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di Gianfranco Cuttica di Revigliasco

Frammenti figurativi

insignificanti di vecchie notazioni cartacee ormai lacere e quasi del tutto indecifrabili. Non rimaneva che prendere in considerazione il linguaggio delle opere le quali, comunque, ostentavano un mix di componenti culturali di varia estrazione che andavano riconosciute e ragionevolmente collocate in situazioni storiche circostanziate. Il primo impatto fu quindi caratterizzato dalla constatazione di una situazione di eterogeneità culturale non indifferente. Nonostante una serie di attente osservazioni maturate nel tempo, che lasciavano gradualmente emergere qualche nuovo elemento, continuavano a imperversare molti interrogativi. Non era facile spiegarsi la coesistenza di un nutrito nucleo di dipinti dell’Ottocento napoletano, animati da pescatori, contadini e mucche al pascolo (foto 5-8) con un puro paesaggio privo di personaggi, più correttamente definibile come un «ritratto di un albero in un bosco», dal sentore forse piemontese, paragonabile all’esperienza di un Massimo d’Azeglio in atto di rimeditare in termini più sereni e contemplativi sulle nature inquietanti del tardo Bagetti (foto 9). Avrei dovuto giustificare, nello stesso contesto, l’incisione a stampa della neoclassica Educatio Bacchi (foto 10) in cui Giovanni Martino de Boni a Roma, nel 1800, veniva a diffondere, mirabilmente tradotti sul piano grafico, i rilievi realizzati nel 1797 daAntonio Canova. Di più: che termini di rapporto potevano avere questi modelli con le due suggestive incisioni con vedute notturne di Venezia, tratte nel 1846 da dipinti del tedesco Frederich Nerly (foto 11-12)? Che tipo di cultura poteva aver determinato la scelta di opere derivanti da questo artista di Erfurt - la cui fortuna non mi sembra che in zona sia poi così particolarmente diffusa - tanto da indurci a credere che ancora a lui, probabilmente ancora permeato dall’esperienza romana, potrebbe essere attribuito un dipinto su tela, siglato F.N. e datato 1836 (foto 13)?

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E se volessimo parlare poi dei soggetti sacri le domande si verrebbero a moltiplicare, proiettandoci in un viaggio a ritroso nell’arco del XVI secolo, tra opere esistenti, altre non più in sito e altre ancora di cui, purtroppo, non rimane che la memoria documentaria.

Oggi un’Adorazione dei Magi campeggia al centro della parete del salone di ingresso, racchiusa in una semplice ma dignitosa cornice dorata (foto 14-15). Le dimensioni un poco più ampie rispetto alle altre

Gianfranco Cuttica di Revigliasco

opere ivi esposte e l’elegante composizione, fanno sì che lo sguardo di chi entra ricada immediatamente su di essa. Da sempre ha suscitato la mia attenzione benché, a giudizio di molti, non rappresenti un granché a livello qualitativo. Nonostante tali giudizi tranchant, ne sono stato da sempre affascinato proprio perché non riuscivo a trovare una giustificazione plausibile all’esistenza nella dimora di Cassine di un’Adorazione dei Magi in cui si respira un’atmosfera dal vago sentore astigiano della seconda metà del Cinquecento con riferimenti iconografici in parte tratti dal dipinto di analogo soggetto di Francesco Bassano oggi visibile nella sacrestia del duomo di quella città. Per quale motivo, di fronte a questa testimonianza verosimilmente compatibile con il territorio astigiano, poteva affiancarsi un bel San Giovanni Evangelista di estrazione Monregalese firmato nel 1520 da Giovanni Perosino (foto 16) oppure, per rimanere sempre nell’ambito del Cinquecento sacro, era possibile collocare un’elegante versione della Madonna del DivinoAmore di Raffaello, creduta di mano di Giulio Romano (foto 17)? Se con una provenienza da un ambito culturale torinese potevano essere giustificate due forti scene religiose con la citata Erodiade e il Martirio di Sant’Agnese (foto 1 e 18) di stretta derivazione se non repliche, dello stesso Francesco Cairo, permaneva invece una situazione di profonda incertezza nel vano tentativo di poter fornire un’identità alla maggior parte dei ritratti scalabili tra Sei e Settecento. Così come non era certo una passeggiata rivelarne una paternità esecutiva, nonostante alcuni fossero di notevole livello qualitativo. E pur volendo tentare di rifugiarsi in un un’epoca più prossima e pertanto potenzialmente più documentabile, come l’Ottocento, le cose non risultavano poi molto più semplici. Infatti, non era dato di sapere chi potevano essere i personaggi raffigurati nei due veristici ritratti borghesi, opere firmate da Dionigi Faconti, e non poteva esser semplice cosa l’argomentare in che misura questo realismo si veniva a porre con la permanenza di elementi simbolici di un raffinatissimo dipinto, questa volta tutto lombardo, dei primi decenni dell’Ottocento, raffigurante una ragazza ritratta alla moda del Seicento che tiene nelle mani un pomo e un fuso (foto 19). Chi aveva determinato la scelta, ancora lombarda ma ormai en plein air, della “scampagnata” dipinta da Giacomo Stabilini nel 1881, in occasione della Esposizione

Frammenti figurativi

Nazionale di Belle Arti di Milano (foto 4)? Che ragionevole motivo di coesistenza potevano avere queste opere con la litografia francese del 1874 che veniva a riprodurre le Baptême, dipinto del pittore tedesco Ludwig Knaus (foto 20)? Per quali arcani motivi, infine, sempre nello stesso secolo, divenivano parte integrante dell’arredo di casa sia il fascino accattivante, un poco sempliciotto ma del tutto piemontese, di un simpatico Gianduja (foto 21) in terracotta policroma, dalle proporzioni così poco comuni (78 x 24 cm. circa) da essere issato su di un robusto piedestallo ligneo e, forse dopo non molto tempo, l’eleganza pura di un raffinatissimo bronzo di gusto francese come il Chasseur à l’ affût di Eugene Marioton (foto 22)?

Di fronte a questa intricata ma stimolante situazione, si imponeva di articolare la ricerca su più fronti e campi paralleli. Sarebbe stato possibile reperire alcune memorie storiche sull’arredo della casa? Quali strumenti potevano essere adottati per ottenere maggiori informazioni? Sino a che periodo saremmo potuti risalire? E se da una parte si poneva come atto imprescindibile una ricerca di carattere storico e archivistico che potesse procedere parallelamente alla lettura del linguaggio insito nelle opere stesse, dall’altra il corpus degli arredi doveva essere prioritariamente depurato da quelli che potevano essere più facilmente ricollegabili a dinamiche di acquisizione più recenti o quantomeno documentabili da memoria umana. La stessa memoria “tramandata” , tuttavia, andava verificata e controllata al fine di poterla filtrare e depurare da eventuali tendenze involontariamente mistificatorie o eccessivamente celebrative. Insomma, se potevano prospettarsi dei miti, era giunto il momento di indagarli a fondo.