Dreyer-Bellocchio

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FALSOPIANO

Nicola Cargnoni Nicola Cargnoni

identificazione di una donna: le figure femminili

Nicola Cargnoni

Nicola Cargnoni, bresciano innamorato del Brescia Calcio, ha vissuto per sette anni in Puglia. Dopo il diploma alberghiero e alcune esperienze nel settore, si è iscritto a 26 anni alla facoltà di Lettere laureandosi con una tesi in Storia del Cinema. Oltre a insegnare, gestisce la programmazione dell’Auditorium di Vestone (ex Lux), una delle sale storiche della provincia di Brescia. Questo è il suo primo libro.

€ 22,00

identificazione di una donna: le figure femminili

Bellocchio Dreyer. Identificazione di una donna è il risultato di una ricerca innovativa senza precedenti bibliografici recenti. L’opera dei due Maestri viene infatti considerata analizzando “l’uso del corpo femminile” che entrambi “mettono in scena” nelle loro pellicole. Il diffuso atteggiamento accusatorio nei confronti dell’autorità religiosa è infatti solo uno degli elementi che accomuna i due registi. Lacrime e passioni immortali, per esempio, legano tra loro le donne dreyeriane, fino all’algida Gertrud che chiude la parabola creativa del regista danese; ma non meno “femminile” è il cinema di Marco Bellocchio, in cui il ruolo della madre costituisce in molte occasioni il leitmotiv del racconto, dalla non vedente de I pugni in tasca alle maternità mancate, a quelle ritrovate, fino al “rinascimento bellocchiano” riassunto nella vitalistica accoppiata de La balia e L’ora di religione. E poi, ancora, sono i matrimoni e le donne spose (per interesse, per motivi politici, filmici) a costituire l’intelaiatura di molti lungometraggi (L’angelo del focolare, La vedova del Pastore, C’era una volta, Due esseri, Dies Irae e Ordet per Dreyer; La Cina è vicina, Diavolo in corpo, Buongiorno notte, Il regista di matrimoni e altri ancora per Bellocchio), oltre a una profonda analisi della condizione della donna all’interno di una società che la vorrebbe ingabbiata, giudicata e infine sottomessa. Le protagoniste dei film di Bellocchio e di Dreyer sono autentiche eroine in grado di ridiscutere i pregiudizi del sistema sociale in cui vivono. Un ideale repertorio ribelle che comprende streghe condannate da una società maschilista, madri e pazze, mogli e figlie, tutte accumunate dal desiderio insopprimibile di gridare al mondo la loro identità e il loro indomabile coraggio.

www.falsopiano.com/bellocchiodreyer.htm

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CINEMA


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A mia mamma, indomita reduce di un presente ingiusto


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Nicola Cargnoni

identificazione di una donna: le figure femminili

EDIZIONI

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INDICE

Introduzione

p. 9

CAPITOLO I Il gineceo bellocchiano e la visione del corpo Tra plasticità e dissacrazione

p. 12

Incontro-scontro tra i sessi: un percorso

p. 24

Corpi impattanti, corpi esistenti Stare sul corpo, oggi come ieri

p. 16 p. 32

CAPITOLO II Carl Theodor Dreyer tra precorrimento e ispirazione Passione, lacrime e femminismo da Giovanna a Gertrud

p. 51

Kammerspiel e tribunali: interno notte

p. 70

“Basta una parola”: esistenzialismo e laicità in Ordet e Bella addormentata

p. 84

CAPITOLO III Morte, resurrezione e santità: la madre da I pugni in tasca a L’ora di religione Dannunzianesimo matricida: I pugni in tasca

p. 110

Un’altra madre, una madre altra

p. 121

Maternità e Rinascimento bellocchiano

p. 131


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CAPITOLO IV Questo matrimonio non s’ha da fare Matrimoni che salvano la faccia: La Cina è vicina

p. 152

Matrimoni (politici) mancati

p. 160

Il regista di sogni

p. 180

CAPITOLO V Gabbie psichiatriche, gabbie sociali: La visione del sabba e Vincere Inquisizione e psichiatria

p. 193

Bellocchio oggi: Sangue del mio sangue

p. 200

“Il duce ha sempre ragione”

p. 206

Appendice Nuovi film, vecchie inquietudini: Fai bei sogni, ovvero “il ritorno di una madre che scompare”

p. 222

Bibliografia

p. 228

Bibliografia di approfondimento

p. 230

Filmografia

p. 233

Sitografia

p. 235

Ringraziamenti

p. 236


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INTRODUZIONE L’anima appare nello stile Carl Theodor Dreyer

Quando ho proposto l’idea di scrivere un libro in cui intendevo approfondire la presenza delle figure femminili nel cinema di Marco Bellocchio1, ho fin da subito manifestato il desiderio e l’intenzione di sviluppare il tema integrando un discorso che riguardasse un parallelismo con l’opera di Carl Theodor Dreyer2. E la domanda, più che legittima, che mi veniva rivolta era “perché proprio Dreyer?”. In quel momento mi sono reso conto delle effettive difficoltà cui sarei andato incontro, della distanza che separa i due artisti sul piano cronologico e formale, non fosse altro che il proposito iniziale era animato prima di tutto da due fattori di carattere personale. Volevo sviluppare una ricerca su uno dei maggiori registi italiani, Bellocchio appunto, dedicando uno spazio a Dreyer, tributando un giusto omaggio alla sua opera. C’era, inoltre, un effettivo interesse cinematografico, ovvero il desiderio di legare fra loro i due registi, sulla base di un filo rosso che li unisce tramite una serie di sensazioni, percezioni, presentimenti. Certamente si può ammettere che percezioni e sensazioni non siano il punto di partenza più adatto per un lavoro di ricerca che intenda mirare al cuore delle tematiche da affrontare; ma (anche) la storia del cinema è una scienza inesatta e non segue parametri rigidi e immutabili. I film sono opere d’arte costruite con l’uso di immagini in movimento (se si eccettuano alcuni sperimentalismi, un esempio per tutti Blue3 di Derek Jarman4), spesso unite all’uso della parola. Queste immagini in movimento e gli eventuali dialoghi rimangono impressi nella mente di chi guarda e ascolta, spesso scavando nell’inconscio dello spettatore. È così che un fotogramma, una scenografia, un costume o un dialogo possono rievocare altri fotogrammi, altre scene, altri dialoghi, innescando così una reazione da parte dello spettatore. Lo studioso deve saper cogliere il potenziale di queste reazioni, andando oltre le sensazioni, i presentimenti, i vaghi ricordi. Un primo dato che accomuna i due registi è cronologico e, invero, riveste un ruolo squisitamente romantico nella vicenda. 1965: Marco Bellocchio esordisce con I pugni in tasca e Carl Th. Dreyer termina la sua opera con il discusso capolavoro Gertrud. I due film sono agli antipodi per tematiche, stile, intenti, sviluppo, forma e contenuto. Ma segnano un ideale passaggio di testimone tra due registi che, come vedremo, si somigliano molto più di quanto possa apparire a prima vista. Scavando nel lavoro di Dreyer e indagando anche la filmografia meno nota e precedente La passione di Giovanna d’Arco, troviamo fin dagli esordi un chia9


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ro intento artistico e politico, volto allo sviluppo di alcuni temi che si ripeteranno nel cinema di entrambi i registi. L’attacco alle istituzioni emerge fin da Præsidenten, film d’esordio del 1919. La visione critica della famiglia si innesta in una decisa condanna di tutte le limitazioni sociali e morali che il potere costituito (quasi sempre religioso) ha imposto alla libertà personale degli individui. Queste imposizioni si perpetuano fino a condizionare i protagonisti dei film di Dreyer, tanto da estraniarli dalla realtà in cui vivono, scindendoli da essa e ponendoli in posizione solitaria negli schemi sociali guidati dai dettami eticosociali che guidano il presente e il passato del regista. Sono spunti che ritroviamo anche nell’opera di Bellocchio, oltre a quello che ha provocato la scintilla iniziale: l’uso della figura femminile, spesso protagonista, nel lavoro di entrambi i maestri. Il cinema di Dreyer e di Bellocchio è “fatto di corpi”, e l’uso della macchina da presa è quasi sempre rivolto a un pedinamento costante, assillante e insistente del corpo femminile, delle reazioni che provoca o desta, degli ingabbiamenti sociali a cui è sottoposto e della capacità che ha di cambiare i destini dei comprimari. Un uso “politico” che in Dreyer trova le radici di quello che sarà il costante lavoro di modellamento dei rapporti uomo/donna messo in scena da Bellocchio. L’opera dei due artisti si accompagna alle conquiste sociali, etiche e morali che avvengono nei rispettivi Paesi, soprattutto dal punto di vista dell’emancipazione femminile e del cambiamento della “cultura della famiglia”. Dreyer vive nel contesto nordeuropeo degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta; Bellocchio vive i cambiamenti sociali italiani negli anni che vanno dai Cinquanta agli Ottanta. Ad accomunarli c’è anche una dimensione laica del loro cinema, che per Bellocchio si traduce in una professione di ateismo come rifiuto del metafisico, mentre per Dreyer la laicità consiste proprio in una sublimazione della fede dei suoi protagonisti nel contesto filmico in cui vivono. Ciò potrebbe sembrare contraddittorio, ma Dreyer è assai distante da quell’etichetta di “cineasta religioso” che gli è stata attribuita con troppa facilità dalla critica, la stessa che ha contribuito a tenere “in sordina” le sue opere soffocandone lo spessore artistico. Come vedremo, la laicità di Dreyer consiste proprio nel relegare la sfera religiosa nell’io più intimo dei suoi personaggi, smascherando così le brutture e le tirannie di un potere religioso che si basa sulla “dimostrazione” della fede più che sulla sua essenza. Il lavoro sui corpi si inserisce in un altro contesto che accomuna i due registi, l’uso frequente di ambienti circoscritti. Il regista danese è infatti uno degli esponenti, nonché più assidui frequentatori, del Kammerspiel5. È una scelta espressiva che Bellocchio dimostrerà di seguire nella realizzazione dei propri lavori, e condividerà con Dreyer anche il rifiuto della dimensione “naturalistica” che i canoni del Kammerspiel comunque impongono. Inoltrandomi nel lavoro di ricerca si è infittita la trama su cui si intrecciano i vari punti di raccordo tra le due esperienze artistiche. Al di là di un paio di fortunate rivelazioni tratte da dichiarazioni di Bellocchio, nelle quali il regista pia10


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centino accenna molto vagamente a Dreyer, ho potuto constatare come entrambi i registi tendano a “lasciar lavorare” gli attori, facendo in modo che assumano la forma dei personaggi, facendoli esistere più che apparire. E la loro grandezza è proprio nell’uso della macchina da presa come strumento per cogliere questo passaggio dalla dimensione profilmica a quella diegetica, lasciando che siano i “corpi” degli attori a “dare corpo” alle immagini. Il regista avrà tutto da guadagnare a non imporre all’attore le proprie concezioni, perché così un attore potrà esprimere sentimenti autentici. Non si può suscitare un commento con la violenza, deve nascere in modo spontaneo. Attori e registi devono lavorare insieme per farlo scaturire naturalmente6. Si può dunque asserire che nelle rispettive filmografie c’è una solida comunanza di metodo, di intenti e di finalità. Che si tratti dello stretto arco temporale del “dramma di un giorno”, messo in scena nelle due ore di La passione di Giovanna d’Arco, o che si tratti del “dramma di una vita” mostrato in Vincere, quello che emerge da Bellocchio e da Dreyer è la precisa volontà di porre in essere la passione e i conflitti che vivono i protagonisti e, con loro, gli attori che li incarnano. La stesura di questo testo risale prevalentemente al periodo di uscita nelle sale di Sangue del mio sangue. Un’ennesima conferma. Questo film ripropone molte delle tematiche care al regista e rafforza, ancora una volta, la sua propensione a scandagliare gli anfratti più nascosti e bui della personalità, utilizzando una figura femminile (l’ennesima) come corpo legato e imprigionato, ma che una volta liberato si fa espressione di una bellezza senza tempo, contro il tempo. Note 1

Marco Bellocchio (Bobbio, 9 novembre 1939).

Carl Theodor Dreyer (Copenhagen, Danimarca, 3 febbraio 1889 - Copenhagen, 20 marzo 1968). 2

3

Gran Bretagna, 1993.

4 Michael Derek Elworthy Jarman (Northwood, Gran Bretagna, 31 gennaio 1942 Dungeness, 19 febbraio 1994).

Per una definizione del genere si può fare riferimento (tra gli altri) a Bernardi S., L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un linguaggio, Venezia, Marsilio, 2007, p. 130. 5

6 Dreyer C.T., Qualche parola sullo stile cinematografico in Id., Cinque film, Torino, Einaudi, 1967, p. 392.

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CAPITOLO I Il gineceo bellocchiano e la visione del corpo

Perché fai il regista quando scrivi, quando monti, eccetera, ma c’è un momento della verità in cui anche se hai preparato tutto devi affrontare il rapporto con gli altri esseri umani e più ancora, diversamente, il rapporto con le donne. Marco Bellocchio, su Il regista di matrimoni L’attore non dovrebbe servirsi del suo organismo per illustrare un movimento dell’anima, egli dovrebbe compiere questo movimento con il suo organismo” Jerzy Grotowski7

Tra plasticità e dissacrazione In un’intervista apparsa due anni dopo l’uscita di I pugni in tasca8, Bellocchio afferma che la scelta di usare l’epilessia come malattia congenita dei protagonisti del film è dettata dal fatto che la stessa “epilessia è una malattia che plasticamente funziona”9. Il concetto di “resa plastica” è ascrivibile al bisogno, che il regista aveva, di raccontare la storia di una famiglia endemicamente malata, ma che lo fosse solo nei momenti in cui si manifestavano le crisi epilettiche, accentuando la violenza morale e fisica di alcune scene. Del resto chi soffre di epilessia è assolutamente normale al di fuori delle crisi, quindi la contrapposizione tra normalità e deformazione ne sarebbe risultata rafforzata. Successivamente questa scelta sarà rinnegata da Bellocchio, il quale nella stessa intervista ammette che, se potesse tornare indietro, riscriverebbe Alessandro (interpretato da Lou Castel10) come un personaggio esente da tale patologia, per la necessità di porre l’accento sulle “contraddizioni così lampanti che - per lo meno per quanto riguarda il cinema italiano - non erano state ancora sufficientemente prese di mira. […] E qui c’è stato qualche equivoco, nel 12


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senso che ho capito dopo che forse l’epilessia è stato un motivo che ha complicato e confuso lo spettatore”11. Il corpo di Alessandro è, in effetti, sufficientemente carico di quelle nevrosi e di quelle inquietudini che animano tutto il sotto-testo della trama filmica, compresa l’ambigua tensione erotica che traspare dal rapporto con la sorella Giulia (interpretata da Paola Pitagora12). Smentendo buona parte dei luoghi comuni sedimentati nell’apparato critico degli ultimi cinquant’anni, si può affermare che I pugni in tasca non abbia la pretesa di anticipare le rivolte sociali degli anni seguenti, e nemmeno di predire la crisi della famiglia italiana così come era concepita negli anni del boom. È certamente un film precursore, con una comunicazione politica di fondo che si manifesta in tutta la sua virulenza. Ma I pugni in tasca è anche l’espressione di un’inquietudine, o di una serie di inquietudini che si erano andate accumulando durante l’adolescenza del regista e che sono riaffiorate proprio sulla soglia degli anni della contestazione. Alessandro è animato da una volontà distruttiva, dettata da un decadentismo di ascendenza dannunziana, da un bisogno di eliminare tutto ciò che è esteticamente contrastante con il suo bisogno di inserirsi nella “normalità” rappresentata dalla vita di Augusto, il fratello maggiore e capofamiglia (interpretato da Marino Masè13) che sopperisce alla mancanza di una figura paterna, la quale è per altro assente (anche se di assenza “lacaniana” si tratta) in quasi tutta la filmografia di Bellocchio, fino al patricidio nazionale di Buongiorno, notte. La costruzione della normalità, per Alessandro, passa quindi attraverso l’eliminazione della madre e di ogni inestetismo nella vita dello stesso; la madre è una vedova cieca, dal carattere mite, fin troppo condiscendente, dall’atteggiamento gentile e dal tono di voce a tratti querulo, a tratti accomodante, a tratti rassegnato anche nel lamento. Interpretata da Liliana Gerace14, è “una presenza umbratile, discreta, malinconica”15, affetta da una cecità che la investe di uno status tragico, che significa debolezza, dipendenza, aspetto lugubre, e che la pone in una posizione asimmetrica per quanto riguarda la comunicazione coi figli. Gli unici contatti con il mondo esterno si limitano alle visite al cimitero e alla lettura dei necrologi, momenti in cui il tramite è sempre Alessandro: ciò la “pone da una parte in uno stato di dipendenza, dall’altra la espone al gioco profanatorio”16 del figlio. È significativa la sequenza della lettura del quotidiano da parte di Alessandro, che dopo essersi lanciato in una serie di contorsioni animalesche e feline attorno alla madre, anticipate dalla presenza di un gatto sulla tavola apparecchiata per la cena, compie alcuni gesti violenti davanti ai suoi occhi vacui, profanandone e dissacrandone la figura, per poi fingere di leggere il giornale e inventarsi alcune notizie che, come si vedrà, preludono in parte alle sue azioni future. Ovviamente si tratta di una dissacrazione di e per i valori intesi come tali all’interno del contesto filmico, ascrivibili e riferibili alla società e ai protagonisti di I pugni in tasca, dato che per il regista “non c’è nulla da profanare. I valo13


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ri sbeffeggiati da Alessandro non sono valori per Bellocchio e quindi non richiedono una seria confutazione”17. Lo stesso gesto dissacratorio è presente nella sequenza iniziale di Il regista di matrimoni, quando Franco Elica (interpretato da Sergio Castellitto18) assiste al matrimonio cattolico della figlia. Sentendosi inadeguato e arrabbiato, si avvicina alla sposa tenendo una videocamera in mano e riprendendo lo sguardo vuoto e assente della figlia, che non lo vede, non si accorge di lui. La cecità della figlia non è fisica, non si tratta di un handicap ma di una totale incomunicabilità col padre, finché questi decide di lasciar perdere l’occhio elettronico, il medium con cui si è avvicinato, e di “svelare” letteralmente la figlia, di toglierle il velo, compiendo così un atto profanatorio sotto lo sguardo dei presenti e degli altri occhi elettronici intorno a lui. È evidente la corporeità nell’opera di Bellocchio, a partire da I pugni in tasca, la cui origine, la cui ispirazione primaria non è un problema “mammistico”, di odio verso la madre, nella quale si riconosce la ragione della propria sventura, ma un problema “decadente” […]. La sua vecchiezza [della madre], le sue rughe, la sua decadenza fisica, la sua inabilità non giovano al decoro della casa, lei è qualcosa di inutile. Non le si riconosce niente, non le si riconosce neanche l’utilità, addirittura, anche quando è invece ancora utile, utile materialmente, fisicamente. Questo è stato il motivo di partenza attorno a cui poi si sono aggiunti gli altri elementi19. Ciò che afferma Bellocchio, ovvero quel conflitto tra l’inestetismo della madre e la sua effettiva utilità, è facilmente riscontrabile nella già citata scena della lettura del giornale, quando Alessandro si lascia andare, per un istante, abbandonandosi sul grembo della madre in una strozzata richiesta d’aiuto, ricordando un quadro giovanile del regista20 dove un bambino piega la testa sul grembo della madre invalida, raccontandoci come il giovanissimo Bellocchio dovesse pensarla sui ruoli all’interno della famiglia.

Alessandro in una posa felina e dissacratoria nei confronti della madre

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I gesti profanatori di Alessandro davanti alla madre cieca e la sequenza iniziale di Il regista di matrimoni

La sequenza dove Alessandro cerca consolazione sul grembo della madre ricorda un vecchio quadro giovanile del regista

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Corpi impattanti, corpi esistenti

Il controcampo mi inquieta solitamente. Credo che debba avere una giustificazione interna allo stato delle cose Marco Bellocchio21

Più che i corpi, a Bellocchio interessa documentare il loro incontro-scontro con l’ambiente, l’eco prodotto nello spazio dalla loro voce (la sequenza iniziale di Diavolo in corpo), il conflitto con la maschera da indossare (il bacio forzato di Wanda al cadavere di Gli occhi, la bocca), ma anche il contrasto tra il silenzio interiore e il rumore assordante del reale. Si pensi all’incipit di Gli occhi, la bocca22, con Giovanni Pallidissimi (interpretato da Lou Castel) deambulante come un fantasma nel traffico, dove non lascia alcuna traccia sonora. È proprio Wanda di Gli occhi, la bocca che, come altre figure del “gineceo bellocchiano”, incarna il principio di natura, quella libera e selvaggia, a cui vengono iniziati lo psichiatra di La visione del sabba o l’adolescente di Diavolo in corpo. Wanda (interpretata da Angela Molina23) rappresenta lo spartiacque all’interno del film: rappresenta quello scarto narrativo tra la prima e la seconda parte del blocco narrativo, facendo innamorare Giovanni, il fratello gemello del defunto fidanzato Pippo, “in aspra rottura col convenzionale ordine borghese in cui si trova trapiantata dal Sud America”24. La ragazza rappresenta il “punto di svolta” per Giovanni, che si consacra al principio di “natura libera e selvaggia” attraverso il corpo di Wanda: il corpo della donna liberato nell’amplesso permette a Giovanni di riconquistare il suo, negato dall’ideologia. Un’altra sequenza, e questa volta siamo al nono minuto di Salto nel vuoto25, vede i due fratelli protagonisti, Marta e Mauro Ponticelli (interpretati rispettivamente da Anouk Aimée26 e Michel Piccoli27), ingaggiare una “battaglia” a distanza. Lei è seduta in cucina, con lo sguardo perso nel vuoto, si avvicina al tavolo e inizia a tamburellare i pugni sul tavolo, seguendo a distanza il ticchettio della macchina da scrivere del fratello. Lui preme sui tasti con violenza, producendo un rumore forte e secco. Marta si gira verso il frigorifero, estrae alcune confezioni di carne e comincia a sbatterle violentemente sul tavolo, mentre il fratello scaglia un pugno sulla tastiera della macchina da scrivere, dopo averlo malamente trattenuto per pochissimo tempo, il tutto in un gioco di controcampi, quelli che “solitamente inquietano” Bellocchio e che devono “avere una giustificazione interna allo stato delle cose”28, giusto per citare l’esergo in apertura di questo paragrafo. 16


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Il pianto iniziale di Diavolo in corpo, Wanda costretta da Giovanni a baciare il volto di Pippo e lo stesso Giovanni che vaga come un fantasma all’inizio di Gli occhi, la bocca

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Questa scena, per quanto ermetica a contenuto narrativo, è densa di allegorie e racchiude quei topoi che permettono di leggere il cinema di Bellocchio come un “cinema di corpi, un comportamento fisico dello sguardo volto a registrare la micro-mimica di ciò che, a differenza della parola, sopravvive al trauma: il gesto”29. L’identità alienata dei protagonisti di Salto nel vuoto dialoga, grazie al montaggio alternato della sequenza presa in esame, mettendo in risalto il dramma che anima tutto il blocco narrativo, ovvero la frattura invisibile tra il movimento dell’anima e la staticità del corpo dei personaggi, nei quali Piccoli e la Aimée si calano assecondandone la rarefazione interiore. A riprova di ciò, sempre in Salto nel vuoto, spicca la scena in cui Mauro Ponticelli, che interpreta un giudice, esegue un sopralluogo nella casa di una donna suicida: mentre passeggia nel giardino, ode un pianoforte. Improvvisamente il giudice si getta violentemente a terra, senza motivo, sbattendo le mani e subito rialzandosi: in questa sequenza (molto bellocchiana) il protagonista sembra voler “tastare” concretamente la propria presenza, verificandola scontrandosi con il suolo.

L’incontro di Giovanni col corpo di Wanda è l’adesione al principio di “natura libera e selvaggia” rappresentato da buona parte delle donne che compongono il gineceo bellocchiano

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La “battaglia dei pugni� ingaggiata a distanza dai due fratelli di Salto nel vuoto

Il momento in cui Mauro (Piccoli) verifica la propria consistenza impattando con il suolo

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Sulla scelta degli attori, Bellocchio ha dichiarato che per quanto riguarda Anouk Aimée “il problema è stato quello di lasciar trasparire la bellezza negata dal personaggio”30; infatti, per dirla con Scandola, “Salto nel vuoto non è altro che la tragedia di due corpi pieni di energia inesplosa, ma ormai incapaci di controllarla […]. L’unica soluzione è abbandonarsi alla propria pesantezza, come un sacco di carne lanciato ai gatti”31; tanto è vero che il giudice Ponticelli sembra “prendere le misure” del salto quando getta il sacchetto di rifiuti dalla finestra. Con Salto nel vuoto, che è il sesto lungometraggio di Bellocchio (escludendo i documentari, l’episodio Discutiamo, discutiamo nel film collettivo Amore e rabbia32 e il film per la televisione Il gabbiano), il regista inaugura l’uso della sovrapposizione della dimensione onirica nella diegesi narrativa. In più sequenze vediamo la casa dei Ponticelli invasa dai bambini, visioni e fantasmi dell’infanzia dei due fratelli. A tal proposito è opportuno richiamare all’attenzione un passo di Bazin, che in Che cosa è il cinema? spiega la sua posizione su cosa sia l’erotismo al cinema: La cosa essenziale sta nell’onirismo del cinema o, se si preferisce, dell’immagine animata. […] La psicologia dello spettatore di cinema tenderebbe dunque a identificarsi con quella del dormiente che sogna. […] Di qui lo straordinario repertorio di simboli generali o particolari incaricato di camuffare al nostro stesso spirito le impossibili storie dei nostri sogni. Di modo che l’analogia del sogno e del cinema mi sembra che debba essere spinta ancora più lontano. Essa non risiede solo in ciò che desideriamo profondamente vedere sullo schermo, ma anche in ciò che non può esservi mostrato. […] Niente infatti è più determinato e più censurato del sogno. […] Se vogliamo restare al livello dell’arte dobbiamo mantenerci nell’immaginario. […] Il che significa che il cinema può dire tutt, ma non può mostrare tutto33.

Nel cinema di Bellocchio anche l’inanimato prende corpo, come si può constatare nella soggettiva dreyeriana del cadavere di Pippo all’inizio di Gli occhi, la bocca, o nel bacio che i figli danno alla madre defunta in I pugni in tasca, oppure ancora nelle scorribande dei bambini nelle allucinazioni del giudice Ponticelli di Salto nel vuoto. O come “l’apparizione del diavolo” incarnata da Giulia (interpretata da Maruschka Detmers34) nello studio psichiatrico in Diavolo in corpo: uno spirito che deve però fare i conti con la materia dell’ambiente, con porte e finestre. “Mi piacerebbe che qualcuno dei miei morti venisse a trovarmi” confida la madre di Gli occhi, la bocca. Perché i fantasmi di Bellocchio sono di carne e ossa, con la voce dolce e gli occhi aperti, “più forti del sonno”35. L’attore si muove dunque in una sorta di non-luogo, uno stadio intermedio tra la realtà e il sogno dove l’ambiguità nasce proprio dalla resistenza della figura umana ai codici del racconto onirico: sognati, spiati, guardati o semplicemente 20


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Momenti alternati in cui Marta e Mauro “accarezzano” la biancheria, nella logica di quel dialogo a distanza intrapreso dai due corpi, incanalandosi nel discorso della micro-mimica di ciò che, a differenza della parola, sopravvive al trauma: il gesto

Mauro lascia cadere un sacchetto di spazzatura nella strada, tra i gatti. Questo gesto è tragicamente anticipatore di ciò che Mauro compirà con il suo stesso corpo nel finale

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ascoltati: “i corpi di Marco Bellocchio hanno tutti lo stesso peso, la stessa durata all’interno dell’inquadratura, che poi è anche la durata del vuoto se si considera la struttura circolare di Diavolo in corpo, aperto da un campo vuoto lungo quasi quanto il primo piano finale di Maruschka Detmers”36. Gli anni Ottanta sono il decennio più controverso della carriera di Bellocchio, ora votato a una produzione di opere intrise di suggestioni psicoanalitiche e di un nuovo lavoro sul corpo dell’attore, non più ingabbiato nel personaggio o limitato a ergersi a simbolo di una generazione, come nel caso di I pugni in tasca, o simbolo dell’alienazione borghese, e cioè Salto nel vuoto. Gli occhi, la bocca è infatti adeguato a inaugurare gli anni Ottanta bellocchiani, proponendo corpi liberi “di guardare il proprio ruolo dall’esterno, imponendo ad esso la propria fisicità, la propria volontà di ‘durare’ davanti all’obiettivo”37. “Non volevo farmi annullare completamente, volevo esistere” è la confessione che Giovanni Pallidissimi fa alla ragazza che ha distrutto la vita del fratello, nel paradosso che vede questa esistenza in realtà muta, interpretata da un Lou Castel che è comunque doppiato da Sergio Castellitto. Esistere significa aprire il telo della finzione e ascoltarsi recitare, ma anche camminare nell’ambiente casalingo senza fare rumore, al pari di Giovanni al suo arrivo nella casa allestita a camera ardente. Capelli lunghi, barba incolta, andatura pesante: sono tutti elementi per costruire un personaggio in perfetta sintonia con il ritmo del blocco narrativo, fatto di sussurri, grida, scene “piene” e scene “vuote” (le scene in famiglia, contrapposte ai duetti con Wanda). In Gli occhi, la bocca Lou Castel compie un’operazione meta-filmica all’altezza del regista che lo dirige. “Castel non imita nessuno, se non se stesso”38: è la macchina da presa che cerca di adeguarsi, “imitandone” i movimenti, come in occasione della sequenza dove Giovanni gioca con i bambini, quando tutti gli elementi (diegetici ed extradiegetici) partecipano all’isteria collettiva. Si tratta di un dialogo con l’attore che prevede innanzitutto di “stare sul suo corpo”, assecondandone tanto i gesti quanto le pause, come si vedrà successivamente.

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Nel cinema di Bellocchio anche l’inanimato prende corpo

L’inquadratura in campo lungo all’inizio di Diavolo in corpo e il primo piano che chiude il film, rispettivamente della durata di 40” e di 2’

La sequenza dove Giovanni/Lou Castel scombina tutti i canoni filmici che avevano caratterizzato Gli occhi, la bocca fino a quel momento

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Incontro-scontro tra i sessi: un percorso Il cinema del corpo, il discorso sugli sguardi e sui volti, l’espressione del corpo sono qualcosa che mi ha particolarmente coinvolto e comunque sfidato Marco Bellocchio39

Si è parlato di come Bellocchio “guardi” il corpo, non solo vedendolo, ma anche usando gli altri sensi, muovendosi: ne ascolta la respirazione, lo insegue nella penombra, gli lascia il tempo di durare davanti all’obiettivo, soprattutto nella seconda parte della sua produzione. Al di là del brano che apre questo paragrafo, vale la pena ricordare una discussa sequenza di Diavolo in corpo40, quando due brigatisti rinchiusi in una cella del tribunale iniziano un amplesso al riparo dei giornali sfogliati dagli altri imputati rinchiusi. Quando i carabinieri si accorgono di quanto sta succedendo, si scatena una rivolta per fare in modo che la coppia possa continuare a consumare l’atto sessuale, mentre la protagonista Giulia (Maruschka Detmers) implora “lasciateli finire!”, facendosi metafora del bisogno del regista di mantenere l’inquadratura, di allungarne i tempi, per uno stile cinematografico che si sta delineando sempre più in maniera precisa. Ne troviamo un riscontro nelle parole di Bellocchio stesso, quando dice che “la lunghezza dei primi piani fa parte della medesima ricerca: stare sul corpo, sullo sguardo attraverso un’intensità che si valorizza nel ‘rimanere’ lì il più a lungo possibile”41. Nel frattempo si aggiunge un discorso meta-linguistico e meta-cinematografico che troverà il suo epilogo, come si vedrà, in La condanna42, film che chiude un’ideale trilogia in cui Bellocchio affronta vari temi che ruotano attorno al rapporto tra i sessi. Nel finale di Gli occhi, la bocca, un finale a inquadratura fissa e fermo-immagine, la protagonista Wanda, che è incinta del defunto Pippo, prende parte al gioco della “comunicazione muta degli sguardi”: in una soggettiva dal punto di vista di Giovanni, fratello gemello di Pippo, vediamo il sorriso divertito e curioso di Wanda, che chiama in causa anche lo spettatore come testimone della nascita di una nuova carne. È il viatico per giungere a Diavolo in corpo, dove la “nuova carne” diventa “luogo dell’epifania del bello”43; lo fa con un corpo, quello della Detmers, che è “stratificato” da una pesante esperienza con Godard, soltanto tre anni prima, in Prénom Carmen44, Leone d’oro a Venezia nel 1983. Bellocchio “ripulisce” la Detmers (ripetendo la stessa operazione con la Dalle di Betty Blue che sarà protagonista di La visione del sabba) restituendola alla 24


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quotidianità. Lo si vede nella sequenza iniziale, quando viene svegliata durante le urla della donna che vuole suicidarsi: la quotidianità viene sottolineata dall’alternanza di primi piani, ora sul prete, ora sullo studente, ora sulla protagonista, che impediscono allo spettatore di capire “chi guarda chi”. Il gesto del guardare è privo di un punto di fuga, di conseguenza è svuotato di energia. Contrariamente all’idea di Bellocchio, secondo il quale “l’attore è il soggetto che maggiormente ha bisogno di essere riempito dal regista”, la protagonista di Diavolo in corpo assume il compito di riempire l’inquadratura, tranquillizzata anche dall’assoluta libertà di recitazione e dal fatto di non essere interrotta durante le riprese, potendo improvvisare sudore, esplosioni di riso, lacrime e raptus isterici. L’unica cosa di cui Bellocchio “riempie” la Detmers è la voce: anche in questo caso avviene un “gioco” meta-cinematografico, dato che la doppiatrice della Detmers è Anna Cesareni45, la stessa che doppierà Claire Nebout46 in La condanna. Del resto la voce acuta della Cesareni si adatta perfettamente al personaggio di Giulia, ai suoi sbalzi di umore, ai sorrisi ingenui e infantili che si accompagnano a una camminata pesante, quasi sgraziata, spesso appesantita dagli eleganti abiti Armani. Le emozioni di Giulia sono improvvise, forti, scostanti e sorprendenti. Si passa dalla risata isterica al pianto allo stesso modo in cui l’azione alterna immobilità a furia distruttiva, fino allo sguardo muto e piangente, nel finale, che però lascia trasparire una nota di gratitudine e fierezza. Da questo lavoro della Detmers, dal modo in cui la macchina da presa lavora su di lei e dalla quasi totale assenza di controcampi, emerge una ricerca del “cinema povero”, quello teorizzato da Grotowski (nel suo caso si tratta di teatro), oltre che l’equazione “eros=follia=vuoto” attinente alla collaborazione che Bellocchio in quegli anni intratteneva con Massimo Fagioli47. E se la Detmers (o, perlomeno, la sua emanazione) è “il fulcro del film, lei lo conduce, lo guida, gli dà carattere, imprime un tono”48, avviene il contrario in La visione del sabba49 dove a Bellocchio “interessava provare a investire un personaggio maschile di cose completamente diverse”50 da come gli era accaduto nei film precedenti. Lo fa con una storia circolare, dove la componente onirica (“soggettiva ma non autobiografica”51) è in primo piano. Ciò porta a una pluralità di sguardi, a una coralità che non ha più il punto focale in un personaggio unico, singolo. In soccorso di questa tesi interviene lo stesso Bellocchio, quando afferma che “nel Diavolo in corpo, se ben ricordate, la macchina da presa era puntata su di lei [la protagonista] e tutto il resto girava intorno sullo sfondo sino a sfocarsi. In La visione del sabba succede l’esatto contrario”52, perché c’è la chiara intenzione di portare in primo piano il personaggio maschile, che in Diavolo in corpo era rimasto un po’ “dietro”. A rinforzo è opportuno riportare due sequenze tratte dai due film in questione: la lunghissima scena del sabba, che si trova proprio a metà di La visione del 25


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La sequenza di Diavolo in corpo, dove una coppia di brigatisti consuma un atto sessuale in tribunale, manifesto del conflitto tra eros e legge; Giulia urla di “lasciarli finire�, assecondando il bisogno di Bellocchio di lasciar correre la macchina da presa su inquadrature lunghe, che indugiano sul corpo degli attori

Il controcampo finale di Gli occhi, la bocca, dove Giovanni Pallidissimi prende coscienza della propria condizione, dopo essersi liberato del trucco che lo faceva assomigliare al fantasma del fratello. Wanda lo guarda, incuriosita e divertita, mentre nel grembo porta proprio il frutto del gemello defunto

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sabba e una delle sequenze finali di Diavolo in corpo, quando Giulia è in discoteca. Nel caso di Giulia, il suo corpo occupa la scena durante tutta la durata: la macchina da presa è puntata su di lei e tutto il resto gira sullo sfondo sino a sfocarsi; Giulia balla fino allo sfinimento e la macchina da presa stringe in un primo piano. Nella scena del sabba, invece, la protagonista Maddalena (interpretata da Béatrice Dalle53) assiste al rito orgiastico da una posizione defilata, guardando gelosamente Davide (interpretato da Daniel Ezralow54) che si scatena con le altre streghe. La macchina da presa la inquadra, per qualche istante, a sottolinearne l’assenza nel gruppo che ha preso parte al sabba. Per La visione del sabba Bellocchio sceglie un’attrice “iconica”, che aveva esordito due anni prima in Betty Blue55, un film francese di grande successo, in cui la Dalle incarnava l’ideale di donna folle, selvaggia, capace di forti crisi nervose e di profonde inquietudini. A Béatrice Dalle il regista chiede di continuare a essere più o meno lo stesso personaggio, rinunciando quindi al lavoro di destratificazione che aveva compiuto sulla Detmers due anni prima. Del resto la Dalle era rimasta irrimediabilmente legata all’immagine di Betty nell’immaginario cinefilo: in La visione del sabba l’attrice assolve il suo compito, esemplare femminile “capace di sedurre con uno sguardo o con il sorriso inquietante che trova la sua fonte in una bocca esageratamente grande e carnosa”56. Quello di Maddalena è un corpo che, dialogando con le resistenze, le interpretazioni, le classificazioni dei vari dottori che la esaminano per verificare il suo “grado” di pazzia, obbedisce all’etica: ma nello stesso tempo si oppone, con il suo atteggiamento, alla Sandra di La condanna. Il suo essere indomita la porta a gettare un guanto di sfida nei confronti di tutti coloro i quali la vorrebbero rinchiudere. L’unico tramite con il mondo è Davide, il solo in grado di arginare i comportamenti della ragazza, ma anche la persona che sarà in grado di perdere la testa per lei. Maddalena costringe Davide a perdere interesse per la materia scientifica e per la moglie, costringendolo a sostituire tutto con una fisicità che gli permetterà di inoltrarsi nel mondo di quella che è ritenuta da tutti una ragazza disturbata. Simbolico della “seduzione visiva” esercitata dal cinema di Bellocchio è l’indugiare della macchina da presa sulle labbra della strega durante l’amplesso tra lei e Davide: la cinepresa sembra voler farsi avvolgere e abbracciare, in antitesi con le labbra di Sandra (interpretata da Claire Nebout) in La condanna, quando questa decide di denunciare l’architetto Colaianni. In La condanna non ci sono avvocati perché, come in La visione del sabba, “si ragiona sul concetto di giustizia come virtù cardinale e non come frutto di schemi frontali”57; e a distanza di tempo il concetto viene ripreso dal regista in Sangue del mio sangue, in particolare nella sequenza dove il conte Basta, fantomatico vampiro, va dal dentista. Chiacchierando, il conte gli chiede cosa succede “nel mondo dei vivi” e tra i vari argomenti toccati c’è “l’ossessione della gente per la giustizia”. 27


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Le due sequenze prese in esame: Giulia, che è il “fulcro” di Diavolo in corpo, è inquadrata, scrutata, seguita dalla macchina da presa, fino al suo isolamento che avviene con un primo piano. In La visione del sabba il protagonista Davide partecipa al rito orgiastico delle streghe, mentre Maddalena assiste da una posizione defilata, isolata. In questo caso il primo piano non si muove per cogliere il particolare e sfumare lo sfondo, ma per sottolineare l’isolamento della protagonista

L’acqua bevuta dalla contadina nel finale di La condanna conferma una visione del corpo come “luogo di un rito che significa confronto con un ignoto visibile solo nel contatto fisico con l’altro”58. L’architetto Colaianni (interpretato da Vittorio Mezzogiorno59) nelle donne cerca sempre “uno spessore che le opere d’arte non hanno”; ma Sandra è immobile, in una posa che ricorda un quadro di Goya. Quindi l’architetto deve “violentarla per darle movimento”. Marco Bellocchio sembra voler fare altrettanto “disegnando traiettorie circolari attorno alla camminata-danza di Claire Nebout nelle stanze del museo”60. Quello di Sandra è probabilmente il corpo più mobile tra quelli presi in esame finora, che risalta anche al confronto con la staticità e la fissità delle immagini pittoriche. “Dall’eccesso di verità, evidente nella celebre sequenza della fellatio [in Diavolo in corpo], siamo passati a una coreografia che trasforma i gesti in qualcosa di palesemente falso, teatrale, troppo ritmico per essere verosimile”61. In un’intervista per L’Unità Marco Bellocchio cerca in un qualche modo di spiegare il suo punto di vista su La condanna, affermando che l’orgasmo che si 28


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raggiunge nel rapporto fra un uomo e una donna [oggi lo correggeremmo con un più universale “rapporto sessuale” nda] è l’unico momento di vita cosciente che assomiglia al sogno. Che ci porta a scoprire qualcosa di diverso. Nella nostra società, oggi, si supplisce con i farmaci o la pornografia. Non c’è più scandalo. Ma le pulsioni, scontri, infelicità ci sono ancora. Dentro le coppie62. È con questo piglio che Bellocchio si approccia alla realizzazione di La condanna, un film che ha vinto l’Orso d’argento al Festival di Berlino nel 1991, ma che ha goduto di pochissimo successo tra la critica e il pubblico. Questo perché si tratta di un film verbosissimo, difficile, molto concettuale e soggetto a un continuo scollamento tra dialogo e immagine. Ma proprio per questo è un film testimone dell’intelligenza registica dell’autore, che con La condanna chiude l’ideale trilogia iniziata con Diavolo in corpo e continuata con La visione del sabba, lasciando molti spiragli interpretativi a disposizione di chi volesse affrontarne la visione.

La contrapposizione tra le labbra voluttuose e sensuali di Maddalena e quelle bugiarde di Sandra, nel momento in cui condanna l’architetto Colaianni ma anche sé stessa. In basso Un’emblematica immagine poco prima del finale di La condanna

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Un film che “invece di rappresentare un ideale femminile, contrappone due uomini dall’indole opposta in confronto dialettico”, dove i ruoli di “violentatore” e “condannato” si interfacciano e si scambiano tra l’architetto Colaianni e il giudice Malatesta. E accanto alle tre figure femminili (Sandra, Monic e la contadina), legate tra loro come passaggi di un percorso di consapevolezza e felicità erotica, sfilano tre immagini significative: la statua Apollo e Dafne del Bernini, la Madonna con bambino di Leonardo (entrambi esposti nel museo dove Sandra e Colaianni consumano l’atto sessuale) e La maja desnuda di Goya. Questo trittico di opere d’arte è destinato a incrociarsi con le vicende del blocco narrativo. L’Apollo e Dafne anticipa in via del tutto allegorica ciò che accadrà con l’architetto. Apollo è divinità delle arti e della poesia, quindi creatore di forme proprio come l’architetto Colaianni. Sandra inizialmente scappa da Colaianni, come Dafne scappa da Apollo, “non sa esprimere il suo sentire fino a quando Colaianni non lo fa emergere. La prova, non scientificamente ricostruibile e provabile, è il suo orgasmo (movimento, creazione, vita)”63. La Madonna con bambino è il quadro che Sandra sta osservando nel momento in cui Colaianni si palesa, innescando l’incontro tra i due. Lo stesso quadro è quello che più tardi guarderà il giudice Malatesta su un libro fotografico, subito prima di un dialogo dove la moglie lo accusa di “essere un violentatore” perché non la soddisfa, perché non sa essere “pazzo”: la violenza quale negazione dell’atto sessuale è proprio il tema che sta alla base di La condanna, in antitesi con la violenza intesa come dono di movimento e creazione. Ma la Madonna di Leonardo dà adito a più interpretazioni: Sandra ci vede “il bisogno del bambino di succhiare il seno della madre, una maternità che ancora esercita potere sul figlio”64, invece Colaianni coglie soprattutto “la libertà del bambino, svincolato da una femminilità protettiva”65 proprio perché il quadro è frutto dello “sguardo di Leonardo, l’inventore, il genio”, un artista che non si fa condizionare da un seno piuttosto che da un altro, “nel senso che il seno di nessuna madre, anche la più deludente, avrebbe più potuto rovinare o limitare la sua creatività”: un dialogo eloquente, questo, dove il regista svincola l’opera (quella di Leonardo, e forse anche la sua) da qualsiasi condizionamento materno, spogliandosi dell’etichetta, risalente al film d’esordio, di matricida. La maja desnuda di Goya interviene nel momento in cui Sandra ne assume la posa, imitandola perfettamente, rendendosi statica, plastica e immobile. “Un’immagine che l’architetto vuole coscientemente distruggere”66, imprimendole il movimento capace di darle la vita. Lo sviluppo del blocco narrativo porta Sandra e Colaianni a fronteggiarsi in tribunale, in una seconda parte formalmente più intricata, che si stacca dalla staticità delle opere d’arte e si porta sul piano dell’etica sociale e della giustizia (o meglio, del giustizialismo), come si vedrà più avanti. Del resto, per chiudere il cerchio, occorre recuperare l’immagine dei due brigatisti che copulano all’interno del tribunale. Con La condanna siamo in un altro 30


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tribunale, in un altro film, dove la contrapposizione tra eros e legge viene recuperata ponendosi un interrogativo: “è quindi, paradossalmente, un violentatore, uno che riconosce la potenza del proprio desiderio e vi si sa abbandonare ‘forzando’ la donna, e pagandone eventualmente un prezzo, che qui è simbolicamente la condanna giudiziaria, ma che più genericamente consiste nel disprezzo femminile-femminista?”67, senza dimenticare il riferimento al mito classico di Creonte e Antigone, caro al regista, dove avviene lo scontro tra leggi umane e divine, tra norma e natura.

Nello stesso ordine con cui se n’è già scritto: l’Apollo e Dafne durante la visita del gruppo (si intravede Sandra dietro sulla sinistra), “ripresi” successivamente nell’incontro tra Colaianni e Sandra; la Madonna con bambino che provoca in Colaianni e Malatesta due reazioni opposte, oltre a diverse interpretazioni diegetiche (ed extradiegetiche se si tiene conto dello spettatore); La maja desnuda di Goya nella sua posa plastica

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Stare sul corpo, oggi come ieri La balia68 permette a Bellocchio di far esordire Maya Sansa69, attrice su cui il regista compie un importante lavoro che continuerà in altri film. L’interprete si rivelerà una delle migliori del panorama cinematografico italiano e La balia inaugura il decennio più felice della cinematografia del regista piacentino, che con questo film realizza un altro soggetto tratto da Pirandello. Bellocchio era stato contattato dalla Rai, nell’ambito di un progetto che sul finire degli anni Novanta avrebbe voluto coinvolgere più registi “per realizzare un film italiano tratto da un testo della nostra letteratura”70. All’autore era stato proposto un racconto di De Roberto incentrato su un gruppo di soldati in una trincea sul Carso durante la Prima guerra mondiale, un soggetto che avrebbe evocato Orizzonti di gloria. “Io però mi ricordai della Balia, una novella di Pirandello che avevo letto tempo prima e che mi aveva molto colpito. Così decisi per questa ipotesi”71. La sceneggiatura modifica in maniera significativa il plot narrativo della novella pirandelliana. Al di là della onomastica, i cambiamenti più significativi riguardano il modellamento delle figure dei coniugi Mori, interpretati da Fabrizio Bentivoglio72 e Valeria Bruni Tedeschi73: l’uomo non è un avvocato socialista, come invece nella novella di Pirandello, ma è uno psichiatra (figura cara a Bellocchio, come si è già visto) che nel corso della vicenda vivrà delle situazioni che metteranno in discussione ogni sua certezza personale e professionale. La donna, Vittoria (Ersilia, nella novella), è francamente più posata e pacata della protagonista dell’opera letteraria. Certamente animata da turbamenti e dubbi sulla propria natura materna, Vittoria si differenzia dalla Ersilia pirandelliana per un tono più dimesso, per la rinuncia a facili isterismi e per un (com)portamento più elegante. Da questo ne emerge un dato fondamentale ai fini di questa ricerca: Bellocchio stravolge la novella almeno sul piano della manifesta misoginia che emerge dalla lettura della stessa. Questo vale anche per la balia, il cui nomignolo nel film è Annetta, un vezzeggiativo che la distingue dalla Annicchia pirandelliana, dovuto anche al regionalismo che entra in causa quando si parla di nomignoli: la balia della novella viene dalla Sicilia, mentre quella interpretata dalla Sansa proviene dalle campagne romane. La balia di Bellocchio è più silenziosa: per la sua caratterizzazione il regista si affida ai tratti fisici mediterranei della Sansa, continuando il “lavoro” sul corpo degli attori. Lo sguardo pieno, gli occhi profondi, le forme rotonde dell’attrice sono gli elementi che fanno “parlare” l’Annetta bellocchiana tramite i silenzi, le occhiate, i sorrisi. Nella realizzazione del suo film, il regista rinuncia alla dimensione tragica della vita della balia. Il marito rimane un socialista sovversivo, ma viene privato della componente violenta e rozza che anima lo stesso personaggio della novel32


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la, mentre il figlio della balia, al quale lei deve rinunciare per prestare le dovute cure al figlio di Ennio Mori, non muore e nel finale si ricongiungerà con la madre. Queste considerazioni non si devono leggere nella trita logica del confronto (per altro inutile e scorretto) tra un’opera letteraria e la sua trasposizione filmica; in questo caso il confronto non vuole analizzare l’aderenza del film al testo di origine, ma il differente atteggiamento che Bellocchio assume rispetto a Pirandello dal momento che si affaccia sull’universo femminile, in questo caso avvalendosi anche della preziosa collaborazione di Daniela Ceselli in fase di sceneggiatura. Una riflessione dello stesso regista aiuta a chiarire l’allontanamento della sceneggiatura rispetto al testo di partenza, soprattutto quando ammette che non gli “interessava un discorso di ricostruzione storica, ma di interpretazione personale”74; in questo senso “nella riflessione sulla malattia mentale o sulla politica si possono trovare le tracce di una ricerca su temi che non solo ci stanno particolarmente a cuore, ma che, seppur in modo diversissimo, appartengono anche alle nostre vite”75. Il rimodellamento della sceneggiatura passa anche dai personaggi che “sono così perché ci sono delle facce, dei caratteri precisi”76, quindi si è dovuto intervenire adattando il testo sugli attori: “Mori è così perché è Fabrizio Bentivoglio. Ogni regista si comporta a modo suo, ma io non posso non tenere conto di avere di fronte un uomo con quello sguardo, con quella barba, con quel sorriso”77. Ne emerge una coerenza ferrea, che fa di Bellocchio un regista che ha sempre goduto di una certa libertà artistica, ma che l’ha sempre riversata sul lavoro del cast. Come non ricordare le numerose testimonianze che parlano di I pugni in tasca come di un film risultato di un enorme lavoro di gruppo? Bellocchio continua a “stare” sul corpo, dunque, al punto da adattare la sceneggiatura modellandola sul materiale umano a disposizione, tanto è vero che per La balia emerge un problema paradossale: il regista a un certo punto comincia “a temere che gli attori scelti fossero fin troppo giusti e che ciò non lasciasse un margine sufficiente al disordine, alla sorpresa, all’improvvisazione”78, elemento quest’ultimo che, come si è già potuto appurare, è di fondamentale importanza. Non sarà così: La balia è un altro film realizzato con sceneggiatura, personaggi e mezzi continuamente modificati “in corso d’opera”. Con questo film Bellocchio inquadra un soggetto cinematografico a lui caro, lasciato in sospeso da qualche anno, l’origine, il principio creativo di ogni possibilità, in due parole: la madre. Lo slancio vitalistico emerso da La condanna, dove la Madonna di Leonardo è espressione dell’amore totale e incondizionato della nutrice sul nutrito, viene continuato in La balia. In questo lavoro la madre non è più l’elemento da eliminate (I pugni in tasca) o da cui essere “perdonati” (Gli occhi, la bocca), ma espressione bifronte dell’amore materno: l’amore come vocazione, quello appassionato e disinteressato di Annetta, e quello incurante e freddo di Vittoria. 33


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La scelta delle attrici sottolinea perfettamente questo dato. La “mediterranea” Maya Sansa si fa espressione del calore materno, affascinando Bellocchio per “la voce e poi gli occhi, lo sguardo”79, anche se il regista ammette che “con lei il rischio era più grande perché era alla sua prima esperienza cinematografica”80. L’algida e nordica Valeria Bruna Tedeschi, invece, incarna il lato più distaccato dell’amore materno; del suo personaggio Bellocchio ha modo di dire che “non doveva essere un’isterica, ma esprimere un dolore reale, tanto più forte quanto più contenuto”81. In un’altra intervista l’autore spiega l’importanza delle parole e del momento in cui venivano dette, non facendosi scrupolo di “usare le tecniche classiche: campo e controcampo”82, riallacciando il discorso sulla scelta della Bruni Tedeschi: “Credo di averle proposto il ruolo proprio per la sua voce, è come se la sua voce bastasse, potevo anche solo ascoltarla, perché quello secondo me era il personaggio, era una versione del personaggio. Anche per la balia devo dire questo; mi piaceva il fatto che non rischiasse nessun folclorismo da ‘balia’, proprio perché non ne era capace, nel senso che lei [Maya Sansa] ha sempre vissuto a Roma, poi a Londra, e quindi si è data una piccola cadenza, ma il gioco è stato tutto sul ‘corpo’ della sua voce non all’interno di una tradizione dialettale83.

Non soltanto corpi concreti, dunque, ma anche corpi sentiti e ascoltati. A proposito di “disordine, sorpresa, improvvisazione”, in La balia il regista privilegia la “sovversività” intima e privata dell’anima, nell’interpretazione della debuttante Maya Sansa, il cui personaggio vive una progressione umana, una crescita (“Io non voglio rimanere sempre uguale”). Mori si fa mediatore tra lo slancio di Annetta e la chiusura di Vittoria, anche se l’affettività della balia esaspera l’inettitudine di Vittoria e contribuisce ad aumentare la frustrazione di Ennio. Questo dato è ascrivibile anche alla forte circolazione di fisicità, spesso trattenuta, espressa solo in forma di desiderio e che anima i personaggi di La balia; riguardo a questo, Bellocchio ammette che “il rapporto tra il Mori e la balia […] doveva essere un rapporto d’amore, ma molto discreto, che doveva avvenire su delle parole, delle lezioni”84, un amore che passa attraverso la realizzazione di se stessi, che si realizza con il tema dell’identità. Nell’approccio con la balia “Mori non scopre l’America, però si ha l’impressione che si comporti così per la prima volta”85. La lenta progressione all’interno del film è testimoniata anche da un espediente tecnico, che esce dalla tradizione bellocchiana dell’uso del carrello: in La balia non è mai usato il dolly e anche l’uso del carrello è limitatissimo, come se ci fosse l’esigenza di stare sulle fisionomie dei personaggi che cambiano impercettibilmente; Valeria Bruni Tedeschi e Fabrizio Bentivoglio impongono ai propri personaggi un rapporto coniugale privo di sensualità e di contatto fisico, mantenendo questa impalcatura fino alla fine. 34


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Nel primo fotogramma Annetta coccola il figlio di Vittoria ed Ennio; nel secondo fotogramma vediamo Vittoria nella sua residenza al mare, in versione “balia”, mentre abbraccia il bambino della cuoca; l’essersi allontanata da casa l’ha aiutata a ritrovare sé stessa, sconfiggendo quel dolore mal sopito che la attanagliava. Nel finale Ennio la va a trovare, prima di tornare a casa a scrivere la lettera, che da tempo Annetta gli chiede, per rispondere al marito di questa. Nel terzo fotogramma la balia sta ascoltando Ennio, mentre questi le insegna a scrivere. Ma nelle lezioni di scrittura non intercorre soltanto quel rapporto tra maestro e allieva: il Mori vuole insegnare ad Annetta a scrivere una lettera e con essa, in un certo senso, anche “la vita”, nella logica di quel percorso di ricerca dell’identità che porterà i due protagonisti ad “amarsi” discretamente, non fisicamente, ma con l’immaginazione. “Immagino è un verbo? Che azione è ? Che movimento è ?” gli chiederà Annetta. La risposta arriverà nel 2003 in Buongiorno, notte, quando Enzo Passoscuro dirà alla brigatista Chiara (la stessa Maya Sansa) che “l’immaginazione è reale”

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La madre è una delle figure femminili più delicate e conflittuali nella filmografia bellocchiana. La balia di fatto ha spalancato le porte sul film successivo, L’ora di religione86. In questo caso il “corpo” attorno cui ruota tutto il blocco narrativo è un corpo assente, morto, inesistente: è quello della madre dei fratelli Picciafuoco, uccisa da suo figlio Erminio. Il plot, come si vedrà, ruota attorno alla canonizzazione della defunta, affrontando molte tematiche che Bellocchio mette a fuoco. Anche in questo caso, come per I pugni in tasca (a cui per altro il film è stato accostato), si può asserire che molte interpretazioni incorrono nell’errore di farne un film-manifesto contro la Chiesa, il potere della stessa e la sua corruzione. Il regista non ha alcun interesse a denunciare qualcosa che pare sia sotto gli occhi di tutti, ma vuole provare a raccontare il rifiuto del pensiero religioso (che non si limita al contesto della Chiesa o della dottrina) da parte di un uomo, che nel film non ha le caratteristiche dell’eroe, ma del cittadino che vorrebbe poter vivere serenamente e laicamente nella società del XXI secolo. Significativo è il titolo originario di questa pellicola, Il sorriso di mia madre, poi mantenuto solo come sottotitolo. C’è una scena dove la gigantografia della “santa” avvolge, circonda e sembra inglobare Ernesto (Sergio Castellitto) che cerca ancora una volta di distaccarsi definitivamente da quella figura, da quella presenza. Le altre presenze femminili in L’ora di religione sono piuttosto smarcate rispetto a quella della defunta madre: la moglie Irene, da cui Ernesto Picciafuoco è separato, che si ripropone nel ruolo materno rispetto al figlio della coppia, Leonardo, sul quale si gioca l’ennesimo trucco di onomastica tipicamente bellocchiano, dove il padre è pittore e il figlio ha il nome del più grande di tutti i tempi; e Diana (interpretata da Chiara Conti87), portatrice di un nome evocativo e divino, presunta insegnante di religione, che si presenta in maniera curiosa, accattivante, che spiazza Ernesto scardinandolo dai canoni della quotidianità, investendolo di nuova linfa vitale e trascinandolo in un ignoto nel quale il protagonista si inoltra. Del resto “il rapporto con la madre è un terreno che Ernesto conosce, al limite che odia, ma che conosce. Invece di fronte a una ragazza che appare, scompare, lo critica, lui intuisce una serie di cose: in lei qualcosa lo attrae, anche o forse proprio perché non ha una dimensione materna”88. Diana assume un ruolo primario nella vita di Ernesto, si fa portatrice di una carica liberatoria dovuta anche al fatto che si tratta di una donna incontrata casualmente e con cui si intreccia un rapporto imprevedibile. Diana attrae Ernesto, probabilmente gli incute un certo timore, però lo attrae: questa è la dialettica all’interno di L’ora di religione rispetto alla figura femminile. È interessante rilevare la continuità che Bellocchio dà alla tematica del rapporto uomo-donna, ammettendo lui stesso che la complessità del rapporto uomodonna si ripropone continuamente sia pur in modo diverso. È un tema difficile, ma quasi impossibile da escludere: per esempio, come fare un film senza donne? È sempre molto difficile capire e intuire la donna. L’uomo fa sempre riferimento a se stesso, mentre invece con la donna c’è un rapporto di sfida, di scontro, 36


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anche a livello dell’ideazione, del lavoro con l’attrice89. Fondamentale è il passaggio dove Ernesto ammette, in un dialogo con il cardinale che sta seguendo la pratica di canonizzazione, che per lui in quel momento l’innamoramento sarebbe “una radicale e nuova forma di ateismo”: Ernesto si contrappone alla pietas cristiana che, ora più che mai, va a braccetto con l’idea di amore generico, generale, di assistenza, che fa parte del bagaglio culturale della sinistra. “Non a caso c’è un contatto, un’unione molto più forte di quanto non fosse prima tra il cattolicesimo e l’ex comunismo”90 sostiene Bellocchio. Ciò che può far crescere Ernesto, ciò che può contribuire alla sua ricchezza di immagini è soprattutto la scoperta, la capacità vitale di innamorarsi di una donna. Un atteggiamento che bada alla concretezza del momento, che porta Ernesto a credere a quello che la vita gli dà (o gli può dare) oggi, subito, senza fare riferimento a una trascendenza che poi (eventualmente) gli rimandi qualcos’altro. Un altro elemento fa intervenire l’autobiografismo dell’autore nel solco di un film che, sostanzialmente, parla di come affrancarsi dal ruolo materno: ed è la condizione di Ernesto, pittore, proprio come lo era il Bellocchio adolescente, prima della carriera cinematografica. E se all’autobiografismo aggiungiamo il “feticismo” del regista nei confronti dei suoi autori, è corretto evidenziare come l’evoluzione del Castellitto-pittore sia il Castellitto-regista in Il regista di matrimoni. La fluidità dello scambio tra reale e immaginario, tra la dimensione presente e quella onirica, è testimonianza di una ormai consolidata maturità del regista che all’autobiografismo e al “feticismo” ora aggiunge l’ennesimo gioco meta-cinematografico: inserire i propri quadri giovanili, quelli dipinti tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, nel blocco narrativo-diegetico del film. Non più soltanto le suggestioni che richiamano la propria opera giovanile, ma i quadri nel concreto, dove figure femminili, famiglie, uomini sono raffigurati secondo la concezione pre-cinematografica del regista. In questo gioco interviene un “fuori-programma”, assolutamente non previsto dalla sceneggiatura: Ernesto, alter ego di Bellocchio, mostra alcuni quadri (suoi nella finzione, del regista nella realtà) a una zia, che nella realtà è la sorella maggiore di Bellocchio. Il regista avrà modo di spiegare che anche questo caso fa parte di quel margine di improvvisazione legato alla lavorazione di un film. Le zie sono le mie sorelle maggiori e interpretano loro stesse. Quel modo di parlare, quelle voci, mi sembrava potessero arricchire il sentimento di un passato, di una provincia, di un mondo ormai scomparso da cui Ernesto [come il regista, del resto, nda] aveva deciso di separarsi molti anni addietro91. E non è un caso che poco prima del finale, in una sequenza pregna di significato, poesia e sapore onirico, Ernesto (il pittore, l’artista, il “creatore”) si lanci all’inseguimento di Diana (divinità bucolica, protettrice dei boschi), per unirsi a lei, per affrancarsi dalla figura materna, per dare nuova spinta vitale al proprio destino e per “creare nuove forme”, proprio come fa Apollo (protettore dell’arte, creatore di forme) con Dafne, e proprio come fa l’architetto Colaianni (altro creatore di forme) con Sandra in La condanna. 37


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Ernesto sembra perdersi al cospetto di una gigantografia della madre, dove il sorriso ambiguo emerge a fare da controcanto al perenne sorriso ironico che il protagonista assume sul proprio viso, ultima arma rimasta ai “perdenti”. Diana, con la sua bellezza capace di dare nuova vita e nuove forme alla vita di Ernesto. Il protagonista che osserva un proprio quadro, appeso in casa, lo stesso che abbiamo già incontrato nel paragrafo 1.a. L’inseguimento di Ernesto/Apollo su Diana/Dafne

In Buongiorno, notte92, su cui sarà opportuno ritornare in maniera più dettagliata, ritroviamo Maya Sansa nel ruolo di protagonista. Anche in questo caso il lavoro di Bellocchio sul corpo dell’attrice è ineccepibile e dà vita a un film che è probabilmente il migliore in assoluto della filmografia bellocchiana, considerando anche che si inserisce fra i film più riusciti del regista. Chiara è la componente femminile del gruppo di brigatisti che ha il compito di vegliare sulla “prigione” di Aldo Moro, durante il suo sequestro. Per realizzare il film il regista è partito dal libro93 di Anna Laura Braghetti, la brigatista che faceva parte del gruppo di terroristi incaricato della detenzione di Moro. In un punto fondamentale della narrazione, in un diverbio col collega Enzo (un ragazzo con velleità cinematografiche e che si fa alter ego del regista), Chiara nega che l’immaginazione possa avere efficacia alcuna sulle cose concrete. Il 38


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ribaltamento formale delle sue convinzioni avviene nella dimensione onirica, che nei film di Bellocchio ha ormai assunto lo status di elemento indispensabile come lo sono le macchine da presa e i microfoni, nel momento in cui Chiara assume su di sé l’impegno dell’immaginazione. Del resto solo grazie a essa si può intervenire sulla complessità e la multilateralità di una vicenda come il sequestro di Aldo Moro; per dirla con il regista l’immaginazione è qualcosa di inseparabile dalla libertà. La fantasia ha bisogno di libertà. Sono due cose completamente inseparabili. I sessantottini dicevano “l’immaginazione al potere”. Ma l’immaginazione deve avere alle spalle un’identità forte che la produce. […] L’identità dei sessantottini non era forte. Infatti il Sessantotto è durato solo una stagione, un anno. Dopo i protagonisti sono diventati tutti politici. Sono passati dal mondo dell’immaginazione al mondo della razionalità, dell’organizzazione e della concretezza94. È da sottolineare la gran quantità di immagini di repertorio che Bellocchio distribuisce nel film, dai telegiornali agli show serali, da Tre canti su Lenin95 a Paisà96, molto spesso nella dimensione onirica di Chiara, compiendo l’ennesimo gioco meta-cinematografico, incrociando i sogni (filmici) della protagonista con materiale filmico che però appartiene alla dimensione reale ed extradiegetica rispetto a Buongiorno, notte. L’uso di materiale di repertorio diventa, da questo momento in poi, una costante del cinema di Bellocchio. Il personaggio di Chiara assurge a “simbolo del femminile contrapposto alle figure maschili, presuntuosi automi beceri psichicamente dissociati. In lei c’è un travaglio interno, un dubbio, un tormento che la portano a fare una scelta tra l’uomo e l’idea”97. Ancora una volta Bellocchio si serve di una donna per rimarcare e sottolineare il fascismo degli uomini che la circondano, come succede con Rosanna in Marcia trionfale98, o con Maddalena in La visione del sabba e come succederà con Ida in Vincere o con Benedetta in Sangue del mio sangue. Occorre sottolineare come il titolo del film derivi da una poesia di Emily Dickinson99, Buongiorno, Mezzanotte100: la poesia di una donna fornisce l’idea per il titolo di un film in cui ancora una donna, la brigatista Chiara, è lo “sguardo” che prova a decodificare la realtà, il tramite attraverso il quale lo spettatore si fa testimone della tragedia di Aldo Moro, partecipando però ai turbamenti, ai dubbi e agli atteggiamenti voyeuristici (lo spioncino sulla prigione) vissuti dalla protagonista. Chiara è lontana dalla dimensione materna che coinvolge parte delle donne che popolano il gineceo bellocchiano. Anzi, in Buongiorno, notte non vi sono madri: l’unica è quella che interviene solo al telefono per minacciare la propria presenza, ed è proprio la madre di Enzo Passoscuro, personaggio che occupa il ruolo di alter ego di Bellocchio. Quasi una forma di volontario allontanamento dalla tematica della madre, soprattutto considerando che passa poco tempo tra l’uscita di Buongiorno, notte e quella di L’ora di religione, che soltanto un anno prima aveva dato vita a un dibattito interno alla critica dove si pretendeva di (re)legare nuovamente Bellocchio al suo film d’origine. 39


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Vincere101 ci trasferisce dalla follia brigatista degli Anni di piombo verso un clima di follia collettiva risalente a qualche decennio prima: siamo in piena epoca fascista e con questo film Bellocchio continua l’alternanza tra film “contemporanei” (L’ora di religione, Il regista di matrimoni) e film in costume o storici (La balia, Buongiorno, notte e Vincere), un’alternanza che continuerà con Bella addormentata e Sangue del mio sangue, se escludiamo Sorelle Mai che costituisce un particolarissimo capitolo a sé. Posto che anche questo lavoro sarà approfondito più avanti, qui ci soffermeremo sul fatto che Bellocchio continua coerentemente la sua operazione di “stare” sul corpo. La protagonista Ida Dalser (interpretata da Giovanna Mezzogiorno102) è un personaggio storico appartenente alla sfera del reale su cui il regista si sofferma per mettere in scena un’opera capace di riassumere in sé tutti i topoi appartenenti al cinema bellocchiano visti fin qua. Al di là del nesso fascinatorio tra eros e potere, che in Vincere emerge abbastanza virulentemente, ciò che colpisce è un turbamento che si fa angoscia, fino a sfociare in una sottile paura che attanaglia lo spettatore attento e capace di cogliere alcune ombre del presente italiano, non arginate dal mezzo cinematografico e non circoscritte soltanto al periodo preso in considerazione dall’opera. Protagonista della vicenda è Ida Dalser, donna trentina sedotta e sposata da Benito Mussolini negli anni a cavallo della Prima guerra mondiale. Dall’unione dei due è nato il figlio Benito Albino. Madre e figlio si scontreranno con la cinica indifferenza di Mussolini, interpretato da Filippo Timi103, almeno fino all’ascesa al potere. Da quel momento Mussolini diventerà soltanto un’immagine, scomparirà come corpo attoriale e resterà nella diegesi filmica solo come fotografia, icona, busto in marmo, figura del cinegiornale. In questo gioiello, quale si può considerare Vincere, Bellocchio (ri)mette in gioco la tematica delle strutture psichiatriche, nelle quali Ida e Benito Albino vengono rinchiusi e ridotti al silenzio, oltre a un uso dell’immagine corporale paradigmatica della metamorfosi sociale e antropologica che l’Italia ha subito negli anni che hanno caratterizzato la prima metà del secolo XX. Molte sequenze sono ambientate all’interno di sale cinematografiche. Lo stesso ospedale da campo, dove Mussolini è ricoverato durante la guerra, si trasforma in sala cinematografica, in una scena carica di simbolismi e di suggestioni che contrappone il Christus104 di Giulio Antamoro105 con la dimensione terrena e anti-divina (o diabolica?) del futuro duce. Giovanna Mezzogiorno, come la Giovanna d’Arco di Dreyer, è imprigionata dalla macchina da presa tanto quanto lo è nel blocco narrativo. Non è un caso che Bellocchio abbia ammesso di aver “suggerito a Giovanna di vedersi La passione di Giovanna d’Arco106 di Dreyer, con la Falconetti, che è sublime, eccezionale”107. Emblematica di questo intrappolamento è la sequenza dove Ida assiste a un cinegiornale e sullo schermo scorrono le immagini della Marcia su Roma e dell’incarico di governo affidato dal re a Benito Mussolini. Mentre la platea si alza per il saluto romano, Ida si avvicina allo schermo allo stesso modo in cui Ernesto 40


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Picciafuoco si era avvicinato alla gigantografia della madre. Poi si gira verso la platea, mentre la testa di Mussolini giganteggia su di lei, la sovrasta e la soverchia, mentre la donna getta uno sguardo fiero sulla sala. L’intenzione di Ida è evidentemente quella di mettersi al fianco del padre di suo figlio, ma egli è ormai soltanto un’immagine cinematografica, capace però di angustiarla e imprigionarla, rovinandole la vita e cancellandone l’esistenza. Ida vuole essere madre e moglie, ma tutto ciò le sarà negato dall’annullamento della sua esistenza, per altro abbastanza paradigmatico di quella negazione dell’individuo in atto durante il regime, dove a contare era l’identità collettiva, la massa. Tutto questo viene paradossalmente messo in scena proprio con la sublimazione dell’individuo, con il costante pedinamento cinematografico di Giovanna Mezzogiorno. Il corpo dell’attrice sostiene l’impatto del piano sequenza e lo regge, allo stesso modo in cui tiene benissimo il primo piano insistito. In Vincere prende corpo una maternità negata: Ida e suo figlio vengono separati irrimediabilmente e ciò sarà la causa scatenante della follia che si impadronirà della Dalser: una follia non patologica, ma frutto dell’alienazione che la persona di Ida subisce dall’esterno. Una follia guidata, comandata e imposta, come un’etichetta che il regime poteva applicare in qualsiasi caso a chiunque gli paresse. È passato un decennio dalla maternità negata di La balia: alle sbarre che rinchiudono la Dalser si possono contrapporre quelle intime e inconsce che ingabbiavano la volontà materna di Vittoria. Vincere è un punto di cesura fondamentale per gli sviluppi più recenti della carriera bellocchiana. Con il film del 2009 il regista ha inaugurato un filone che getta un vecchio/nuovo sguardo sul corpo femminile, sulle patologie (psichiche, fisiche e morali) e sulla condizione di prigionia che è costretto a sopportare. Nel 2012 è la volta di Bella addormentata108 che prende spunto dalla vicenda di Eluana Englaro109, ma che Bellocchio intelligentemente sviluppa andando oltre al limitato campo dello scontro ideologico e partitico che ha animato (intasato?) i media nel febbraio 2009. In Bella addormentata si avvicendano corpi imprigionati da patologie fisiche, dal coma o dalla tossicodipendenza, mentre il corpo della Englaro non viene mai mostrato materialmente, non prende parte al blocco narrativo se non con la sua costante presenza sui media e nelle vicende dei protagonisti. A Bella addormentata fa seguito Sangue del mio sangue110, film in concorso al festival di Venezia del 2015 e che ha fatto discutere fin da subito. Si tratta di un lavoro molto personale, dove si intrecciano quasi tutte le tematiche che da cinquant’anni si avvicendano nelle opere del regista. In Sangue del mio sangue prende vita, ancora una volta, il corpo imprigionato dai canoni religiosi e morali, torturato e murato come fu la Monaca di Monza, fino all’epifania della bellezza che nel finale è capace di sconfiggere le catene del tempo.

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La “gabbiaâ€? sociale, morale e intima che imprigiona la volontaĚ€ di Vittoria, contrapposta alla gabbia fisica che costringe Ida a cedere alla follia (collettiva) del regime

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Due immagini significative di Vincere

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Note Grotowski J., Per un teatro povero, Roma, Bulzoni, 1970, p. 28. Ripreso in Scandola A., “Stare sul corpo”: la visione dell’attore in Aprà A. (a cura di), Marco Bellocchio. Il cinema e i film, Venezia, Marsilio, 2012, p. 98. 7

Italia, 1965. Regia: Marco Bellocchio. Con: Lou Castel, Paola Pitagora, Marino Masè, Liliana Gerace, Pier Luigi Troglio, Jeannie McNeil, Gianni Schicchi. Montaggio: Silvano Agosti. Fotografia: Alberto Marrama, Giuseppe Lanci. Musiche: Ennio Morricone. 8

9

Gambetti G. (a cura di), I pugni in tasca, Milano, Garzanti, 1967, p. 47.

10

Lou Castel, nome d’arte di Ulv Quarzéll (Bogotá, Colombia, 28 maggio 1943).

11

Gambetti (a cura di), I pugni in tasca, op. cit., p. 47.

12

Paola Pitagora, nome d’arte di Paola Gargaloni (Parma, 24 agosto 1941).

13

Marino Masè (Trieste, 21 marzo 1939).

14

Liliana Gerace (Napoli, 9 agosto 1921).

15

Costa A., Marco Bellocchio. I pugni in tasca, Torino, Lindau, 2005, p. 98.

16

Ibidem.

Cherchi G., L’età verde in “Giovane Critica”, n. 12, estate 1966. Ripreso in Costa A., Marco Bellocchio. I pugni in tasca, Torino, Lindau, 2005, p. 173. 17

18

Sergio Castellitto (Roma, 18 agosto 1953).

19

Gambetti G. (a cura di), I pugni in tasca, Milano, Garzanti, 1967, p. 46.

Masoni T. (a cura di), Marco Bellocchio. Quadri. Il pittore, il cineasta, Alessandria, Falsopiano, 2013, p. 92. 20

Bo F. e Cielo S. (a cura di), Conversazione con Marco Bellocchio in “Filmcritica”, n. 384, aprile-maggio 1988, p. 240. Ripreso in Scandola, “Stare sul corpo”, op. cit., p. 92. 21

22 Italia-Francia, 1982. Regia: Marco Bellocchio. Con: Lou Castel, Angela Molina, Michel Piccoli, Emmanuelle Riva, Antonio Piovanelli, Antonio Petrocelli. Montaggio:

44


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Sergio Nuti. Fotografia: Giuseppe Lanci. Musiche: Nicola Piovani. 23

Ángela Molina Tejedor (Madrid, Spagna, 5 ottobre 1955).

Gandolfi M., Gli occhi, la bocca in Ceretto L. e Zappoli G. (a cura di), Le forme della ribellione. Il cinema di Marco Bellocchio, Torino, Lindau, 2004, p. 107. 24

Italia-Francia, 1980. Regia: Marco Bellocchio. Con: Michel Piccoli, Anouk Aimée, Michele Placido, Gisella Burinato, Antonio Piovanelli. Montaggio: Roberto Perpignani. Fotografia: Giuseppe Lanci. Musiche: Nicola Piovani. 25

Anouk Aimée, nome d’arte di Nicole Françoise Florence Dreyfus (Parigi, Francia, 27 aprile 1932). 26

27

Michel Piccoli (Parigi, Francia, 27 dicembre 1925).

28 Bo F. e Cielo S. (a cura di), Conversazione con Marco Bellocchio in “Filmcritica”, n. 384, aprile-maggio 1988, p. 240.

Scandola A., “Stare sul corpo”: la visione dell’attore in Aprà A. (a cura di), Marco Bellocchio. Il cinema e i film, Venezia, Marsilio, 2012, p. 92. 29

Conversazione con M. Bellocchio, nell’intervista compresa all’interno dell’edizione francese del Dvd di Le saut dans la vide. Ripresa in Scandola, “Stare sul corpo”, op. cit., p. 92. 30

31

Scandola, “Stare sul corpo”, op. cit., p. 92.

Italia-Francia, 1969. Regia: Carlo Lizzani, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Jean-Luc Godard, Marco Bellocchio. Con: Julian Beck, Ninetto Davoli, Nino Castelnuovo, Christine Guého. 32

33 Bazin A., In margine a “L’erotismo del cinema” in Id., Che cosa è il cinema?, Milano, Garzanti, 1973, pagg. 207-209. 34

Maruschka Detmers (Schoonebeek, Olanda, 16 dicembre 1962).

35

Scandola, “Stare sul corpo”, op. cit., p. 92.

36

Ibidem.

37

Ibidem.

45


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38

Ibidem.

Bo F. e Cielo S. (a cura di), Conversazione con Marco Bellocchio in “Filmcritica”, n. 384, aprile-maggio 1988, p. 240. 39

Italia-Francia, 1986. Regia: Marco Bellocchio. Con: Maruschka Detmers, Federico Pitzalis, Anita Laurenzi, Riccardo De Torrebruna, Claudio Botosso, Alberto Di Stasio, Anna Orso. Montaggio: Mirco Garrone. Fotografia: Giuseppe Lanci. Musiche: Carlo Crivelli. 40

41

Bo e Cielo (a cura di), Conversazione con Marco Bellocchio, op. cit., p. 240.

Italia-Francia, 1991. Regia: Marco Bellocchio. Con: Vittorio Mezzogiorno, Claire Nebout, Andrzej Seweryn, Grazyna Szapolowska. Montaggio: Mirco Garrone. Fotografia: Giuseppe Lanci. Musiche: Carlo Crivelli. 42

43

Scandola, “Stare sul corpo”, op. cit., p. 92.

Francia-Svizzera, 1983. Regia: Jean-Luc Godard. Con: Maruschka Detmers, Jacques Bonnaffé, Myriem Roussel, Jean-Luc Godard, Hippolyte Girardot. 44

45

Anna Cesareni (Roma, 3 novembre 1960).

46

Claire Nebout (Bourg-la-Reine, Francia, 20 maggio 1964).

47 Psichiatra che ha inaugurato in Italia il metodo delle “analisi collettive” alle quali Bellocchio ha preso parte per diversi anni; il regista ha goduto della collaborazione di Fagioli almeno per quanto riguarda l’ideazione e la sceneggiatura di Diavolo in corpo, La visione del sabba e La condanna.

Bo F. e Cielo S. (a cura di), Conversazione con Marco Bellocchio in “Filmcritica”, n. 384, aprile-maggio 1988, p. 240. 48

49 Italia-Francia, 1988. Regia: Marco Bellocchio. Con: Béatrice Dalle, Daniel Ezralow, Omero Antonutti, Jacques Weber, Corinne Touzet. Montaggio: Mirco Garrone. Fotografia: Giuseppe Lanci. Musiche: Carlo Crivelli. 50

Bo e Cielo (a cura di), Conversazione con Marco Bellocchio, op. cit., p. 240.

51

Ibidem.

52

Ibidem.

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53

Béatrice Dalle, pseudonimo di Béatrice Cabarrou (Brest, Francia, 19 dicembre 1964).

54

Daniel Ezralow (Los Angeles, Stati Uniti, 22 novembre 1956).

Francia, 1986. Titolo originale: 37°2 le matin. Regia: Jean-Jacques Beineix. Con: Béatrice Dalle, Jean-Hugues Anglade, Consuelo de Havilland, Vincent Lindon. 55

Danesi E., La visione del sabba in Ceretto L. e Zappoli G. (a cura di), Le forme della ribellione. Il cinema di Marco Bellocchio, Torino, Lindau, 2004, p. 122. 56

Pellanda M., Marco Bellocchio tra cinema e teatro. L’arte della messa in scena, Venezia, Marsilio, 2012, p. 45. 57

Scandola A., “Stare sul corpo”: la visione dell’attore in Aprà A. (a cura di), Marco Bellocchio. Il cinema e i film, Venezia, Marsilio, 2012, p. 103. 58

59

Vittorio Mezzogiorno (Cercola, 16 dicembre 1941 - Milano, 7 gennaio 1994).

60

Scandola, “Stare sul corpo”, op. cit., p. 103.

61

Ibidem.

62

Palieri M.S., Rose rosse per uno stupro in “L’Unità”, 10 febbraio 1991.

63 Giancristofaro R., La condanna in Ceretto L. e Zappoli G. (a cura di), Le forme della ribellione. Il cinema di Marco Bellocchio, Torino, Lindau, 2004, p. 128. 64

Ibidem.

65

Ibidem.

66

Ibidem.

67

Ibidem.

Italia, 1999. Regia: Marco Bellocchio. Con: Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi, Maya Sansa, Jacqueline Lustig, Pier Giorgio Bellocchio, Michele Placido. Montaggio: Francesca Calvelli. Fotografia: Giuseppe Lanci. Musiche: Carlo Crivelli. 68

69

Maya Sansa (Roma, 25 novembre 1975).

70 Malanga P. (a cura di), Incontro con Marco Bellocchio e Daniela Ceselli in Bellocchio M., La balia, Roma, Gremese editore, 1999, pagg. 5-20.

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71 Stati Uniti, 1957. Titolo originale: Paths of Glory. Regia: Stanley Kubrick. Con: Kirk Douglas, Ralph Meeker, Adolphe Menjou, George Macready, Joseph Turkel, Richard Anderson. 72

Fabrizio Bentivoglio (Milano, 4 gennaio 1957).

73

Valeria Bruni Tedeschi (Torino, 16 novembre 1964).

74

Malanga (a cura di), Incontro con Marco Bellocchio, op. cit., pagg. 5-20.

75

Ibidem.

76

Ibidem.

77

Ibidem.

78

Ibidem.

79

Ibidem.

80

Ibidem.

81

Ibidem.

82 Turco D. (a cura di), Piccoli movimenti, piccoli passi. Conversazione con Marco Bellocchio in “Filmcritica”, n. 501-502, gennaio-febbraio 2000. 83

Ibidem.

84

Malanga (a cura di), Incontro con Marco Bellocchio, op. cit., pagg. 5-20.

85

Ibidem.

86 Italia, 2002. Sottotitolo: Il sorriso di mia madre. Regia: Marco Bellocchio. Con: Sergio Castellitto, Jacqueline Lustig, Chiara Conti, Alberto Mondini, Gianni Schicchi Gabrieli, Maurizio Donadoni, Gigio Alberti, Piera Degli Esposti, Toni Bertorelli. Montaggio: Francesca Calvelli. Fotografia: Pasquale Mari. Musiche: Riccardo Giagni. 87

Chiara Conti (Firenze, 18 luglio 1977).

88 Cattaneo F. e Contento V. (a cura di), L’immagine dominante. Conversazione con Marco Bellocchio in “Cineforum”, n. 429, novembre 2003, pagg. 10-13.

48


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89

Ibidem.

90

Ibidem.

Bellocchio M., L’ora di religione. La sceneggiatura originale, Roma, Elleu, 2002. Nota in calce alla sceneggiatura originale, p. 109. 91

Italia, 2003. Regia: Marco Bellocchio. Con: Maya Sansa, Roberto Herlitzka, Luigi Lo Cascio, Paolo Briguglia, Pier Giorgio Bellocchio, Giovanni Calcagno, Giulio Bosetti. Montaggio: Francesca Calvelli. Fotografia: Pasquale Mari. Musiche: Riccardo Giagni 92

93

Braghetti A.L. e Tavella P., Il prigioniero, Milano, Feltrinelli, 2003.

Cattaneo F. e Contento V. (a cura di), L’immagine dominante. Conversazione con Marco Bellocchio in “Cineforum”, n. 429, novembre 2003, pagg. 10-13. 94

95 Unione Sovietica, 1934. Titolo originale: Tri pesni o Lenine (Три песни о Ленине). Regia e Montaggio: Dziga Vertov. Documentario.

Italia, 1946. Regia: Roberto Rossellini. Con: Gar Moore, Maria Michi, Giulietta Masina, Carmela Sazio, Alfonsino Pasca, Dots M. Johnson. Montaggio: Eraldo Da Roma. Fotografia: Otello Martelli. Musiche: Renzo Rossellini. 96

Maisetti Mazzei F., Un mondo tra sogno e realtà in Ceretto L. e Zappoli G. (a cura di), Le forme della ribellione. Il cinema di Marco Bellocchio, Torino, Lindau, 2004, p. 17. 97

Italia-Francia, 1976. Regia: Marco Bellocchio. Con: Franco Nero, Miou-Miou, Michele Placido, Nino Bergamini, Patrick Dewaere, Alessandro Haber. Montaggio: Sergio Montanari. Fotografia: Franco Di Giacomo. 98

Emily Elizabeth Dickinson (Amherst, Stati Uniti, 10 dicembre 1830 - Amherst, 15 maggio 1886). 99

100

Dickinson E.E., Good Morning-Midnight, 1862.

Italia-Francia, 2009. Regia: Marco Bellocchio. Con: Giovanna Mezzogiorno, Filippo Timi, Fausto Russo Alesi, Michela Cescon, Pier Giorgio Bellocchio, Corrado Invernizzi, Paolo Pierobon, Fabrizio Costella. Montaggio: Francesca Calvelli. Fotografia: Daniele Ciprì. Musiche: Carlo Crivelli. 101

102

Giovanna Mezzogiorno (Roma, 9 dicembre 1974).

103

Filippo Timi (Perugia, 27 febbraio 1974).

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104 Italia, 1916. Regia: Giulio Antamoro. Con: Alberto Pasquali, Leda Gys, Amleto Novelli, Amalia Cattaneo, Renato Visca, Augusto Mastripietri, Augusto Poggioli, Lina De Chiesa.

Giulio Cesare Antamoro, conosciuto anche come Gant (Roma, 1 luglio 1877 - Roma, 8 dicembre 1945). 105

Francia, 1928. Titolo originale: La Passion de Jeanne d’Arc. Regia: Carl Theodor Dreyer. Con: Renée Falconetti, Eugène Silvain, André Berley, Maurice Schutz, Antonin Artaud, Michel Simon. 106

Turco D. e Roberti B. (a cura di), I percorsi dell’inconscio. Conversazione con Marco Bellocchio in “Filmcritica”, n. 596-597, giugno-luglio 2009. 107

Italia, 2012. Regia: Marco Bellocchio. Con: Toni Servillo, Isabelle Huppert, Maya Sansa, Alba Rohrwacher, Pier Giorgio Bellocchio, Roberto Herlitzka, Michele Riondino, Fabrizio Falco. Montaggio: Francesca Calvelli. Fotografia: Daniele Ciprì. Musiche: Carlo Crivelli. 108

109

Eluana Englaro (Lecco, 25 novembre 1970 - Udine, 9 febbraio 2009).

Italia-Francia-Svizzera, 2015. Regia: Marco Bellocchio. Con: Roberto Herlitzka, Pier Giorgio Bellocchio, Lidiya Liberman, Fausto Russo Alesi, Alba Rohrwacher, Federica Fracassi, Alberto Cracco, Toni Bertorelli, Filippo Timi, Bruno Cariello, Ivan Franek, Elena Bellocchio, Sebastiano Filocamo, Patrizia Bettini, Alberto Bellocchio. Montaggio: Francesca Calvelli. Fotografia: Daniele Ciprì. Musiche: Carlo Crivelli. 110

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