Aids. Le storie, i personaggi, i film

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FALSOPIANO

CINEMA


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EDIZIONI

FALSOPIANO

Matteo Pieracci

AIDS AIDS

le storie i personaggi

i film


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Ringraziamenti Ai miei genitori e ai miei nonni che hanno creduto in questa mia esperienza di vita lontano da casa, a Debora per non aver mai smesso di volermi bene nonostante la distanza, al Professor Maurizio Porro per aver creduto ed incoraggiato il mio lavoro e al Professor Bentoglio per la sua disponibilità nei confronti degli studenti (l’Università avrà sempre bisogno di persone come loro). Agli amici di sempre Luca, Ale, Teo, Mattia, Tommy, Federico e Fabio perché la distanza non ha cambiato la nostra amicizia, ad Antonietta e a mio nonno Eugenio gli “angeli” che mi hanno fatto volare, ad Erminia, Ettore e Dario per avermi “adottato” con gioia nella loro casa. Ad Andrea, Filo, Darione e Francy, con voi ho scoperto di avere amici eccezionali anche nella grande Milano. Ad Anna per avermi fatto capire che non dovevo smettere di ascoltare i miei sogni. Ai sogni di un bambino, che invece di voler fare l’astronauta da grande, sognava di fare il giornalista...

© Edizioni Falsopiano - 2012 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri e Roberto Dagostini Stampa: Atena - Vicenza Prima edizione - Novembre 2012


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INDICE

Introduzione

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Capitolo primo Come cambiano i melodrammi negli anni: passa il tempo ma al cinema si va anche per piangere

p. 11

Capitolo secondo Storia dell’Aids nella vita quotidiana e nello spettacolo

p. 21

Capitolo terzo L’Aids nel cinema: tutti i lavori dagli ’80 ad oggi

p. 41

Capitolo quarto Teatro e Aids: la scena teatrale che racconta la malattia

p. 107

Capitolo quinto Documentari e pubblicità: le forme dirette che raccontano l’Aids

p. 117

Capitolo sesto Addio ai grandi: i personaggi dello spettacolo e delle arti uccisi dall’Aids

p. 137

Capitolo settimo Pensieri e parole dallo spettacolo: le interviste che raccontano la malattia

p. 169

Bibliografia

p. 179


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Philadelphia

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INTRODUZIONE Ho scelto di parlare di Aids, rappresentato in film, spettacoli teatrali, documentari e pubblicità televisive spinto dal desiderio di rendere merito a coloro che hanno raccontato, attraverso il cinema ed il teatro, il calvario di una malattia che nel corso degli anni si è rivelata una delle epidemie più sconvolgenti e gravi che l’umanità abbia mai conosciuto. L’Aids, non ha risparmiato nessuno: personaggi famosi e non, eterosessuali e omosessuali, donne e uomini. Parlare di cinema e Aids non è facile, sia perché è complesso trattare in maniera lucida e senza retorica un tema come questo, sia perché reperire film e libri è un’impresa ardua anche per il più appassionato cinefilo. La difficoltà nel reperire materiale cinematografico consiste nel fatto che la maggioranza dei lavori cinematografici riguardanti il tema sono considerati B movies (il noto termine dispregiativo in uso fra gli appassionati) oppure fanno parte di quel cinema indipendente che risulta quasi introvabile nei circuiti ufficiali di vendita e di noleggio. Qui è giusto fermarsi per fare delle critiche e rendere dei meriti: nonostante sia uno dei temi più importanti nella società attuale, perché “la malattia” è stata snobbata e ignorata da molti registi e addetti ai lavori? Potremmo ammettere che il cinema va oggi in una direzione ben precisa, ovvero verso il “trash”. Il pubblico moderno lo richiede, snobba il mèlo tradizionale (e non solo) poiché ritenuto opprimente, noioso e da “vecchie signore”. Dobbiamo sottolineare i meriti di coloro che nel mèlo ci credono, che nel proporre temi scomodi nei loro lavori rifanno vivere un genere con stile, con passione e con bravura. Probabilmente, un film che oggi ha ben poco di realistico, riuscirà ad incassare molto più di un film apparentemente “strappalacrime”, una pellicola più impegnata in cui il giovane ragazzo malato (e gay) muore di Aids; ma per un amante di cinema resterà una sostanziale differenza fra il trash in auge sul mercato e un prodotto ben fatto, purtroppo poco conosciuto al grande pubblico. La differenza è proprio lì, un appassionato disdegna il prodotto commerciale e ama anche ciò che è ignorato dalla grande distribuzione. Un film bello resta sempre un film bello, anche se è scomodo. Pensando allo spettatore che frequenta poco i cinema, non posso non ricordare quell’aned-

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doto di Truffaut; egli raccontava che sedendo accanto ad uno spettatore (non assiduo frequentatore di sale cinematografiche), sentì affermare dall’uomo, riguardo a Intrigo Internazionale di Hitchcock “non è male questo film!” 1. Così, posso immaginare di poter sentire la stessa frase uscire dalla bocca di un non amante dei mèlo (con questo termine intendo, in senso più ampio, un genere emotivamente intenso) vedendo Philadelphia. Dobbiamo comunque annotare che in pochi anni, l’Aids ha parzialmente ridisegnato la mappa culturale della nostra società. Molti autori, alcuni coinvolti direttamente nell’affrontare ogni giorno la malattia, hanno scritto canzoni, film, libri, testi per il teatro e poesie, per non dimenticarci dei sistemi sanitari, delle community di giovani, dei movimenti, dei brand della moda e delle arti figurative che hanno reso più visibile una malattia che per troppo tempo è stata volutamente oscurata e ignorata nei dibattiti pubblici. Se in Italia l’informazione mediatica, utile per spiegare cosa fosse questa malattia si è mossa in maniera lenta ed appesantita da dottrine moraliste, all’estero, già nel 1987, sul New York Times veniva dibattuto il problema. Il quotidiano statunitense scriveva che l’epidemia di Aids avrebbe causato morti e malattie nel mondo dell’arte e dello spettacolo, e che ciò avrebbe provocato un “grosso effetto sulla sostanza e sullo spirito della creatività” 2. In seguito, una lista pubblicata dal Times destò scalpore, in quanto elencava una serie di personaggi di fama internazionale colpiti dal virus: attori di cinema e di teatro, musicisti, cantanti, giornalisti, ballerini, scrittori; la malattia colpiva senza distinzione anche le sfere pubbliche della società 3. Al momento, non esiste nemmeno un libro che tratti direttamente il delicato rapporto fra l’Aids e il cinema. Questo libro intende colmare questa lacuna e vuole approfondire l’argomento quanto merita. I materiali di cui mi sono servito per arricchire questo volume, oltre naturalmente alla visione di film e spettacoli teatrali, sono i vari dizionari del cinema, utili per recensioni e date di uscita nelle sale ed i vari pressbook. La scarsità di fonti come i libri, si affianca ai pochi film che lo riguardano, spesso produzioni di scarso successo. Se togliamo infatti Jonathan Demme, Tony Kushner ed i loro cast per i film Philadelphia e Angels in America sono ben pochi i personaggi famosi nel mondo del cinema ad aver dato un contributo importante a tali pellicole. Va comunque dato merito a coloro che,

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portando nelle sale di tutto il mondo le loro riflessioni, hanno fatto sì che il cinema e il teatro diventassero veramente casse di risonanza e “specchi della vita reale”. Così come riesce a dare spazio alle solite commedie più leggere, il mondo dello spettacolo può affrontare anche tematiche di alto valore sociale come l’Aids. Questo libro si articola in capitoli, partendo dall’inquadramento dei film che trattano il tema nel genere denominato, appunto, per semplicità, mélo, fino ad arrivare ad una conclusione in cui si potrà affermare che il ruolo della malattia nel cinema assume profondi risvolti pedagogici e sociali. Nel primo capitolo cercherò di spiegare come sono cambiati i mélo nel corso degli anni, quali temi colpivano gli animi più sensibili degli spettatori nel passato e gli argomenti o tematiche che fanno invece “soffrire” lo spettatore di oggi. Nel secondo capitolo ripercorrerò brevemente la storia dell’Aids, per mettere meglio in luce le varie problematiche, mentre nel terzo passerò a descrivere, con trame e approfondimenti, tutti i film che trattano di Aids, dal più premiato ed insignito fino al meno visto e conosciuto. Il quarto capitolo sarà dedicato alle rappresentazioni teatrali che hanno come protagonista la malattia, mentre i successivi capitoli saranno dedicati alle pubblicità e ai documentari, quali forme dirette nella sua rappresentazione, talvolta a tinte molto forti (chi ha dimenticato la pubblicità Benetton di alcuni anni fa, immagini che destarono scandalo...). Gli ultimi due capitoli daranno spazio ai personaggi che il mondo dello spettacolo ha perso a causa dell’Aids e, in chiusura, un’intervista a un addetto ai lavori del mondo dello spettacolo ci spiegherà meglio quali rapporti di vicinanza ci possano essere fra a Aids e settima arte. Note Alberto Barbera, Umberto Mosca, Francois Truffaut (1995), Editrice Il Castoro, p. 7.

1

Massimo Consoli, Killer Aids, storia dell’Aids attraverso le sue vittime (1993), Kaos Edizioni, p. 137. 2

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Ibidem.

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Il lungo viaggio verso la notte

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COME CAMBIANO I MELODRAMMI NEGLI ANNI: PASSA IL TEMPO MA AL CINEMA SI VA ANCHE PER PIANGERE Un tempo erano le cosiddette “regine” del mèlo come Joan Crawford, Bette Davis o Ingrid Bergman a suscitare nello spettatore sentimenti di sofferenza emotiva o di immedesimazione nella sofferenza delle protagoniste dei film, spesso vittime di storie d’amore difficili o contrastate. Oggi, per intenderci, sono ben altri i motivi per cui andiamo al cinema o comunque sono altre le tematiche che pongono lo spettatore in uno stato di sofferenza emotiva di fronte ad un film o ad uno spettacolo teatrale. Resta vivo il mèlo, ma cambiano i generi di “sofferenza” voluta dal pubblico. Vorrei spiegare innanzitutto, la predisposizione dello spettatore al coinvolgimento emotivo, alle volte anche empatico con gli interpreti sulla scena; Du Bos, quando ancora il cinema non esisteva, affermava che lo spettatore tende ad immedesimarsi nella sofferenza data da un certo spettacolo tragico facendosi trasportare al massimo dalla carica emozionale4. Il mèlo è da sempre considerato quel genere di cinema che muove, che fa vibrare i sentimenti, gli affetti, i ricordi, gli orrori, le passioni e i rimorsi. Col melodramma, spesso, si rappresenta l’interiorità di una persona che in realtà nella vita quotidiana viene nascosta per vergogna o sfiducia nei rapporti o per riservatezza. Nel mèlo quindi, c’è un po’ tutto e attraverso la mediazione del cinema o di altri strumenti riesce ad esprimere al meglio sentimenti e passioni. Se vogliamo riassumere, in senso psicologico, il cinema mèlo, possiamo affermare che è principalmente una sorta di strumento consolatorio, in quanto nei e per i melodrammi si piange molto, ma comunque si piange sempre per una ragione. Come afferma Maurizio Porro nella presentazione di un suo libro “piangere per un mèlo, non è come sprecare l’adrenalina per un film di fantascienza”5. Con tutto il rispetto per il genere-fantascienza, i mèlo hanno ben altro compito, o meglio possiamo affermare che i mèlo a differenza di altri generi, hanno un ruolo molto importante. Nei mèlo è spesso rappresentata la pura realtà emotiva, quella realtà che si ritrova nelle pellicole, così come nella vita quotidiana delle persone; e così vediamo raccontate storie ordinarie e non,

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di amori impossibili, malattie incurabili e di sessualità confuse. Il mèlo nel cinema, in auge negli anni ’40-’50, agli esordi veniva considerato un “cinema per signore” (uno stereotipo che non gli rende il giusto tributo), soprattutto perché ci restituiva l’immagine dell’uomo sempre occupato al lavoro (o al fronte) e della donna occupata a dare un senso al suo tempo libero, anche al cinema, senza la compagnia del proprio uomo. Inoltre, il mèlo è stato anche un po’ “maltrattato” o poco considerato dagli addetti ai lavori proprio da coloro che non hanno mai creduto, o che non credono minimamente, nel potente veicolo emozionale e passionale insito nei mèlo. Le prime storie rappresentavano le vite travagliate di mamme e figlie, mogli e mariti, madri e primogeniti, camerieri e padroni, cognate e sorelle. Nell’ambientazione del set era quasi immancabile la doppia rampa di scale che collegava i piani della case, scale bianche su cui ansimavano dal dolore figlie osteggiate dalle madri nel vivere liberamente l’amore per il proprio giovanotto6. Erano storie di passioni e di vendette, di mariti perduti al fronte e di vedove solitarie in case sempre troppo grandi. Il mèlo era quel genere di film che la gente voleva, un po’ per trascorrere il tempo ma soprattutto per il fatto che esso si avvicinava più di altri generi ai momenti di vita realmente vissuta. Questo genere, fortunato, prima di arrivare a parlare di malattie, vissute o viste dai protagonisti e quindi ben prima di parlare anche di Aids (malattia che in Europa è arrivata in tempi recenti), ha passato la fase degli anni ’60-’70 in cui temi, quali l’emigrazione (specie in Italia con Rocco e i suoi fratelli) e la libertà sessuale dei giovani balzavano in avanti, come tematiche da affrontare con convinzione. C’è da segnalare la lentezza del cinema italiano nell’affrontare i temi sopracitati, rispetto al cinema francese o straniero in generale che con Truffaut e gli altri “maestri” riuscivano a trattare temi scottanti rischiando la censura, ma che poi uscivano comunque nelle sale a dispetto del nostro sistema italiano ben più attento al neorealismo e a non contraddire i poteri forti. Certo, va reso merito a uno dei pochi italiani che già nel 1960 affrontava temi scomodi ma al passo coi tempi e con la società: Luchino Visconti. Senza uscire fuori tema, dobbiamo ricordare però che se il mèlo in Italia ha scritto una grande pagina per quei tempi, è stato proprio grazie a Visconti che nel film Rocco e i suoi fratelli raccontava non solo l’emi-

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grazione da Sud a Nord ma anche la tragedia familiare, le passioni violente e la miseria. Abituato com’era, a essere o odiato o amato, da Ossessione (la prima nelle sale di Roma provocò, come è noto, lo sdegno di un irritato Vittorio Mussolini, secondo cui l’Italia rappresentata nel film non era quella reale7, ma il giudizio sarà poi esteso a tutta la stagione neorealista) fino a Rocco e i suoi fratelli, Visconti ha rappresentato come pochi altri l’Italia del mèlo. Ma torniamo al nesso cinema-malattia. Una delle prime volte in cui se ne parla, in un film, risale probabilmente a Tramonto (1939) di Edmund Goulding8. In Tramonto Bette Davis, ricca e capricciosa ragazza si ammala di cancro; sempre nello stesso anno in Via col vento di Victor Fleming, una delle protagoniste, ovvero Melania muore e ciò rappresenterà una svolta nel proseguimento del film. Ecco: così la malattia e l’infermità sono il più delle volte le vere protagoniste incontrastate e purtroppo come spesso accade nella vita incontrastabili, dei film mèlo. La lotta per la soppravivenza è una componente centrale nella trama dei mèlo, e unice dolore a dolore, quale poteva essere un amore mancato o un affetto perduto. Comprendo che un tema come questo non è facile né da analizzare e neppure da leggere. Ma mi appare come un pregiudizio non volerne studiare la portata nel cinema contemporaneo. Se pacchi di saggi hanno trattato di principi azzurri e di amori immortali, mi pare corretto parlare anche dell’altra faccia della medaglia, quella in cui è mostrata la nostra vulnerabilità fisica di esseri umani. Anche così si esercitano pericolose censure. Nel 1965, in Il lungo viaggio verso la notte, regia di Sydney Lumet e sceneggiatura di Eugene O’Neil, lo spettatore vedeva il giovane protagonista Edmund affetto da tisi e costretto a sopportare anche una serie di malesseri familiari: il padre che non riusciva ad accettare il declino della sua carriera di attore, la madre vittima della droga e il figlio maggiore dedito all’alcool9. Con il passare degli anni, la raffigurazione dell’infermità cambia, dalla tisi (superata come male quasi incurabile) si passa all’Aids, male incurabile e basta, senza quel quasi che ne riduce la portata assoluta. Il tema dell’alcolismo e della droga sono stati nel genere mélo gli antesignani (e vassalli) della malattia10. Nel 1993, e non è come molti pensano il primo film a trattare la tematica Aids, esce Philadelphia di Jonathan Demme. La sua importanza non è solo nel fatto, ovvio, che è stato il film sull’Aids più premiato. È nella volonta registica che

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affronta lucidamente sia la malattia come forma di sofferenza fisica e psicologica, sia la malattia come motivo di estromissione dalla società; una società che appare ben più “malata” del protagonista, in cui la fobia del contagio da Aids o nell’avere semplicemnete un omosessuale come collega di lavoro, pregiudica anche la vita del più bravo ed emergente avvocato di Philadelphia (ma purtroppo il bravo Andrew, è gay e malato!). Nella maggior parte dei film, in cui l’Aids svolge un ruolo da protagonista, la malattia rappresenta quasi sempre un imprevisto dei casi della vita. Ma a volte può anche essere letta come il “flagello” di un disegno divino, di un fato avverso al malato o di un risarcimento danni per scappatelle in una vita sessuale troppo movimentata11. Proprio così viene presentata la malattia in Angels in America di Tony Kushner; nel film un surreale e barocco angelo vendicatore, dall’alto delle sue oniriche apparizioni, inchioda alle sue responsabilità morali e sessuali il malcapitato giovane protagonista gay e malato di Aids. Tutto ciò sullo sfondo della moderna società americana basata sullo yuppismo, in cui il virus viene inserito in un contesto in cui ci si interroga sui dubbi delle proprie identità sessuali. Il cinema mélo ha l’arduo compito di raccontare e di parlare di Aids, che diventa non necessariamente l’unico protagonista del film (sennò si parlerebbe di documentario..), ma riesce a legarsi a temi scottanti quali la sessualità, la conclamazione della malattia e il successivo outing o meno del protagonista. Riprendendo il discorso iniziato nell’introduzione, dobbiamo annotare che il cinema, soprattutto quello distribuito per le sale cinematografiche e per i punti di vendita e noleggio, non si è occupato profondamente di Aids e di sieropositività e nel farlo spesso ha riduttivamente legato la malattia all’omosessualità, soprattutto, altra ovvietà, a quella maschile. Sono rari i film, in cui il protagonista è un malato di Aids eterosessuale o tossicodipendente, come se la malattia colpisse solo i gay, relegando così la sfera omosessuale ad una posizione di assurdo privilegio nel contrarre la malattia. In altri casi, la malattia è apparsa in modo fuggevole sulla scena, quasi come una sorta di triste e superficiale pubblicità progresso inserita per forza nel film, come avviene in Paura d’amare di Gerry Marshall o in Boyz’n the Hood di John Singleton, oppure citata in maniera talmente marginale da dare una rappresentazione poco chiara e delineata della condizione e

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dei comportamenti della persona sieropositiva, come avviene in Killing Zoe di Roger Avary12. Una lettura chiarificatoria del ruolo che intercorre fra Aids e media viene fatta, in maniera molto lucida in Aids e media (Rivoltella e Michelone, edito da Koinè). Nel libro l’insieme delle opere audiovisive riguardanti l’Aids vengono schematicamente divise in tre categorie: i lavori “spettacolari”, quelli “informativi-referenziali” e quelli “poetici”. Tale divisione risulta essere importante soprattutto per delineare una netta distinzione, nell’utilizzo delle opere sull’Aids a seconda della loro rilevanza culturale13. Inserire il tema Aids nella categoria mèlo aiuta a far riflettere su quanto e in che modo il cinema, sia esso quello delle sale o non, abbia voluto esaminare e rappresentare il fenomeno Aids che dagli anni Ottanta in poi ha cominciato a destare una preoccupazione sempre più diffusa per la nascita e la propagazione del virus. Una prima domanda che sorge spontanea riguarda il modo in cui la malattia è stata proposta. Mi spiego meglio: partendo dal fatto che tali lavori cinematografici suscitino per molti spettatori un interesse a priori (soprattutto per la forza del tema rappresentato) riguardo la condizione di sieropositività o di Aids conclamato, ci si chiede se esista una corrispondenza tra come la malattia debba essere affrontata e su come il cinema l’abbia affrontata. Alcune volte, risulta chiaro che il cinema, nel rappresentare l’Aids, si sia sottomesso alle esigenze di spettacolarizzazione e ciò ha favorito un certo sensazionalismo che già era in voga nei primi anni della comparsa del virus, soprattutto sui giornali e nei reportages televisivi, ma anche nella società stessa. Non dico con ciò, che tutti i lavori debbano avere necessariamente un taglio pedagogico-culturale, ma alcuni film si sono proposti come vere e proprie fonti di diseducazione, se non di incitamento ad atteggiamenti scorretti. Per diseducazione e atteggiamenti scorretti, intendo la mancanza di chiarezza espositiva della malattia sulla scena che alcune volte è coincisa con la più totale confusione disinformata. In nome del sensazionalismo si è visto accentuare un’emotività esagerata rispetto alla malattia e ciò ha tolto spazio alla riflessione responsabile sul tema che continua ad essere un problema di prim’ordine per ogni uomo responsabile. È interessante, a mio avviso, esaminare i dettagli delle varie rappresentazioni, in quanto prestando attenzione all’intenzione dell’analisi dei film, si può arrivare a

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capire gli errori, gli sbagli e le scorrettezze fatte in alcuni lavori. Se il ruolo del film mèlo sull’Aids ha come obiettivo quello di commuovere e di risvegliare i sentimenti, con un fine anche catartico, al tempo stesso la visione dei film sul tema può anche consentire un miglioramento sul piano informativo e culturale rispetto a questo problema. Il mèlo sull’Aids sia esso il pluripremiato Philadelphia o il (quasi) sconosciuto Once More (tanto per citarne solo due), ha il compito di creare o di accrescere una cultura sull’Aids per capire la sua percezione sia nell’ambito individuale che in quello collettivo e, non per ultimo, la consapevolezza che la sindrome non appartiene solo a contesti geografici sottosviluppati o con carenze di analisi culturale. Il mèlo che parla di Aids, arriva perfino ad essere più esaustivo di molti media, che nella società di oggi non parlano quasi più della malattia, mentre solo alcuni anni fa i quotidiani, la televisione e mezzi di comunicazione di massa, erano i più attenti nel cercare di dare costantemente informazioni alla popolazione, nel proporre messaggi di pubblicità progresso finalizzati a promuovere atteggiamenti più responsabili e messaggi pedagogici su come evitare la fobia e la paura ingiustificata dell’Aids. Alle volte i media, più del mèlo cinematografico sull’Aids, tendono a presentare la malattia con tutti i retaggi e gli appesantimenti di stampo moralistico. I media sono “prigionieri” di linguaggi che danno rilievo più ai giudizi che ai contenuti e questo influisce negativamente sui linguaggi usati per descrivere e per raccontare i modi della trasmissione o piuttosto le strategie per prevenirla. Anche per quanto riguarda il cinema, non c’è stato un costante interesse verso il problema e restano purtroppo sempre troppo pochi i film destinati alle sale, che trattano il problema. Nel 1989, la giornalista Eleanor Bader affermava che i primi film sull’argomento in Inghilterra avevano provocato la destabilizzazione, soprattutto dei genitori, che si verificava alla scoperta che i propri figli nella vita reale potessero ammalarsi come i protagonisti dei film. Tale smarrimento e destabilizzazione per i genitori, non avveniva solo come conseguenza della malattia ma perché questa, spesso, ne rivelava in controluce la loro omosessualità14. L’analisi lucida effettuata dalla Bader fa riflettere sulla situazione e sull’atmosfera che si era venuta a creare all’epoca; attorno al fenomeno Aids si respirava un clima di terrore e di panico, ma anche di vergogna che indusse i mala-

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ti e i loro familiari a nascondere la malattia per “non rovinare la reputazione”, per non essere esposti a critiche e per non essere visti come “appestati contagiosi”. Da questi casi di fobia verso i malati di Aids e le loro famiglie, nacquero le prime organizzazioni di volontariato e di sostegno come la PWAS (Peabody’s volunteer Work with People with Aids) o di associazioni di solidarietà come la MAPS (Mothers of Aids Patients). Tornando all’analisi della Bader sui primi film sull’Aids usciti nelle sale, la giornalista fa notare che le produzioni cinematografiche erano orientate a produrre film a metà fra il film vero e proprio e il documentario e più che indirizzati al circuito cinematografico15, essi erano creati per la diffusione televisiva (ricordando proprio i primissimi, cito Aids-Il pericolo strisciante di Peter Grandl e Una gelata precoce di John Erman, entrambi prodotti per la tv). La Bader stessa, come esempio rappresentativo dei primi film sulla malattia, cita un film, secondo lei criticabile sotto alcuni punti di vista. Il film in questione è The Aids Movie, che mostra, come annotato dalla Bader, il suo stampo di filmdocumentario, e nonostante sia uno dei primi lavori, la giornalista trova come difetto maggiore della pellicola il fatto che tenda a dare messaggi unidirezionali e informazioni di scarsa qualità16. In The Aids Movie, un insegnante discute di Aids con un gruppo di studenti di scuola superiore, ma la critica maggiore della Bader è rivolta al fatto che ai ragazzi non venga lasciato alcuno spazio per porre questioni o per interrogarsi sul significato reale della malattia. Un messaggio unidirezionale e informazioni di scarsa qualità. Fra le poche note positive, che la giornalista trova nel film, le tre interviste ai volontari dell’organizzazione PWAS. Le interviste finali sono efficaci alla comprensione del dramma Aids, in quanto i volontari intervistati, oltre a dare un contributo informativo di grande spessore, sono stati esse stesse vittime della malattia. Da ciò deduciamo che un film in cui si parla di Aids è realmente efficace ed educativo quando, oltre che presentarsi come un mèlo o piuttosto come un documentario, sa affrontare il problema con un’aderenza emotiva dei personaggi. Se i personaggi riescono a mostrare un’umanità che crea un legame con lo spettatore, allora l’aderenza emotiva dello spettatore stesso al film è molto più forte e intensa. Comunque sia, ritengo opportuno sottolineare che l’aderenza dello spettatore al film, non debba basarsi sulla semplice

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compassione, ma su un senso di condivisione di insegnamenti utili e se possibile, di riflessioni su questo delicato tema. Se il film riesce a suscitarvi solo compassione per le sorti del protagonista malato, probabilmente o non avete capito lo stile del mèlo (lacrime ma anche riflessione su temi importanti) o siete vittima di sentimenti moralisti che non portano nessun vantaggio alla comprensione reale del messaggio filmico. Va dato merito (lasciando un po’ da parte lo spirito da critici inflessibili), ai primi film, di aver aperto con coraggio una porta che il cinema ha oltrepassato per trattare, discutere e raccontare la malattia. Se apro la maggior parte dei dizionari del cinema, noto con rammarico che le prime opere filmiche sull’Aids sono trattate con indifferenza e alle volte con disgusto, bollate irrimediabilmente con una misera stella di giudizio. Nel peggiore dei casi, tali film sono descritti come “mèlo di bassa qualità” e neanche paragonabili ai capolavori (!) fantascientifici da milioni di dollari. Sicuramente ai vari alieni in 3D o ai vampiri new moon o new age è giusto e corretto affiancare i fazzoletti bagnati “da vecchie signore” dei mèlo, per cui non dimentichiamoci del ruolo importante che hanno avuto i primi lavori sull’Aids nel cinema. Note 4 Maddalena Mazzocut-Mis, Corpo e voce della passione. L’estetica attoriale di Jean-Baptiste Du Bos, Led, Milano 2010.

Maurizio Porro, video-intervista tratta da www.youtube.com, a cura di Milena Manicone. 5

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Maurizio Porro, Mélo, Dizionari del cinema Electa, Milano 2008, p. 7.

7 Lino Micciché, Luchino Visconti. Un profilo critico, Marsilio, Venezia 2002.

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Maurizio Porro, Mélo, p. 34.

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Ibidem, p. 35.

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Ibidem, p. 34.

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Ibidem, p. 34.

Alberto Agosti, Cinema ed educazione. Percorsi per la formazione degli adulti, Cedam, 2001, p. 103. 12

Pier Cesare Rivoltella, Aids e media. Malattia e sofferenza nelle comunicazioni di massa, Koinè, Roma 1995 (in collaborazione con G. Michelone), p. 24. 13

Eleanor Bader, Coping and caring. Films on the Aids Crisis, in “Cineaste”, 1989. 14

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Ibidem.

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Ibidem.

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Rock Hudson

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STORIA DELL’AIDS NELLA VITA QUOTIDIANA E NELLO SPETTACOLO Il 3 luglio del 1981, un articolo pubblicato sul New York Times portò all’ attenzione del mondo intero la notizia di un raro e misterioso tumore, causa di numerosi decessi fra gli omosessuali di sesso maschile. Questa relazione fra malattia e comportamenti sessuali lasciò l’America reaganiana, e in breve tempo il mondo intero, a confrontarsi con paura, angoscia, discriminazione ed emarginazione17. Nel 1985, la morte per Aids dell’attore Rock Hudson diede finalmente un volto al virus e finì per sconvolgere lo stesso mondo del cinema. La sua storia può essere così esaminata attraverso il prisma dei media e della cultura e, forse, lo strumento migliore per comprendere come il virus ha agito sulla psicologia collettiva, è osservare il modo in cui le paure, le speranze, le sofferenze e i pregiudizi si sono riflessi nelle storie rappresentate dal cinema. Dal 1981 ad oggi si sono moltiplicati i titoli di film incentrati esplicitamente sul tema dell’Aids e della sieropositività. Interessante, quindi riprendiamola, è la suddivisione operata da Pier Cesare Rivoltella: tre sono le principali tipologie che caratterizzano i film che hanno per tema l’Aids, in relazione ai tre modelli di rappresentazione: 1) Film spettacolari che, abbandonate le intenzioni didascaliche tipiche dell’informazione sull’Aids negli altri media, puntano sull’aspetto spettacolare dell’argomento, che tanto ha colpito l’opinione pubblica, e sull’allarme che esso suscita; lo spettatore viene coinvolto esasperando la drammaticità delle vicende, con argomenti particolarmente patetici, o con la ricercatezza formale. 2) Film informativo-referenziali, che vogliono fornire notizie aggiornate sul problema e strumenti per l’interpretazione del fenomeno, mantenendosi a un livello di oggettività; per far questo essi possono usare la tecnica del diario o della testimonianza, narrare storie esemplari o tematizzare ancora più direttamente l’Aids assumendo un atteggiamento documentaristicodivulgativo: la maggior parte dei film degli anni ’80 non assume nei confronti di questa malattia una funzione primariamente illustrativa, descrittiva del fenomeno; sembra infatti che il

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cinema abbia inizialmente delegato ad altri mezzi e ambiti comunicativi questo compito: televisione, stampa, comunicazione pubblicitaria. 3) Film poetici, in cui non si vuole propriamente descrivere la realtà dell’Aids, ma rielaborarla e usarla come occasione per sviluppare, attraverso un linguaggio metaforico, alcuni temi cari al regista e per trovare soluzioni espressive originali18. Come tutte gli aspetti della vita umana, anche l’infezione da Hiv e l’Aids ha attratto l’attenzione dei cineasti mondiali. Non è stato facile però, per i primi registi che si occuparono del tema, “rompere” quel muro di paure e di fobie che impedivano di parlare e descrivere liberamente la malattia. Quando il virus fece la sua irruente comparsa sulla scena internazionale e ancora non era chiaro a molti la modalità di trasmissione e cosa fosse realmente la malattia, l’atteggiamento delle persone comuni, ma anche dei media, fu di “isolare” il virus, dando spiegazioni spesso confuse o relegando l’Aids alla comunità omosessuale e dei tossicodipendenti. Le immagini che le televisioni del tempo mostravano, sfioravano il limite etico accettabile; venivano mostrate dai media, anche con un certo compiacimento, camere mortuarie, bare e corpi di malati morti di Aids alla stregua dei lazzaretti degli antichi malati di peste. L’opinione pubblica temeva che la nuova epidemia chiamata Aids, fosse proprio la nuova peste, che per oscuro volere divino (sic!) fosse stata creata per punire tutti coloro ritenuti colpevoli di comportamenti e di abitudini sessuali riprovevoli e irregolari. Ma com’è nata l’Aids allora? Voglio esimermi dal dare una spiegazione scientifica, in quanto non ne sono in grado e non è questo l’obbiettivo di questo libro. Voglio però fornire al lettore un po’ di informazioni storiche sulla malattia, utili per capire meglio il tema trattato dai film presi in esame nel prossimo capitolo. La prima “apparizione” dell’Aids, per alcuni studiosi, risale al lontano 1959, anno in cui gli scienziati non considerarono con la dovuta attenzione quello che si crede sia stato il primo caso conosciuto di Aids. La moltitudine diversa dei virus dell’Aids, erano quindi presenti nell’organismo di uomini vissuti in Africa proprio intorno alla fine degli anni ’50. Nel 1978 emersero i primi segni tangibili di ciò che sarà poi chiamato Aids, in particolare tra la popolazione gay degli Stati Uniti, della Svezia e tra la popolazione eterosessuale della

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Tanzania e di Haiti. Fino al 1980, si contano 31 morti accertate, dovute alle complicazioni della malattia (inclusi tutti i casi precedenti)19. Inizia così quella che verrà chiamata la “fobia da Aids”, e che sarà citata in alcuni dei primi film quali, In una notte di chiaro di luna e Jeffrey; nel primo, il protagonista che nella storia svolge il lavoro di giornalista si finge malato di Aids per osservare le reazioni della gente dinanzi al suo ingannevole outing, mentre in Jeffrey, il ragazzo gay impaurito dalla comparsa della malattia, decide di astenersi dal sesso e dai contatti affettivi, salvo poi innamorarsi perdutamente di un ragazzo malato di Hiv. Agli albori dell’epidemia di Aids, il problema si fece sempre più grave e complicato con il manifestarsi dei primi casi di insofferenza, paura e discriminazione nei riguardi delle vittime reali o potenziali della nuova epidemia che comunque non era ancora molto conosciuta e spiegata. I gay, gli haitiani, i tossicodipendenti e gli emofiliaci erano “colpiti” da veri e propri casi di discriminazione. Nel caos più totale, se è vero che Reagan e i suoi addetti stampa “dimenticavano” di menzionare la parola in pubblico ed evitavano di dare delucidazioni in merito. A livello sociale la psicosi da Aids provocava estremizzazioni, costituite da gente che rifiutava le stoviglie nei ristoranti, infermieri che si rifiutavano di lavorare a contatto coi malati di Hiv e licenziamenti ingiustificati alla prima avvisaglia della possibilità che il lavoratore fosse affetto dalla sindrome. Nel giro di soli quattro anni, dal 1980 al 1984, i segnali sono inquietanti: l’epidemia è in crescita (si contano 4251 morti accertate). La “grande paura” intanto si fa sempre più forte. I gay e i tossicodipendenti (veri o presunti) vengono cacciati da alcuni esercizi pubblici, le salme dei morti per il virus sono anche rifiutate dalle agenzie funebri20. Ma al tempo stesso, ci sono anche alcuni media che cavalcano l’onda emotiva provocata dalla malattia, facendo quasi intuire che l’Aids per le vendite dei loro giornali o per l’aumento dell’audience è quasi una macabra benedizione: “Se l’Aids non fosse esistita, la stampa scandalistica l’avrebbe dovuta inventare... ci sono tutti gli ingredienti giusti: sesso, droga e panico”. Nel 1985, nell’anno in cui il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan menziona la parola Aids in pubblico per la prima volta, a New York esce la prima commedia ispirata all’Aids di Larry Kramer. Sempre nello stesso anno fra le più di cinquemila morti accer-

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tate, dovute all’Aids negli Stati Uniti, c’è da registrare anche la scomparsa di Rock Hudson, star del cinema. La morte di Hudson susciterà sentimenti misti e contrastanti all’interno dell’opinione pubblica, fra gli addetti ai lavori nel cinema e fra le innumerevoli fans di sesso femminile. Hudson, consapevole della propria malattia, fu accusato di aver tenuto nascosto il suo stato di salute e continuando nel suo lavoro di attore: l’opinione pubblica del tempo lo definì un “egoista irresponsabile” (Rock nonostante il virus aveva recitato in alcuni film in cui baciava le protagoniste). Il mancato outing di Hudson fu giudicato in modo negativo un po’ da tutti, anche se a distanza di anni e con un po’ più di chiarezza su cosa sia la malattia, possiamo ben capire l’atteggiamento di silenzio di un grande attore che stava vedendo spengersi lentamente i riflettori delle scene e della vita. Con la morte di Rock Hudson, uno dei più grandi sex symbol di tutti i tempi, si chiude uno degli anni più terribili per la crescente propagazione del virus. Attorno al mito di Hudson, ruotava il marketing del “divismo attoriale”, che limitava la figura dell’uomo normale, per aumentare le caratteristiche del divo visto come un dio. Due anni più tardi, nel 1987, l’AZT diventa il primo medicinale anti Hiv, approvato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità21. La pillola di AZT (zidovudina Retrovir) diventerà protagonista, non certo di secondo piano, in molti film; in alcuni verrà presentata come unica salvezza possibile per prolungare la vita del malato, in altri casi, seguendo le teorie di Duesberg verrà quasi descritta come la “più grande soluzione per il problema di... come riempire le tasche alle case farmaceutiche”22. Senza entrare nel dibattito sulle ragioni delle cure giuste o non, mi soffermo sui film in cui la pillola si presenta sulla scena. Se in La strada di Fèlix, il protagonista usa disinvoltura e rettitudine nel prendere la sua “dose” necessaria di medicine, ne Le notti selvagge l’approccio di Jean alle possibili cure della malattia è volutamente di indifferenza per tutto l’arco del film. L’atteggiamento di Jean (interpretato da Cyril Collard) è di noncuranza, di sfida verso una vita che sta andando alla deriva, ma che continua a essere vissuta in maniera sfrenata, senza precauzioni e ignorando ogni cura possibile. C’è comunque da notare che così come sono diversi i due protagonisti nel loro approccio psicologico alle cure, anche il loro stile di vita è differente: Fèlix, ragazzo gay e

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felicemente innamorato, sembra voler esplorare con interesse e per più lungo tempo possibile le “strade” che la vita gli offre, mentre Jean in Le notti selvagge ignora progetti e sogni ma si nutre solo del suo narcisismo. Le cure e le medicine salgono alla ribalta anche in altri film quali: Philadelphia, Angels in America, Per amore di mio figlio, Party per Nick e molti altri. Nei primi tre che ho menzionato, vengono mostrate le morti dei protagonisti nei vari ospedali, attaccati a tubicini e flebo, irriconoscibili in volti pieni di sofferenza e mutati dalla malattia. Diversamente in Party per Nick, il protagonista sceglie una morte, a suo avviso più dignitosa rispetto a quella prevista per tutti i malati di Aids. Nick, l’architetto gay protagonista del film, decide di organizzare un party di addio, a cui partecipano tutti i suoi familiari e gli amici più cari e senza aspettare che la morte venga a prenderlo nel tempo, fra atroci sofferenze, decide di andarle incontro, facendosi iniettare a fine party una letale dose di veleno. Col passare degli anni Aids e cinema si legano sempre più a doppio filo. Ciò è dovuto alla crescente perdita di artisti che il mondo dello spettacolo subisce per colpa della malattia. Da marcare, però, è il divario fra la produzione cinematografica sull’Aids (e anche l’approccio alla malattia nella vita di tutti i giorni) che si nota fra gli Stati Uniti e l’Italia o l’Europa in generale. Anche se il paragone fra Stati Uniti e Italia è sempre azzardato, occorre osservare che mentre negli Stati Uniti (nonostante l’approccio non molto chiaro dei repubblicani nei confronti della malattia) le ricerche sull’Aids e le produzioni di film, spettacoli e pubblicità per sensibilizzare l’opinione pubblica erano in forte crescita, in Italia fino agli anni ’90 si è parlato ben poco di Aids e molte volte con toni solo apocalittici. Negli Stati Uniti si discuteva liberamente del problema Aids, venivano create community in cui si spiegava la malattia, nelle emittenti televisive venivano trasmesse le prime campagne pubblicitarie per sensibilizzare le persone all’uso dei contraccettivi e gli americani vedevano a teatro o nei cinema i primi spettacoli sul virus. In Italia, invece, in alcuni ambienti della società si parlava dell’Aids come un “castigo di Dio” o peggio ancora c’era chi paragonava l’Aids a “uno di quei castighi biblici”23. La malattia nella sua spietata crescita anno dopo anno, ha visto molti personaggi dello spettacolo iniziare a interessarsi all’argomento, mettendo spesso a disposizione tutta la

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creatività artistica e proponendo opere su tale tema. Possiamo certamente dire che l’Aids abbia disegnato una nuova “mappa culturale” sul genere. È quasi impossibile ricordare tutti i libri, le canzoni, i film, i testi per il teatro, le poesie nate per raccontare l’Aids, senza nulla togliere a ciò che tutti i giorni hanno fatto e stanno facendo i sistemi sanitari, le community e le fondazioni per la ricerca. Vorrei proprio in questo capitolo, fornire delle anticipazioni su ciò che poi approfondirò nei capitoli seguenti e quindi almeno per ora menzionare le opere iniziali, i primi passi che hanno dato il “benvenuto” alla malattia nel mondo dello spettacolo. Prima di essere rappresentata sul palcoscenico di un teatro o in una pellicola, il grande precursore che ha trattato la malattia anticipando tutti è stata la letteratura. Il primo scritto a parlare di Aids, fu infatti un’opera letteraria di Robert Grant, intitolata Another Runner in the Night (1981). È classificata come romanzo erotico, in cui l’Aids non è menzionata direttamente ma veniva citata con molteplici riferimenti, fra i quali, tra gli altri, “vi è in giro, un cancro sessualmente trasmissibile...” (ma il fatto che la malattia non fosse citata con il suo nome attuale è solo la dimostrazione che il termine Aids non era ancora in uso24). La prima volta quindi, in cui oltre ai riferimenti, la parola Aids viene utilizzata è nei racconti di Dorothy Briant A Day in San Francisco e in Godplayer di Robin Cook, entrambi risalenti al 1983. Da annotare che i libri che ho menzionato non rientrano nella letteratura gay, anche se deploravano gli “eccessi” e la vita di alcuni protagonisti omosessuali25. Negli Stati Uniti, escono contemporaneamente sia libri di stampo medico, sia testi, come saggi o romanzi sul tema Aids, mentre in Italia, agli esordi del virus, le uniche fonti reperibili sull’argomento erano gli opuscoli informativi o qualche raro testo di medicina. Dobbiamo aspettare il 1984 per avere il primo romanzo completamente incentrato sull’epidemia, dal titolo Facing it di Paul Reed, in cui una coppia gay si trova a fronteggiare la malattia. Ma è nel 1986 che, a mio avviso, esce uno dei testi più significativi scritto da Susan Sontag, L’Aids e le sue metafore. Il libro che ha una valenza centrale nella letteratura sull’Aids ed esce a distanza di dieci anni dal celebre saggio della Sontag Malattia come metafora, in cui l’autrice affrontava la malattia che l’aveva colpita, il cancro. In entrambi i lavori la Sontag riesce ad imprimere un’impostazione stili-

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stica, priva di facile retorica, esaminando con lucidità le malattie di cui è difficile parlare persino con cognizione medica. La scrittrice mette in evidenza come l’Aids venga socialmente ritenuta una “punizione” per i propri peccati, e un motivo di vergogna da tenere accuratamente nascosto. La Sontag, facendo un parallelismo con il cancro, il male che l’aveva colpita anni prima, evidenzia come l’atteggiamento sociale nei confronti del cancro sia mutato con l’avvento dell’Aids, ritenuta una malattia con contorni di “colpevolezza” anche perché collegata alla sessualità26. Dal libro sopracitato, Susan Sontag afferma: “Una diagnosi di cancro è spesso nascosta al paziente dalla famiglia, mentre una diagnosi di Aids è almeno altrettanto spesso tenuta nascosta alla famiglia dallo stesso paziente”27. In Italia sul finire degli anni ’80, esce un libro-reportage, di alto valore sociale, scritto dal grande ed indimenticato Enzo Biagi, Il sole malato. Per concludere con la letteratura che si è occupata di Aids, vorrei segnalare un bel libro di poesie e aneddoti di Thom Gunn The Man with Night Sweats (L’uomo con i sudori notturni28). Nel libro vi è anche una dedica speciale, in cui Gunn ricorda i suoi amici morti di Aids. L’opera è molto apprezzata in tutto il mondo, per la misura con cui affronta la condizione dei malati in stato di conclamazione, e soprattutto perché priva di banale sentimentalismo e del dramma a forti tinte. Più che nella letteratura, la malattia irrompe nel cinema e nel teatro, che risultano essere i migliori veicoli artistici in grado di rappresentare l’Aids. La prima apparizione dell’Hiv su un palcoscenico di un teatro avviene a San Francisco nel 1984 al Theater Rhinoceros, in cui il gruppo di attori Artisti coinvolti con la morte e la sopravvivenza presentano il primo spettacolo di prosa, caratterizzati dalla tematica Aids29. Sempre nello stesso anno, al teatro newyorchese Meridian Theater, Robert Chesley presenta Nightsweat (Sudore Notturno), che la critica definirà scioccante per i forti contenuti rappresentati (in seguito Chesley presenterà altri due spettacoli sull’Aids Stray Dog Story e The Helping Hand)30. Anche il regista teatrale Stephen Holt presenta un suo lavoro che mette in scena al Theatre for the New City of New York, dal titolo Fever of Unknown Origin (Febbre di origine sconosciuta). Per potersi documentare nel migliore dei modi, su cosa fosse il virus, Holt visse in prima persona un’esperienza significativa, frequentando un corso per assistenti a persone con

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l’Aids31. Sempre a metà degli anni ’80, cavalcando il fervore del “dover fare qualcosa”, molti spettacoli teatrali sulla malattia, iniziano ad ottenere l’appoggio di alcune aste di beneficenza in favore della ricerca, promosse da grandi disegnatori di moda. Da ricordare la “Fashion Affair”, una manifestazione di moda, in cui gli stilisti di tutto il mondo presentavano le loro nuove creazioni: purtroppo la raccolta fondi si rivelò assai modesta. Il primo personaggio dello spettacolo a presentare il suo lavoro seguito da un outing sul suo stato di salute è David Summers che nel 1985 presenta Atto unico al cabaret del Greenwich Village. Lo spettacolo è incentrato sulla malattia che lo sta uccidendo e sono di forti impatto alcuni passaggi in cui Summers, in prima persona, recita: “E mentre i giorni passano, io continuo a chiedermi quando finirà... perché non potrà andare bene troppo a lungo”32. Nel novembre dell’anno successivo, con la morte di Summers, il mondo dello spettacolo perde colui che aveva recitato in The Faggot ed uno dei primi fondatori della Pwac (People with Aids Coalition33). Intanto crescono sempre più le richieste dei teatri che desiderano ospitare commedie che presentino la malattia al pubblico, così anche il Public Theatre di New York, ospita il suo primo spettacolo, Coming of Age in Soho (Crescere a Soho) di Albert Innaurato, che racconta le paure derivate dall’Aids all’interno della comunità gay34. Dopo pochi mesi, esce la commedia che sarebbe divenuta un “classico” del genere As is (Così com’è) di William Hoffman che debutterà al Circle Repertory Company di New York. Successivamente As is, debutterà col titolo Tel Quel a Parigi e a Roma al Teatro Manzoni, diretto da Giorgio Albertazzi. As is si divide in tre parti e Hoffman cominciò il lavoro di scrittura del testo già nel 1982 (agli esordi del virus), quando si sapeva ben poco della malattia. La prima fase della commedia, si svolge nell’appartamento dei protagonisti Rick e Saul, la seconda in un locale gay mentre l’ultima nella stanza di un ospedale35. La trama molto curata, narra la vicenda di Rick, che sull’onda del suo successo nel mondo del lavoro, deve rassegnarsi a morire di un male per il quale non sente colpa (analogie con Andrew che in Philadelphia scopre di avere il virus proprio nel momento del suo successo professionale). Saul, il partner di Rick, sacrificherà tutto pur di restargli vicino negli ultimi mesi. Per creare questo spettacolo, Hoffman si era ispirato alla morte di

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un amico, deceduto tra atroci sofferenze. Il merito di Hoffman, sta nel fatto di non soffermarsi solo ed esclusivamente sulla malattia, ma anche sulle reazioni che essa scatenava, riuscendo a presentare momenti in cui il dramma lascia spazio ad una coraggiosa ironia. Sempre nella effervescente New York, il commediografo americano Larry Kramer presenta il suo spettacolo Normal Heart (Un cuore normale) che in seguito sarà rappresentato anche a Londra e i cui diritti cinematografici dell’opera saranno acquistati da Barbra Streisand36. Lo spettacolo di Kramer nasce anche come atto di accusa vero e proprio nei confronti di chi, secondo Kramer, ha dedicato poca attenzione alla malattia37. In Normal Heart, Kramer attacca il sindaco di New York di quegli anni, il New York Times (che definisce “più pettegolo che utile”), il National Institutes of Health e la stessa comunità gay di cui egli fa parte, colpevole di essere rimasta inizialmente troppo immobile di fronte all’epidemia. Fra i tanti spettacoli sull’Aids presentati negli Stati Uniti, molti hanno come sfondo la tematica gay, ma uno dei primi lavori sugli “eterosessuali malati” è Beirut38. Può sembrare atipico il fatto che la maggior parte dei lavori su questo drammatico tema siano stati pensati, scritti, diretti e interpretati da lavoratori delle arti dello spettacolo omosessuali. Sorge allora spontanea la domanda, ovvero se ciò sia dovuto al disinteresse totale degli eterosessuali per questo fenomeno. Sicuramente un autore che è riuscito meglio di altri a rendere un argomento così delicato è stato il già citato Robert Chesley con The Helping Hand (La mano amica39). Chesley impronta il suo spettacolo sull’ironico concetto del sesso sicuro, in un’epoca in cui fobie e paure avevano creato fra la gente un’insicurezza erotica sul come, quando e con chi fare l’amore. Fra le molteplici commedie e tragedie teatrali a mio avviso ben pensate come quelle già citate, resta la pochezza dei musical sul tema. Ciò sarà dovuto al fatto della difficoltà di “musicare” un tema abbastanza scottante, su cui è già difficile fare dell’ironia di qualità e sottile come era riuscito nell’intento Chesley nella commedia The Helping Hand 40. Uno dei pochi musical ben fatti che intendo nominare è Dirty Dreams of a Clean-Cut Kid di Henry Mach, diretto dalla coppia Karr-Sawyer, dove viene presentato un “ragazzo perbene”, la cui mente è piena di sogni erotici, ma che restano tuttavia anche sentimenti di rabbia e di insicurezza per non poter vive-

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Le notti selvagge

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CINEMA

Serena Agusto e Alberto Morsiani (a cura di) Avventure di confine. Il cinema di Mario Martone Claver Salizzato I Gattopardi e le Iene. Splendori (pochi) e miserie (tante) del cinema italiano oggi Mario Gerosa I telefilm d’autore

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