferimento al concetto di “giustizia dispensatrice”. I peccati da punire consistono nel fatto di rifiutare Dio e nell’esercizio della violenza da parte di dominatori e ricchi. Solo prima del Giudizio ha senso un’invocazione di grazia. Tenebra e vermi rientrano tra le componenti neotestamentari della punizione dopo la morte: Ed Egli piegherà la faccia dei potenti, lo riempirà di vergogna e la tenebra sarà la loro sede, i vermi il loro letto24.

Tuttavia il Libro di Enoch conosce anche strumenti di tortura: Poiché vidi angeli del castigo andare a preparare tutti gli strumenti per Satana, chiesi all’angelo della pace che stava con me: “per chi preparano quegli strumenti?”. Ed egli a me: “Quelli li preparano per i re e i potenti di questa terra, affinché, con essi, (i re) si disperdano”25.

Viene alla luce soprattutto l’idea di vendetta: essa costituisce motivo di gioia per i “giusti”: Ed essi saranno spettacolo per i suoi eletti (i quali) si rallegreranno a causa loro, poiché l’ira del Signore degli spiriti si sarà fermata su di loro ed il coltello del Signore degli spiriti sarà ubriaco del (loro) sangue26.

Altre sezioni degne di attenzione sono la quarta e la quinta parte del Libro di Enoch: il Libro dei sogni e l’Epistola di Enoch (LXXXIII-CVIII), risalenti rispettivamente al II e al I secolo a. C.. La terza parte (LXXI-LXXXII) è invece composta da un testo di astronomia, poco rilevante per il nostro ambito di analisi. Dalle minacce di giudizio e dalle maledizioni si evidenzia la concezione dei peccati dell’autore, focalizzata sulla ricchezza e l’ingiustizia: Guai a quelli che costruiscono la malvagità e la violenza e che mettono a frutto l’astuzia, poiché saranno abbattuti e non avranno pace! Guai a quelli che costruiscono le case nel peccato poiché saranno distrutte fin dalle loro fondamenta ed (essi) cadranno sotto la spada e guai a quelli che posseggono oro e argento: periranno subito nella condanna! Guai a voi, o ricchi, perché avete fatto affidamento sulla vostra ricchezza e dalla vostra ricchezza vi allontanerete perché non vi siete ricordati dell’Altissimo nel tempo della vostra ricchezza. Voi avete commesso malvagità e frode e siete diventati degni della scorrimento del sangue, del giorno della tenebra e di quello del grande giudizio27.

26 27 24 25

Ivi, XLVI 6, p. 527.

Ivi, LIII 2-5, p. 536.

Ivi, LIV 1-6, p. 537.

Ivi, XCIV 6-9, p. 651. 27


È poi interessante una minaccia nella quale una dimensione o regione del Regno dei Morti viene descritta esplicitamente come Inferno di punizione. Si parla di coloro che sono morti nel benessere: Sapete che si faranno scendere le loro anime agli Inferi e che esse diventeranno misere e la loro afflizione sarà grande? E (che) il vostro spirito, in tenebra, in rete e in fiamma ardente entrerà nella condanna e (che) la grande condanna sarà per tutte le generazioni in eterno? Guai a voi, perché non avrete pace!28.

3.4 Il IV Libro di Esdra: scadenza della misericordia divina Si tratta di uno scritto che lo studioso Schreiner colloca verso il 100 d. C.29. L’autore dell’opera, concepita come unitaria, si serve dello pseudonimo di Esdra il quale, nel trentesimo anno della caduta di Gerusalemme del 587 a. C., sarebbe stato interlocutore dell’arcangelo Uriele e, nell’esilio babilonese, avrebbe avuto sette visioni con relative rivelazioni. Ancora oggi il testo impressiona per il radicalismo con cui esso interpella la fedeltà e l’azione del Dio d’Israele. A questo proposito interessante è il passo relativo alla limitazione della misericordia divina e alla sua divaricazione dalla giustizia che saranno poi temi discussi dalla tradizione cristiana: L’Altissimo si manifesta sul trono del giudice [allora viene la fine]; la misericordia finisce [la misericordia si allontana], l’indulgenza svanisce, soltanto il giudizio rimane. La verità si afferma, la ricompensa si mostra, le opere giuste crescono, quelle ingiuste non dormono più30.

Altro passo importante è quello relativo alle sette pene che Uriele indica inflitte a ogni peccatore dopo la sua morte: Se egli era uno di quelli pieni di sdegno, che non hanno seguito la via dell’Altissimo, hanno disprezzato la sua legge e hanno odiato i timorati di Dio, queste anime non entreranno nelle camere, ma dovranno subito andar vagando in giro in mezzo ai tormenti, sempre esprimendo lamenti e tristezza secondo sette modalità. La prima specie deriva dal fatto di aver disprezzato la legge dell’Altissimo; la seconda per il non poter compiere alcuna vera conversione, e così vivere; la terza perché vedono la ricompensa preparata per coloro che hanno creduto all’Alleanza dell’Altissimo; la quarta perché valutano i tormenti che li attendono alla fine dei tempi; la quinta per il fatto di vedere come le camere delle [altre] anime vengano custodite dagli angeli con una grande pace; la sesta vedendo come il dolore si estende su di loro; la settima, la 28 29

Ivi, CIII 7s., p. 656.

Ivi, VII 32-38, p. 346.

J. SCHREINER, Das 4. Buch Esra, Verlaghaus, Gütersloher, 1981, (Jüdische Schriften aus hellenistich-römischer Zeit Band V / Lieferung 4), p. 301. 30

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maggiore rispetto a quelle prima citate, per il fatto di sprofondare nella vergogna, di consumarsi per l’ignominia e di infiacchirsi nella paura, vedendo la gloria dell’Altissimo, al cui cospetto, quando erano in vita, hanno peccato e dinanzi al quale, alla fine dei tempi, dovranno essere giudicate31.

Qui le pene sono di tipo immateriale e affettivo. Da osservare come spesso, in scritti di questo genere, gli annunci sul futuro oscillano tra supplizi eterni per i peccatori e l’annientamento di questi. Non è possibile ricondurli in una visione organica. Verifichiamo inoltre come, anche in questo testo, le pene dell’Inferno sono state pensate da Dio. Per questo si parla di “sete e tormenti, che sono già preparati”32. 3.5 Apocalittica cristiana. Sguardo retrospettivo sul Nuovo Testamento Il giudizio di Philippe Vielhauer ancora valido: Il cristianesimo, alle sue origini, sia nella caratterizzazione palestinese, sia nella versione insieme ellenistica, giudaica e cristiana, mantenne ampiamente l’atmosfera e il mondo rappresentativo dell’apocalittica giudaica. Qualunque sia stata la componente escatologica presente nell’insieme delle idee di Gesù di Nazaret, l’occasione propria e più immediata che favorì un intenso afflusso di immagini e termini apocalittici nel primo cristianesimo fu costituita dall’impaziente attesa della seconda Parusìa. All’affermazione del Gesù storico, che la salvezza eterna o la rovina di una persona sarebbe stata decisa in base alla scelta della conversione, si unì la convinzione che alla fine dei giorni, egli sarebbe venuto dal Cielo come Giudice e Salvatore33.

L’insegnamento sulla Parusìa viene così a legarsi alle rappresentazioni relative al Giudizio, contemporaneamente vengono tratteggiati anche il tempo che precede la nuova venuta del Cristo, i segni premonitori, le afflizioni dei cristiani, in connessione con l’apostasia dalla fede di molti di loro e con l’avvento di una controfigura costituita dall’Anticristo. In tale elaborazione apocalittica del messaggio cristiano il riferimento fu costituito da materiali giudaici. In particolare, le persecuzioni subìte dai martiri si legarono alla rappresentazione di un “Ultimo tempo del male”34, del quale la letteratura apocalittica giudaica parla costantemente. Contemporaneamente si realizzarono delle trasformazioni: i nemici dei credenti assunsero i tratti dei demoni dell’Aldilà. Non appena il Regno dei Morti fu trasformato in un Inferno destinato alla punizione, tali inquietanti figure divennero sovrani di quel luogo, i quali dall’Aldilà, conducevano i

33 34 31 32

Ivi, VII 79-87, p. 353. Ivi, VIII 59, p. 370.

VIELHAUER, op. cit., p. 420. Ivi, p. 431.

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loro attacchi sulla terra. L’Apocalisse di Giovanni costituisce un’ampia collezione di tali rappresentazioni. Tuttavia, si deve constatare che nel Nuovo Testamento l’Inferno non è mai rappresentato con tratti così accentuati e netti. Il simbolismo della punizione viene sempre usato con discrezione. Riguardo al periodo cristiano immediatamente post-biblico, occorre considerare l’esistenza di due correnti. Da una parte, la presenza di testimonianze di notevole livello teologico e spirituale che non sono interessate alla descrizione delle situazioni o delle pene, presenti nell’Aldilà. Dall’altra però, l’esistenza di scritti apocalittici cristiani, i quali si occupano minuziosamente dell’Inferno e attingono al più ampio repertorio giudaico ma anche a composizioni pagane. In questa rielaborazione, le peculiarità letterarie dell’ebraismo vengono adattate alla prospettiva cristiana: per la maggior parte, gli autori utilizzano pseudonimi di persone di comprovata autorità e stima; inoltre riprendono le note modalità delle rivelazioni, delle visioni e delle estasi. Per lo sviluppo delle concezioni sull’Inferno particolarmente importante risulta essere questa seconda corrente e ad essa pertanto occorre prestare attenzione. 3.6 Apocalisse di Pietro: un libro decisivo sulle concezioni dell’Inferno Presumibilmente composta in Egitto verso il 135 d. C., si tratta della più antica testimonianza cristiana post-biblica sulla vita dell’uomo dopo la morte. Il testo non è noto nel suo stato originale, ma solo attraverso un compendio greco, il frammento di Akhim, e una versione etiopica35.. Nessuna delle due varianti del prototipo perduto, senza dubbio greco (lo attesta il nome degli angeli: Tatirikos custode del Tartaro, Temlakos colui che si prende cura) offre un rimando affidabile. L’una è stata sfrondata in blocco e dotata di escrescenze che servivano ad adeguarla a una variante etiopica della letteratura “clementina”; l’altra non è che un riassunto, forse in appendice, al Vangelo secondo Pietro36. Nonostante queste coperture fastidiose, il documento ha un’importanza decisiva. È una testimonianza di come funzionava l’immaginario dell’età paleocristiana a un livello già molto elaborato, un livello che includeva un dispositivo scenografico e una drammaturgia infernale. Le più antiche citazioni dell’Apocalisse di Pietro, considerate al pari di Sacre Scritture, si trovano in Clemente di Alessandria (verso il 200). Il canone di Muratori menziona l’opera accanto all’Apocalisse di Giovanni, accompagnandola con una riserva: “taluni non vogliono che se ne dia pubblica lettura in chiesa”, uso peraltro attestato nel V secolo in Palestina per l’ufficio del Venerdì Santo37. Lo scritto era molto diffuso sia nella Chiesa orientale che in quella occidentale.

Il papiro di Akhim, scoperto nel 1884, conteneva anche l’Epistola di Enoch e un segmento del Vangelo secondo Pietro sulla Passione. 35 36

B. TEYSSEDRE, Il Diavolo e l’Inferno ai tempi di Gesù, ECIG, Genova, 1991, p.

SOZOMÊNE, Hist. Eccl., 7, 19.

242.

37

30


Come è stato dimostrato38, le sue descrizioni dell’Inferno erano note ai principali teologi della Chiesa antica; esse condizionarono inoltre molti altri testi dell’apocalittica cristiana. Secondo Adolph Dieterich39, le fonti utilizzate sono mutuate dai misteri orficopitagorici, secondo Jacques Le Goff40 dal mazdaismo iraniano, mentre nell’insieme della composizione, che presenta la fine del mondo con fuoco, giudizio e resurrezione dei morti, sono evidenti degli influssi giudaici41. La circostanza dello scritto è la preghiera, rivolta dagli Apostoli ai risorti, di poter contemplare la ricompensa beata offerta ai giusti in cielo, affinché la loro predicazione al riguardo diventi più efficace. La richiesta viene esaudita; Pietro riferisce sulla visione concessagli. Oltre al luogo della gloria, viene descritto anche quello della punizione. Non si tratta propriamente di un “Inferno”: non è sotterraneo, non è il “di sotto” dove scendono i morti (“descensus ad inferos”). In questo senso esso differisce sia dallo Shéol biblico che dall’Ade greco. Come per le Apocalissi giudaiche più tardive, esso si colloca “all’opposto” del Paradiso, simmetrico a esso, sullo stesso piano o piuttosto sulla stessa superficie sferica. Le dimore di delizie e tormenti sono ricondotte alla genericità mal definita di un “altro mondo”. Si definiscono in base alla loro mutua opposizione: da un lato tutto è luce, dall’altro tutto è tenebroso e “sordido” (sporco, puzzolente); là domina il bianco, qui il nero. Il rosso è comune ai due domini, ma ne riceve connotazioni opposte che lo associano, in un caso alla luce solare, nell’altro alla fiamma del fuoco. Il fuoco del supplizio non esclude la tenebra e neppure, eccezionalmente, un freddo intenso, al punto che il latte congela (si tratta del castigo destinato alle donne che hanno abortito). Un’antitesi globale persisterà nell’immaginario medievale: il Paradiso è uniforme, quasi monotono con i suoi eletti tutti rassomiglianti l’uno all’altro, così da raggiungere il limite dell’interscambiabilità; l’Inferno, al contrario, è differenziato. Il testo è rilevante inoltre per l’estrema varietà dei supplizi che vi sono rappresentati; il repertorio punitivo contemplato, sarà, infatti, il materiale di elaborazione di tutte successive visioni infernali. L’Apocalisse di Pietro, come quella di Giovanni, è la testimonianza del lavoro dell’immaginario in una fase piuttosto precoce della cristianità. Senza di essa né la Divina Commedia, né l’Inferno dipinto e scolpito nelle chiese medievali sarebbero quello che sono. Anche in questo scritto, come già nelle opere precedentemente analizzate, il fuoco viene indicato come il principale strumento di tormento:

40 41

38

39

MORALDI, op. cit., p. 192.

A. DIETERICH, Nekyia, B. G. Teubner, Leipzig, 1913, p. 468.

J. LE GOFF, La nascita del Purgatorio, Einaudi, Torino, 1982, p. 193. HENNECKE, SCHEEMELCHER, op. cit., p. 471.

31


Ma gli iniqui, i peccatori e gli ipocriti staranno in mezzo agli abissi delle tenebre che non passeranno mai: il loro supplizio sarà il fuoco inestinguibile. Donne saranno divorate dalle fiamme fino al collo e punite da atroci tormenti. Sono quelle che causarono l’aborto dei loro figli distruggendo l’opera del Signore che li aveva formati42.

Questo fuoco può tradursi in un fiume infuocato (35, 38, 39, 40), in un lago bollente, composto sia di fango (23, 24) che di pus, sangue ed escrementi (31). Può arrostire i dannati come una graticola (30) o una pentola (34). Per bruciare gli occhi è somministrato sotto forma di lampi (26) o di un ferro arroventato (28). Arde in bocca (29) o vi penetra fino ai visceri (29): […] Presso coloro che sono là, si troveranno altri uomini e donne che rosicchieranno la loro lingua; saranno torturati con un ferro incandescente e bruciati i loro occhi. Questi sono coloro che maledicono e dubitano della mia giustizia. Altri uomini e donne, le cui azioni furono compiute con astuzie, avranno le labbra tagliate, il fuoco penetrerà nella loro bocca e nelle loro viscere. Questi sono coloro che fecero morire i martiri per mezzo delle loro menzogne. Una colonna di fuoco più tagliente di una spada; qui saranno uomini e donne vestiti di stracci e cenci sporchi: saranno gettati in questo luogo, affinché siano puniti severamente con tormenti senza fine. Questi sono coloro che posero fiducia nelle ricchezze, disprezzarono le vedove, la madre e l’orfano […]43.

Si hanno poi fornaci e bracieri ardenti: […] presso di loro vi sarà una fornace…Sotto di essi l’angelo Ezrael preparerà un luogo pieno di fuoco. Quivi saranno tutti gli idoli d’oro e d’argento, tutti gli idoli che sono opera delle mani dell’uomo e le immagini di gatti, di leoni, di rettili e di bestie, immagini che a loro rassomigliano. Gli uomini e le donne che fabbricano queste immagini saranno caricati di catene infuocate e puniti, a motivo del loro smarrimento, davanti a questi idoli44. […] In altro luogo molto profondo con una fornace e un braciere ardente; il fuoco che in esso brucia verrà da un estremità del braciere; gli uomini e le donne che faranno un passo falso cadranno e rotoleranno in questo luogo spaventevole. Inoltre, mentre il fuoco, ben attizzato, divamperà, essi monteranno e cadranno e ricominceranno a rotolare giù: saranno così puniti per sempre. Sono quelli che non onorarono il padre né la loro madre, astenendosi volontariamente dal rispettarli45.

L. MORALDI, Apocrifi del Nuovo Testamento, Piemme, Casale Monferrato, 1994, 3 voll., III, p. 334. 42

45 43 44

32

Ivi, p. 335. Ivi, p. 336. Ibidem.


Anche i vermi rientrano nell’immaginario suppliziante: […] Gli omicidi e quanti ad essi si sono aggregati saranno gettati nel fuoco, in un luogo pieno di bestie velenose. Saranno puniti senza tregua, sotto il peso di sofferenze atroci: i vermi saranno numerosi come le nubi delle tenebre46. […] Ezrael, angelo della collera, farà venire uomini e donne: la metà dei loro corpi sarà consumata nel fuoco, e li caccerà in un luogo tenebroso, nella Geenna degli uomini; uno spirito di collera li castigherà con ogni genere di tormenti, e un verme che non ha riposo divorerà i loro intestini. Questi sono i persecutori e i traditori dei miei giusti 47.

Associata al fuoco, la sospensione per la lingua (22), per i capelli o per il sesso (24): […] Gli uomini che giacquero con esse nella fornicazione, saranno appesi per le cosce in questo luogo ardente. Tra di loro diranno: “Non sapevamo di dover venire a questo supplizio eterno”48.

E l’impiccagione per i fanciulli irriverenti verso i genitori: […] Inoltre l’angelo Ezrael farà venire fanciulli e fanciulle, per mostrare loro quelli che nei tormenti sono puniti e castigati con l’impiccagione, e con le molteplici piaghe che faranno loro uccelli carnivori. Sono quelli che ebbero fiducia nella loro empietà, non obbedirono ai genitori, non seguirono l’insegnamento del loro padre e non onorarono i più vecchi di loro49.

L’Apocalisse di Pietro fa poi menzione dell’uso della ruota come strumento di tortura. È la prima volta che questo elemento compare nelle descrizioni infernali; successivamente invece diventerà strumento consueto anche se verrà riferita a diverse categorie di peccatori. Qui essa è impiegata per la punizione di maghi e streghe: […] È Uriel che li porrà là; e appresterà ruote di fuoco alle quali uomini e donne resteranno appesi in forza del turbinio della rotazione, mentre quanti saranno nella fossa bruceranno. Sono i maghi e le streghe. Di tali ruote di fuoco ve ne sarà in ogni punizione per mezzo del fuoco; saranno innumerevoli50.

L’epilogo risulta edificante: la visita degli eletti ai luoghi di supplizio, seguìta dai rimorsi troppo tardivi dei dannati. Ritorna il concetto che la misericordia di Dio è

48 49 50 46 47

Ivi, p. 337. Ivi, p. 338. Ibidem. Ibidem.

Ivi, p. 339. 33


limitata e che la conversione è possibile solo nel tempo della vita terrena. Si indovina lo sforzo di scongiurare un tema eretico, la salvezza finale di tutti peccatori. “La Chiesa, constatando a quale punto la paura dell’Inferno rinsaldi il proprio impero, non tollera più di indebolirsi in nome di una misericordia che si estenderebbe a tutta l’umanità”51. In effetti, bisogna ammettere che lo zelo nell’affinare i supplizi, nell’elevare il tono della drammaturgia con il condimento del sadismo, va in senso opposto a quello del perdono finale. Un altro elemento interessante è l’affermazione della corrispondenza tra colpa e peccato: si tratta della prima enunciazione del principio del contrappasso52: […] Quando si troveranno tra i supplizi diranno a una sola voce: “Abbi pietà di noi, che ora conosciamo il giudizio del Signore, quello che egli ci aveva fatto conoscere prima e al quale noi non abbiamo creduto”. Verrà l’angelo Tatirikos e li punirà severamente con un supplizio e dirà loro: “Ora voi vi pentite, quando non è più il tempo del pentimento, e non avete più la vita?”. Risponderanno tutti: “Il giudizio del Signore è retto, giacché avevamo inteso e sappiamo che il giudizio del Signore è giusto, e a noi è dato secondo le nostre azioni”53.

Per lungo tempo l’Apocalisse di Pietro fu considerata testo canonico, e non solo nella comunità cristiana di Alessandria dove presumibilmente era sorto. Perfino teologi spiritualmente elevati, quali Clemente Alessandrino e Macario, considerarono i suoi brani come delle rivelazioni dell’apostolo Pietro. Solo un sinodo tenuto nel 397 a Cartagine, escluse per la prima volta il testo dal canone dei libri biblici. Gli ambienti nei quali veniva utilizzato, cercavano, servendosi di fantasie sadiche, di inculcare non

TEYSSEDRE, op. cit., p. 258. L’idea che Dio non abbia potuto destinare le proprie creature a una rovina eterna, e che invece infligga ai colpevoli un castigo temporaneo allo scopo di eliminare la loro sozzura nel crogiolo del fuoco purificatore, è un’idea generosa che è stata professata da antichi testi cristiani (per esempio nell’Apocalisse copta di Elia o nell’Epistola dei dodici Apostoli), prima di essere sconfessata con Origene (questa dottrina “eretica” è quella dell’“apocatastasi”: purificazione progressiva dei peccatori e dei demoni che resusciteranno in corpi eterei; allora Dio sarà di nuovo tutto in tutti). L’Apocalisse di Pietro senza dubbio, l’aveva condivisa; il suo rimaneggiatore l’ha, di fatto, letta così; per questo è stata “corretta”. 51

Si individuano in specifico quattro modalità che rientrano nella casistica della corrispondenza visibile tra il crimine e il peccato: punizione conforme allo strumento del peccato (i bestemmiatori, per esempio, sono appesi per la lingua, i fornicatori per il sesso); legge del Taglione (gli assassini: morsi e punti da bestie velenose, in una cella stretta come una tomba, sotto un mucchio di vermi); inversione derisoria della situazione (coloro che, per fatuità ed ostentazione, facevano elemosina dicendo: “noi siamo giusti davanti a Dio”, senza cercare di essere giusti; sono ammucchiati gli uni sugli altri, sono i soli vestiti di bianco); vendetta compensatoria (i bambini abortiti - i cui occhi piangono, perché non hanno mai visto il giorno-lanciano lampi ardenti negli occhi della madre - perché non ha pianto nel privarli della luce del giorno-e con scintille sprizzate dai loro occhi le accecano). Si tratta di strategie che poi diventeranno consuete e che saranno ampiamente riprese e sviluppate successivamente. 52

53

34

MORALDI, op. cit., 1994, p. 339.


solo i comandamenti del decalogo ma anche le varie concezioni morale del tempo (emblematico il passo relativo alla pietĂ da riservare a vedove e orfani54). In tal modo ebbe molto influsso proprio sugli scritti dei rigoristi morali, per esempio su quelli di Novaziano55.

54 55

Ivi, p. 335.

LE GOFF, op. cit., p. 50. 35


CAPITOLO QUINTO IL TEATRO, LE VISIONI, LA LETTERATURA CLERICALE: ELEMENTI DI CONFRONTO Definita la dinamica iconografica, resta ora da valutare se ciò che si è constatato relativamente alla tematica infernale è fenomeno proprio delle sole immagini (e dunque legato alla trasformazione del linguaggio figurativo) o lo sviluppo del contesto suppliziante è comune ad altre forme d’espressione della mentalità religiosa. Si prendono in considerazione tre ambiti specifici secondo un ordine corrispondente alla loro prossimità con l’ambito visivo: il teatro, i racconti dei viaggi nell’Aldilà, la letteratura didattica e morale1. 1. L’Inferno sulla scena Nel teatro medievale la rappresentazione dell’Inferno come luogo di punizione dei peccatori ha un ruolo limitato. Spesso, infatti, esso è solo un elemento obbligato del dispositivo drammatico ma non è lo scenario di vere e proprie rappresentazioni. In effetti, i temi privilegiati dell’ambito teatrale, la Passione o le Vite dei Santi, non si prestano allo sviluppo di questo aspetto e anche l’episodio della Discesa al Limbo non comporta che tardivamente un’evocazione della sorte dei dannati. Infine il Giudizio Universale, nel quale l’Inferno è suscettibile di essere trattato come tema a sé stante, è messo in scena molto raramente2. 1.1 Le laudi drammatiche italiane Nate nel contesto delle confraternite umbre del XIII secolo, in particolare in 1

Naturalmente, in questa sede, la valutazione dei tre contesti non può essere esaustiva; si delineano solo determinate dinamiche, funzionali a verificare l’assunto iniziale. Si tratta, tuttavia, di percorsi che aprono spunti vari e che meriterebbero ulteriori approfondimenti, soprattutto con l’ambito locale, per cui alcune situazioni devozionali non risultano ancora ben chiare. Parte di questo capitolo è stato oggetto di pubblicazione di due saggi, rispettivamente: F. NATTA, L’Inferno sulla scena medioevale: i casi italiano e francese, “Romanica Olomucensia”, n. 1, vol. 23, 2011, pp. 67-74; Inferno e letteratura clericale nel Tardo Medioevo. Note per una messa in scena della penitenza, “Studi di Storia delle Arti”, n. 11, 2004-2010, 2012, pp. 53-60.

2

Sulla rarità del tema nel teatro medievale, vedere P. SHEINGORN, For God is such a Doomsman: Origins and Development of the Theme of Last Judgment, in AA. VV., Homo, memento finis: the Iconography of Last Judgment in Medieval Art and Drama, Medieval Institute Publications, Kalamazoo, 1985, pp. 15-58. 299


rapporto al movimento dei Disciplinati del 1261, le laudi sono in origine solamente narrative; solo successivamente danno luogo a delle vere e proprie rappresentazioni realizzate dalle stesse confraternite3. In questa tradizione italiana, il soggetto infernale è in stretta relazione al tema del Giudizio, la cui comparsa è repentina: lo si incontra già nelle prime raccolte, in particolare nel Laudario di Cortona, datato alla fine del XIII secolo4. Il racconto, però, non si allontana molto dal testo evangelico di Matteo; non comporta che un’allusione discreta al supplizio e termina con un appello rivolto agli eletti (“Venite a regno delitioso”). Nel Laudario di Pisa invece, composto tra il 1305 e il 1315, una Lauda del Giudicio riserva maggior importanza alla sorte dei reprobi5. Lo sviluppo della forma dialogica, in particolare, permette di mostrare i dannati nell’atto di implorare il perdono divino mentre il Cristo-Giudice, fa menzione, nella sentenza di condanna, di numerose categorie di peccatori (sodomiti, usurai, ladri, meretrici e traditori). È solo però con il Laudario di Perugia che si ha una rappresentazione dettagliata del Giudizio. È difficile datare con precisione la lauda intitolata L’Anticristo e il Giudizio finale, ma il suo carattere nettamente drammatico, suggerisce di situarne la composizione nel secondo quarto del XIV secolo6. La sua rappresentazione era 3

Sulle origini del teatro italiano, vedere A. D’ANCONA, Origini del teatro italiano (Loescher, Torino, 1891), II ediz., Bardi, Roma, 1971, 2 voll; V. DE BARTHOLOMAIES, Le origini della poesia drammatica italiana, Zanichelli, Bologna, 1949. Sulle laudi umbre cfr. AA. VV., Le laudi drammatiche umbre delle origini, Atti del V Convegno del Centro di Studi sul teatro medioevale e rinascimentale, Union Printing Agnesotti, Viterbo, 1980 e per i rapporti con i Disciplinati, AA. VV., Il movimento dei Disciplinati nel settimo centenario del suo inizio, Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, Perugia, 1962, in particolare I. BARDELLI, La lauda e i Disciplinati, pp. 338-367 e A. M. TERRUGIA, In quale momento i Disciplinati hanno dato origine al loro teatro?, pp. 434-459. 4

Lauda n. 34, ed. L. BANFI, A. CERITI-BURGIO, G. VARANINI, Laude cortonesi dal secolo XIII al secolo XV, Olschski, Firenze, 1981, 2 voll., I, pp. 235-239. Ad uso della confraternita di Santa Maria delle Laude, e non dei Disciplinati, si tratta della più antica raccolta conservata. Di carattere puramente narrativo, la lauda comprende 60 versi. 5

Lauda n. 64, cfr. E. STAAFF, Le laudario de Pisa du ms.8521 de la Bibliothèque de l’Arsenal de Paris, Almqvist och Wiksell, Uppsala-Liepzig, 1931, pp. 178-181 (84 versi). Si tratta della prima raccolta conservata, ad uso dei Disciplinati. Contiene delle laudi narrative nelle quali lo sviluppo dei passaggi dialogici è oltremodo sensibile. La Lauda 65 (Dell’anima dannata) mostra una monaca, ritenuta da tutti virtuosa, in mezzo alle pene infernali. Si illustra qui il tema della penitenza e il peccato di superbia ma non si ha alcuna descrizione infernale.

6

Questa lauda appare in due raccolte di Perugia (P: Perugia 955 e V: Valliceliana A26). L’analisi dei palinsesti ha permesso di stabilire che queste raccolte sono state entrambe costituite dopo il 1350 (A. VINTI, Precisazioni sul movimento dei Flagellanti e sui maggiori laudari perugini, “Studi di filologia italiana”, VIII, 1950, pp. 316-319). Derivano, tutte e due, da un manoscritto più antico, probabilmente dell’inizio del XIV secolo. Tuttavia, contengono anche delle laudi comuni più tarde come quella per la canonizzazione di San Tommaso (posteriore al 1323). Infine TERRUGIA (op. cit., p. 459) constata che, se le prime utilizzazioni drammatiche 300


prevista per una delle domeniche dell’Avvento7. Il debutto avviene con sei strofe consacrate all’Anticristo ma l’essenziale della lauda concerne soprattutto il tema del Sentenza Finale8. Diciannove strofe ne sviluppano gli episodi: la Risurrezione, l’Esibizione delle Piaghe e dei simboli della Passione, il Partage, i Verdetti di Condanna e di Elezione. Già in questa fase appare uno squilibrio tra i due gruppi: se tre strofe sono sufficienti per l’annuncio della sorte degli eletti e la loro risposta, lo scambio verbale con i dannati ne richiede sette9. Seguono poi trenta strofe interamente consacrate ai peccatori: c’è l’appello alla Vergine affinché interceda per loro presso il Figlio diletto10, poi, attraverso le richieste di clemenza dei dannati, sono evocati gli aspetti essenziali della loro condizione futura. Infine, questa parte si conclude con una lunga digressione, nella quale il Cristo reitera la sentenza di condanna, rimarcando l’inutilità del pentimento tardivo (perché post mortem). Ma in luogo di rivolgersi all’insieme dei reprobi, come Matteo, pronuncia delle condanne specifiche per sei dei sette Vizi Capitali (vv. 283-318). Si menzionano i golosi, gli avari, i lussuriosi, gli accidiosi, i superbi e gli iracondi: il Cristo precisa il supplizio al quale sono destinati e indica il demone deputato a eseguire la punizione11. Anche se il settenario resta incompleto e le pene sono poco dettagliate, lo schema dei Vizi riceve, nel verdetto pronunciato dal Giudice, una legittimazione considerevole perché presentato come il fondamento di una differenziazione delle pene infernali. I dannati sono successivamente chiusi nell’Inferno e la lauda termina con una scena nel corso della quale Lucifero e i suoi demoniaci sottoposti sono rappresentati nell’atto di disporre i supplizi per i diversi peccatori (vv. 337-390). I loro propositi sono meno di laudi risale all’inizio del XIV secolo, la creazioni invece di testi propriamente teatrali (ed è il caso di cui ci si occupa) non interviene prima del quarto decennio di quel secolo. Tenuto conto della sua ampiezza, quest’opera deve essere considerata tra le più moderne e probabilmente è stata aggiunta a pièces più tradizionali di raccolte anteriori. 7

La versione del manoscritto P è edita da V. DE BARTHOLOMAIES, Laudi drammatiche e Sacre Rappresentazioni, Le Monnier, Firenze, 1943, 2 voll., I, pp. 35-52. Quella del manoscritto V invece è edita da G. GALLI, Laude inedite dei Disciplinati umbri, Istituto Italiano d’arti grafiche, Bergamo, 1910, p. 107 e ripresa da M. BONFANTINI, Le Sacre rappresentazioni italiane, Bompiani, Milano, 1942, pp. 46-61. Le due raccolte sono organizzate secondo il calendario liturgico. La nostra lauda è introdotta dalla menzione “In Domenica de adventu” (senza dubbio la seconda che generalmente è associata alla Seconda Venuta di Cristo).

8 9

Nella versione P essa è costituita da 65 sestine (390 versi), in V, da 72 (432v.).

Vv. 150-210. Si tratta di uno sviluppo del tema di Matteo, in particolare sull’attitudine nei confronti dei poveri.

10 La Vergine utilizza l’argomento materno (“Per quel lacte ch’i te diei…”) al fine di far revocare le sentenze già pronunciate (“Io te prego, si esser puote/ Che la sententia tu revoche”, vv. 233-234). Ma è troppo tardi: “Non è tempo d’appellare/la misericordia è mo’ sospesa” (vv. 241-242). 11

Per esempio Satanasso per gli accidiosi, Belzebuthe per gli orgogliosi e Macomecto per gli iracondi. 301


strutturati rispetto a quelli del Cristo e non riprendono lo schema del settenario. Anche se si trova menzione dei golosi, degli avari, dei superbi (appesi per i capelli), sono usate qui soprattutto delle categorie più concrete. D’altra parte i tormenti sono meno precisi12. Tuttavia, paragonata a quella di Cortona e di Pisa, questa lauda introduce una trasformazione sensibile grazie, soprattutto agli elementi aggiunti al racconto evangelico13. Certe pene, inoltre, sono evocate con precisione; contemporaneamente la differenziazione delle categorie dei peccatori è molto sviluppata. L’Anticristo e il Giudizio Finale integra, dunque, nella rappresentazione del Giorno Ultimo, una descrizione dettagliata e strutturata dell’Inferno che fa così, nel secondo quarto del 1300, il suo ingresso sulla scena dei drammi religiosi dell’Umbria14. Comunque, c’è da rilevare il fatto che una rappresentazione così precisa resta eccezionale, data l’epoca. La Raccolta di Assisi contiene una Lauda Iudicii, ma questa non riprende né la sentenza dettagliata del Cristo, né l’evocazione delle pene infernali15. Se si ritrova il motivo delle suppliche dei dannati, tuttavia la pièce termina con l’appello agli eletti, invitati a prendere possesso del Regno Celeste, e con un’esortazione alla penitenza. Probabilmente occorre qui considerare una differenza sovente menzionata tra le laudi di Assisi e di Perugia: mentre le prime traggono dal loro legame con i Francescani un orientamento fortemente lirico, le confraternite di Perugia, soprattutto legate ai Domenicani, danno alle loro laudi una forma più drammatica e un contenuto

12

Gli omicidi e i traditori sono gettati in un pozzo; i superbi e i tiranni sono messi in una prigione piena di animali ripugnanti; i blasfemi hanno la lingua tagliata con una lama; i sodomiti sono “rostite a guisa de porchete”. La categoria più sviluppata è quella dei falsi devoti e, in particolare, dei “falsi disciplinati” che fanno mostra di un’ipocrita penitenza. Essi sono rivestiti “d’una veste d’aspra penetentia”, interamente infiammata. Questo indica chiaramente che la realtà della dannazione è possibile anche per i membri delle confraternite. Il tema infernale conosce dunque un doppio uso, interno ed esterno.

13

È, tra l’altro, estremamente rilevante il fatto che le modifiche riguardino soprattutto i dannati. Il disequilibrio tra l’attenzione prestata agli eletti da una parte e ai peccatori dall’altra ha, in effetti, un qualcosa di stupefacente (tre strofe contro trentasette).

14 Le due raccolte di Perugia contengono anche un Contrasto del povero e del ricco, che segue lo schema della Parabola di Lazzaro (ed. BONFANTINI, op. cit., pp. 31-42). In realtà non si ritrova una vera e propria messa in scena dell’Inferno, ma i supplizi del ricco sono ben descritti (“si faccia el macellare”, “stemperate oro et argento, dateglielo per beveraggio”). Su questo testo vedere M. LAZAR, L’enfer et les diables dans le theatre médiéval italien, in AA. VV., Studi di filologia romanza offerti a Silvio Pellegrini, Quaderni dell’Istituto di Filologia e Letteratura, Liviana Editrice, Padova, 1971, pp. 233-249. 15

La lauda è composta di 198 versi; vedere ed. GALLI, op. cit., n. XXXVIII, pp. 199204. Si tratta di una raccolta destinata alla confraternita di San Pietro ad Assisi, senza dubbio della seconda metà del XIV secolo. In un’altra raccolta di Assisi, la celebre Illuminati (per la confraternita di Santo Stefano, fondata nel 1324), nessuna lauda concerne il tema del Giudizio Finale.

302


più didattico16. Il Dicto dell’inferno, contenuto nella raccolta di una confraternita dell’Aquila, indica anch’esso i limiti della progressione del settenario17. Il modello delle pene è quello di Onorio Augustodunense ma il principio del contrappasso è meno rigoroso18. È il segno di uno sviluppo sensibile del principio di strutturazione ed è emblematico che il fuoco sia qui riservato ai lussuriosi. Infine, si nota che si tratta di una lauda interamente consacrata alle pene dell’Aldilà. Il tema del Giudizio Universale appare poi in sacre rappresentazioni del XV secolo che confermano la tendenza già reperita nell’Anticristo e il Giudizio finale. Così nella Rappresentazione del Dì del Giudizio, composta nel XV secolo da Feo Belcari19, il settenario è utilizzato a due riprese: sulla scena del partage, dove un peccatore di ciascun gruppo dialoga con una rappresentazione della virtù opposta; poi nell’Inferno: qui un demone si rivolge, seguendo lo stesso ordine, a ciascuno dei dannati per annunciare la pena corrispondente20. Ma se il settenario conosce qui un uso rigoroso, non si trova alcuna differenziazione delle pene: tutti i dannati indistintamente sono votati alle fiamme. Inoltre, il ruolo del sistema dei sette peccati capitali, si riduce: non solo non è più impiegato da Cristo, ma la rappresentazione mette in scena anche dei gruppi definiti dal loro statuto sociale21. Soprattutto questa rappresentazione realizza un profondo riequilibrio perché la forma dialogica permette, per due volte, di opporre i santi o le virtù ai gruppi di peccatori. Allo stesso modo, il verdetto divino relativo ai dannati e la risposta di questi, occupa lo stesso numero di strofe dell’episodio simmetrico concernente gli eletti: il Giudice sembra dunque ritrovare la sua imparzialità. Uno sguardo più dettagliato lo fornisce Gerardo Guccini in relazione alle indagini sull’opera del poco noto Feo Belcari. In particolare, lo studioso chiarisce il rapporto con le Sacre Rappresentazioni e le feste tradizionali e religiose. Non solo. Si 16 17

Cfr. BARDELLI, op. cit., p. 340.

La pièce, ugualmente conosciuta sotto il nome della Lauda del vivo e del morto (si tratta di un dialogo tra un defunto e un vivente) è edita da E. PERCOPO, Contrasto del Vivo e del Morto, “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, VIII, n. XXI, 1886, pp. 209-219. Essa figura in un manoscritto della fine del XV secolo ma data probabilmente al XIV. Il fatto di sapere se il morto subìsce le pene dell’Inferno o del Purgatorio resta ambiguo. 18

Vv. 155-254. L’acqua fredda è riservata agli accidiosi (freddezza nei riguardi di Dio), mentre draghi e serpenti attaccano gli invidiosi (così come anche i seminatori di discordia). 19

A. D’ANCONA, Sacre Rappresentazioni dei secoli XIV-XVI, Le Monnier, Firenze, 1872, 3 voll., III, pp. 499-523. È la ripresa, ampliata, di un dramma di Antonio Araldo (prima metà del secolo). Sarà riutilizzato e riadattato, per esempio in una raccolta di Bologna, nel 1482: la Festa del Giudizio, edita da DE BARTHOLOMAIES, op. cit., 1943, III, pp. 278-291. 20 21

Ivi, p. 502. Questo doppio uso del settenario figura già nella versione di Araldo.

Belcari aggiunge, durante il partage, una serie di discussioni tra ciascun gruppo e il Santo che avrebbe potuto essere un efficace protettore. Ma Pietro non può nulla contro il clero corrotto, né Francesco contro i poveri che credono che la loro condizione sia sufficiente a garantire la salvezza, né Girolamo per i penitenti ipocriti. Le stesse considerazioni valgono per il dialogo tra i mercanti e San Nicola da Bari o tra le prostitute e Santa Maria Maddalena. 303


approfondisce anche il legame con i dialoghi fra personificazioni di figure archetipiche, proprie del teatro sacro francese. Il riferimento, in particolare, è il Processo in Cielo della Passione di Arras, scritta da Eustache Mercadé e della quale si dirà diffusamente più avanti22. E tuttavia, nonostante il dramma di Belcari prevalga per maggior equilibrio e rigore sulla lauda del secolo precedente e si colleghi a una dimensione più “europea”, essa perde quell’intensità suppliziante che rappresentava un elemento di forte suggestione emotiva. Ma il rigore interpretativo di Guccini va a considerare anche altre evidenze: in particolare gli studi di Cesare Molinari riferiti agli spettacoli fiorentini del Quattrocento e in particolare alle Sacre Rappresentazioni23. L’analisi si dispiega sulla ricerca di elementi di relazione, in generale di carattere specificatamente italiano. Non si individua ancora l’implicazione sociale e, per certi versi, politica della Rappresentazione, ma si chiarisce chi mette in scena. Sono individuati i modelli della festa, della processione e delle laudi umbre, dove si passa dall’agglomerato di persone all’organizzazione, dove la classe di pensiero umanistico ritrova nei Trionfi i modelli per elaborati percorsi cittadini con varie finalità sacre24. Di qui è breve il passaggio alle Sacre Rappresentazioni delle chiese fiorentine con “armeggerie” complesse, come quella dell’Annunciazione che viene attribuita al Brunelleschi e della quale è stata data ampia descrizione. In questi casi, appaiono presenti “luoghi deputati”, distanti anche molti metri l’uno dall’altro. Si parla di Paradiso, di Monte, di Limbo. Si passa dalla dimensione figurativa a quella teatrale con estrema disinvoltura25. Le radici affondano nel vissuto della scena devozionale umbra, coniugate con le pompose realtà delle cerimonie fiorentine, attraverso specifiche relazioni liturgiche. Dalle cantine e dai magazzini, che in Liguria sarebbero state “casacce” delle Confraternite, si passa a uno spazio in cui la scenografia può fare una comparsa a dir poco decisiva26. C’è anche chi ha negato questi rapporti, come la Virginia Galante Garrone nel 1935; ma c’è anche chi, come Tatiana Pavlova ha messo in scena, nel 1937, uno spettacolo religioso27. Se ne deduce che la Sacra Rappresentazione fiorentina, assimilata così alla “festa” locale, si può studiare dal punto di vista scenico e non solo da quello letterario, come era accaduto per le laudi umbre. L’analisi di questi testi si dipana così su di un piano teatrale, con particolare attenzione alle scenografie e alla collocazione dei “luoghi deputati” sulla scena, anch’essa più o meno articolata. L’analisi di Molinari prende in considerazione le opere conosciute: si passa dai soli due poli di attrazione, a luoghi 22

G. GUCCINI, Domande sulla Sacra Rappresentazione e Feo Belcari, “Quaderni di Teatro”, IV, 1982, pp. 127-135.

23

C. MOLINARI, Spettacoli fiorentini del Quattrocento. Contributi allo studio delle Sacre Rappresentazioni, Neri Pozza, Venezia, 1961. 24 25 26 27

304

Ivi, pp. 28-29, p. 32, p. 35. Ivi, pp. 37-39. Ivi, pp. 57-61. Ivi, pp. 62-65.


distanti, alla città intera, spesso assimilata ai siti cittadini noti al pubblico28. Nell’economia della ricerca attuale risulta molto interessante pensare al rapporto tra la scenografia e la contemporanea evoluzione pittorica centro-italiana. Risulta così innegabile il rapporto tra Sacre Rappresentazioni e arte figurativa, in cui l’esperienza giottesca si evolve nel Gotico Internazionale. Tale rapporto si individua nella dimensione del racconto per scene successive tipico, per citare un solo esempio, dei cofani fiorentini e toscani in genere, destinati all’arredo matrimoniale, e spesso realizzati da importanti botteghe, cui a volte si formarono anche gli stessi artisti degli allestimenti sacri29. Sicuramente, a livello iniziale, lo svolgimento a riquadri successivi, potrebbe non avere addentellati scenografici pensando alla concezione simultanea della scena medievale; ma la liason in realtà esiste quando l’episodio si modifica a ogni sequenza. L’esempio principale è quello di Giotto a Padova. Una città dove sicuramente il pittore toscano aveva visto la Festa dell’Annunciazione, processione drammatica in una città animata da occasioni rappresentative dalle modalità narrative30. Della collocazione infernale in campo giottesco si è già detto. Altri luoghi deputati attraggono l’attenzione, come il tempio e il monte. Il primo, che la tradizione pittorica può identificare nelle strutture a pianta centrale tipica della visione del mondo pagano, si risolve spesso in una chiesa a tre navate, ridotta a mero scheletro31. Il monte è un luogo scenografico predominante, anche vistoso. I modelli analizzati sono molti e prestati dalle contemporanee xilografie, molto diffuse a illustrare i testi delle Sacre Rappresentazioni della seconda metà del XV secolo. Queste, in particolare, sono un modello di ricerca per la tipologia scenografica: l’esperienza dei luoghi deputati è molteplice e davvero innovativa. Verso la fine del Quattrocento però le xilografie mutano e non sono più accenno creativo per gli allestimenti scenici. Si è modificato il clima culturale; non c’è più il rapporto tra linguaggio figurativo e scenografia con impatto popolare. Si segna così il tramonto della concezione simultanea della scena. La situazione italiana ha un suo percorso. La non lontana realtà francese può essere allora esaminata alla luce di questo percorso e di possibili relazioni32. 1.2 I Misteri francesi Per quanto riguarda l’ambito drammatico francese si prende in considerazione un solo testo, rispettivamente il Jutgamen general (dramma provenzale, posteriore al

28 29 30 31 32

Ivi, pp. 70-85. Ivi, pp. 86-92. Ivi, pp. 94-98.

Ivi, pp. 99-101.

Ivi, pp.104-114. 305


148133), per la sua diffusione nel contesto italiano e per il legame con le laudi34. Tuttavia è importante rilevare che l’opera si costituisce anche come un’eccezione rispetto allo stesso panorama francese del secolo XV: infatti essa rappresenta la prima versione autonoma e sviluppata del soggetto del Giudizio sulla scena. In effetti, a partire dal XIII secolo, è la Passione di Cristo il soggetto per eccellenza dei Misteri e, tra l’altro, il tema non si presta a un’evocazione dell’Inferno. Di fatto, le Passioni del XIV secolo si limitano all’episodio di Cristo che libera i Giusti dal Limbo e non contengono alcuna descrizione dell’Aldilà dei dannati. Non è dunque nei Misteri che si può rinvenire una messa in scena del Luogo di Punizione. Il suo uso come strumento della Giustizia divina trova più logicamente rapporto con il tema del Giudizio Universale ma questa tematica non conosce praticamente alcuno sviluppo scenico se non che alla fine del XV secolo35. Esiste un testo intitolato Le Jour du Jugement, rappresentato nel 1397, ma esso è essenzialmente consacrato all’Anticristo36. Non comprende alcuna descrizione dettagliata dell’Inferno e non aggiunge nulla alla struttura del testo di Matteo se non qualche episodio di dibattito davanti al Tribunale Celeste. Eccezione a questa situazione è il dramma provenzale del Jutgamen. Una prima distinzione dei peccatori si opera durante il partage: il Giudice pone rispettivamente alla sua sinistra i Giudei, i pagani, il clero secolare, il clero regolare, i laici e gli uomini di legge37. La seconda parte del dramma è un dibattito tra Misericordia e Giustizia, poi tra la Vergine e il Cristo; essa termina con il verdetto definitivo del Giudice che indica per tutti i peccatori la stessa condanna (vv. 976-1824). Infine la terza parte è interamente dedicata all’Inferno38. Essa è consacrata, in specifico, al castigo dei sette 33

Datazione stabilita da E. ROY (Le Mystère de la Passion en France du XIV au XVI siècle, “Revue Bourguignonne”, II,1903-1904, p. 414) e ripresa da M. LAZAR (Le Jugement dernier. Drame provençal du XV siècle, Klincksieck, Paris, 1971, p. 42). Il testo deriva, per una parte importante, dalla traduzione francese del Processus Belial di Jacopo da Teramo.

34 La pièce importa anche per alcune modalità supplizianti che conoscono una diretta ripresa in certe figurazioni della serie ligure e per le quali non si è ancora individuato un referente testuale preciso. L’ipotesi deve essere ulteriormente approfondita ma a titolo di osservazione è interessante constatare la corrispondenza per certi supplizi: così la Gola è tormentata da serpenti come nell’affresco di Campochiesa, la Lussuria è in un calderone (Rezzo), la ruota punisce Invidia e Ira (tuttavia, quest’ultimo elemento punitivo ricorre in molti testi teatrali e non: lo ritroviamo, in effetti, anche in molte visioni dei secoli XII-XIII). 35 36 37

Vedere l’introduzione di LAZAR, op. cit., 1971, pp. 11-13 e pp. 36-45.

Non dedica che 746 versi al Giudizio vero e proprio; cfr. Ivi, pp. 39-41.

Beneficiano di un trattamento di favore poiché formano una categoria indipendente dal resto dei laici. I falsi giudici, gli avvocati e i procuratori sono così in faccia al Giudice Supremo: si comprende che c’è una preoccupazione particolare per coloro che amministrano male la giustizia. 38

Vv. 1825-2679: essa occupa 864 versi su un totale di 2733, circa un terzo della rappresentazione. 306


Vizi Capitali che, in forma di personaggi, sono rappresentati nell’atto di subìre la loro punizione39. Si tratta di supplizi la cui natura non è precisata, ma, probabilmente, essa doveva essere particolarmente violenta, dato l’uso in scena di manichini40. Ciascun vizio riceve un tormento specifico: la Superbia è posta su un trono (la sedia, simbolo delle sue pretese e presunzioni terrene) e ingozzata con piombo fuso; l’Avarizia, a cui si rimprovera soprattutto la rovina di povera gente per la pratica dell’usura, è costretta a ingerire monete roventi; la Gola è tormentata da serpenti41; la Lussuria è gettata in un calderone; infine una ruota è preparata per l’Ira, l’Invidia, l’Accidia. Certo, le pene utilizzate sono poco diversificate e il principio di adattamento funziona parzialmente, soprattutto grazie a delle variazioni nell’impiego del supplizio dell’ingozzamento. In ogni caso, a dispetto dei limiti individuati, questo mistero sviluppa con rigore il concetto di una punizione propria a ciascun peccato e dà un’importanza considerevole alla rappresentazione dei supplizi infernali. Risulta ugualmente interessante notare che le scene supplizianti non hanno alcuna simmetria paradisiaca: ci si accontenta di mostrare solo l’ascensione degli eletti verso il Regno dei Cieli al momento del verdetto finale del Cristo Giudice. L’accento è messo sui peccatori e il loro tormento produce una struttura asimmetrica che evoca, in un certo modo, l’affresco di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa. Tuttavia, ci si deve guardare dall’interpretare questa sfasatura come una perversione dell’equilibrio giudiziario o come una rottura dell’imparzialità del Giudice. Piuttosto, essa è l’effetto (come a Pisa) di una pedagogia del pentimento. Come individuano le rapsodie morali pronunciate dalla personificazione dei peccati, si tratta di invitare gli spettatori ad una presa di coscienza, attraverso la visione dei tormenti. Si rileva poi l’intervento personificato della Morte, che viene a ricordare l’urgenza della scelta. Se c’è dunque uno squilibrio è perché il dramma si rivolge agli spettatori: il rilievo dato all’Inferno più che il segno di uno scatenamento grottesco delle pulsioni popolari, è la traccia di un discorso morale e didattico. 39

È adottato l’ordine SALIGIA (ad eccezione della Gola che è posta dopo l’Avarizia). Relativamente invece al dispositivo drammaturgico, erano previste diverse fasi: innanzitutto, ciascuno per volta, ogni personaggio-Vizio era condotto verso il luogo del suo tormento; a questo veniva poi sostituito un manichino al quale l’attore prestava la sua voce. Si procedeva poi con la confessione delle malvagie azioni compiute e alla rappresentazione della punizione. In questa fase il Vizio spesso invocava la Morte, la quale però rispondeva che, ormai, era impossibilitata ad agire. Infine il Peccato veniva gettato in un pozzo per far posto alla figura successiva. La pièce terminava con una nuova lezione, pronunciata da Satana in persona e da un messaggero angelico, a ricordo del legame tra Inferno e volontà divina: “Seigneur…le monde entier est sous ta domination, le paradis et, plus ancore, l’enfer”. 40

Sulla sostituzione degli attori con manichini per le scene di supplizio, vedere E. KONIGSON, L’éspace théatral médiéval, CNRS, Paris, 1975, pp. 148-150.

41

La logica iperbolica è nettamente marcata: “Ta bouche était toujour ouverte pour dévorer filets de vivande…je te remplirai la bouche sans te arreter et je t’assure, sur ma fois, que tes besoins seront toujour pourvus” (trad. LAZAR, op. cit., 1971, p. 181). 307


1.3 Inferno e dispositivo scenico Nella sua analisi sull’apparto drammatico medioevale, Elie Konigson42 ha mostrato che l’Inferno costituisce un polo obbligato della rappresentazione sia nei drammi liturgici, svolti all’interno della chiesa, sia nei Misteri messi in scena nel contesto urbano. In effetti, nella maggior parte delle sacre rappresentazioni, l’immagine del mondo è sempre divisa tra Inferno e Paradiso, disposti secondo gli assi cardinali; rispettivamente: “Paradiso verso Levante ed Inferno verso Ponente”43. Una disposizione, questa, che riprende i valori tradizionalmente attribuiti all’Est e all’Ovest e riproduce, nel contesto urbano, la polarizzazione dell’edificio di culto già impiegata nei drammi liturgici. Così, in veste di luogo proprio delle potenze demoniache, l’Inferno si assicura una presenza scenica anche nelle numerose rappresentazioni il cui tema non esplicita direttamente alcuna evocazione diabolica. Questa polarizzazione traduce materialmente, nello spazio teatrale, la funzione di opposizione che le pièces attribuiscono alle forze malefiche. Per quanto concerne invece la messa in scena dell’Inferno occorre, per completezza, distinguere brevemente tra i contesti francese e italiano. Relativamente al primo ambito, si rimarca l’impiego frequente di elementi architettonici ma, in generale, è la gola che costituisce il motivo più usuale e caratteristico. Per questa venivano usate stoffe o parti di cuoio dipinto (servivano, in particolare, ai diavoli per l’entrata o l’uscita dalla gola) giustapposti su di una struttura resistente al fuoco. Dispositivi accessori permettevano poi ai demoni di uscire dalle orecchie del mostro, di produrre fumo, odori nauseabondi e scintille44. In Italia, la grotta costituisce l’unico elemento dello scenario della lauda umbra; e l’Inferno, come il Limbo, veniva generalmente figurato così. È solo a partire dalla metà del XV secolo che nei drammi viene impiegato il motivo della Gola del Leviatano45. Il dato è importante perché c’è, in questa circostanza, una corrispondenza con l’ambito iconografico che, solo nel momento del secolo XV, conosce l’affermazione dell’elemento gola nel contesto infernale soprattutto dell’Italia settentrionale. Ma il parallelismo più interessante tra scena e immagine è altrove: si constata, in effetti, nelle due serie, uno sviluppo simultaneo dei supplizi infernali. In Italia, L’Anticristo e il Giudizio Finale viene composto nel secondo quarto del 42 43

KONIGSON, op. cit., 1975, pp. 95-99.

Ivi, p. 156. Anche se l’autore usa come referenti Le Jeu de Saint Pierre et Saint Paul, rappresentato a Aix-en-Provence nel 1444 e il Mistère de Sainte Apolline (1452-1460); cfr. Ivi, p. 125 e p. 97. Questa disposizione, comunque, compare in tutti i drammi.

44

Oltre a KONIGSON, (op. cit., 1975, p. 244), cfr. anche G. COHEN, Histoire de la mise en scène dans le théâtre religieux français du Moyen Age, Champion, Paris, 1951, pp. 92-99.

45

V. GALANTE-GARRONE, L’apparato scenico del dramma sacro in Italia, Tipografia Vincenzo Bona, Torino, 1935, pp. 21-30 e D’ANCONA, op. cit., 1872, vol. III, pp. 478-485. 308


XIV secolo, cioè in data prossima all’intervento di Buffalmacco a Pisa. In Francia, il Jugement dernier provenzale è rappresentato poco dopo il 1481, ossia nel momento in cui la Visione di Lazzaro conosce un’ampia diffusione nella miniatura e nell’arte monumentale. Nei due casi, la corrispondenza cronologica tra immagine e scena è sconcertante. Tuttavia, queste considerazioni non devono indurre ad affermare che le rappresentazioni sono all’origine dell’impiego di particolari elementi (per esempio le strutture rocciose o la grotta) nelle immagini dell’Inferno. In effetti, non è che nei primi decenni del XIV secolo che le laude danno origine a drammatizzazioni. D’altra parte il motivo delle strutture rocciose appare già negli affreschi di Giotto e Cavallini; la grotta, poi, possiede nell’arte ispirata da Bisanzio una diffusione così precoce e ampia che è là piuttosto che conviene cercare la fonte del suo uso nell’immagine infernale. Così si può ammettere l’esistenza di un condizionamento della scena sull’iconografia sostanzialmente entro certi dati. Certo, non è escluso, per esempio, che il mantenimento o il rafforzamento del motivo della gola nell’iconografia italiana della seconda metà del XV secolo abbia qualche legame con l’attitudine visiva creata dal suo uso nelle pièces46. Considerando il problema in un’ottica più ampia, si deve però rinunciare a una teoria che riposa soprattutto su un deprezzo radicale dell’immagine47. La concordanza dello sviluppo delle rappresentazioni sceniche ed iconografiche dell’Inferno, sia in Italia che in Francia, deve essere interpretata come un’evoluzione parallela dei due ambiti. Più che una coincidenza, questo pare tradurre una coerenza del campo visivo sotto forma scenica e, contemporaneamente, sotto veste iconografica.

46 Allo stesso modo, alcuni motivi supplizianti sottolineano una corrispondenza tra i due ambiti. Si nota, per esempio, il frequente impiego dell’ingozzamento per gli avari. Punto di relazione particolarmente significativo è però il tormento dello spiedo per i sodomiti (in l’Anticristo e il Giudizio Universale e in numerosi affreschi), tenuto conto della rarità di questa associazione. 47

Cfr., a questo proposito, le asserzioni caricaturali di G. COHEN, (The influence of Mysteries on art, “Gazette des Beaux-Arts”, XXIV, 1943, pp. 327-342), per cui “l’artista medievale è un ignorante, incapace di trovare un modo di rappresentazione corretto, e per questo, si getta con avidità sulle suggestioni del teatro” (Ivi, p. 340). 309


1.4 Le fauci sceniche. Elementi per l’evoluzione della messa in scena della passione in ambito francese: la gola e la rappresentazione dell’Inferno La ricerca di Gerardo Guccini sulla resa teatrale di una Passione a opera di Eustache Mercadé appare a questo punto emblematica48. Anche in ragione del rapporto con l’analisi del periodo quattrocentesco a livello figurativo e del nostro microcosmo territoriale, quello cioè delle Alpi Liguri e Marittime, le quali, peraltro, avevano e hanno avuto nel tempo, saldi rapporti con l’ambito culturale d’Oltralpe. Ma l’analisi dell’opera passionistica di Mercadé, rielaborata sì da Arnould Gréban e Jean Michel, ma di per sé nuova, è fondamentale anche per un altro dato: essa rappresenta, infatti, un punto fermo, una linea di demarcazione per il teatro francese, tra l’altro in piena crescita nel XV secolo. Nella Passione di Mercadé si va oltre l’insieme empirico o raffazzonato di testi di svariata origine. C’è un piano drammaturgico. L’opera è unitaria e come tale va letta in senso teatrale, così come le realtà letterarie successive. Guccini dice: “Fra i testi e la scena dei misteri si schiude uno iato che non riflette la loro realtà bensì lo iato storico, e questa volta reale, che separa la teoria dagli studi della conchiusa sfera dello spettacolo medievale, dove la parte letteraria e quella visuale, la scena, gli attori e il pubblico erano informati e agglutinati da convenzioni percettive di cui, oggi, non serbiamo né la memoria culturale né l’esperienza”. Dunque di fronte a improvvisazioni o canovacci cari al pubblico francese dell’epoca, con Mercadé riesce a imporsi il ruolo dell’autore. Quello che, precedentemente, si impegnava nella creazione di situazioni grottesche o patetiche di alcune scene isolate. E in questo caso la mano dello scrittore si nota in rapporto all’evidenza dell’aspetto di salvazione della vicenda terrena di Cristo. Compare una conoscenza del sistema giudiziario contemporaneo applicato alla drammaturgia sacra in forma dialogica e questo è evidente per una precisa serie di metafore. In effetti, qui il ruolo dell’autore è un po’ quello del predicatore colto, del teologo, più che del drammaturgo. Non vi è più l’antico chierico, chiuso nel suo studium, limitato a poche frequentazioni. S’impone l’intellettuale, l’uomo da università e di cultura, una guida nelle opinioni. Del resto, i materiali drammatici vengono rivisti, fusi in un organismo unitario, applicati in una griglia culturale elevata. La cultura universitaria serve per un piano drammaturgico che unifica gli elementi teatrali precedenti. Come reagisce il mondo spettacolare, la “scena”, a questa novità? Da un lato c’è delusione di studio, perché i documenti provano l’impiego di luoghi lineari e frontali (Rouen, 1474; Mons, 1501; Paris, 1540) o circolari, come a Bourges nel 1536 o nel dipinto del Martirio di Santa Apollonia di Jean Fouquet del 1452-1460. Palchi regolari o simili a quelli dei tornei si trovano costruiti attorno alla scena. Se però si 48

Il paragrafo riprende quanto espresso (anche con citazioni dirette), da G. GUCCINI, op. cit., 1982. Si ricorda che Eustache Mercadé è stato un poeta drammatico francese, i cui estremi di vita non sono conosciuti. Molto legato alla Abbazia dei Corble presso Amiens, aveva titoli accademici religiosi. Si veda P. DE JULLEVILLE, Les Mystères, Hachette, Paris, 1880, 2 voll.). 310


passa dalla considerazione del tipo di scena a quella dei luoghi simbolici, si nota una realtà omogenea profonda. In ogni caso, giustapposti l’uno all’altro, si trovano, come inizio e fine di un percorso, Inferno e Paradiso. Il modello di tempio risulta chiaro. La contrapposizione Paradiso-Inferno è un elemento significativo, inserito entro una struttura salda. A livello anche figurativo spicca allora l’ingresso dell’Inferno, con una dimensione funzionale e rappresentativa. Si tratta di una enorme testa con fauci apribili e rinserrabili. Una novità archetipica. Guccini allora ricerca le origini di questa dimensione figurativo-scenografica. La tradizione bizantina rimanda a Inferni a scomparti. Quella italiana individua l’ingresso infernale come uno spaccato di monte oppure a tende e cortine, utilizzate nelle paraliturgie delle Confraternite fin dal XIII secolo. In tale contesto è utile il riferimento di Paola Ventrone, che si occupa delle Sacre Rappresentazioni fiorentine tra XV e XVI secolo. Un periodo analogo a quello che si sta indagando in relazione alla dimensione figurativa appurata in rapporto al contesto teatrale. L’esegesi della Ventrone è di carattere eminentemente storico-sociale. Non dimentica però gli elementi spettacolari specifici. Si individua il racconto dipanato per immagini paratattiche, simile ai polittici medievali. Gli attori occupano “stanze”, dalle quali escono per la recita e il festaiolo, più o meno l’odierno regista, è in scena. Del resto gli attori erano giovani dilettanti, spesso rappresentanti di illustri famiglie, generalmente anche appartenenti a compagnie dalle finalità religioso-politiche. L’Inferno e il Paradiso appaiono spesso come luoghi deputati. Non vi si recitava, ma c’erano e l’Inferno era normalmente situato nell’antro di un monte come in dipinti più o meno coevi. Un esempio può essere rappresentato dall’affresco di Andrea Bonaiuto in Santa Maria Novella, databile tra 1366 e 1368, con la Discesa agli Inferi di Gesù. Un tema che è stringente aderenza alla presente ricerca nel contesto teatrale. L’Inferno era il luogo dei demoni, diversi dunque dai virtuosi attori49. Un elemento chiave nel contesto di immagine è il Codice Caedmon, un insieme di quattro poemi (Genesi, Esodo, Daniele, Cristo e Satana) redatto ad Armagh in Irlanda e realizzato forse dal primo poeta cristiano britannico, Caedmon (658-680). Un’illustrazione del Codice raffigura proprio l’ingresso dell’Inferno a modo di fauci. Dalle isole britanniche del X secolo, dunque, tale immagine di bestia infernale migra verso il continente. Nella Francia e zone d’influenza del XIII secolo, nelle Discese al Limbo o nei Giudizi Universali è presente l’Inferno come bocca spalancata che butta fuori i giusti (caso del Limbo) ed inghiotte i dannati. Ne è prova l’iconografia del Giudizio che ricorre nelle porte monumentali delle grandi chiese europee. Il Cristo è in trono e in alto. Gli intercessori vicini sono la Vergine Maria e San Giovanni Battista. Al di sotto ci sono i risorti scortati verso il Paradiso dagli Angeli, mentre in basso, a sinistra, i reprobi sono incalzati verso la bocca infernale. Il modello è il Vangelo di Matteo (25, 31-46) e il “mistero” rivelato ai Corinti (Corinti, 15, 51-52). Il fulcro della rappresentazione è l’Arcangelo San Michele che pesa le anime in un 49

P. VENTRONE, Aspetti della società fiorentina nella Sacra Rappresentazione dei secoli XV e XVI, “Quaderni di Teatro”, IV, 1982, pp. 81-126. 311


sistema simmetrico. Nel teatro sacro la bocca mostruosa fa la sua comparsa al XV secolo, nei luoghi già citati e nel dipinto di Fouquet. In Italia il modello arriva più tardi e su influenza francese (Torino, 1468; Ferrara, 1481, 1484, 1492). Anche il codice Arras che riporta la Passione scritta da Mercadé presenta in una miniatura una fauce enorme entro cui Satana seduto su di uno sgabello è attorniato dai diavoli. Ad Arras la scena richiama questo modello e forse le fauci sono collegate alla riforma drammaturgica in atto. Le fonti di questa rappresentazione vengono solitamente individuate nel Libro di Giobbe, ma è sensato osservare che il modello sia invece il cosiddetto Vangelo di Nicodemo50. Le fauci sceniche hanno dunque un carattere innovativo nel teatro sacro. Non a caso Guccini nota che la connessione fra l’ordito dell’Inferno scolpito e quello dell’Inferno reale si ritrova in quello scenico. “La scena delle Passioni, dovendo trovare una forma che comprendesse tutte le ragioni del cosmo e riflettesse al contempo l’unità paradigmatica di quanto vi si svolgeva, s’orientò e assestò naturalmente nello schema del Giudizio, che, pure, raffigurava la totalità del cosmo e collocava il concitato spazio mondano fra due poli eterni a cui convergeva ogni azione, ogni moto”. I luoghi spaziali potevano essere collocati su tracciati diversi, ma la scena era univoca. Tutto il movimento teatrale, compreso quello delle figure, restava ancorato ai punti cardinali di Paradiso e Inferno. Ne consegue il fatto che le teorie dei risorti, fuori dal tempo, finivano; le loro disposizioni non erano essenziali; la struttura, ora drammaturgica, non poteva prescindere da Paradiso e Inferno, luoghi che dovevano raccogliere ciò che il tempo consegnava e cristallizzarlo. Il teatro sacro assume così il concetto medievale di eternità, attributo esclusivo di Dio. Al centro di tutto, la vicenda umana del Cristo, la sua opera in Terra. Così anche la scena assumeva a paradigmi due luoghi destinati a non finire: i luoghi dell’Aldilà, appunto. Il Cristo, al di sopra di ogni cosa, era contemporaneo e immanente, poiché determinava la sorte, eterna, dell’anima. Gli osservatori, colpiti dalla struttura drammaturgica e dalle visioni materiali, erano così definitivamente “conquistati”. L’uomo giusto, l’uomo retto, viene identificato in Abramo, consapevole delle sue scelte di fronte a Dio e obbediente al suo disegno. Si scorge in questo particolare un ulteriore richiamo alla Sacra Rappresentazione fiorentina ed in particolare al significativo Abramo e Isacco di Feo Belcari. Il testo teatrale sarà pure una rielaborazione di un analogo soggetto scenico abruzzese, ma viene adattato alle necessità socio-politiche dell’alta borghesia medicea fiorentina. Ne consegue: “Il punto centrale di questo cosmo dei devoti 50

L’entrata nelle fauci è presente nel Vangelo di Nicodemo, testo alquanto popolare nel Medioevo. Era stato scritto nei primi decenni del V secolo: la Resurrezione nello PseudoNicodemo riguarda non solo il Cristo, ma anche altri morti, miracolati da Gesù sceso agli Inferi. E Satana e l’Inferno dialogano in questo testo: l’Inferno è un personaggio e un luogo allo stesso tempo. Alla fine l’Inferno diventerà un diavolo nelle trasposizioni sceniche. Si veda la Devotione del Sabato Santo, in AA. VV., Il teatro italiano. Dalle Origini al Quattrocento, 2 voll., I, Einaudi, Torino, 1975, pp. 90-103. V. DE BARTHOLOMAEIS, Il teatro abruzzese del Medioevo, Zanichelli, Bologna, 1924. L’Inferno come bestia è teorizzata da J. L. BORGES, Manuale di zoologia fantastica, Einaudi, Torino, 1979, p. 111.

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fiorentini: Dio e con lui il mondo celeste delle innumerevoli gerarchie angeliche dei santi perennemente in assonanza con la volontà divina, non si pongono quale antitesi di questa terra, governata da interessi economici e familiari, ma quale suo massimo grado gerarchico. Il mondo di Dio, Dio stesso è questo mondo...”. Dall’altra parte, anche nella dimensione di scena c’è l’Inferno51.

51

G. GUCCINI, Retoriche e società nell’“Abramo e Isacco” di Feo Belcari, “Biblioteca Teatrale”, 19, 1977, pp. 95-117. 313


Tavole


Fig. 1: Buonamico Buffalmacco, Giudizio Universale, Camposanto, Pisa, 1330


Fig. 2: Giotto, Giudizio Universale, Cappella degli Scrovegni, Padova, 1305


Fig. 3: Salterio di Utrecht, Utrecht, Bib. der Rijksuniversiteit, ms. 32 (ora Script. Eccl. 484), c. 53v, sec. IX

Fig. 4: Apocalisse, part. Giudizio Universale, ms. R. 16.2, c. 25r, Cambridge, Trinity College


Fig. 5: Caedmon manuscript, Lucifero e la caduta degli angeli, ms. 11, f. 3, Bodleian Library, Oxford

Fig. 6: Salterio di Bianca di Castiglia, Caduta degli angeli, ms. 1186, f. 9, Bibliothèque de l’Arsenal, Paris


Fig. 7: Giudizio Universale, Cattedrale, Torcello, fine XI secolo


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