Claudio G. Fava Il mio cinema

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Claudio G. Fava il mio cinema

Claudio G. Fava

Da Aldrich a Kubrick

Introduzione di Nuccio Lodato

Claudio G. Fava il mio cinema 1. Da Aldrich a Kubrick

Sono stato per più di vent’anni critico cinematografico di un quotidiano («Corriere Mercantile») che allora a Genova, quando la gente in Italia andava ancora massicciamente al cinema, contava molto in città (avevamo una pagina a colori che, inventata da Franco De Salvo e da me è stata, credo di poterlo dire, la migliore d’Italia). Inizialmente essa venne accolta con diffidenza dagli esercenti e a malincuore e con qualche protesta dai distributori (i segni negativi per un film rimanevano sempre, mentre i cinematografi cambiano programma e la “roulette” gira). Poi divenne una abitudine cittadina e nessuno la discusse più. Dovetti solo cambiare la dizione del voto più basso (“insufficiente”) con “non classificabile”, che a me pareva, ingenuamente, ancor peggio, mentre accontentò tutti ed entrò nell’uso corrente. Indipendentemente da questo mi capitò solo una volta di imbattermi nell’ostracismo di un esercente. Era l’allora proprietario del cinema “Verdi” (situato in Via XX Settembre, come quasi tutti i cinema a Genova) che per diversi anni mi “espulse”. Vale a dire che non fece più entrare gratuitamente me né nessun altro redattore e rifiutò di riconoscere la tessera dell’Agis. Poco male. Io pagavo il biglietto, il giornale me lo rimborsava. Anni dopo tutto ritornò normale.

il mio cinema

Da Aldrich a Kubrick

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FALSOPIANO/LA NOBILE ARTE


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LA NOBILE

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una collana ideata da Lorenzo Pellizzari


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LA NOBILE

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Claudio G. Fava il mio cinema Da Aldrich a Kubrick

FALSOPIANO


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INDICE

«Senza monoscopio» e tanto meno home video: la vita “quotidiana” di «una certa generazione» di Nuccio Lodato

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Nota biografica

p. 29

Aldrich, Robert Che fine ha Fatto Baby Jane? (What Ever Happened to Baby Jane?) Quella sporca dozzina (The Dirty Dozen) Un gioco estremamente pericoloso (Hustle)

p. 31 p. 33 p. 35

Allen, Woody Provaci ancora Sam (Play it Again, Sam) Prendi i soldi e scappa (Take the Money and Run) Tutto quel che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere (Everything You Always Wanted to Know About Sex but Were Afraid to Ask) Il dormiglione (Sleeper) Manhattan Alice

p. 37 p. 39 p. 41 p. 43 p. 45 p. 48

Altman, Robert M.A.S.H. Il lungo addio (The Long Goodbye) California Poker (California Split) Images Gang (Thieves Like Us) Quintet America oggi (Short Cuts)

p. 51 p. 53 p. 55 p. 57 p. 59 p. 62 p. 65


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Antonioni, Michelangelo L’avventura L’eclisse

p. 67 p. 69

Bacall, Lauren Buon compleanno Lauren

p. 71

Bergman, Ingmar Il posto delle fragole (Smultronstället) Il volto (Ansiktet) La solitudine di Bergman e gli innumerevoli soldati di Leone Persona L’ora del lupo (Vargtimmen) Passione (En Passion) Il rito (Ritern) Scene da un matrimonio (Scener ur ett aktenskap)

p. 75 p. 78 p. 81 p. 81 p. 85 p. 87 p. 89 p. 91

Bertolucci, Bernardo La commare secca

p. 93

Bogdanovich, Peter Paper Moon (Luna di carta)

p. 95

Boorman, John Anni ’40

p. 97

Bresson, Robert Mouchette – Tutta la vita in una notte (Mouchette)

p. 101

Buñuel, Luis Viridiana La via lattea (La voie lactèe)

p. 103 p. 107


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Nazarin Il fascino discreto della borghesia (Le charme discret de la bourgeoisie) Il fantasma della libertà (Le fantôme de la liberté) Intolleranza: lo stilita tentato dal diavolo e il negro ucciso da una bianca Simon del deserto (Simón del desierto) Il treno fantasma (Dutchman)

p. 109 p. 111 p. 113 p. 116 p. 116 p. 117

Caiozzi, Silvio La luna nello specchio (La luna en el espejo)

p. 121

Camino, Jaime Chiaroscuro

p. 123

Cassavetes, John Ombre (Shadows) Gli esclusi (A Child Is Waiting) Una notte d’estate (Gloria)

p. 125 p. 127 p. 129

Celi, Adolfo - Gassman, Vittorio - Lucignani, Luciano L’alibi

p. 133

Chabrol, Claude Le beau Serge Stephane, una moglie infedele (La femme infidèle) Il tagliagole (Le boucher) Dieci incredibili giorni (La décade prodigieuse) Sterminate “Gruppo Zero” (Nada) Profezia di un delitto (Initiation au meurtre) Gli innocenti dalle mani sporche (Les innocents aux mains sales) Un affare di donne

p. 135 p. 137 p. 138 p. 139 p. 141 p. 143 p. 145 p. 148

Chaplin, Charlie La voce antica di Charlot canta la canzone de II Circo

p. 151


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Cimino, Michael Una calibro 20 per lo specialista (Thunderbolt and Lightfoot)

p. 155

Coppola, Francis Ford Il padrino (The Godfather) La conversazione (The Conversation) II padrino parte II (The Godfather part II) Apocalypse Now

p. 157 p. 163 p. 166 p. 170

Cox, Paul Isola (Island)

p. 175

Critici Critici: eroi all’italiana

p. 177

De Sica, Vittorio Una breve vacanza Il viaggio Gli straordinari talenti di Vittorio De Sica Piccolo dizionario “desichiano”

p. 179 p. 181 p. 183 p. 188

Edwards, Blake Hollywood party (The Party)

p. 198

Ercoli, Luciano La morte accarezza a mezzanotte

p. 200

Étaix, Pierre Quando c’è la salute (Tant qu’on a la santé) No, no, no, con tua madre non ci sto! (Le grand amour)

p. 202 p. 204


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Fellini, Federico Fellini, Otto e mezzo: la crisi di un regista 8½ All’AMGA: contrasto di opinioni nel dibattito su 8½ Amarcord I clowns

p. 206 p. 208 p. 213 p. 215 p. 218

Ferreri, Marco Una storia moderna: l’ape regina L’udienza La grande abbuffata (La grande bouffe)

p. 220 p. 222 p. 224

Film di Natale Tutti più buoni...

p. 226

Ford, John Cavalcarono insieme (Two RodeTogether)

p. 228

Franju, Georges Il delitto di Teresa Desqueyroux (Thérèse Desqueyroux)

p. 230

Fuller, Samuel Verboten, Forbidden, Proibito (Verboten)

p. 232

Giovanni, José Il clan dei marsigliesi (La scoumoune)

p. 234

Godard, Jean-Luc Questa è la mia vita (Vivre sa vie) Il disprezzo (Le mépris) La cinese (La chinoise)

p. 236 p. 237 p. 239


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Il maschio e la femmina (Masculin féminin) Due o tre cose che so di lei (Deux ou trois choses que je sais d’elle)

p. 241 p. 243

Grosbard, Ulu L’assoluzione (True Confession)

p. 245

Hall, Peter È stata via (She’s Been Away)

p. 249

Hitchcock, Alfred Intrigo internazionale (North by Northwest) Gli uccelli (The Birds) Topaz Dizionario Hitchcockiano

p. 251 p. 253 p. 255 p. 257

Huston, John Gli spostati (The Mistfits) I 5 volti dell’assassino (The List of Adrian Messenger) Lettera al Kremlino (The Kremlin Letter) L’uomo dai sette capestri (The Hanging Judge) L’agente speciale Mackintosh (The Mackintosh Man) Città amara (Fat City)

p. 283 p. 285 p. 287 p. 289 p. 291 p. 293

Jaglom, Henry Il giorno di Capodanno (New Years’s Day)

p. 301

Jancsó, Miklós I disperati di Sandor (Szegénylegények) L’armata a cavallo (Csillagosok, Katonák)

p. 303 p. 305

Kazan, Elia Splendore nell’erba (Splendor in the Grass) Il compromesso (The Arrangement)

p. 307 p. 309


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The Visitors Elia Kazan

p. 310 p. 312

Kubrick, Stanley Lolita Arancia meccanica (Clockwork Orange)

p. 315 p. 318


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Claudio G. Fava


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Introduzione

«Senza monoscopio» e tanto meno home video: la vita “quotidiana” di «una certa generazione» di Nuccio Lodato 1. Su di uno sfondo radicalmente mutato. Se può aver senso premettere poche opinabili pagine alle tantissime che qui si presentano splendidamente da sole nella loro definitività, consiglierei di iniziarne la frequentazione non dall’apertura ma da due altri testi, situati rispettivamente nei due volumi. Nel primo, in questo - e non a caso intitolato Critici: eroi all’italiana1 - l’autore rivendica con giusto orgoglio il lavoro passato che questo libro torna a offrire: «Sono stato per più di vent’anni critico cinematografico di un quotidiano (“Corriere Mercantile”) che allora a Genova, quando la gente in Italia andava ancora massicciamente al cinema, contava molto in città (avevamo una pagina a colori che, inventata da Franco Di Salvo e da me è stata, credo di poterlo dire, la migliore d’Italia)». Il secondo, nel successivo, Una certa generazione (Speciale Rossellini)2 è stato vergato in morte del più grande cineasta italiano e a sua volta, per inciso, rappresenta a mio modesto avviso una pagina tra le migliori del nostro giornalismo nel secondo Novecento. Che sarebbe stata ben degna, ove non confinata in un mensile “specializzato”, di figurare nel quarto “Meridiano” dedicato al tema da Franco Contorbia3, accanto agli altri pezzi selezionati (a loro volta in prevalenza necrologi) di Bignardi e Fofi, Kezich e Tornabuoni. Qui si rintracciano le origini stesse della passionaccia cinematografica, addirittura preadolescenziale, del futuro critico-eroe all’italiana: ma in entrambe le situazioni emerge incontenibile, soprattutto, la nostalgia per sale e circoli del cinema della Genova passata. Il “Verdi” con l’ineffabile esercente che inibisce l’ingresso di servizio al recensore; il “Moderno” «scomparso qualche anno fa, rosicchiato dai tentacoli cromati di una banca»; il “Postelegrafonico” - perché sito nel centralissimo vecchio Palazzo delle Poste... - poi “Dante” («tra l’altro ci nacquero le prime proiezioni del Film Club Genovese, quando andavamo a sentire riverenti Giulio Cesare Castello ed Enrico Rossetti, e Tullio Cicciarelli che parlava di Hitchcock: “c’è un uomo grasso a Hollywood...”»). Per chi abbia avuto la fortuna di vivere in quella città negli anni giusti, resta ricordo indimenticabile il piacere di andare al cinema da studenti, nell’Italia civile e vivibile di allora, di primo pomeriggio, per poi acquistare all’uscita il 15


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«Mercantile», confrontando col proprio il suo punto di vista sul film visionato al medesimo orario il giorno precedente. Non di rado col compiacimento reverente di averlo visto direttamente “in azione” nella sala, pregustando doppiamente il piacere di leggerlo in proposito ventiquattr’ore più tardi. Riprendendo poi canonicamente dall’inizio, l’assai bencapitato lettore trarrà dalla raccolta un quadro vivido quanto originale, estremamente personale e penetrante, del cinema italiano e dell’assai contenuta porzione di quello internazionale importato dagli anni Cinquanta ai Novanta. Tenendo anche conto del ritardo talora registratosi nella diffusione di alcuni titoli - di Bergman o di Buňuel come di Mizoguchi, tra gli altri - o di riedizioni di classici: Chaplin e via dicendo. Ma per gustarlo fino in fondo bisogna richiamare alcune circostanze e modalità di vita, cultura e impiego del tempo libero non più presenti tra noi oggi: quelle cui ci ha introdotti, citandolo direttamente, il magistrale estensore di queste analisi. Claudio avrebbe compiuto novant’anni giusto per festeggiarli con l’uscita di questo libro, nella cui realizzazione non a caso ci esortava (purtroppo invano) di far presto. Ma abbiamo almeno avuto il conforto di una calda frequentazione sistematica, protrattasi a lungo, per confrontarci con lui sulla costruzione della selezione e sui criteri da privilegiare nella scelta dell’immenso materiale disponibile, a produrre il quale l’interessato aveva fornito un determinante contributo, coordinando di persona - del resto nessuno avrebbe potuto farlo meglio di lui! - la realizzazione di chili di fotocopie. Quelle da richiamare sono tre caratteristiche di scenario oggi non più facilmente descrivibili a chi - per ragioni anagrafiche in sé non invidiabili non le detenga nella memoria personale: 1. l’abbondanza delle sale cinematografiche nei centri storici; 2. la parallela numerosità di quotidiani ad elevata tiratura e, per conseguenza, di ascoltati e prestigiosi critici cinematografici “quotidianisti”. Ma soprattutto, sebbene possa apparire il dato più evanescente e di ardua evocazione: 3. la difficoltà di reperimento e raggiungimento diretto, visuale e testuale, dei film. Il contatto ulteriore con ciascun titolo, una volta che avesse completato il circuito delle prime e ulteriori visioni, anche senza finire al macero come d’uso, veniva a costituire, in chiave retrospettiva, un evento in linea di massima eccezionale, sempre occasionale e imprevedibile, di norma poi comunque irripetibile, affidati come si era all’estemporaneità della programmazione di una tv ancora a lungo avara di canali e in bianco e nero, alla buona volontà dei cineclub, all’anemica se non maldisposta disponibilità delle rade cineteche. Quella generazione di critici con la maiuscola doveva, per forza di cose, possedere una memoria visiva della quale oggi (travolti e annegati come siamo da un’invereconda alluvione di immagini accalcantesi nella mente, provenendo da ogni dove) non riusciamo 16


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probabilmente a farci più una neppur minima idea. E ancora - sempre più difficile... - si dovrà tentare di figurarsi un’Italia (e, nella fattispecie, una Genova!) nella quale, come in poche grandi città -Milano, Roma, Napoli, forse qualcun’altra - esistevano per venire concretamente acquistati e letti, come rilevato da Fava con legittimo compiacimento, anche i quotidiani del pomeriggio. Si tende in ultima analisi ad evocare - la cosa forse più ardua - un paese in cui agiva (in servizio permanente effettivo, come i quadri militari...) una critica cinematografica giornaliera. Né le prime visioni dalle allora sovrabbondanti sale loro riservate, né la corrispettiva immediata analisi recensoria (elaborata in sala, col pubblico: non alle odierne anteprime interessatamente riservate) erano confinate, come adesso, negli umilianti lettini di Procuste di uscite rigidamente programmate a inizio stagione - non sempre molto intelligentemente - per ciascuno dei giovedì successivi che il buon Dio si degnerà ancora di mandare in Terra. “Producendo” la paginetta settimanale unica conglobante, a opera dei superstiti “titolari” superstiti, e degli ancora più delimitati e infelici (neppur più “vice”) succedanei: obbligati l’uno e gli altri a riferire alla svelta: in formato ridotto sul principale (vero o presunto) “film della settimana”, e in dimensione francobollo per i restanti. In un mondo nel quale sempre più spesso giornalisti “generalisti”, anche di vaglia, sono stati via via deliberatamente preferiti ai patetici “specialisti”. Ad uso di altrettanto disillusi quanto frettolosi lettori, quand’anche ancora esistenti, che su quella base dovrebbero essere “aiutati” o indotti a scegliere il proprio - sempre più raro e improbabile - passatempo (molto) eventuale del fine settimana, ammesso e non concesso siano alla loro portata individuazione e raggiungimento della relative (multi)sale. Homevideo e social media, satelliti e pay tv legittimi abbonamenti in streaming e abili “hackeraggi” occulti permettendo. Certo almeno il terzo nodo, quello della difficile reperibilità dei testi, è così superato in maniera totale: ma forse il gusto ingenuo e profondo per il cinema nella sua essenza, con la vertigine e il peso insostituibili di ciascuna delle sue immagini autentiche, è andato irrimediabilmente perduto. Abbiamo ora tutti in casa lunghi scaffali di dvd che non vedremo mai, come vani cumuli di files e usb immagazzinanti testi possibili da percorrere davvero solo disponendo di tre vite. La «generazione senza monoscopio» nella quale Fava si autoinscriveva era in magico possesso di un’altra misura della dignità e della gittata di ciascun secondo a 24 fotogrammi. Dovrà ancora, il lettore, provare (o tornare) a raffigurarsi un mondo in cui non soltanto non esisteva “la Rete”, ma non avrebbero avuto senso espressioni quali fare, mettersi o agire “in rete”. Non solo perché la relativa tecnologia era ancora, e assai, di là da venire: l’esperienza dei più recenti decenni ci ha 17


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insegnato come tanto più le entità si invochino quanto meno siano realmente esistenti. Mai come nel più recente periodo, ad esempio, è stato diffuso il ricorso immancabile all’espressione “con forza”, tendente appunto a... rafforzare qualvisoglia concetto. Quando la forza nelle convinzioni e nello stile di vita quotidiano esisteva davvero, nessuno avrebbe avvertito la necessità di evocarla ossessivamente, o di virgolettarla. Niente si nomina con più sistematica frequenza delle cose di cui si avverte il desolante vuoto nella realtà vera. 2. Una rete cartacea senza web. Le “reti” cinematografiche degli anni in cui operava criticamente, nella sua Genova e nel di lei “quotidiano del pomeriggio”, da titolare, Claudio G.[iorgio] Fava esistevano eccome, anche dal punto di vista della vita del mezzo e del suo pubblico. Quella dei fogli concorrenti stessi, innanzitutto: il prestigio intatto del «Secolo»; la storia gloriosa e la povera ma convinta militanza quotidiana del «Lavoro nuovo»; l’orgogliosa presenza cattolica del «Nuovo Cittadino» negli anni irripetibili del cardinale Siri (e, all’opposto, di don Gallo...). C’era perfino un «Avvisatore Marittimo» - oggi mutato in settimanale e passato ovviamente anche on line a testimoniare della vitalità dell’operare di un porto... invisibile: il muraglione che lo separava dall’allora ancora recente Sopraelevata non era ancora stato abbattuto per dare luogo (Colombiadi ’92) a Porto Antico, Acquario e quant’altro così reso popolare e accessibile. Proprio dal porto cominciava a dipartirsi la parallela “rete” del circuito culturale, con l’attività incessante della Sala Chiamata, proprio sotto la Lanterna, dove la Compagnia Unica Merci Varie, che raggruppava anche allora i portuali (i camalli godevano in quegli anni di una centralità anche statistica e politica e di un prestigio sociale riconosciuto oggi non più immaginabili) dava pure luogo a un’intensissima e prestigiosa continuità, facendovi sfilare anche i più bei nomi della cultura italiana. E la parte cinematografica, curata con efficienza e passione, tra gli altri, dall’indimenticabile Giorgio Garré, vi faceva, se non la parte del leone, certo una splendida figura. Collegata all’attivismo dinamico e penetrante del Gruppo Ligure del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici, allora e ancora per qualche anno non distinto - o scisso - da quello successivo dei soli “Giornalisti”. Claudio ne era vasta e riconosciuta parte, ricollegandosi dinamicamente all’altro polmone respirante e alimentante la vita del cinema in città: il Centro Universitario Cinematografico, di cui poi brevemente si dirà. Ma fresca era ancora la lezione di padre Arpa, sconfinante nel mito: la leggendaria anteprima notturna e clandestina de La dolce vita al cinema Garibaldi del centro storico, con Fellini presente per mostrare il suo controverso capolavoro proprio all’austerissimo e 18


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irriducibile presule, nella speranza di ottenerne il via libera4. Ma c’era già stato, dell’irriducibile gesuita, il magistero al cineforum dell’Istituto “Arecco”, dal quale sarebbe uscito, tra gli altri, anche Oreste De Fornari, di cui a proposito di Fava si dovrà riparlare, e che per fortuna di Claudio in queste stesse pagine a sua volta riparla. E la straordinaria esperienza, a Sestri Levante, con Gianni Amico e un altro stimolante esponente della critica genovese di allora, Bruno Torri, del festival del cinema latinoamoericano. Iniziativa pionieristica e preveggente, per quegli anni: di là da venire i Rocha e i Solanas, ci si limitava tutt’al più con sufficienza a Torre Nilson e Baledòn, o alle leggendarie direzioni della fotografia di Gabriel Figueroa, oltre ovviamente all’esilio messicano di Buñuel. Ma era come già presentire, attraverso quei film mai visti prima né visibili altrimenti, i grandi romanzieri contemporanei del subcontinente, che sarebbero esplosi anche da noi da lì a non molto. Dal CUC avrebbero avuto origine le successive attività del cinema “Centrale d’essai” di via San Vincenzo (incredibilmente scampato fino a oggi come bisaletta a luci rosse...) e poi della Cineteca “Griffith” di Angelo Humouda come del Filmclub “Filmstory” di Sandro Ambrogio e Aldo Viganò. Dal Gruppo Critici quelle del neoinaugurato cinema “Ritz” - lui d’essai anche ufficialmente, sull’esempio milanese - di corso Saffi alla Foce, surrealmente ospitato nel sotterraneo della Casa del Mutilato, di pura impronta piacentiniana, in prossimità della Questura. Delle presentazioni personali di autori, attori e anteprime, come della redazione di puntualissime “schede” di accompagnamento - chi ce l’ha fatta ancora le conserva - Claudio sarebbe stato ancora una volta tra i protagonisti. Inaugurazione con Blow Up; memorabile la serata di tre anni dopo, con Rossellini in persona ad accompagnare finalmente sullo schermo e a colori anche in Italia, con quattro di ritardo - La presa del potere di Luigi XIV 5. Ma il naturale campo di battaglia nell’esercizio della missione giornaliera sua e dei suoi colleghi-concorrenti dell’epoca era naturalmente quello del floridissimo “circuito commerciale”: la spettacolosa parte porticata della via XX Settembre compresa fra Piazza De Ferrari e il Ponte Monumentale, col suo susseguirsi da ambo i lati di una filza praticamente ininterrotta di locali monosala! - di prima visione. Per avere un’idea concreta di quello stato di cose è indispensabile il rinvio ai due volumi intelligentemente fatti curare in merito dall’AGIS Liguria in anni recenti, via via estendendo l’indagine dal capoluogo all’intera regione6. Ci si può togliere la soddisfazione di rievocarne le denominazioni, unificando lato destro e sinistro del tratto in questione della principale arteria genovese, come proverbialmente si è sempre fatto per Milano col mitico snocciolamento: “Abadan, Abanella, Abanera...”. In ordine alfabetico e mescolando i lati: “Astor” e “Lux”, “Olimpia” e “Orfeo”, 19


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“Universale” poi “Palazzo dello Spettacolo”. Oltre appunto a “Moderno” e “Verdi”. Di tutte queste felicissime concomitanze, che fecero della Genova di quei decenni un autentico paradiso della cultura filmica e della cinefilìa, Fava è stato probabilmente il rappresentante più autorevole ed esaustivo. Verso di lui infatti si convogliavano, e insieme da lui prendevano le mosse proposte, idee e iniziative che egli stesso provvedeva a redistribuire senza riserve e pregiudizi nelle più appropriate direzioni. Un quadro generale che finiva per fornire linfa e motivazioni anche al suo stesso lavoro critico, grazie ad una attitudine generosa all’apertura e alla disponibilità riconfermata fino all’ultimo, nei pur tremendamente mutati tempi della società e purtroppo anche suoi personali. Si pensi all’attività di Clandestino in galleria, libro e blog, e soprattutto agli incontri di Palazzo Ducale, come prima al suo sostegno al Genova Film Festival e ancora alla fondazione di quello del doppiaggio, “Voci nell’ombra”, a Finale Ligure. Per non dire di quell’autentica festa mobile annuale garantita dai suoi “Claudio G. Show”, in esclusiva per il purtroppo a sua volta defunto festival della critica alessandrino “Ring!”, cui riuscì a non mancare a una sola delle nove edizioni, nei dieci anni iniziali del nuovo millennio. Ma non va respinta la tentazione di estendere ancora di più il discorso: è stato uno dei pochi critici italiani di cinema a possedere, grazie al lavoro televisivo alla Rai, un volto familiare al grande pubblico, senza dismettere di una riga appropriatezza e rigore. D’altronde, a partire dal 1970, pur col trasferimento a Roma e la relativa progressione di carriera all’interno dell’ente di Stato, sulla quale non ha lesinato esilaranti pagine retrospettive scritte e parlate, Fava non ha fortunatamente rinunciato al proprio lavoro essenziale. Le recensioni stese nella capitale hanno per fortuna continuato a pervenire al suo giornale per lunghi anni, mentre l’attitudine critica, la curiosità insaziabile e l’occhio esercitato continuavano a manifestarsi anche nel lavoro televisivo di acquisto, primo o nuovo doppiaggio, programmazione e presentazione. Come e ancor più dei pionieri, i Rondi e i Di Giammatteo, i Castello, i Savio e i Ranieri, Fava era diventato “il critico” cinematografico per antonomasia agli occhi degli spettatori italiani. La stragrande maggioranza dei quali ovviamente ignorava di dovergli, a proprio vantaggio, acquisizioni straordinarie di film e di serie mai visti in precedenza, e che probabilmente sarebbero arrivati più tardi o per niente senza il suo sguardo lungo e curioso, grazie alla deliziosa abilità di buyer. Ma si sarebbe rifatto, il telepubblico, dopo la sua uscita dai problematizzati quadri direttivi di viale Mazzini, potendone finalmente ammirare “di prima” ironia, classe e intelligenza nelle fantastiche apparizioni prolungate in ben sei diversi tra i programmi - sofisticati e popolari insieme: come lui - attraverso i quali 20


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Oreste De Fornari e Gloria De Antoni somministrarono una televisione inauditamente intelligente (e per questo poi scaricata) lungo gli ultimi dieci del millennio scorso. Per non parlare direttamente dello schermo: l’autoironia dispiegata nel comparire nella parte di se stesso nel bel Ladri di saponette di Nichetti (sono passati trent’anni). 3. Metodi, influssi, contatti, anticipazioni. Come si accosta ai film che vede l’autorevole critico, trentenne quando stende le più remote tra le recensioni qui comprese? Con gli strumenti, oltre che della passione per il mezzo espressivo, del gusto e della cultura personali, nella consapevolezza mai smarrita di come il cinema, col suo poco più di mezzo secolo di tradizione accumulata, rappresentasse l’ultima se pur sensazionale barchetta da pochissimo parvenue nello sterminato oceano della tradizione culturale accumulatasi in occidente per molti secoli. Sono anni nei quali, ad esempio, dalle pagine di «Cinema nuovo» fondata e diretta da Guido Aristarco (pur già in fase discendente e acconciatasi a diventare, da quindicinale, bimestrale), l’espressione “critica di gusto” è utilizzata in senso, se non deteriore e squalificante, certo pesantemente ridimensionante. D’altra parte non veniva fatta oggetto di particolari cortesie nemmeno la ben più profonda Critica del gusto autorevolmente pubblicata proprio allora da Galvano della Volpe, la cui felicissima intuizione del “verosimile filmico” stentava peraltro a trovare effettiva applicazione nella stessa sede autodeputatasi ad adottarla, la romana «Filmcritica». Ma l’orizzonte di Fava non si rifaceva certamente alla linea De Sanctis-Gramsci (piuttosto che non De Sanctis-Croce) teorizzata e proposta da Aristarco col riferimento attualizzante all’estetica del maestro ungherese György Lukàcs. Il suo connaturato, istintivo amore per la cultura francese gli aveva già aperto la strada, oltre che del di lei impareggiabile patrimonio letterario, della consuetudine coi «Cahiers du Cinéma», nati agli albori dei Cinquanta, che però ancora pochissimi conoscevano e seguivano nell’Italia “miracolata” ma provinciale di sessant’anni fa. Anche attraverso questa consapevolezza Fava costruisce e coltiva, fin dal principio dell’attività pubblicistica, una propria gelosa e consapevole - in una parola: naturale - indipendenza, che non gli verrà mai meno lungo l’intera parabola della carriera, sia di critico militante che di programmatore direzionale Rai. Quando Aprà e amici cominciano a “tradurre” in qualche modo in Italia la linea dei «Cahiers», appunto su «Filmcritica», Fava è tra i pochi a non averne bisogno, già allineato com’è per proprio conto, ben prima e in maniera assai più, per così dire, istintivamente assimilata, sulle medesime coordinate: in modo più radicato e misura più radicale. Il suo reiterato, fondamentale e fondante lavoro su Jean-Pierre Melville (ma anche su Simenon) ne dà a tutt’oggi la piena misura. 21


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Sandro Ambrogio - da poco purtroppo scomparso - che dispensava la critica francese lavorando alla non più esistente libreria “Vallardi”, gestita da Silvana Balletto in via Roma, lo avrebbe avuto tra i suoi regolari frequentatori e amiciclienti. Ma per lui la disponibilità manuale di «Positif» e di «Présence», o delle collanine monografiche delle pompose “Éditions Universitaires” (la cui presuntuosa autodenominazione faceva sghignazzare Adelio Ferrero...) e della più concreta Seghers non avrebbero costituito, come per tanti, una rivelazione fisica tangibilmente accertata per la prima volta su quegli scaffali: conosceva e utilizzava riviste e libri già per conto suo. Sarebbero poi seguiti, allargando ulteriormente il campo arrivi al mondo anglo-americano, i fratelli Romano con la loro “Sileno” in Galleria Mazzini, negli stessi anni in cui Ghezzi (ancora maiuscolo allora), Bocci, Mora e Molfino litografavano semiclandestinamente il loro «Falcone Maltese» nel retrobottega di una terza libreria, quella di Andrea Tassi in piazzetta dei Greci. Idee e innovazioni quasi nell’aria: d’altronde un quotidiano concorrente, «Il Lavoro», grazie allo spirito d’iniziativa instancabile del mio indimenticato primo maestro Tullio Cicciarelli e di Roberto Chiti, era venuto pubblicando per lunghi anni addirittura una pagina settimanale monografica sul cinema: prima “Giovedì”, poi “Sabato dello schermo” (o viceversa: chi si ricorda?). Non era riservata alle recensioni, ma totalmente “aggiuntiva” e di approfondimento: ci si interveniva liberamente a tutto campo, con la burbera tolleranza complice del direttore Sandro Pertini (che dava talvolta una temuta occhiata, dopo il rituale caffè pomeridiano da Mangini della vicina piazza Corvetto oggi ricordato da una targa in loco: ma il cinema lo amava davvero7). Così, se si vuole sia stato il suo amico Morandini a iniziare le stellette valutative nella stampa quotidiana, fino a prova contraria è merito di Fava aver voluto introdurre -primo e forse unico in Italia: e non solo allora - i credits completi di ogni singolo film recensito, come questa stessa raccolta direttamente comprova. La selezione degli articoli dal «Mercantile» e dalla «Rivista del Cinematografo» ha rappresentato, per quanti coinvolti - autore interessato in testa nell’assemblare questo volume, un problema di non facile soluzione. Il numero complessivo di testi a disposizione, accumulatisi in un periodo di attività capillare di parecchi decenni, era impressionante. Come ordinarli? Per qualità e importanza dei film esaminati? Per spazio concesso e conseguente profondità di trattazione dei singoli articoli? Privilegiando autori o attori? Rispettando direttamente la cronologia? Cercando analogie di generi, nazionalità, argomenti, altri fattori accomunanti o distintivi? L’estensore per fortuna si è sempre mostrato disponibile, nella sua ospitalissima casa alla Foce, a un ravvicinato e coraggiante confronto amicale con gli editori di questa insieme iperselettiva e già così copiosa raccolta: guardandosi bene però dall’esercitare la ben che 22


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minima influenza sulla scelta dei pezzi da riprodurre, col limitarsi a un divertito e autoironico stupore sull’imponenza retrospettiva della messe di partenza. Non s’intende togliere a chi leggerà il piacere di autocommentarsi le tesi e le osservazioni puntuali dell’autore, tanto più adesso, con la possibilità di tornare subito quasi sempre a riaprire a tempo reale i testi filmici cui via via ci si riferisce. Si osserverà soltanto che il profilo critico dei singoli autori (visto che il fattore unificante dell’autorialità ha finito, anche con consenso dell’interessato, per prevalere su qualsivoglia altro tra i possibili criteri) viene a definirsi, com’è inevitabile, più compiutamente quando cronologia di uscita e casualità giornalistica di prestazione a prima vista hanno consentito di allineare un numero maggiore di titoli affrontati. È il caso dei cinque-sei-sette film che si succedono a vantaggio di Woody Allen e Bergman, Altman e Cassavetes, l’amato - quanto prolifico... - Chabrol, Buñuel e Godard, Huston e Losey, Malle e il superprediletto Melville, Monicelli e Pasolini, Peckinpah e Pollack, Tavernier e il super analizzato Truffaut. La ricorrenza persistente di un occhio relativamente privilegiante il cinema francese quasi su tutti non è certo casuale, ma assenze o presenze di nomi e titoli possono essere ricondotti invece proprio alla casualità della contingenza quotidiana, e non sono necessariamente rivelatori di predilezioni o mancate preferenze del critico. Vistose ad esempio, al riguardo, le assenze totali o quasi di Bellocchio e Bertolucci, già - negli anni Sessanta avanzati - chiari punti di riferimento centrali del cinema italiano. 4. “Critica di gusto”: Sacchi, la Banti ed... Ermenegildo Zegna! Per molti anni ho letto con sistematica passione le numerose raccolte di recensioni pubblicate a posteriori - quando ancora i libri di cinema “tiravano”... - da critici quotidianisti e non solo: la voga lanciata da Grazzini e Kezich con Laterza e Formichiere (poi Mondadori e altri) togliendosi anche notevoli soddisfazioni di vendita almeno negli anni Settanta-Ottanta. Ma erano addirittura uscite quelle anni Cinquanta di Lanocita per il «Corriere»: non sono mancate le riproposte di grandi critici “di provincia”, da Cattivelli a Pesce. Alcune mi sono sembrate degne di conservazione e riconsultazione, qualcuna addirittura appassionante o comunque preziosa: di altre mi è fatalmente parso si potesse anche fare a meno. Se a un modello comparativo ideale di critico libero e autonomo nel determinarsi si deve proprio, parlando di Fava, pensare, il rinvio non può che essere quello classico al super-indipendente Filippo Sacchi “storico” del «Corriere»8 e a quello ebdomadario - ancora attivo fino ai Settanta - dalle pagine di «Epoca»9. Ma una sola silloge tra quante conosciute mi pare però accostabile, per livello critico, culturale e stilistico, a questa: la rassegna completa delle recensioni della grande Anna Banti per «L’Approdo Letterario»10. Va recisamente affermato come negli scritti dell’uno e dell’altra 23


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si colga e colpisca un tratto davvero accomunante: il livello di qualità critica e di densità di scrittura - di stile, insomma - in misura decisamente fuori dall’ordinario. Con la differenza che Banti, collaborando a un trimestrale, poteva disporre di un adeguatissima fase di riflessione tra un film e l’altro dei pochi che prendeva in considerazione, mentre Fava «scrivendo giornalmente su per le gazzette, figuriamoci!» come lui stesso amava dire, doveva affrontare tutt’altre asperità e tempistiche. Bilancia però in senso riequilibrante un altro aspetto: Claudio di cinema ne masticava intrinsecamente, e parecchio assai, di suo, mentre la romanziera tendeva fatalmente - ma proprio in questo risiedono ovviamente fascino e attrattiva dei suoi contributi - a trattare i registi via via esaminati come suoi colleghi narratori, alle prese cioè coi propri stessi interrogativi di scrittrice. Nel raffrontare le due raccolte mi ha però colpito un’ulteriore, minuta ma significativa coincidenza. Si vada alla recensione qui fatta disporre per ultima dall’ordine alfabetico d’autore, riguardante oltretutto a un film che ho sempre amato particolarmente per mio conto: Storia di una monaca di Fred Zinnemann. È in assoluto una delle più brevi, non che - salvo sviste - la più remota o quasi tra quante selezionate. Nella sua stringatezza però c’è tutto: il film intriga Fava pur senza entusiasmarlo, ma quella sua netta sensibilità di cristiano convinto lo guida a un’introspezione del testo, pur nella sintesi, certamente non alla portata di un qualsiasi collega laico a sua volta sulla breccia sessant’anni fa. La Banti, tutt’altro che incline alla fede, sebbene assai interessata da storica dell’arte alla pittura religiosa e da narratrice al mondo conventuale, nell’analizzare il film per il periodico culturale della Rai, in un pezzo a sua volta memorabile, polemizza con la sordità del mondo cattolico ufficiale, che all’epoca rappresentava ancora una potenza, anche riguardo alla distribuzione cinematografica, col ramificato e frequentatissimo circuito degli oratori: «Non ci risulta che tra i fogli di stretta osservanza cattolica qualcuno abbia, nella sua rubrica di consigli cinematografici ad uso dei timorati lettori, indicato alla loro attenzione un film che in questi giorni gira per l’Italia, riscuotendo un successo crescente di particolare significato [...]. Per tornare al discorso con cui abbiamo cominciato, ecco un film che i dirigenti dei cinema parrocchiali dovrebbero strapparsi dalle mani. Se avessero tanta fede da non ravvisare un nemico nella lucidità della mente e del cuore»11. La scrittrice oggi tanto ingiustamente accantonata12, nonostante il revival felicemente donatole nel 2011 dal Martone di Noi credevamo, all’epoca viveva a Firenze, ed è possibile congettura che non sapesse neppure dell’esistenza del «Corriere Mercantile». Ma è un vero peccato, perché se avesse conosciuto il personale orientamento del giovane a lei, almeno all’epoca, certo altrettanto ignoto collega, seppure, nel caso, non collaborante a un «foglio di stretta osservanza 24


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cattolica», ne avrebbe potuto apprezzare la folgorante conclusione: «Si avverte l’assenza di una vera partecipazione del regista al dramma, che è quello della vocazione religiosa, nell’ambito di regole ferocemente sante. Ci sarebbe voluto un Bresson, che il cinema americano non ha». È uno dei tipici colpi di coda peculiari solo della critica davvero di vaglia: un’intuizione non dissimile ad esempio da quella, a mio avviso immortale, che fece definire proprio a Sacchi Il Gattopardo film superiore al libro di Tomasi di Lampedusa perché... nel romanzo la sciarpa bianca di Lancaster nel finale non c’era! E dalla porta della fede cristiana si dovrebbe a questo punto entrare, per riprendere i frutti della collaborazione di Fava a «Vita e Pensiero» e ad altri periodici dell’area, che questo lavoro, già così felicemente ipertrofico, non ha purtroppo potuto prendere in considerazione. Ma a questo punto sorge il sospetto di aver insistito troppo sulla pur fondamentale e determinante componente recensoria: non sfuggano al lettore le altre pagine monotematiche o d’occasione, dallo straordinario lessico hitchcockiano a quelle su Laureen Bacall, alle altre copiose su De Sica o Kazan. Commentando gli esiti di un recente referendum tra i critici - «FilmTV» aveva teso a far loro classificare i migliori film italiani del dopoguerra - Alberto Pezzotta ha salutato, nei voti clamorosamente esigui riportati dal Visconti de La terra trema e di Senso, «la fine dell’aristarchismo». Ma il Visconti di Fava, ad esempio, pur garantendo sempre un primissimo piano al maestro milanese, è radicalmente diverso da quello descritto e “programmato” (dalle colonne di «Cinema» prima, di «Cinema nuovo» poi) da Aristarco e dai suoi. Si vedano le raffinate analisi proprio del Gattopardo e della Caduta degli dei, come la sapiente e motivata - magari oggi... rivedibile - stroncatura di Ludwig: ma forse soprattutto la sensazionale, singolarissima disamina di Gruppo di famiglia. Qui il recensore, con acutezza e raffinatezza senza pari, si permette addirittura signorilmente, approfittando della ritardata uscita cittadina del film, di discutere con i colleghi romani e milanesi che avevano già potuto scrivere la propria in precedenza: manifestando un’aperta e diretta volontà di confronto, la cui latenza invece da sempre rappresenta, ad avviso spero non solo mio, un doloroso tallone d’Achille della critica italiana. Proprio tornando a Guido Aristarco, si consenta di alleggerire la conclusione con un pur minimo e bizzarro ricordo personale. Solo perché congiunge efficacemente il quadro di mezzo secolo fa con quello più vicino a noi, rendendo tangibili le tre categorie del passato enucleate in apertura: una sala cinematografica che non esiste più (dal 1977, per la precisione); un quotidianista autorevole verbalmente all’opera, il nostro; un mondo ancora remoto da homevideo e digitale, nel quale riuscire a rivedere un film poteva considerarsi un’autentica avventura. 25


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Primavera 1967: il CUC Genova trasferisce la propria attività all’allora “Star” di via Bocchella, ad Albaro: l’area di frequentazione anche parrocchiale di Claudio - all’epoca non potevo immaginarlo - dove si sarebbero addirittura svolte, 37 anni dopo, le sue stesse esequie. Si annuncia, con molto sostegno promozionale, la proiezione di una nuova copia rieditata (che in realtà non si sarebbe rivelata né l’una né l’altra cosa...) di Senso. Il capo d’opera di Visconti era di fatto latitante dagli schermi dalla prima uscita, una dozzina abbondante di anni prima. Gli spettatori inferiori ai trent’anni non avevano mai avuto l’opportunità di vederlo: lo conoscevano solo indirettamente, attraverso le mitografie che qualche anno prima Luciano Bianciardi aveva rinverdito nella sua Vita agra, con l’indimenticabile pagina sul “dottor Fernaspe” che tiene banco (anzi: bancone di bar!) concionando in procinto di andare a “dirigere un dibattito”, proprio sul film. All’epoca il personaggio cui lo scrittore alludeva, appunto Aristarco, risiedeva temporaneamente proprio a Genova. Il triumvirato allora alla guida del Centro Universitario (Ambrogio-Humouda-Viganò, al momento ancora unitari) cui l’orientamento critico “ideologico” di “Cinema Nuovo” era quanto di più indigesto rispetto al suo orientamento cinéfilo puro e duro, ha affidato la presentazione della prelibatezza a Claudio. Ma Aristarco è stato il grande protagonista, a metà degli anni Cinquanta, con Chiarini, Salinari, Muscetta e altri, dell’allora epicamente tramandato dibattito su Senso e Metello di Pratolini: il passaggio dal neorealismo al realismo come dalla cronaca alla storia, e via poco utilmente dicendo. Fava svolge come sempre inappuntabilmente la sua funzione. Aristarco però è presente, sistemato verso il fondo della lunga sala con gli amici (la memoria direbbe Aristo Ciruzzi, Vittorio Togliatti, Marisa Calimodio: ma sarà precisa?) e commenta ripetutamente ad alta voce con loro quanto viene ascoltando. Il presentatore abbozza fino a un certo momento, poi si (e lo...) interrompe con un sorriso, riferendosi, con la consueta ironia garbata, all’inopinata nuova mise che il direttore del discusso ma ancora seguito bimestrale aveva cominciato a sfoggiare in quella fase pre-sessantottina: «Chiedo scusa: ma il signore là in fondo che, se non fosse per quel paio di baffoni alla tartara che mi disorientano, direi che assomiglia maledettamente a Guido Aristarco, potrebbe per cortesia parlare a voce un po’ più bassa e lasciarmi concludere?». Il “signore là in fondo” si alza replicando tranquillamente: «Ma guardi che io non sono Guido Aristarco: sono Ermenegildo Zegna!». Fava non replica e chiude tranquillamente la prestazione evocando Camilli Boiti e scartafacci segreti, contesse Livie e tenenti Mahler, senza ulteriori interferenze dalla platea. Neanche a farlo apposta, il notissimo imprenditore biellese dell’abbigliamento, (elevato nel ventennio al titolo comitale di Monte Rubello...) era allora deceduto da pochi mesi: il che rendeva di ancor più ardua decifrabilità la surreale battuta. 26


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Parecchi anni dopo, essendo stato tra i testimoni oculari della scenetta, ne chiesi lumi a Fava, che mi confessò di non essere mai riuscito a spiegarsela. Non ci fu più occasione di riparlarne per moltissimo tempo. Ma una sera relativamente più recente, a cena durante “Ring!”, fu lui stesso a rimpallarmi a sorpresa il remotissimo quanto impossibile interrogativo: «Ma secondo te perché quella sera Guido ha detto di essere Zegna?». Stavolta toccò ovviamente a me dichiararmene ignaro. Ora, entrambi gli interlocutori purtroppo non più interpellabili, il mistero del vertiginoso nonsense vagamente postdadaista rimarrà tale in via definitiva. Tra i molti che hanno ricordato Claudio G. Fava all’indomani della sua repentina chiusura di partita nella Pasqua di Risurrezione, lo ha naturalmente ben “fotografato”, anche da concittadino, il collega e amico Natalino Bruzzone, nel congedo tributatogli in prima pagina dal principale quotidiano ligure: «Ha vissuto di film e di libri, di passione per tutto quanto fa cultura, anche la più eccentrica, di devozione per la parola nel racconto e nella scrittura, di abnegazione d’altri tempi per il lavoro in RAI, di sincera bontà d’animo, di squisita gentilezza per il prossimo e di amore per la compagna di sempre». Chiunque potrebbe desiderare un simile epitaffio. Ma solo per lui risulta possibile formularlo con piena e assoluta convinzione: pensando anche all’irripetibile pienezza e alla naturale eleganza di quei suoi papillons felicemente enfatizzati in copertina.

Note 1

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«Rivista del Cinematografo», 9, settembre 1992. «Rivista del Cinematografo», 7-8, luglio-agosto 1977.

Giornalismo italiano 1968-2001, Mondadori, Milano 2009. Non ci si sentirerebbe di escludere che proprio da quell’esperienza - se effettivamente svoltasi... - sia stata maturata nel successivo 8½ la figura del Vecchissimo Cardinale (l’espressione sembra mutuata dalla distribuzione parti del quasi coevo Vita di Galileo di Brecht, di lì a poco inscenato al Piccolo di Milano da Strehler: niente forse di immaginabile più lontano dallo spirito e dalla visione di Claudio G.). Non si perda, al riguardo, l’analisi - quasi saggistica: di sviluppo inverosimile per un quotidiano - del film, con la straordinaria appendice dell’umile, presso che impersonale cronaca verbalizzante il dibattito tra i critici concittadini: oh gran bontà de’ cavalleri antiqui! 3 4

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Ma a fine discorso introduttivo l’autore di Vanina Vanini e Viva l’Italia! avrebbe optato -

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ferrea la coerenza... tematica! - per la degustazione dei celebrati ovuli e porcini presso la storico-risorgimentale trattoria “Bruxaboschi” di San Desiderio, pur di non... rivedere il proprio film subendone poi il minacciato dibattito finale. Ho sempre associato nel ricordo quella “fuga”, che mortificò le attese e scandalizzò il nostro purismo giovanile, allo stupendo necrologio già commentato che Fava gli avrebbe dedicato sette anni dopo: chiedendomi se per caso, a cena, gli avesse magari parlato proprio di quei suoi remoti esordi di spettatore, tra i manifesti di Un pilota ritorna e l’esplodere successivo di Roma città aperta e Paisà. I cinema della Liguria. Storia delle sale cinematografiche dal 1945 al 2015 di Petrella, Speciale e Venturelli (Le Mani, Recco-Genova 2015) e Schermi di qualità. Storia della cultura cinematografica in Liguria, ancora di Speciale e Venturelli (Il Melangolo, Genova 2018). Nel primo, detto per inciso, non si perdano le due ineffabili paginette di Claudio dedicate a La cassiera, tratte dai suoi ormai introvabilissimi Tagliati dal vivo. Colgo qui l’occasione per ringraziare l’editore Francangelo Scapolla, amico di Claudio e nostro, per la sua al solito puntualissima e premurosa collaborazione. 6

7 La vita è proprio animata da strane combinazioni: più volte con gli amici editori si è affettuosamente ironizzato sul fatto che Claudio Fava avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vedere il “suo” Genoa vincere il decimo scudetto. Destino ha voluto che la vecchia sede redazionale del «Lavoro» di Pertini, Merani, Livi, Cicciarelli, Chiti e Mimmo Càndito alle prime armi, in salita Di Negro tra Santa Caterina e Corvetto, dietro la mitica sala ribattezzata “Sivori”, sia poi divenuta la sede ufficiale della tifoseria organizzata del Grifone... 8 F. Sacchi, Al cinema nel “Corriere della Sera” 1929-1941, a cura di E. Marcarini, Franco Angeli, Milano 2000.

L’Epoca di Filippo Sacchi. Recensioni 1958-1971, a cura di chi scrive, Falsopiano, Alessandria 2003. 9

Assemblate finalmente nel 2008 da Maria Carla Papini per la “Biblioteca di Proporzioni” della Fondazione Longhi: Cinema 1950-1977. (Ebbi a suo tempo modo di occuparmene: «Sontuose farfalle sulla bambagia». Ventisette anni davanti allo schermo, «Il Giannone», 27-28, 2016, numero monografico dedicato alla grande scrittrice). 11 A. Banti, Cinema e cattolicesimo ovvero gli occhi di Audrey Hepburn, «L’Approdo Leterario», 8, ottobre-dicembre 1959; poi in Id., Cinema 1950-1977, a cura di M.C. Papini, cit., p. 81. 10

Fausta Garavini, già curatrice del magistrale e meritorio “Meridiano” quasi insperatamente dedicatole (Romanzi e racconti, Mondadori, Milano 2013) ha anche appena provvveduto a raccoglierne per La Nave di Teseo (Milano 2017) gli autenticamente superbi Racconti ritrovati.

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Nota biografica Dopo la laurea in!Giurisprudenza, Claudio Giorgio Fava inizia l’attività giornalistica al!“Corriere Mercantile”. Nel!1970 entra in Rai dove arriva a ricoprire il ruolo di capostruttura. In questa veste sceglie e fa conoscere al grande pubblico molte serie famose come L’ispettore Derrick, Capitol e!Beautiful. Conduce Cinema di notte, appuntamento da non perdere per i cinefili, e due rubriche, Dolly e Set. Per l’attività svolta a favore della diffusione del!cinema francese,!il governo transalpino lo nomina “Officier des Arts et des Lettres”. È autore e coautore di monografie (Alberto Sordi,!Federico Fellini, Ugo Tognazzi, Georges Simenon) e testi letterari (la raccolta Tagliati al vivo). Collabora con quotidiani, settimanali e riviste e, sempre in qualità di dirigente Rai, riprogramma e doppia pellicole ormai invisibili come!Angoscia, Il grande sonno,!Acque del Sud e!I migliori anni della nostra vita. A lui si deve la prima Tv del lungometraggio dei!fratelli Marx!Duck Soup. Direttore artistico di!“Voci nell’ombra”, primo festival italiano dedicato al doppiaggio cinematografico e televisivo, è anche attore: al cinema (Ladri di saponette), in Tv (Una donna tutta sbagliata) e a teatro. In veste di autore e/o presentatore partecipa a numerosi programmi televisivi scritti da!Gloria De Antoni!e!Oreste De Fornari. Con!Rita Forte è conduttore a TMC della striscia preserale quotidiana!Forte Fortissima!. Nel 2006, in collaborazione con Lorenzo Doretti, è autore del blog Clandestino in galleria. Negli ultimi anni collabora con la Tv “Primocanale”. Muore improvvisamente a Genova il 20 aprile 2014, la città dov’era nato nel 1929.

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Robert Aldrich, Che fine ha fatto Baby Jane (1962)

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Aldrich, Robert Che fine ha Fatto Baby Jane? (What Ever Happened to Baby Jane?) Anno: 1962, USA – Regia: Robert Aldrich – Soggetto: dal romanzo di Henry Farrell – Sceneggiatura: Lukas Heller – Fotografia: Ernest Haller – Musiche: Frank De Vol – Montaggio: Michael Luciano – Scenografia: William Glasgow – Interpreti: Bette Davis (“Baby” Jane Hudson), Joan Crawford (Blanche Hudson), Victor Buono (il pianista) – Produzione: Robert Aldrich – Distribuzione: Warner Bros.

Il gusto che Aldrich, nelle sue opere migliori intendiamoci, ha sempre mostrato per i sentimenti concitati, la truculenza, il sangue o la violenza fisica e morale (si pensi a Il grande coltello e a Prima linea) si ritrova esasperato ed amplificato in questo suo film recente, presentato pochi giorni fa al Festival di Cannes. Che fine ha fatto Baby Jane? nasce sotto il duplice segno di un ritorno di Aldrich (dopo “evasioni” multicolorate tipo Sodoma e Gomorra) alla sua primitiva vocazione per lo spettacolo a forti tinte sorretto da una grande sicurezza di stile; ed insieme di un “ritorno” ancor più clamoroso, e contemporaneo, di due “mostri sacri” della Hollywood d’anteguerra e del dopoguerra. Bette Davis e Joan Crawford riassumono in sé, nel bene e nel male, alcune delle caratteristiche più singolari del divismo femminile americano degli ultimi trent’anni; un divismo prepotente e tenace, legato non tanto (come per Bette Davis) o non esclusivamente (come per la Crawford) ad una ennesima divulgazione del mito dell’erotismo cinematografico, quanto proprio ad una esaltazione della diva come “mattatrice”. Sotto questo profilo Che fine ha fatto Baby Jane? non poteva essere più adatto ad un duetto di altissima ed architettata truculenza. Come è noto il soggetto sdipana la vicenda truce di due sorelle. L’una, Jane, che fu nell’America degli anni ’20 una celeberrima bambina prodigio, una specie di Shirley Temple antelitteram, nota da un capo all’altro del “paese di Dio” come “Baby Jane” Hudson. L’altra, Blanche Hudson, divenuta attrice celeberrima degli anni ’30, stroncata nel pieno della carriera da un incidente di auto che le spezzò la spina dorsale costringendola all’immobilità. Le due sorelle sono invecchiate insieme, nella stessa casa. In Jane il trascorrere del tempo, la dissipazione, l’alcool hanno acuito il naturale maligno, sino a farne una pazza potenziale, traumatizzata dalla convinzione d’essere stata lei a causare la disgrazia che ha distrutto la carriera di Blanche. Di Blanche, che pure odia e che lentamente cerca di isolare dal mondo, man mano che la sua mente precipita nella follia. Tutto il film è il catalogo minuzioso del progressivo isolamento, della prigionia, della sadica persecuzione a cui Jane sottopone Blanche, isolandola dal mondo, imprigio31


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Robert Aldrich

nandola e causandone infine la morte. D’altronde, prima di morire, sarà la stessa Blanche a confessare a Jane, ormai completamente irresponsabile, d’essere stata lei, Blanche, a determinare l’incidente di macchina che l’ha paralizzata, nel tentativo, non riuscito, di investire Jane e di ucciderla. Vien fatto di pensare, per analogia, ad un Viale del tramonto con una maggior ipoteca di macchinazione criminale, ma senza quella fastosa e stranita consapevolezza della decadenza e della morte, che ne era l’ornamento più seducente. O ad un meccanismo hitchcockiano, senza la lieve, sorridente e ammiccante mistificazione che Hitchcock sa inserire con tanta maestria nei suoi prodotti i più truculenti e implausibili. In sostanza, un film diretto con molto scorrevole eleganza professionale, ma senza autentica finezza. Interpretato, come era logico, ad un livello molto alto e teso. Impeccabile Joan Crawford; un sinistro “clown” della desolazione e della follia, Bette Davis. Molto bravo l’esordiente Victor Buono, nel ruolo di un pianista immenso, ambiguo, infantilito e adiposo. «Corriere Mercantile», 27 maggio 1963

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Quella sporca dozzina

Quella sporca dozzina (The Dirty Dozen) Anno: 1967, USA – Regia: Robert Aldrich – Soggetto: da un romanzo di E. M. Nathanson – Sceneggiatura: Nunnally Johnson e Lukas Heller – Fotografia: Edward Scaife – Musiche: De Vol – Montaggio: Michael Luciano – Scenografia: W. E. Hutchinson – Effetti speciali: Cliff Richardson – Interpreti: Lee Marvin (maggiore Reisman), Ernest Borgnine (generale Worden), Richard Jaeckel (sergente Bowren), Ralph Meeker (capitano Kinder), Robert Phillips (capitano Morgan), Robert Ryan (colonnello Breed), George Kennedy (maggiore Armbruster) e quelli della “dozzina”: Charles Bronson (Wladislaw), Jim Brown (Jefferson), John Cassavetes (Franko), Trini López (Jiminez), Telly Savalas (Maggot) Clint Walker (Posey), Ben Carruthers (Gilpin), Stuart Cooper (Lever), Colin Maitland (Sawyer), Donald Sutherland (Pinkley), Tom Busby (Vladek), Al Mancini (Bravos) – Produzione: Kenneth Hyman – Distribuzione: Metro Goldwyn Mayer.

Un meccanismo vistoso e funzionante insieme è alla base del soggetto del film, sceneggiato con quella competenza automatica e tutta scontata che ci si può aspettare da un Nullally Johnson: nel 1944 al riottoso, coraggioso, anziano e ribelle maggiore Reisman dell’esercito americano viene affidato un compito arduo e sgradevole; scegliere dodici soldati condannati a morte o a gravi pene detentive per omicidi, rapine, violenze ed altre piccole intemperanze, promettergli la remissione della pena, addestrarli minuziosamente e portarseli in paracadute nella Francia occupata assieme ad un duro sergente della MP. Obiettivo: un castello requisito dai tedeschi per farvi trascorrere giornate di svago ad alti ufficiali in buona compagnia. Il maggiore, il sergente e la sua “sporca dozzina” hanno il compito di ammazzarne il maggior numero possibile, il che, nell’imminenza dello sbarco alleato in Francia, sembra essere ai generali americani un ottimo mezzo per disorganizzare i comandi avversari. È chiaro che un ordito simile prelude ad un film di minuzie preparatorie e ad un film di caratteristi. È appunto quel che ne ha tratto Robert Aldrich, il quale conserva ancora, come ha dimostrato nel recente Il giorno della fenice, il gusto per un mondo di violenza organizzata e di recitazione di buon effetto, anche se ha perso una certa virulenza fra il moraleggiante ed il satirico che lo rese certo più persuasivo ai tempi di Il grande coltello, Primalinea, Vera Cruz e L’ultimo Apache (prima, cioè, di imbarcarsi nelle abili complicazioni macabre del tipo di Piano, piano dolce Carlotta e Che fine ha fatto Baby Jane?). Tutta la prima parte di Quella sporca dozzina (il film dura due ore e mezza e Aldrich ha tempo di sbizzarrirsi) è in fondo di buona anche se truculenta fattura: la cernita, l’aspra convivenza fra Reisman ed i suoi riottosi soldati, il formarsi di un riluttante ma micidiale spirito di corpo fra i suoi pendagli da forca, il lancio in Francia. Le sequenze propriamente belliche sono più manierate e quasi più stanche: si direbbe che al regista, a quel punto, il film fosse già venuto a noia, o che almeno egli abbia accettato la liturgia della ferocia bellica da teatro di 33


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Robert Aldrich

posa, le inevitabili “ficelles” da tirare, il soldato psicopatico che sgozza una donna nel castello e rischia di fare precipitare l’azione prima del tempo, il grande ammazzamento finale di tedeschi e di americani e la retorica che avvolge i tre superstiti, con palese fastidio. Prevedibile assai, una volta svolte le premesse iniziali, il film si regge, come si è detto, sul gioco degli attori. Se fra essi abbondano i nomi da protagonisti o da ex protagonisti (i Ryan, i Borgnine, i Webber sono appena da citare, perché impegnati qui in particine di fianco) val la pena di ricordare invece il protagonista, l’aguzzo Marvin, un Bronson, un Savalas, il negro Jim Brown, che è un celebre giocatore di “American Foot-Ball” e John Cassavetes, il regista di Ombre tornato qui a fare l’integrato attore hollywoodiano (hollywoodiano di stile, perché il film, di produzione americana, è non solo ambientato ma anche effettivamente girato in Inghilterra). «Corriere Mercantile», 5 gennaio 1968

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Un gioco estremamente pericoloso

Un gioco estremamente pericoloso (Hustle) Anno: 1976, USA – Regia: Robert Aldrich – Soggetto e sceneggiatura: Steve Shagan – Fotografia: Joseph Biroc – Musiche: Frank De Vol – Montaggio: Michael Luciano – Scenografia: Hilyard Brown – Interpreti: Burt Reynolds (tenente Philip Gaines), Catherine Deneuve (Nicole Britton); Ben Johnson e Eileen Brennan (i coniugi Marty e Paula Hollinger), Sharon Kelly (Gloria, loro figlia), Paul Winfield (sergente Louis Belgrave), Eddie Albert (avv. Leo Sellers); Ernest Borgnine (capitano Santoro), Catherine Bach (Peggy, amica di Gloria), Jack Carter (Herbie Dalitz), James Hampton (l’autista del pullman) – Produzione: Robert Aldrich per RoBurt/Paramount Pictures – Distribuzione: Cinema International Corporation.

Dopo lo splendido e mal compreso Imperatore del Nord del 1973, si direbbe che Aldrich ancora una volta – non è la prima, in una carriera più che ventenne: esordì, lo si ricordi, nel 1953, con The Big Leaguer – abbia ripiegato su un film di grana sufficientemente grossa, turgido di fatti alla moda e, nella fattispecie, violento e “televisivo” quanto basta, per consentirgli di ritrovare quel successo di cassetta che spesso ha disertato le sue opere migliori. Così come nel precedente Quella sporca ultima meta (The Longest Yard), Aldrich ritrova qui, cooproduttore oltre che protagonista, Burt Reynolds, attore splendidamente redditizio nei “serials” televisivi – ha tutto ciò che serve per i cicli da piccolo schermo americano: efficienza, aspetto aggressivo vagamente “pellerossa”, puntualità scabra di recitazione, assoluta impersonalità ed anonimità atletica di toni e di atteggiamenti – quanto deludente visto al cinema “vero”, laddove il suo efficientismo monotono e la sua disinvoltura da rotocalco, sanno di ricopiato e di stereotipato all’eccesso. Qui, in particolare, si vede assai bene che il testo gli è stato tagliato addosso come un abito su misura, per consentirgli acrobazie ginniche, procedurali e morali alla moda. Nei panni di un ufficiale della polizia di Los Angeles, il tenente Gaines, Reynolds corre una serie complessa di avventure, massimamente incentrate sulla morte equivoca di una giovinetta, Gloria Hollinger, ritrovata cadavere in condizioni torbide e misteriose (il corpo ricoperto di seme maschile) e da tempo fuggita di casa per legarsi al mondo dello “strip-tease”, della prostituzione giovanile, della droga e dei filmetti pornografici. Marty Hollinger, il padre della ragazza uccisa, persuaso che la polizia voglia mettere la cosa a tacere per proteggere colpevoli altolocati, inizia rabbiose indagini per suo conto; un po’ ostacolato e un po’ aiutato da Gaines, il quale, nonostante indizi contrari, capisce assai bene che un suo ricchissimo e ambiguo amico, avvocato Sellers, è stato, sì, fra gli ultimi clienti della ragazza ma, pur personaggio sostanzialmente sordido e legato al mondo della malavita politica, non è strettamente responsabile della morte di Gloria. Il meccanismo del racconto è poi assai complesso, né qui si vuole svelarlo più 35


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Robert Aldrich

di quanto sia strettamente necessario: Gaines giunge sino a salvare lo stravolto Hollinger dalle conseguenze di un gesto folle che quest’ultimo compie, aiutandolo a “camuffare” un omicidio; e finisce poi, egli stesso, casualmente e sciaguratamente vittima di un delinquente occasionale... Il traliccio centrale del racconto, oltretutto torvamente stipato di fatti e per sua natura abbastanza ambiguo, così da ribadire il carattere aggiurnato del protagonista (un poliziotto attivissimo e, nel suo cinismo, fondamentalmente onesto, ma anche consapevole della torbida complessità del mondo in cui vive) è poi affiancato da una “second story” abbastanza significativa: Gaines è innamorato di una “call-girl” francese che lo riama ma continua impavida a coltivare il suo mestiere con gallica raffinatezza professionale, ponendo di continuo il poliziotto, geloso ma incapace di decidersi a sposarla, in uno stato di cronica irrequietudine. Infine, naturalmente, Gaines possiede tutte le caratteristiche “esterne” di connotazione che son divenute inevitabili nel recente poliziesco “in divisa” americano: il suo sergente di fiducia è un negro, il suo superiore è un italo-americano (Borgnine) dall’eloquio esplosivo e cameratesco, la sua auto è sportiva e dalla linea “europea”; i suoi incontri sono sempre violenti all’estremo quando non intrisi di sensualità allusiva (si veda il dialogo in macchina con la madre della ragazza morta), e via citando. In sostanza, anche se la convenzione che presiede minutamente alla confezione del testo e delle sue calcolate “arditezze” toglie in realtà ad Aldrich ogni autentica possibilità di costruire un film in qualche modo originale, il suo senso del dramma, il suo ritmo, la sua mistura tradizionale di intensità avventurosa e di contrastata violenza melodrammatica, in una parola il talento di un autore turgido e possente, strabordante e sontuoso, riescono lo stesso a fare capolino sotto le righe della smaliziatissima banalità della sceneggiatura e dell’atletismo anonimo di Reynolds (assai migliori, ovviamante, i “vecchi” Ben Johnson e Eddie Albert, quest’ultimo uno degli attori di fiducia del regista sin da quando impersonava il ruolo di un ufficiale codardo in Prima linea, la sensibile e intensa Eileen Brennan ed anche, a tratti, l’aguzza e divisticamente distratta Catherine Deneuve, pur sempre più ironicamente evanescente, via via che il tempo passa). «Corriere Mercantile», 1 marzo 1976

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Allen, Woody Provaci ancora Sam (Play it Again, Sam) Anno: 1972, USA – Regia: Herbert Ross – Sceneggiatura: Woody Allen tratta dalla sua commedia omonima – Fotografia: Owen Roizman – Musiche: Billy Goldenberg – Montaggio: Marion Rothman – Scenografia: Ed Wittstein – Interpreti: Woody Allen (Allan Felix), Diane Keaton (Linda), Tony Roberts (Dick), Jerry Lacy (Humphrey Bogart), Susan Anspach (Nancy Felix), Jennifer Salt (Sharon), Joy Bang (Julie), Viva (Jennifer), Suzanne Zenor (la ragazza nella discoteca), Diana Davila (la ragazza al Museo) – Produzione: Arthur P. Jacobs per Paramount Pictures / APJAC Productions – Distribuzione: Cinema International Corporation.

Woody Allen, attore, commediografo, “entertainer” ed ora anche interprete e regista di cinema, è negli Stati Uniti enormemente popolare. Da anni è sulle vette del “box-office”: il suo tipo di “humour”, in cui giocano il suo sarcasmo ebraico e il gusto autodistruttivo di un uomo brutto, piccolo e occhialuto e consapevole di esserlo, a volte può parere fin troppo semplice e fin troppo automatico nel meccanico rovesciamento dei termini tradizionali della battuta (il che non toglie che anche in questo modo egli abbia raggiunto risultati esplosivi. Ad esempio: «Da tanto tempo avevo l’abitudine di portare una pallottola proprio sul cuore. Un giorno mi hanno scagliato contro una Bibbia e la pallottola mi ha salvato la vita»). Il suo secondo film come autore-regista, Il dittatore dello Stato Libero di Bananas in Italia è stato importato per primo. Poi in qualche città è uscito in “prima visione” il suo primo film, Prendi i soldi e scappa (Take the Money and Run) e in qualche altra questo Provaci ancora, Sam, tratto da una commedia che Woody Allen ha messo in scena a Broadway diversi anni fa e che ha avuto in patria un enorme successo. La versione cinematografica è diretta da Ross (ricordiamo un suo sensibile film, con Candice Bergen, visto non molto tempo fa: Appuntamento con una ragazza che si sente sola) ma è visibilmente costruita in funzione di Woody Allen, sceneggiata e interpretata da Allen e, insomma, tipicamente dell’autore-attore dalla prima all’ultima inquadratura; nei pregi e nei difetti. Vale a dire nella sciolta intenzione ironica e parodistica e nella fin troppo facile accentuazione comica. Allen è qui nei panni di un critico cinematografico timidissimo, imbranato e goffo, che viene abbandonato dalla moglie e fa impazzire una coppia di amici, Dick e Linda, perché gli trovino una ragazza. Alla fine Woody rischia d’avere un romanzetto proprio con Linda ma la lascia in tempo perché possa tornare dal marito che ama. Woody è un fanatico di Humphrey Bogart e “Bogey” (impersonato da un attore a momenti piuttosto convincente nella rassomiglianza) gli appare di continuo nel corso del film, incitandolo ad essere più disinvolto 37


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Woody Allen

e più aggressivo con le donne. Risoluzione, tutto sommato, non priva di un certo sapore di banalità, ma ampiamente riscattata da quella che è in fondo la cosa migliore del film: e cioè la presenza, come “leit-motiv”, di Casablanca. Proprio del film girato da Michael Curtiz nel 1942 e interpretato, oltre che da Bogart, da Ingrid Bergman, Claude Rains, Paul Henreid, Peter Lorre, Sidney Greenstreet e Conrad Veidt. Anzi, Provaci ancora, Sam inizia con un lungo frammento della sequenza finale di Casablanca e termina con una parafrasi della stessa sequenza, mentre nella colonna sonora si rincorrono drammaticamente le note del commento musicale di Max Steiner per il film di Curtiz e di As Time Goes By, la canzone che faceva commuovere “Bogey”... Omaggio ad un simbolo divistico caro a tante generazioni di spettatori (e soprattutto a chi fu adolescente nel dopoguerra, come chi scrive...) il riferimento a Casablanca risolve intelligentemente le sparse indicazioni ironico-sentimentali del film e conferma che Woody Allen è uomo di spettacolo pieno di talento, anche se non privo di una sua ingegnosa dote di banalità scaltramente strumentalizzata. «Corriere Mercantile», 17 febbraio 1973

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Claudio G. Fava il mio cinema Da Aldrich a Kubrick Š Edizioni Falsopiano - 2019 via Bobbio, 14 15121 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri e Daniele Ghiazza Prima edizione - Dicembre 2019


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