Che tutto abbraccia Franco Cordelli

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Franco Cordelli

... Che tutto abbraccia

Franco Cordelli è critico e scrittore, collabora con il «Corriere della Sera». Vive a Roma. È autore di romanzi, tra i quali ricordiamo Procida, Pinkerton, Le guerre lontane, Un inchino a terra, Il Duca di Mantova e numerosi saggi. Per Falsopiano ha curato (con Emidio Greco) Il Mondo di Francesco Savio (2002), Pensa alla tua libertà. Il cinema di Emidio Greco (con A. Cortellessa, 2002) e pubblicato il volume Vacanze romane (2008).

i giorni e i film

“L’esigenza di una scrittura solitaria, come direbbe Bataille, silenziosa, sacra: quella scrittura che parlando rende omaggio al silenzio, che trasforma la pornografia in erotismo. È un’altra avanguardia, una scrittura che chiameremmo sperimentale, che ogni scrittore, ogni «pornografo», inventerà a propria immagine e somiglianza (...). È quell’avanguardia che tocca artisti assai diversi tra loro, da Sade a Lawrence, da Miller a Gombrowicz, da Oscar Wilde a Robbe-Grillet. (...) L’erotismo non è altro che una pornografia consapevole di se stessa, che non si accontenta di sé, che usa i propri stessi strumenti contro il proprio stesso statuto, il suo fatale produrre senso, ideologia. L’erotismo introduce una specie di buco nella pornografia, una zona di silenzio, un’insoddisfazione. Non si tratta, naturalmente, di un piacere che si spiritualizza, che si affina: esso è un piacere della lingua come recinto materiale dell’essere: un linguaggio che procede contro se stesso: critica di ogni amputazione e di ogni dualismo, ma anche di ogni paradiso dell’immaginario o di ogni schizofrenia offerta come salvezza paradossale. Come in Couch di Andy Warhol, dove il membro maschile era sempre al centro della scena, ma dove la saturazione aveva già prodotto i suoi effetti deleteri e la tolleranza era giunta all’ultimo stadio della repressione: quel membro, infatti, l’ironia dell’autore lo aveva reso impossibilitato a elevarsi: quasi un sarcastico addio alle armi; un invito, finalmente, a desistere”. (Franco Cordelli, Le armi del pornografo)

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Con una nota editoriale di Fabio Francione

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Franco Cordelli

Che tutto abbraccia

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i giorni e i film

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una collana diretta da Fabio Francione


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i giorni e i film


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INDICE

Addio all’infanzia

p. 9

Il Vangelo secondo Mabuse

p. 25

Marlene e il suo regista

p. 33

L’effimero Napoléon

p. 42

La sua musica leggera

p. 47

Il freddo western

p. 51

Il cinema come metodo

p. 68

Le armi del pornografo

p. 72

Più vero del vero, cioè falso

p. 78

Le camere di Snow

p. 83

Un eden e niente più

p. 91

RG il voyer

p. 95

Lo schermo bianco

p. 99

Quella sera d’Ognissanti grondante di pioggia

p. 111

La testa tedesca

p. 117


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La donna mancina

p. 124

Straub contro un lampione

p. 129

La Germania che verrà

p. 133

Kovacs e i suoi grigi

p. 141

L’ultimo paradiso

p. 147

La Grecia del ’36

p. 152

Il cinema, la vita

p. 161

L’antico e dolce disamore

p. 166

Che tutto abbracccia

p. 170

Nota editoriale di Fabio Francione

p. 182


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Addio all’infanzia Non potevo più vedere neanche i film comici muti, pensai. La loro lode della goffaggine non riusciva più a lusingarmi. I loro eroi, che non potevano percorrere una strada senza che il vento soffiasse il loro cappello davanti a uno schiacciasassi, e che non si chinavano verso una donna senza rovesciarle del caffè sulla gonna, sempre più mi parevano modelli di una vita non umana, rimasta volutamente infantile: figure affannate, recalcitranti in sé stesse, deformate e deformanti il loro ambiente, figure che volevano soltanto sogguardare ogni cosa, oggetti e persone, dal basso verso l’alto. Il beffardo masochismo di Chaplin; d’altra parte, il suo modo di coccolarsi, di viziarsi; l’abitudine di Harry Langdon di accartocciarsi e abbracciarsi in continuazione. Soltanto Buster Keaton cercava cercava assiduamente una via d’uscita con la sua faccia vigile e accanita, pur senza alcuna speranza di capire quello che gli succedeva. P. Handke

1. In Spite Marriage, del 1929, autori Buster Keaton e Edward Sedgwick, come già in The Cameraman, l’astratto e quindi moderno Buster è perdutamente innamorato di una grande attrice del palcoscenico, Trilby Drew, e si finge milionario per poterla avvicinare. Tutte le sere è lì, a teatro, in prima fila: divora con gli occhi e con la fantasia l’immagine pubblica – quell’eccelsa e insieme convenzionale figura offerta da Trilby – dell’attrice che si esibisce ogni sera in un ruolo che non le appartiene e che è stato inventato, si direbbe, apposta per quel pazzo ammiratore. Una sera a Buster si presenta un’opportunità insperabile: quella di poter sosti9


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tuire una comparsa, proprio quel bieco personaggio che ha la fortuna di baciare Trilby sulla scena. È la sua disgrazia e la sua inestimabile grazia, il suo martirio e la sua apoteosi. Buster, divorato da se stesso, relegato nel proprio inguaribile e quasi claustrale narcisismo (rovesciato più che in amore, non a caso in pura idolatria, in feticismo), non si avvede di nulla, così come travisa la realtà, non può non travisare la finzione del palcoscenico. Il suo ordine è diverso, è l’unico di un altro mondo, puro e intangibile: nella sua dolce follia, nella sua quasi leggendaria ebetudine, non c’è finzione che possa sussistere. Dapprima viene scardinato l’ordine della realtà (Trilby è innamorata di quel suo partner di scena, ma non lui di lei: e allora a Trilby non può capitare di meglio che l’arrendevolezza di uno come Buster per sposarsi e far dispetto all’uomo veramente amato); e poi viene, internamente, scardinato l’ordine della finzione: dal momento che Buster sale sul palcoscenico (ma anche la scena precedente del trucco con la barba è di grande rilievo e significato) non c’è trucco che regga, non c’è quinta che resti in piedi, non c’è impresario dietro le quinte di cui non si possa non capire cosa significhi essere esposto volontariamente a simili rischi: i rischi dell’essere smascherarti nell’esercizio di una funzione di ingannatori e predatori, manipolatori senza scrupoli dei destini dell’arte nell’età in cui l’arte è solo miserabile cartapesta e merce lussuosa e splendida. Buster Keaton si ritrova così sposato a una donna che ama perdutamente perché perdutamente e senza infingimenti ama se stesso: ma lei non ama lui: e serve a poco aver distrutto la quinta di quel palcoscenico (qui è la maggiore modernità del film, la sua sorprendente e oggettiva comicità, più di situazione che di genere - a 10


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differenza di Chaplin, più storica che antropologica - è lo stesso tipo di comicità di The Cameraman); serve a poco aver distrutto la finzione se poi è la stessa realtà a disporsi, quasi strategicamente, secondo le convenzioni e regole della finzione di scena. Per il cittadino Keaton (Keaton fuori della città è come un pellerossa sopravvissuto e capitato per caso a New York) ora c’è l’impari lotta con il disordine più casuale, che apporterà l’infelicità e l’ubriachezza di Trilby, in una ridda di avventure che segnano l’indebolirsi del film (perché dalla città ci si sposta sul mare o altrove) fino alla soluzione finale perfettamente rovesciata rispetto all’inizio, quasi per una beffa del destino e non certo per un semplice e scontato lieto fine: ora non è più Buster a piegarsi riverente sulle labbra della Trilby svenuta sul palcoscenico, ma è proprio Trilby a chinarsi, in una paradossale scoperta d’amore, sulla bocca di Buster, realmente svenuto dopo tanti fiaccanti avventure. L’unico trionfo possibile sta dunque in un paradosso: ed è anche l’unica felicità, una felicità indubbiamente moderata rispetto allo scatenamento iniziale. Buster era dappertutto, mimetico per disperazione, disponibile, e cioè schiavo fino alla nausea, graziato dai suoi stessi eccessi, magari fuori tempo e fuori luogo; vero regno dello spiazzamento e giocattolo nelle mani dell’idolo inventato dallo spettacolo per il consumo di massa: in questa sua totale rinuncia a se stesso, in questa sua perdizione cieca nell’immagine prefabbricata, conserva miracolosamente la propria purezza, la propria intangibilità. Soltanto in conclusione, dopo tante imprese disperate, dopo aver fatto saltare con una comicità certo involontaria la serialità degli atti fittizi (e questo è il senso più vero della sua comicità: interrompere una 11


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serie di finzioni per riportare in scena la realtà e scoprire che la norma è l’inganno), soltanto ora abdicare da sé sarà possibile, e ammettere l’altro e concedere questo paradosso a quella stessa Trilby, indotta dal triste e trasognato Buster a riconoscere l’esistenza della realtà: per essere come tutti è necessario essere diversi, per una felicità moderata è stato necessario essere folli. Buster, insomma, non lotta affatto per la vita, non ha nessuna crudeltà, non è coinvolto in alcuna miseria. A differenza di Chaplin, che per la vita lotta duramente e sempre; la sua è una «vita da cani»: per lui non c’è alternativa: lottare per vincere e sopravvivere o essere sconfitti e soccombere. Buster Keaton, invece, è in un certo senso al di là del bene e del male: ma non perché sia un superuomo. Molto più semplicemente perché egli «non appartiene a questo mondo». La purezza straziante del suo narcisismo, claustrale e patofobo, non ammette, addirittura, l’esistenza del mondo. I rapporti di Keaton sono sempre definitivi e ascetici e non sono rapporti con il mondo ma con se stesso, o forse con l’immagine di sé che egli coltiva in segreto, perfino inconsapevole di coltivare un ideale ultramondano, di una assoluta alienità. Una comicità nata dalla distanza che passa tra il protagonista e la vicenda, il luogo in cui, di volta in volta, la vicenda si inscrive. La famosa impassibilità del viso del grande comico americano trova la sua ragione in questa assenza di Keaton dal mondo, in questa sua impossibilità di contatti, di mediazioni se non goffe. Da una parte i suoi film descrivono (e sbeffeggiano) i vari mondi, come si stratifica una società: College (le università americane, il culturismo fisico, il puritanesimo e la pulizia dello sport); Spite Marriage (il teatro, l’arte nel mondo del12


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l’industria, i ricchi industriali statunitensi); The cameraman (le agenzie di collocamento, i piccoli impiegati, la folla suburbana, la solitudine della città); The general (la nascita del mondo industriale, la guerra, il fluttuare dell’individuo tra disgregazione della personalità nella separazione e annullamento della massa anonima degli “eserciti”); Our Ospitality (il vecchio West, le società pateticamente attaccate alle tradizioni, a ogni specie di vergognoso anacronismo). Dall’altra i film di Keaton determinano una storia involontaria, i suoi tropismi: il passato decrepito e ridicolo di Our ospitality; il presente in College, con tutti i suoi miti dell’integrazione e il suo rifiuto parascientifico dell’umanesimo; il futuro in The Cameraman, in Spite Marriage, in The playhouse, il capolavoro di Buste Keaton. In questi ultimi film, e soprattutto in The Playhouse il medium è il messaggio, senza possibilità di equivoci, e le ragioni della riscoperta di Keaton occorsa negli ultimi anni acquistano rilievo nella misura in cui la consapevolezza di questa condizione (la moltiplicazione ilare e frenetica dei Keaton, questa patetica celebrazione che egli fa di se stesso, esprimendo in ciò la sua condanna: egli interpreta tutti i personaggi della sua commedia, tutti gli attori e perfino tutti gli spettatori: ma la sua commedia è solo un sogno e anche la realtà è una finzione, anche la veglia è disturbata, perché si svolge in un camerino fittizio, rimediato in extremis tra le quinte del palcoscenico) si traduce in un’attenzione scrupolosa, in una critica dello stesso medium e nella serena accettazione dell’obsolescenza cui sono destinati i messaggi nel mondo contemporaneo. Ma il fatto è che nessuno come il cittadino signor Buster Keaton, l’«ironicamente nevrotico» Buster 13


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Keaton (come ha scritto Alfredo Giuliani), per sopravvivere ha bisogno di un medium qualunque: per lui la mediazione del rappresentare diventa un fatto vitale perché il suo scarso peso non abbia a essere causa di vaniloquio e di allontanamento definitivo dalla terra verso un cielo qualunque. In molti suoi film Keaton imita tutto ciò che vede, è il suo modo di essere realista: cerca disperatamente di rendersi simile all’ambiente in cui cade un po’ per non essere notato e quindi poter continuare a perseguire indisturbato il suo sogno d’amore o di astrattezza, di separazione o di identificazione con se stesso attraverso la donna di cui s’innamora sempre ai limiti, come nel caso di Trilby Drew, l’ho detto, del feticismo; un po’ per sopravvivere, letteralmente, perché solo se riconosciuto, almeno nelle apparenze cittadine, potrà salvarsi, continuare a essere di questo mondo pur non appartenendovi. È così che il mimetismo più smaccato, più dichiarato; il più bieco naturalismo (quante volte Keaton si trova coinvolto in storie di scimmie, o necessitato a trasformarsi in scimmia lui stesso) si tramuta in favola: in una fabula in cui lo stile è degradato ad antistile (imitazione degli stili altrui, pluralità stilistica indiretta ecc.), la comicità è riferita dal contrasto tra la pesantezza del mondo o del corpo, uniformi e banali, e la lievità di una maschera priva invece di ogni peso, sublime, e la serietà è riferita dalla contraddizione insanabile tra la città e il cinema, il medium artistico che della città vuole essere referente globale (per sopravvivere in quanto arte) e nello stesso tempo paradigma di distanza, emblema di separazione.

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2. Il comico non è più soltanto un genere o uno stile. È addirittura un sistema totalitario di presenza e fuga, di contraddizione e maschera. In quanto tale, in quanto sistema che si inscrive nel basso e nel meno basso, nel corpo o nella voce, nella volgarità o nell’ironia, è ancora qualità, prospetta ancora i pericoli dell’ideologia, tanto più insidiosa perché rovesciata, nascosta, mistificata. Implicitamente il discorso sul comico, se teorizzato, se insistito, rischia di non presentarsi più come metodo, o struttura della parodia (d’un qualunque modello letterario precedente), ma ancora come corpus ideologico, cavallo di Troia dell’intellettuale-guida. Ecco perché la grandezza di Harold Lloyd sta nella sua medietà, nell’irrimediabile insignificanza del suo personaggio. Supporre che se un film appare chiuso in un orizzonte di banalità, questo film allora non ha grandezza, questo è non aver capito l’essenza dell’arte moderna, e in particolare del cinema. Si fanno continuamente superflui paragoni: si dice che Chaplin è più grande di Buster Keaton; e che Buster è più grande di Harold Lloyd o di Harry Langdon. Si tratta di sciocchezze. Quanto è certo, è che il personaggio di Harold Lloyd appartiene all’olimpo del cinema. Tanto in Girl Shy, per esempio, quanto in Hot Water e in The Freshman, i primi due film del 1924 e il terzo del 1925, tornano dei motivi che si rivelano come delle vere e proprie costanti e quindi, se non altro per accumulo, e per una irresistibile tendenza all’analogia, l’insieme di questi tre capolavori finisce con il costituire uno dei ritratti più realistici e più micidiali degli Stati Uniti degli anni Venti. Harold, infatti, è il ritratto perfetto dell’uomo-massa, del cittadino medio, del colletto bianco statunitense. La sua gentilezza è incapacità di 15


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scelta; il suo strazio è duro cinismo; le sue vittorie sono autentiche sconfitte (in quel tanto meccanico riconoscimento della validità dei miti offerta dalla società e dal tempo alla sua attenzione); e i suoi sogni, naturalmente, sono le sue frustrazioni, il blocco adolescenziale. Harold non fa che sognare, e i suoi sogni sono, per essere precisi, sogni della merce: un Mida contemporaneo: tutto quello che Harold tocca si trasforma in merce, cioè in nulla. Non c’è oggetto dei sogni di Harold che non sia degradato a irrealtà (a sogno); oppure a realtà (cioè alla particolarmente consumabile realtà della merce). Se la modernità di Keaton stava nel suo essere personaggio positivo (un utopista di forza adamantina) soltanto nella forma del paradosso, la modernità di Harold Lloyd sta nel suo essere metafora di una impossibilità a essere trasformato in metafora. Harold è una superficie liscia e piana, priva di sfumature e di ambiguità: questo non perché sia povero il personaggio, ma soltanto perché è povera la persona che quel personaggio rappresenta: e la povertà di questa persona ridotta ai minimi termini psicologici, una tavoletta di cera su cui non può essere inciso alcun marchio, viene tranquillamente e quasi passivamente accettata. In Girl shy Harold è già una piccola rassegna dei vizi, delle attitudini e delle deformazioni dell’uomo-massa nella società industriale alla sua prima maturità. Un oscuro provinciale, timido e incapace di stabilire il benché minimo contatto con il prossimo (soprattutto con le ragazze), scrive un’autobiografia nella quale il protagonista appare addirittura come dispensatore di consigli per conquistare i diversi tipi di donna (la donna-vampiro, la maschietta…). Un’autobiografia che è già un manuale, un reader’s 16


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digest. Egli è uno scrittore che meno scrittore non potrebbe essere ma che sogna il successo; e un editore che fiuta l’affare e trasforma quel libro, in sede di pubblicità, in una parodia. Insomma la nascita del kitsch e anche quella dell’artista che accetta di farsi strumentalizzare, di essere ridotto a merce. In Hot water il conservatore Harold invece si sposa e da perfetto uomo medio americano si imbatte in una moglie e in una perfetta famiglia media americana. Vediamo Harold fare la spesa (lo shopping) e vincere un tacchino a una lotteria; lo vediamo letteralmente sommerso e paralizzato da quanto ha acquistato, e infine fotografato da un vicino nella sua automobile nuova, e in giro per la città per un percorso di prova, e in gara con una motocicletta e con le manie perbenistiche della moglie e dei parenti (ovviamente indiretti, come nei fumetti disneyani, bamboleggianti nello stesso modo; la suocera-zia – conferenziare contro l’alcolismo – il cugino vitellone, il nipote terribile…). Alle incongruenze prodotte dall’eccesso di stoltezza (sua stessa e dei suoi parenti, o vicini, o colleghi) Harold, questo Babitt del cinema, non riesce a contrapporre niente altro che un’ebetudine ancora maggiore, rassegnazione, ossequio al «folle terrore e all’atroce rimorso» che i fantasmi e lo spiritismo (come nella conclusione del film), e cioè il massimo dell’irrazionale e dell’ignoranza, producono in lui e negli altri. La stessa irrazionalità, la stessa ignoranza che sostengono la morale sportiva del terzo film in questione, The Freshman, anticipa di due anni i temi di College (Buster Keaton). Harold sogna di entrare all’università (il mito di un’università chiusa e di classe) e di uguagliare, in popolarità, un eroe del cinema, un campione sportivo. Come i mag17


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giori protagonisti del romanzo moderno (Don Chisciotte e gli eroi cavallereschi: Julien Sorel e Napoleone; Emma Bovary e le eroine dei romanzi rosa) ma qui in una forma più meccanica, l’eroe Harold dipende dai modelli preesistenti, non vive una vita propria, non desidera altro che imitare, non fa altro che degradare lo stesso desiderio (secondo lo schema utilizzato da René Girard nel suo Mensonge romantique et verité romanesque). In sequenze cinematografiche che rassomigliano molto, anche nella lapidarietà delle didascalie, alla strip, il servizievole e immensamente partecipe Harold (a suo modo un mistico, come Keaton: un mistico dell’ottusità) percorre per intero il calvario dello sport come metafora della competizione capitalista, e dello sport come sindrome puritana e sublimatrice, come energia pura. In questi film nei quali, tra l’altro, ragione di fascino e di trasalimento per lo spettatore attuale è la riscoperta della capitale del cinema, una città, Los Angeles - che si è continuato a vedere sullo schermo e forse mai nella realtà per oltre mezzo secolo, tutta quella tormentata topografia urbana in trasformazione, scolorita dagli anni, probabilmente niente altro che una materia per sogni - il sognatore Harold finisce per tracciare la figura non tanto del fascista quanto, certamente, quella del giovane sprovveduto (necessariamente sprovveduto), come fosse chiuso in un bozzolo o in un limbo, dell’età fascista. Quel giovane fatuo, vanitoso, incapace di attenzione e di comunicazione, incapace di cultura e di indipendenza morale, di giudizio e di una qualunque presa di coscienza, quasi un pesce in un acquario, asessuato e attonito figlio tenuto sotto una campana di vetro. Harold, come i suoi coetanei, non tanto si inna18


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mora, quanto viene invariabilmente e tenacemente amato - lui così debole anche nel lieto fine trionfale da una donna che è sempre, un poco, una mamma. Il linguaggio di questi film, anche magari con il felice ausilio delle didascalie di marca mussoliniano-dannunziana per chi abbia la ventura di averli visti per la prima volta sul finire degli anni Sessanta, in un momento di revival delle comiche (espressioni di una retorica giovanile e stancamente fiorita come: «sei nato scapolo, perché non lasci le cose come stanno?»; «amo l’audacia, l’impeto, la forza, ho il cuore tenero, sono di scorza»; «un po’ di brio, vecchie marmotte»; «una falange di giovani alati» eccetera) e certe immagini dal valore proditoriamente simbolico in un tessuto visivo rigorosamente realistico (gli innumerevoli animali che compaiono nel film: dal topo che si infila nel guanto, al cane che lecca il viso della suocera, al tacchino che spunta da sotto le gonne della passeggera in un tram che sono evidenti oltraggi sessuali alla moralità del contesto, scarti della struttura) sono la garanzia della integrità e della completezza dei film di Harold Lloyd in quanto panoramiche su una società e su un’epoca. Come quando, in Girl Shy, l’occhio atterrito di un operaio che sta per essere investito dalla motocicletta su cui corre pazzamente Harold diventa l’immagine più involontaria ma più realisticamente alienata del terrore in via d’esaurimento di fronte al sopravanzare del brio industriale: è l’equivalente speculare dell’occhio privo d’ironia dello stesso Harold, un attore che è già uno spettatore, passivo e saturo, soddisfatto e gratificato (ecco perché tanti lieti fine, sommamente necessari dal punto di visa strutturale), campione imperturbabile ed esemplare del futuro spettatore di cinema. 19


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3. «Piccolo, anzitutto, ma dilatabile: che agevolmente si rapprendesse fino ad assumere l’apparenza di un oggetto, e che un momento dopo, con altrettanta facilità, si allungasse e allargasse e sfrangiasse come le nuvole di giugno su Mergellina. Un corpo di funambolo, anzi di fachiro, a tratti disanimato, cadaverico, e a tratti invaso dalle furie, scattante, volante. L’inerzia e il moto, pietre e vento, nel medesimo involucro. Gli arti indipendenti, liberi, dissociati, un suo braccio o una sua gamba è un individuo nell’individuo, un attore nell’attore. Il collo a segmenti, a cannocchiale. E infine un volto senza parentele, indefinibile, astruso, un mondo chimerico di fronte, occhi naso bocca zigomi anomali, buffi e terrifici, che agghiaccia e rapisce, che stimola al riso e, contemporaneamente, a non so che umana solidarietà e partecipazione. Mi fa ridere e sospirare la sua mascella deragliata…». È il memorabile ritratto di un attore napoletano: non poteva esserne autore che un altro napoletano. È il ritratto dell’attore Antonio De Curtis Gagliardi Ducas Comneno di Bisanzio (in arte Totò, nato nella città partenopea nel 1898 e morto a Roma sessantanove anni dopo, essendo stato protagonista di innumerevoli spettacoli di rivista e di un centinaio di film) lasciato dallo scrittore Giuseppe Marotta: un ritratto e già una scettica, insinuante ipotesi critica. Il corpo dell’attore in tale ritratto viene collocato in primo piano, invade anzi il campo. È il corpo dell’insulso buffone, il corpo crepuscolare e asociale di una nobiltà decaduta nei vicoli tracimanti immondezza: l’alterigia di una classe che non può più ingannarsi e che ormai è costretta, per sopravvivere, a truccarsi, infurbirsi, immalinconirsi nelle esigenze primarie del corpo. I bassi napoletani saranno il suo regno: ma si 20


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tratterà, stavolta, di una reggenza estremamente condivisa. La monarchia non è più assoluta, la purezza di un albero genealogico è soltanto una memoria minacciosa del sangue. Totò reca nella sua vicenda il peso sotterraneo e solenne, ma incessante, di una nostalgia: come un personaggio di Balzac, o forse come Balzac stesso; descrive il mondo al futuro partendo da molto lontano, da un passato remoto e immacolato nel quale l’ordine gerarchico, la garanzia dei valori, era meccanismo di agglutinamento sociale. Ora quel sistema (che in cinema si trasforma appunto in una nostalgia, in un tono incomparabile, sempre emergente da quella «mascella deragliata», allusiva, vendicativa) è piuttosto un’utopia involontaria, della quale ogni spettatore dimentica, necessariamente, i connotati, ma della quale ogni spettatore onesto non può trascurare il potenziale di contraddizione. I bassi napoletani tracciano, dunque, i margini di quel sistema che Lucien Goldmann, discorrendo di Chagall, ha definito una «totalità relativa»: è la totalità relativa del comico, è l’identificazione del dato storico, dell’origine, con il dato antropologico. Occorre risalire alle sorgenti del comico. Totò forse non è, come direbbe Bergson, uno di quei «corridori affascinati dall’ideale che inciampano nella realtà, candidi sognatori che la vita aspetta maliziosamente al varco», come Buster Keaton e in parte Chaplin. Il riso provocato dalla sua caduta, o da uno dei suoi deragliamenti linguistici, improvvisi in un elenco vertiginoso di sinonimi, o da una di quelle tiritere mitraglianti e assidue per insensatezza («quisquilie, pinzillacchere, bazzecole…»), quel riso dunque non è un elemento catartico, non scatterà perché il corpo sociale riassorbe in sé la deviazione dalla norma. Totò non è neppure un caratte21


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re, non designa alcun tic irrigidito e quasi perverso; né partecipa in alcun modo dell’umorismo nero teorizzato da Breton - destinato cioè a restare prigioniero dell’intelligenza che recupera se stessa dopo la stagione dell’inferno; né, come nella comicità che magnetizza Bachtin ragionando di Rabelais, Totò discende nel basso per recuperare addirittura la libertà, la vita. Non insomma una garanzia anarchica di lontananza dalla regola sociale, o l’ipotesi di una escatologia del carnevale, nel corso della quale sia prevedibile un ottimistico recupero dell’alto e del sublime attraverso a sfrenata immersione nell’immondezza, nelle feci. Totò, nei bassi, è stato scagliato violentemente, c’è nato dentro. Il punto di partenza della sua carriera è stato, non a caso, l’avanspettacolo. Il caffè-concerto, la buffonata un po’ ridicola e cialtronesca, l’irrisione un po’ sgraziata delle istituzioni, di ogni alienante, mastodontica, elefantiaca istituzione d’Italia (di questa comicità signore a Roma, in quegli anni, Petrolini), era la sua merce necessariamente di contrabbando: il suo modo di dare spettacolo era l’unico possibile in una strada priva di luce come via Santa Maria Antesaecula. Il nobile decaduto osservava la generale decadenza intorno a sé e sapeva che occorreva piuttosto irrigidire la persona in personaggio, trasformarla in marionetta, una marionetta truffaldina, scurrile, lazzaronesca, per quanto obbligatoriamente sfortunata, coinvolta in una più grande vicenda di miseria e lutto. Non è certo un caso che Totò non abbia interpretato neppure un grande film (a parte i suoi Pasolini), un film di quelli che si citano nelle storie del cinema: è in questo che consiste la sua grandezza, il senso profondo della sua comicità: nel trapasso dalla comicità in sarcasmo, nel lacerante disprezzo 22


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della propria stessa necessità di presenza e partecipazione. Il basso napoletano coincide perfettamente con tutte le rinunce di un attore fedele all’origine e alla vocazione, un attore che trasformò una vocazione in una scelta precisa: è il basso totale della sua comicità. Accusare Totò, ad esempio, di volgarità o di vesuviano patetismo equivale a rendergli l’omaggio migliore. Quello che però Marotta non aveva capito quando accusò Totò di non aver trovato la propria identità (come era capitato a Eduardo) era proprio questo: che Totò passava dall’oscurità dell’avanspettacolo non alla luce del cinema ma alle sue tenebre, alla buia caverna di una sala di periferia dal pavimento sporco di bucce di bruscolini. Era il solo modo per non tradire quello che il corpo di Totò, quasi un oggetto, rivelava (e che Marotta in questo caso aveva capito): e cioè, attraverso la sua disarticolazione, l’accertamento sistematico di una disgregazione in atto, di un processo irreversibile se non a patto di fronteggiarlo innanzitutto con una coscienza millimetrica di tale spappolamento. Il cinema di Totò è stato un’ingenua, coriacea, e anche scettica lotta contro il sublime, l’ideologia in quanto menzogna e consolazione. Non c’è contraddizione che non sia rivelata, ma non c’è neppure pretesa di mistici scavalcamenti: l’utopia è un fallimento; niente altro che questo, una nostalgia. Il riso, anche allegro, anche corale, anche definitivo che ha contagiato negli anni gli spettatori che hanno avuto la fortuna di assistere a film memorabili come Totò cerca casa (con la scena satirica del vestito lindo del notabile comunale freneticamente e burocraticamente timbrato da Totò), Il dottor Tanzanella, Miseria e nobiltà, Il turco napoletano, Totò le Mokò (quest’ul23


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timo è un poco diverso dalla tradizione, in esso c’è la spia in controluce degli altri film: qui la satira o a farsa atellana si tramuta in una violenta parodia, in quanto mistificatorio mezzo di comunicazione di massa); quel riso dunque scaturisce dalla inconsapevole rivelazione di una struttura manchevole e cedevole. La comicità di Totò annuncia uno strappo, un vuoto sociale, una carenza enorme della quale è necessario sorridere e nella quale occorre sapere che si resta anche quando, senza fughe in avanti, i vicoli saranno spazzati e consegnati alla luce del Vesuvio. Non è un caso se la scena più compiuta dell’intero cinema di Totò sia quella in cui questo ineguagliabile sacerdote del comico, questo obliquo dispensatore di sberleffi alle gerarchie (ma con distrazione, perché il nodo del problema è altrove, come scrisse in quei suoi versi dialettali: «A morte ‘o ssaje che d’è… è una livella./…Sti ’pagliacciate ‘effanno sulo ‘e vive:/ nuje simmo serie… appartenimmo ‘a morte!»), come sempre per salvarsi fisicamente, per sopravvivere (nella sopravvivenza fisica, nel corpo, è ravvisato il valore primario, l’unico valore indiscutibile dal quale sia consentito prendere le mosse) è costretto a esibirsi su un palcoscenico, a indossare, in Totò a colori, gli abiti della marionetta (italiana) per antonomasia: è il trionfo e la rivincita del troppo bistrattato corpo, camuffarsi nel camuffato personaggio di Pinocchio. L’unico sublime che Totò si concede è quello dell’ipocrisia sublime: perfino nella più oltraggiata meccanica, nella rigidità, nella trafittura dell’esposizione che il corpo fa di sé per sopravvivere, si tocca il vertice dell’ironia e dell’autocompassione, della malizia e del pianto. 24


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Il Vangelo secondo Mabuse Che cos’è l’espressionismo? L’espressionismo è un gioco F. Lang

La funzione del cinema è quella di «esprimere la non identità tra il segno e il suo referente» direbbe Roman Jakobson: e pochi film come quelli dell’orrore sembrano confermare la teoria del grande linguista russo. Nel cinema dell’orrore degli anni Venti rivive sullo schermo il mito romantico della natura e dell’irrazionalità (cioè di una totalità perduta). Ma sono gli anni in cui la civiltà industriale prende il sopravvento: l’arte stessa, che di quel mito è la massima custode, pare contaminata dalla produzione in serie, dalla programmazione, dalla consapevolezza che l’originalità, la creatività, l’autonomia individuale non sono più possibili, non possono sopravvivere se non a patto di trasformarsi esse stesse in merce, in prodotti necessariamente articolati nella forma del kitsch o, al massimo, della citazione. Il carattere borghese dell’arte, con il cinema (l’arte popolare per eccellenza e in realtà arte più che ogni altra mistificata) si approfondisce, consolida la propria origine metastorica nella storia stessa e nell’impossibilità di essere altro da se stesso. L’unico scampo consentito diventa quello di dichiarare la propria appartenenza a un mondo falso (illusorio), a un mondo nel quale il privilegio è norma, nel quale l’orrore è legittimità. L’ideologia buona del cinema diventa, 25


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paradossalmente, proprio quella borghese. Più il segno (l’immagine, la mistificazione, l’arbitrio) sarà lontano dal referente (la lotta di classe, lo sfruttamento, l’industria); più il cinema sarà lontano dalla realtà e la rivelerà attraverso una differenza, tanto più chiaro apparirà l’orrore che la presenza del cinema significa, il suo carattere falsamente liberatorio nel rinviare sia alla realtà alienata e mostruosa della città (suo emblema essenziale), sia al mito di una totalità che sopravvive soltanto a livello di utopia, ancora una volta di immagine, di linguaggio. I film dell’orrore, dunque, non possono leggersi che come metafora della condizione del cinema, dell’arte consacrata a merce. In King Kong di Shoedsack, il mostro primitivo e surreale, vero trionfatore di ogni forza a lui avversa fino al momento in cui il suo habitat sarà il regno della foresta (la natura), viene sconfitto da quel falso bene che è la civiltà intesa in un senso brutalmente e piattamente illuministico, quando sarà trasportato a New York per essere trasformato in un fenomeno da luna park, quando cioè la natura (l’arte, la bellezza) sarà ridotta a spettacolo, a illusione su un’illusione, a merce, a cinema. Quello stesso luna park ritorna nel film di Paul Leni nel quale uno scrittore in visita nel «gabinetto delle illusioni» viene assoldato per scrivere delle storie sulle «figure di cera». Lo scrittore prezzolato accetta, identificandosi per un compenso in denaro con i suoi personaggi, di accrescere il dato illusorio della realtà con cui è venuto in contatto. Nel film più puramente estetico del genere «mostruoso» l’orrore della civiltà si configura sotto la specie della follia (Ivan il terribile che crede di essere stato avvelenato e nell’attesa della morte comincia a rovesciare una clessidra 26


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perché il suo tempo non abbia mai fine: e non era vero che era stato avvelenato e non era vero che anche il tempo sarebbe stato vinto) e dell’incubo in una foresta di simboli psicoanalitici (le finestre, il fornaio e il lievito della pasta, le spade, i rapimenti), di ritorni del represso, di oscurità remote infine recate alla luce. In Nosferatu di Murnau la storia del vampiro adombra, nella sua indubbia magnanimità immaginifica, l’oscuro rapporto erotico – quel rapporto che sarà istituzionalizzato nell’underground delle avanguardie nuove: da Warhol a Steve Dvoskin – che si stabilisce tra cinema e spettatore; un rapporto che è a mezza strada, appunto, tra la vita e la morte (nella splendida sequenza finale, in cui la seduzione estrema, e l’estremo sacrificio, trovano il proprio compimento), e nel quale certo il vampiro non è l’uomo totale, dionisiaco perché indifferente nei confronti della morte (come vuole una tradizione mistica). L’unità tra il mondo dei trapassati e quello dei vivi è piuttosto una falsa unità, come è una falsa totalità quella di cui il vampiro è ambasciatore. Il senso della sua storia lo si trova nell’eroina, in Mina Harker, la vittima che sacrificandosi diventa carnefice; colei che condurrà il vampiro alla sua vera morte, così come con il suo falso sacrificio lo spettatore immaturo, da vittima diventa carnefice del cinema (o meglio della poesia), cioè delle proprie stesse possibilità di crescita, di maturazione, di autonomia morale non solo nei confronti della morte ma anche della vita che egli sta vivendo. Metropolis, infine, una autentica summa dell’estetica e della ideologia del cinema espressionista: un capolavoro nonostante l’ideologia politica di Lang esplicitamente dichiarata nel finale. Ancora una volta, assi27


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stendo al film di Lang, risulta chiaro quanto poco contino le intenzioni dell’autore e quindi i contenuti della sua opera, anche quando l’autore, uscendo allo scoperto (come in Metropolis, e a differenza che nella trilogia dedicata al dottor Mabuse) rischia di più nel voler rendere esplicito il proprio punto di vista. Nel kolossal di Lang, infatti, anche se viene affermato che «tra lo spirito che inventa e le mani che costruiscono ci vuole una mediazione: è il cuore che deve mettere insieme…», anche, cioè, se la soluzione del conflitto tra il capitale e la classe sfruttata è una soluzione pacifista (le nozze tra il figlio dell’industriale e la figlia del capo-operaio anticipano addirittura, come sostiene Ladislao Mittner, il «romanticismo del sangue e dell’acciaio» patrocinato da Goebbels) e che forse meglio risponde all’origine culturale mistico-ebraica di Fritz Lang, la forza espressionista del film risulta ineguagliata. La città del futuro viene profetizzata sotto la specie antica del Moloch. L’anima rapita agli operai dal lavoro alienato è quella data dallo scienziato (che serve il potere) al mitico robot, al golem della tradizione praghese: ovvero la trasformazione della tecnologia in automazione. E d’altra parte la distruzione delle macchine risulta essere un inganno: renderebbe implicita la distruzione degli operai, degli abitanti della città sotterranea. E anche se il mondo è diviso in due, in paradiso e inferno, la divisione religiosa e manichea del mondo (Lang torna sempre sull’immagine priva di storia dei sette peccati capitali) non può celare la verità definitiva: che la verità parte sempre dal basso. Nella distruzione di Moloch, naturalmente, c’è un’epopea del male, una Sodoma e Gomorra espressionista, una vera apocalissi di questa avanguardia figurativa, ma anche un inimitabile reper28


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torio iconografico (costruttivismo, surrealismo, macchinismo) e una rivelazione degli orrori della civiltà industriale mostrati attraverso l’uso sfrenato del trucco cinematografico, dentro quel rogo dell’espressionismo e della barbarie della cultura occidentale che è Metropolis. Il cinema e la civiltà industriale sono il problema anche dell’altro grande grande tour de force cinematografico di Fritz Lang: il ciclo dedicato al dottor Mabuse. Esso si compone di tre film: il primo è Il dottor Mabuse, del 1922, quasi cinque ore di proiezione; il secondo Il testamento del dottor Mabuse, realizzato nel 1932; e il terzo Il diabolico dottor Mabuse, del 1961. Quest’ultimo conta poco, Fritz Lang aveva perduto tutto lo smalto iniziale; ma gli altri sono autentici capolavori, due veri capostipiti del cinema mondiale e dell’espressionismo in particolare, non soltanto cinematografico. Capire questi due film è capire il cinema, capire quanto il cinema sia stato importante nella cultura del Novecento: quando era allo stato puro, cioè muto: e perché l’espressionismo, proprio a causa del cinema, sia stata una manifestazione decisiva delle avanguardie storiche. Il dottor Mabuse è, pubblicamente, uno psicoanalista: e nella realtà, come viene affermato, «un titano che mescola leggi e idee come foglie morte». Ma non un rivoluzionario: nessun rivoluzionario rinuncerebbe alla razionalità e alla tradizione. Mabuse, invece, è un autentico genio del male, un nichilista perfetto, e meglio ancora un sadico assoluto. Per Mabuse non esistono leggi, non esiste limite di alcun genere. Egli è uno psichiatra nel momento in cui la psicoanalisi va conquistandosi un posto di rilievo nella cultura europea 29


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ma in cui essa non è ancora entrata nelle coscienza delle masse come fenomeno scientifico. La psicoanalisi può ancora, comodamente, essere manipolata e diventare strumento di manipolazioni, può facilmente essere scambiata e giocata sul piano della magia, quasi una derivazione di pratiche magiche e insomma una sorta di pass-partout per ciarlatani di ogni risma. Ma Mabuse non è propriamente e soltanto un ciarlatano; egli è, come detto, un genio del male animato, fino al delirio, da una sfrenata volontà di potenza, ed è un medico che realmente possiede un potere di suggestione sugli altri, teoricamente su una massa incalcolabile di persone. Mabuse è dunque una prefigurazione del dittatore come si è venuto delineando nella storia della contemporanea società industriale. Egli intrattiene con le masse un rapporto che è a metà strada fra quello stabilito dal demagogo e quello stabilito dall’ipnotizzatore. «Mediante i suoi procedimenti», come scrive Freud in quegli anni «l’ipnotizzatore desta nel soggetto una parte della sua eredità arcaica – quella stessa che lo rendeva condiscendente verso i genitori e che aveva subìto una individuale rianimazione nei rapporti col padre. Ciò che viene pertanto ridestato è l’idea di una personalità superiore e pericolosa, verso la quale è possibile un atteggiamento passivo e masochistico cui la volontà deve soggiacere»; e tutti in effetti soggiacciono a Mabuse, e la sua storia è la storia di un sogno di potenza con il quale vanamente è in lotta la legalità costituita (la metempsicosi vince la morte…). Ma in questi film di Lang non c’è la semplice anticipazione di un fenomeno storico (Hitler dieci anni dopo): c’è piuttosto una cultura idealistica, tipicamente tedesca, tradotta in termini di spettacolo (e, come 30


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vedremo, criticata proprio a partire da questi termini) e c’è una cultura romanzesca, antitragica, popolare e quasi melodrammatica (eredità del tardo Ottocento: ad esempio Mabuse e il Procuratore Von Welk, suo implacabile nemico, sono l’equivalente di Fantomas e Juve, i protagonisti dei romanzi di Souvestre e Allain: anche se Fantomas e Juve erano fratelli e invece tra Mabuse e Von Welk non c’è possibilità di equivoco: la divisione tra bene e male qui appare del tutto manichea); e c’è infine una straordinaria capacità espressiva in linea con le esperienze pittoriche di quegli anni, da Boccioni a Munch (in tal senso la scena della borsa, ad esempio, o quella dei macbethiani incubi finali, che vanta evidenti riflessi barocchi e scespiriani). Se l’apparato figurativo in certi momenti potrebbe apparire ovvio, la sua criticità è indubbia. L’armamentario è al completo: ci sono le droghe, i veleni, i fantasmi, le allucinazioni, le nebbie, i castelli; e c’è la fascinazione del male, insomma, e molto poco quella del bene. Mabuse dice: «L’amore non esiste, esiste solo l’odio, la volontà di potenza… Io sono uno Stato nello Stato, in guerra con lui…». Ma oltre a Mabuse c’è anche Fritz Lang, il quale conduce il gioco autobiograficamente allo scoperto. Tutta la vicenda è costruita proprio a partire dall’inganno esercitato sistematicamente da Mabuse al tavolo da gioco. Egli non è soltanto un falsario (altro elemento di rilievo: come non ricordare lo Gide dei Faux Monnayeurs?) ma soprattutto un baro. Gli anni Sessanta hanno rivalutato l’assenza di finalità del gioco, il suo valore essenzialmente, appunto, ludico: ma Lang dimostra che è proprio questo rifugio nell’assenza di finalità, questo dimorare lassista nel gioco a permettere l’illecito, l’anarchia individuale, il nichili31


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smo. Mabuse è un antikantiano per eccellenza, ha eretto intorno a sé una zona franca all’interno della quale, assenti le finalità, tutto è demoniacamente possibile: il Potere reifica, serve se stesso. E se è stupido il bene, è proprio questa carenza a rendere stupido anche il male, squallido e insignificante. Mabuse soggioga le masse esercitando un’ipnosi demoniaca, la psicoanalisi e il gioco. Ma durante tutto il film, poiché il film è muto, per ottenere i suoi scopi, trasmettere la sua angoscia, deve vistosamente esprimersi: e «che cos’è l’espressionismo?» si chiede Lang: «è un gioco» si risponde. In questa storia, espressione e comunicazione coincidono per l’ultima volta nella cultura europea, e attraverso un sistema di equivalenze (Mabuse è l’ipnotizzatore, l’ipnosi è l’espressione per antonomasia, l’espressione è un gioco, il gioco è il cinema, l’ipnosi è il cinema eccetera) si giunge a una condanna precisa. Se questi film sono «il Vangelo secondo Mabuse», e cioè una complessa teologia del male, è anche vero che da questi film scaturisce la prima salutare lezione non soltanto sulla realtà politica esemplificata da Mabuse, ma anche sul cinema stesso come fatto culturale: grande mezzo di comunicazione di massa, grande potere nelle mani dell’industria, eccellente strumento ipnotico, vistosa materializzazione del super-io paterno, masochistica disposizione nello spettatore a «farsi femmina», a disgregare la propria personalità.

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Marlene e il suo regista La disciplina. Il fidanzato di mia nipote Chiara è uno scout. Va spesso in Spagna, o in Brasile, o in Russia, alla ricerca di film perduti, o che nessuno ha visto. Poi, come un apostolo, più freddo d’un mercante, li vende alle nostre televisioni satellitari. Io lo chiamo Django: perché nei giorni in cui è uscito Accordi e disaccordi di Woody Allen abbiamo scoperto che si esibisce suonando il banjo in un complesso. Così, l’ ultimo sabato di maggio siamo andati a sentirlo in un locale della Garbatella e, dopo lo spettacolo, gli ho detto: «Sono fiero di avere un nipote che suona il banjo», una frase in cui corsiva era la parola più neutra, nipote. (Poiché avevo appena saputo che il fidanzato di una nipote è un futuro nipote). A questo punto della conversazione, che si svolgeva nella trattoria Moschino, cui si arriva per vie incassate tra i muri, come se si fosse a Positano, e da dove si vede, al di là del fiume, il gazometro, è intervenuto Emidio Greco, il regista di quei due orgogliosi, fantastici film: L’ invenzione di Morel e Erhengard. «Franco ha ragione», ha detto, rivolgendosi a mio nipote Django. «Ma io ti voglio alla prova come scout, nel tuo vero mestiere. Perché non ci trovi quel film che Sternberg girò in Giappone nel 1953, The Saga of Anathan?». Non più musicista, né mercante, né apostolo d’una impossibile e incondivisa fede, Django rivelò che quel film non lo aveva visto. Per la precisione ammise: «Ma che te ne importa? È un film senza la Dietrich». È qui che si accese la discussione o, dovrei dire, il duello: come fosse un duello d’altri tempi. Tancredi e Clorinda. Django nei panni 33


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tutti virili di Tancredi ed Emidio in quelli mezzo maschili e mezzo femminili di Clorinda ma, stranamente, come nel Tasso, l’uno a sostenere le ragioni dell’altro. Per Django, Sternberg senza Marlene non aveva senso; per Emidio, era Marlene che non sarebbe divenuta la Dietrich senza Sternberg. Il desiderio. Il primo, durissimo colpo, lo sferrò Django. Ricordava d’aver letto nelle memorie di Luis Buñuel, Dei miei sospiri estremi, uno sferzante giudizio (su Sternberg) del regista spagnolo esiliato in Messico. A quel tempo, se non ho capito male, Buñuel andava bighellonando di qua e di là; aveva dato un’occhiata anche a Hollywood: dove si era imbattuto, in uno dei leggendari studios, proprio in Sternberg. Che faceva Sternberg? Assolutamente niente! C’erano inique masse di orientali (Buñuel avrebbe scritto orientali, non cinesi, o giapponesi, o malesi) che venivano manovrate dagli assistenti del regista viennese, il figlio del sarto Moses e di Serafine Singer. Poi, in un angolo, c’era la macchina da presa. Voi credete che Sternberg fosse là dietro? Niente affatto. La macchina da presa la piazzava lo scenografo (non l’operatore, proprio lo scenografo). Infine, Buñuel scoprì che neppure più tardi, in sede di montaggio, Sternberg avrebbe speso troppe energie: dell’intera faccenda si sarebbe occupato il montatore. E chi altri, se no? Non era pagato per quello? L’immenso, titanico, geniale regista austriaco che se stava girando Shanghai Express era allora trentottenne (Shanghai Express è del 1932) e se stava girando Shanghai Gesture era già quarantasettenne, non aveva energie da buttare via. L’amore per la Dietrich continuava a sfibrarlo. Protagonista di Shanghai Gesture, il suo capolavoro, era Gene Tierney al debutto, la storia 34


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con Marlene era finita da un pezzo, ma Gene Tierney non aveva forse gli zigomi più accentuati che si fossero visti sullo schermo dai tempi dell’attrice tedesca da Sternberg tanto amata? Ciò che Emidio contestava, con il cinismo degli uomini di cinema, era che Sternberg fosse innamorato della Dietrich. «Forse all’inizio», commentava. «Ma quando lei arrivò a Hollywood, la faccenda era già finita. La coppia si andava trasformando in una ditta. È che L’ angelo azzurro aveva reso un mucchio di quattrini, era una gallina dalle uova d’oro». La gelosia. Emidio, per suffragare la sua tesi, rammentò alcuni fatti della vita di questa coppia, cruciale nella storia del ventesimo secolo: cruciale, aggiunse, anche se nessuno sa più niente di loro o, forse, e per essere precisi, anche se nessuno sa più niente di Sternberg. Lo ammise a malincuore, con un bagliore di virile, aristocratica nostalgia: la democrazia di massa ha polverizzato ben altro che un amore, o un regista di cinema degli anni Trenta! I fatti che Emidio rammentò sono due. La prima moglie di Sternberg, l’attrice inglese Riza Royce, due anni dopo il matrimonio, nel 1927, chiese il divorzio. L’ anno seguente Riza e Josef si risposarono. Nel 1929, quando i due arrivarono a Berlino per L’ angelo azzurro, Riza Royce fu sconvolta per come il marito si comportava di fronte a Marlene. Fuggì e si ripresentò nel 1930 sulla banchina del porto di New York: con il piroscafo Bremen arrivava, trionfale, la Dietrich e lei, la Royce, le presentò due querele. Seguirono una transazione finanziaria e un nuovo divorzio. Nello stesso tempo, il marito della Dietrich, Rudolf Sieber, era rimasto a Berlino con la loro bambina. Poi aveva confessato alla moglie un suo 35


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interesse proprio per la bambinaia, o segretaria, ed era andato a vivere con lei a Parigi. Infine, in una pausa di questo coatto amore, si era trasferito negli Stati Uniti. Per fare che? Guarda caso, l’ aiuto regista di Josef von Sternberg. I tre furono visti insieme più e più volte, negli studios, nei ristoranti, per strada. Chiese Emidio: in che conto si doveva tenere questa relazione? C’erano davvero gli estremi perché si potesse parlare di una travolgente passione? Secondo Emidio, SternbergDietrich è il nome di una banda: tipo Bonnot. «L’unica differenza è che loro non uccisero nessuno. Al contrario, offrirono godimento a piene mani». La nostalgia. A proposito di mani. Quando Django ci rivelò che Sternberg disponeva di una leggenda, la sua refrattarietà assoluta per l’amore a pagamento, mi chiesi se quel mio futuro nipote fosse per caso un moralista. Specificò che con gli anni cresceva il desiderio di Sternberg di toccare con le mani: voleva toccare tutto, in specie i corpi delle donne, in specie i corpi di donne che non aveva mai toccato, però diventava sempre più difficile. Ma lui, testardo, si rifiutava di pagare. Desiderava, ricordando gli anni viennesi e i primi anni californiani, donne che lo amassero, o che credessero di amarlo. In fondo si accontentava di poco. Gli bastavano donne facili, o semi-facili. Lui non concupiva le ragazzine. Gli andavano bene anche tra i quaranta e i cinquantacinque. Chiara chiese chi gli avesse detto cose simili, ammise che lo aveva letto in un sito web, di uno svedese: un fanatico di Greta Garbo, che detestava la Dietrich e che cercava in tutti i modi di sminuire la sua eterna rivale. Il senso era: guardate con che razza d’uomo s’ è accompagnata quella puttana tedesca. Un tipo simile sarebbe quello che ha creato la sua 36


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fama. A proposito degli uomini della Dietrich ci sarebbe molto da speculare: ma qui Django letteralmente insorse. Dichiarò che si trattava di materia aliena. Aveva sedotto Gary Cooper girando Marocco? E che male c’era? Ma soprattutto: che c’entrava con la disputa in corso? Oppure: aveva fatto le poste a Jean Gabin, sotto casa sua a Parigi, dopo che il loro amore era finito? Ciò dimostrava nient’altro che la sua munificenza, la sua grandezza sentimentale. E ancora: Erich Maria Remarque in Arco di trionfo le aveva dedicato quelle belle pagine (ammesso che Remarque potesse scrivere qualcosa di buono)? Un’altra prova della sua potenza. Questo è il trionfo delle donne tedesche: esse ci fanno sognare, e sognano, anche quando l’amore è finito. La violenza. La sera di maggio era dolce. Ma ormai, passata la mezzanotte, i tavolini di Moschino erano quasi tutti vuoti. Cominciavo a temere che si stringessero i tempi e, in fondo, il tema principale non era stato ancora messo a fuoco. Il duello si basava per intero sull’esaltazione o svalutazione di Sternberg. La Dietrich sembrava una comparsa. O forse si dava per scontato che il personaggio principale era lei. In ogni caso, Django sfoderò un colpo a sorpresa. Citò Orson Welles, il quale aveva detto due cose terribili. Primo, che il vecchio Joe aveva amato in vita sua solo una donna, cioè Marlene, ma che in una sua autobiografia, Fun in a Chinese Laundry, l’aveva definita una stupida bambola. Secondo, che come regista aveva un immenso controllo sull’immagine, il che, diceva Welles, alla fin dei conti è kitsch. Fu l’unico momento della disputa in cui intervenni io: esibii un simpatico sacchetto di cartone su cui c’ era scritto «Out of Africa»: un oggetto insospettabile. Ebbene, là dentro c’erano tutte le mie cose, 37


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quelle che mi portavo dietro se rinunciavo alla giacca. Ricordate, dissi, i borselli da uomo? Erano orrendi, cioè erano kitsch. E che cos’è kitsch se non la sproporzione: il troppo grande, il troppo piccolo, l’inappropriato? Questi erano i borselli. Oggetti da donne, diventati oggetti da uomo. A tutto ciò rimedio con questo sacchetto che, lo ripeto, essendo casuale risulta insospettabile. Questo è un esempio di camp, vale a dire il kitsch portato ai limiti della parodia, il kitsch consapevole di se stesso. Dopotutto, di purezza non si può vivere, e al kitsch non si può rinunciare (non si può rinunciare alle esagerazioni, o ai borselli) ed ecco dunque la medicina: amore o non amore, la coppia Sternberg-Dietrich, nei suoi sette film, ce ne ha fornito una abbondante e ricca mistura. Non è forse la tesi di quella scrittrice americana? Non ne ricordavo il nome. Il riscatto. Strano a dirsi, fu proprio il mio tentativo di conciliazione, o la calma di Django, o la sicurezza delle proprie argomentazioni di Emidio a riaccendere la mischia e infine a mettere il dito sulla piaga. Per quanto concerne la materia cinematografica Emidio è un pozzo di scienza. Si ricordò all’improvviso di un biografo di Marlene Dietrich e giurò che ci avrebbe mostrato una foto che l’ eccelsa diva consegnò al suo mentore quando si separarono, dopo Capriccio spagnolo. Su quella foto Marlene aveva scritto: «Non sono nulla senza di te». «Già» replicò all’istante Django, mio nipote. «Ma come metterla con quanto disse Cocteau, se è di autorità che dobbiamo parlare? Disse: Marlene è il motore immobile di tutti i film di Sternberg». L’abbandono. Ecco, eravamo arrivati al punto. Il pro e contro Sternberg e il pro e contro Marlene altro 38


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non era che una disputa teologica. Nessun ritratto di un’epoca, esilio tra due continenti, o industria in lotta con l’arte; nessuna controversia estetica, camp contro kitsch; nessun conflitto antropologico o, se preferite, sociologico, maschio contro femmina. La vera questione era: tra il pittore e colui che viene ritratto chi è Dio? Chiara capì in modo fulmineo che la posta in palio era patologica. «Volevate parlare di una coppia, di un amore, e avete parlato di una cosa di cui non si può parlare». «Se è per questo» osservò Emidio, finalmente slacciandosi il colletto della camicia e allentandosi il nodo della cravatta, «se è per questo si può parlare di tutto. Basta non prenderle di petto, le cose; basta un pizzico di furbizia. La sapevate voi che i due ebbero un altro punto di contatto, al di fuori del cinema e degli amori loro? Quando Marlene era già una stella, tornò in Germania e Hitler le offrì tutto, anche se stesso. Lei sdegnosamente rifiutò. Il caso volle, invece, che quando Sternberg lasciò Vienna, Hitler andasse ad abitare proprio nella casa che era stata sua. Non la trovate una coincidenza straordinaria? Del resto, Sternberg, che era un elegantone, snobbissimo, a questi colpi di scena ci era abituato. A un certo punto si isolò dal mondo del cinema e si rifugiò in una casa disegnata da Richard Neutra, tutta di vetro e acciaio, e che fece circondare da mille alberi. Poi, come se niente fosse, la abbandonò e la vendette ad Ayn Rand: sapete? l’autrice di Noi vivi, quel terribile polpettone». Lassù, davanti alla luna che sprofondava dietro gli alberi, non si poteva negare che erano stati evocati fantasmi potenti e rammentate coincidenze, come tutte le coincidenze, di dubbio gusto ma di una levatura che lo stile di vita dei nostri vicini, dei camerieri e nostro, rinunciatario, contraddiceva. 39


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Franco Cordelli

La saga di Anatahan. Vent’ anni fa conobbi Claude Ollier. Credo che Ollier sia, almeno in Italia, più dimenticato di Sternberg. Nel 1980 c’era ancora qualcuno che sapeva chi Ollier fosse. Aveva fatto parte dell’avanguardia letteraria francese, uno degli esponenti del nouveau roman. Pochi, anche in quel tempo, avevano letto La messa in scena o Estate indiana. Anche per la fredda natura dei suoi romanzi (o anti-romanzi) Ollier sembrava distante, remoto come un dio. Invece era (così mi apparve, passeggiando per un intero pomeriggio tra Ponte Milvio, il Foro Italico, la Casa delle Armi e viale Angelico), un uomo struggente e, questa fu la cosa che mi colpì di più, era un appassionato difensore della causa araba, e dell’ Islam in genere. Nel 1981 Ollier mi spedì un suo libro, che ho riaperto solo ora, dopo quasi vent’ anni. Si intitola Souvenirs écran ed è una raccolta dei suoi scritti cinematografici. Tra gli altri, proveniente dai mitici Cahiers du Cinéma, «Une aventure de la lumière» (venti pagine) è dedicato al film giapponese di Sternberg: quello che nessuno di noi ha visto e forse mai vedrà. Di questo film, Ollier ricorda esistere una specie di mappa in cui Sternberg aveva tracciato lo schema del film: i personaggi e le loro passioni. Il maestro della luce di passioni ne aveva sei: «discipline», «desire», «jealousy», «nostalgia», «violence», «surrender», che vale tanto riscatto quanto abbandono, e così sono sette. L’ottava a mio parere è l’inestricabilità del tutto; ovvero del due. Ma due non significa doppio, non significa che Sternberg e Dietrich si specchiavano l’uno nell’altra, come vogliono le tolleranti filosofie contemporanee. Enea non è il doppio di Didone, Romeo non è il doppio di Giulietta, Josef non è il doppio di Marlene. Doppio è una qualità, quindi è 40


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Che tutto abbraccia

una cosa semplice. Due è una quantità, quindi è una cosa complessa. I protagonisti. Una musa fatale per Joseph von Sternberg Maria Magdalena von Losch, in arte Marlene Dietrich, è nata a Kostrzyn (Germania) il 27 dicembre 1902 (anche se molti scrivono 1904), ed è morta a Parigi il 6 Maggio 1992. Joseph von Sternberg, invece, il regista con il quale instaurò un felice rapporto professionale, è nato a Vienna il 29 maggio 1894 ed è morto a Hollywood il 22 dicembre 1969, a causa di una crisi cardiaca. Prima d’incontrare il suo pigmalione, Marlene Dietrich era già comparsa sullo schermo durante gli ultimi anni del cinema muto, dal 1922 al 1929. Sternberg la nota nella rivista «Zwei Krawatten» e, quando decide di girare L’ angelo azzurro (1930), il film tratto dal Professor Unrat, un romanzo di Heinrich Mann, le affida il ruolo di Rosa Fröhlich (Lola-Lola sullo schermo). Quella di Lola-Lola è una figura di donna sciantosa, e assurse subito a simbolo d’una seduzione spietata e crudele, che determinò la fortuna dell’attrice. Il sodalizio fra Marlene Dietrich e Joseph von Sternberg continuò ancora. Oltre all’Angelo azzurro, girarono insieme Marocco (1930), Disonorata (1931), Shanghai Express (1932), Venere Bionda (1932), L’ imperatrice Caterina (1934) e Capriccio spagnolo (1935). Il distacco avvenuto tra la Dietrich e Sternberg nocque soprattutto a quest’ultimo, che, dal 1935 in poi, non riuscì più a trovare un indirizzo e un senso precisi. Film come Desiderio di re (1936), Il sergente Madden (1939), I misteri di Shanghai (1941), L’ avventuriero di Macao (1952), L’ isola della donna contesa (1953) e Il pilota razzo e la bella siberiana (1957) non ebbero molta fortuna. 41


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