Akira Kurosawa Giorgio Penzo

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Giorgio Penzo

l’ultimo imperatore

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Giorgio Penzo è nato a Trieste e si è laureato in filosofia con una tesi in Storia del cinema (relatore Lino Micciché, co-relatore Claudio Magris). Poliglotta e viaggiatore in tutto il mondo, ha pubblicato con Petite Plaisance Orson Welles fra Quarto potere e Il processo (2015) e, assieme al figlio Marco Stanley Kubrick (2017). Per Falsopiano ha scritto A proposito di Ingmar Bergman 1955-1982 (2018).

AKIRA KUROSAWA

Nel panorama del cinema nipponico, Akira Kurosawa si è affermato nel dopoguerra come il grande (e leggendario) maestro riconosciuto. Indubbiamente il successo ottenuto da Rashomon (Leone d’Oro a Venezia) ha contribuito a creare un alone quasi mitico intorno alla sua figura di artista. In realtà, fin dagli anni ’30 il cinema giapponese era già vivo e performante. Due registi del Sol levante, Mizoguchi e Ozu, erano ben conosciuti dagli appassionati di cinema occidentali, ma il grande successo internazionale di Rashomon contribuì non poco a riportare in auge vecchi autori e a decretare il successo di molti altri a venire. Ma sarà ancora la stella di Kurosawa, “l’Imperatore”, a dare lustro e sostanza al cinema giapponese, con una serie ininterrotta di capolavori. Dal cinema in costume a quello sulla crisi post-bellica giapponese, dal noir poliziesco a quello di carattere sociale, Kurosawa, sperimentatore instancabile, spazia splendidamente in una perfetta fusione di influenze, che provengono dalla cultura occidentale e dalle nobili tradizioni del suo paese.

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AKIRA KUROSAWA

€ 20,00 www.falsopiano.com/kurosawa.htm

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Sommario

Il Giappone fra imperialismo, sconfitta e palingenesi

p. 9

Prologo

p. 13

Il primo Kurosawa (1943-1947)

p. 29

Sugata Sanshiro (1943, 1945)

p. 29

Non rimpiango la mia giovinezza (1946)

p. 37

Una meravigliosa domenica (1947)

p. 43

L’angelo ubriaco (1948)

p. 47

Cane randagio (1949)

p. 51

Rashomon (1950)

p. 55

Vivere (1952)

p. 62

I sette samurai (1954)

p. 68

Testimonianza di un essere vivente (1955)

p. 76

Il trono di sangue (1957)

p. 81

I bassifondi (1957)

p. 86

La fortezza nascosta (1958)

p. 91

La sfida del samurai (1961)

p. 97


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Sanjuro (1962)

p. 103

Anatomia di un rapimento (1963)

p. 106

Barbarossa (1965)

p. 111

Dersu Uzala (1975)

p. 115

Kagemusha (1980)

p. 121

Ran (1985)

p. 127

L’ultimo Kurosawa (1990-1993)

p. 135

Sogni (1990)

p. 135

Rapsodia in agosto (1991)

p. 139

Madadayo (1993)

p. 142

Epilogo

p. 145

Filmografia

p. 148

Riferimenti bibliografici

p. 159


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Akira Kurosawa. L’ultimo imperatore

Il Giappone fra imperialismo, sconfitta e palingenesi Il giovane Kurosawa vive la propria adolescenza e maturità nel Giappone che, sotto la spinta del regime militare, ambisce alla conquista del Pacifico e non solo. La classe militare, accecata dai successi contro la Russia nella guerra del 1904-1905, presume che la Prima guerra mondiale abbia evidenziato la decadenza delle cosiddette democrazie occidentali anche in Asia. Così ritiene che i vecchi imperi europei come quello olandese (Indonesia), francese (Indocina) e britannico (Malesia e Birmania) possano cadere sotto i colpi della nuova armata nipponica, forte nel suo esercito, fortissima sui mari e tecnicamente avanzata con i suoi famosi “Zero” nei cieli. La debolezza della Cina, allora un colosso di argilla, spinge i giapponesi alla conquista del “continente” cinese, un’impresa che porteranno avanti con spregiudicatezza negli anni ’30 fra stragi orrende (a Nanchino nel 1937) e legittimazione di un razzismo totale verso i cinesi, che si estenderà poi agli europei sconfitti nella prima fase della guerra. È un Giappone antico, che ricollega la propria forza e la propria storia alla mitica madre Amaterasu, genitrice di una dinastia di imperatori di carattere divino, che trova in Hirohito l’ultimo figlio, destinato a un successo mondiale. Ma così non sarà e, nonostante i brillanti successi iniziali contro le potenze occidentali, a poco a poco il confronto si rivelerà sempre più impari di fronte alla strapotenza industriale

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degli avversari e si concluderà nel modo più catastrofico, con le due terribili bombe che chiuderanno la guerra e l’avventura militare. Seguiranno i nove anni del protettorato americano, che daranno poi spazio al nuovo Giappone, che tutti conosciamo. In questi anni studia e inizia a operare Akira Kurosawa, il regista per eccellenza del cinema giapponese, che infatti nelle sue opere rappresenta in modo eloquente questa fase di transizione della storia nipponica, divisa fra un passato glorioso, un presente disastroso e un futuro con i contorni non ben disegnati. Nei film dell’immediato dopoguerra, come in Una meravigliosa domenica, traspaiono le convulsioni di un Giappone in cui le rigide regole del passato non esistono e non sono più utili, mentre quelle del presente parlano solo di effimeri piaceri, di menti che annegano nel sakè e di un mondo a cui mancano tutte le fondamenta. Allora Kurosawa, che pur realizza un film come Vivere, trova il riscatto della solidarietà tra uomini integri nell’epico I sette samurai, oppure esalta l’eroe singolo e mal considerato da tutti nei successivi La sfida del samurai e Sanjuro, dove un uomo da solo e contro tutti porta a compimento una giustizia che è quella di un angelo terribile. In altri film quali Testimonianza di un essere vivente o Anatomia di un rapimento scorgiamo invece le premesse di un grande Giappone industriale, che proprio negli anni ’70 diventerà una minaccia formidabile per tutti gli altri Paesi industriali del mondo e che realizzerà così la propria palingenesi, sostituendo alle armate imperiali le armate di managers, che invaderanno il mondo, proponendo i prodotti di un’industria che

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non cesserà di stupire. Il Giappone ha perso la guerra militare, ma in fondo ha vinto la battaglia contro i lati oscuri della propria cultura, che ritorna nel dopoguerra forte e decisa, ma priva di quegli elementi di estremismo, di razzismo, di superbia assoluta, che avevano caratterizzato questo popolo per tanto tempo. Il sapore della sconfitta, in un certo senso, ha deviato il corso di questo mondo di cerimonie, ne ha addolcito i termini, senza scalfirne la determinazione. Il Giappone è un paese fuori dal normale, nel male e nel bene, ma sicuramente con una sua identità e una sua forza, che un grande regista come Akira Kurosawa svela al mondo nei suoi curatissimi film.

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Rashomon (1950)

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Prologo Nel panorama del cinema nipponico Akira Kurosawa è emerso nel dopoguerra come il maestro riconosciuto. Indubbiamente il successo ottenuto da Rashomon (1950) con il Leone d’Oro a Venezia ha contribuito a creare un alone quasi leggendario intorno alla sua figura. Ma cosa si conosceva del cinema giapponese, a parte Kurosawa? Come dicevo, Rashomon appare nel 1950 come il risultato di una cinematografia asiatica, in particolare giapponese, e rappresenta un polo d’interesse per tutti i cinefili più accorti. In realtà, fin dagli anni ’30, il cinema giapponese era vivo e performante. Due registi giapponesi, cioè Mizoguchi e Ozu, erano conosciuti dagli appassionati di cinema in occidente. Il grande successo internazionale di Rashomon riporta in auge i vecchi autori e decreta il successo di altri che verranno. Comunque è certo che la figura di Kurosawa campeggia indiscussa come simbolo del cinema giapponese di quegli anni e dei decenni successivi. All’inizio degli anni ’50 si potevano vedere nei cineforum cittadini film come Viaggio a Tokyo (1953) di Ozu, che descriveva molto bene le ansie e i rapporti familiari del periodo postbellico; anche Mizoguchi riprende i temi a lui cari nel periodo pre-bellico con La Vita di O-Haru - Donna Galante (1952), che descrive con ricchezza di particolari la trasformazione di una donna da amante e concubina di un ricco signore, attraverso una serie di cadute, in un’infima prostituta. Ma è con I racconti della luna pallida d’agosto (1953) che Mizoguchi ricuce i rap-

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porti dentro una famiglia con i bisogni di un’affermazione sociale. Con Nagisa Oshima il cinema giapponese espone in Notte e nebbia del Giappone (1960) le controverse vicende della Sinistra giapponese, sconvolta dalle rivelazioni del XX Congresso del PCUS, che genererà la spaccatura e la successiva riunificazione del Partito Comunista Giapponese. Alle vicende intricatissime di questo film fa seguito alcuni anni più tardi il rinomato L’impiccagione (1968), in cui al tema principale dell’atteggiamento sulla pena di morte si unisce il palese razzismo verso la vittima, che è coreana. Inevitabile nella filmografia di Oshima il tema de La cerimonia (1971), che abbraccia quattro momenti della vita di un uomo, Masuo, confrontato da questo rituale tipicamente giapponese. Comunque è la stella di Kurosawa, “l’Imperatore”, che darà lustro e sostanza al cinema giapponese, con una serie ininterrotta di capolavori. Dal cinema in costume a quello sulla crisi post-bellica del Giappone, dal cinema poliziesco a quello di carattere sociale, Kurosawa spazia splendidamente in una perfetta fusione di influenze, che provengono dalla cultura occidentale e le nobili tradizioni del suo paese. Andiamo con ordine: iniziata la sua attività cinematografica quasi contemporaneamente alla disastrosa sconfitta del Giappone nel secondo conflitto mondiale, la cinematografia di Kurosawa appare come una fenice che sorge dal caos del dopoguerra. L’attività cinematografica del regista inizia nel 1943-1945

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con la biografia di un esperto di arti marziali, Sugata Sanshiro, la cui vita rappresenta da un lato la narrazione delle arti marziali, a partire dal jiu-jitsu, sino agli albori del karate, e dall’altro descrive la disciplina mentale e morale di un uomo/eroe, che rappresenta molto bene una caratteristica basilare del popolo giapponese. Nel successivo Non rimpiango la mia giovinezza (1946) la vita di una ragazza attraverso le vicende del Giappone, che diventa sempre più militarista e imperialista, viene descritta non solo come un impegno biografico, ma come una sorta di catarsi della giovane, del mondo universitario e del Giappone intero, da quella sorta di malattia mortale che il fascismo aveva introdotto nelle loro vite. Una meravigliosa domenica (1947) parla di un Giappone popolato di ladri, prostitute e gente che opera nel mercato nero. È un Giappone misero, bombardato, distrutto moralmente e fisicamente, ma che cerca di rialzarsi e di procedere su vie nuove. Ricordiamo che il controllo politico americano sul Giappone durò fino al 1954, e ciò ebbe una forte influenza sulla rinascita del paese. Lo scontro fra vecchi ideali e nuovi sentimenti democratici è molto forte e spesso la fusione non riesce. Il cinema di Kurosawa è anche la rappresentazione di tale insuccesso e di come spesso bisogna rivolgersi al passato lontano, al Medioevo, per ritrovare una fibra morale che identifichi il Giappone come Stato con una storia autonoma e particolare. Nel 1948 inizia il grande Kurosawa e inizia il sodalizio con il suo attore feticcio, Toshiro Mifune. Ne L’angelo ubriaco si

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Rashomon (1950)

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parla del gangsterismo, del famoso yakuza, cioè del gangsterismo giapponese così in voga nel cinema fra gli anni ’80 e ’90. Il dialogo fra il medico, preso dalla sua missione, e il gangster, colpito da emottisi, è un dissidio fra due volti dell’etica giapponese, la volontà di darsi da parte del dottore e il tutto particolare senso dell’onore del protagonista, che si scontra con gli altri gangsters, che non ne hanno affatto. Sarà infatti il suo capo, il suo boss, a sottrargli lo spazio criminale che gli aveva assegnato e metterlo contro un altro affiliato. Questa prima sfida fra due samurai, l’uno buono e l’altro cattivo, ci porta ai due volti dell’onore gangsteristico, come se ci fossero due angeli, quello del Bene e quello del Male. Il gangster, che aveva ideato una fuga per sé e la propria donna, finirà ucciso, con le proprie ceneri dentro un’urna, che l’amata riporterà in un villaggio sognato. La passione per il poliziesco, che appare sovente nel cinema di Kurosawa, si esplica nel successivo Cane randagio (1949). Qui il filo conduttore è una pistola, che conduce di volta in volta un accanito inseguitore (un giovane Toshiro Mifune) ad addentrarsi nei meandri del crimine postbellico, dove in una Tokyo allucinata si inseguono piccoli mercati di armi, che permettono piccoli e grandi crimini. Minuziosa ricerca del dettaglio e derivazione dal thriller americano e dal polar francese, Cane randagio rappresenta un piccolo gioiello, che precede il grande capolavoro, poiché Rashomon (1950) è sicuramente un grandissimo film, con un’ambientazione straordinaria e un gruppo di attori che, ciascuno a suo modo, racconta la storia di un crimine che si svolge in un bosco. Con una citazione di sa-

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pore pirandelliano, l’autore mostra i caratteri dei tre personaggi, ciascuno tendente a difendere se stesso e la propria onorabilità (la famosa dignità giapponese). Ma l’effetto più straordinario è quello della maga che interpreta la voce del morto, della vittima, in una scena toccante, di fronte a un tribunale silenzioso. Ma è tutto il panorama che attraversa il bosco, la riva di uno specchio d’acqua, i movimenti a volte lentissimi del samurai, quelli violenti e rapidissimi del brigante, la recita teatrale della donna, vittima o carnefice, che si compongono in un insieme di gesti e di parole terrene e infernali, ma comunque simili a una rappresentazione teatrale: il coro, cioè i tre viandanti, che sotto la porta di Rasho attendono la fine del diluvio, commenta e interpreta gli straordinari fatti avvenuti. È un film basilare per il nuovo cinema giapponese e un rombo di tuono per il cinema mondiale, che da quel momento non sarà più lo stesso. Molto più intimistico è Vivere (1952), dove un impiegato ministeriale, colpito da una terribile malattia, non sa più come gestire la propria vita, che per tanti anni ha avuto un calendario preciso e intoccabile. Sarà un fatto minore, cioè la possibilità di costruire un parco giochi per bambini sopra un desolante e sozzo acquitrino pieno di mosche e zanzare, il motivo di vita per il nostro eroe durante gli ultimi mesi. Piegato nel fisico e combattuto dai suoi colleghi funzionari, alla fine riesce a far approvare il progetto dal sindaco. Mentre la sua figura svanisce lentamente su un’altalena del nuovo parco, i suoi colleghi, alcuni a lui amici, altri del tutto avversi, discutono sul suo ultimo atto, in una mirabile cerimonia che li raccoglie per onorare il morto. In questa scena lunghissima, che sembra dilungarsi fra

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Rashomon (1950)

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© Edizioni Falsopiano - 2019 via Bobbio, 14 15121 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri In copertina: La fortezza nascosta (1958) Prima edizione - Luglio 2019


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