9 minute read

Il mio ergastolo

Natya Migliori

Donne coraggio, donne resilienti, donne simbolo di una vita strappata che, a brandelli, può essere ricucita. Tante, in Sicilia e non solo. E troppo spesso dimenticate. Chiara Frazzetto è una di loro.

Advertisement

Nel 1996, a Niscemi, la mafia stermina la sua famiglia.

Sono le 18,30 di lunedì e Chiara si trova a Catania, dove frequenta l’Università. Un po’ a malincuore aveva salutato la famiglia, quell’inizio settimana. Non avrebbe voluto lasciare i sorrisi della madre, l’affetto del padre, le coccole del fratello Giacomo. Ma il dovere, le lezioni universitarie l’avevano fatta salire sul solito pullman, per tornare alla solita routine. Una routine che probabilmente le ha salvato la vita, ma gliel’ha anche cambiata per sempre: da quel lunedì, Chiara mai più rivedrà il padre e il fratello. I fratelli Infuso, Salvatore e Maurizio, entrano nell’attività di famiglia, un negozio di abiti da sposa, per chiedere il pizzo. Salvatore Frazzetto tiene un’arma in negozio, probabilmente perché non è la prima volta che riceve questo genere di visite. Ma la pistola è troppo lontana da lui. Troppo vicina a uno degli Infuso. Salvatore cerca il pulsante per dare l’allarme al comando di polizia che dista solo 200 metri dal negozio. Infuso cerca il grilletto. E la sua mano è più veloce. Gli altri colpi sono per Giacomo, mentre la madre Agata, in preda al panico, corre fuori per cercare aiuto. Solo un caso, la pistola inceppata, risparmia la vita ad Agata, che non può far altro che veder morire il marito e il figlio. La sopravvivenza diventa per lei maledizione. Al dolore sopravvive solo per cinque mesi.

Il suicidio della madre lascia Chiara da sola. Definitivamente. Disperatamente.

Chiara è disperata, annientata, Non molla. Resiste. È forte. Si riprende i brandelli di vita e la ricuce con tenacia.

Una legge di solidarietà che porta il suo nome, le permette di trovare un lavoro, di cambiare città, di farsi una famiglia. É mamma adesso, di due figli “grandi”, diciotto e vent’anni, entrambi studenti. Ed è mamma che non dimentica e continua a raccontarla la sua storia. Per le scuole, ai giovani, ai minorenni in carcere. Perché cambiare si può, perché resistere si deve. E non può essere la paura ad averla vinta.

“L’onorevole Piero Grasso - racconta sorridendo Chiara Frazzetto a Le Siciliane- una volta mi disse che sono “tosta”, nel senso siciliano del termine. E in effetti lo sono, alla mia maniera. Collaboro con Libera, con la Fondazione Progetto Legalità ed ho preso parte a tanti progetti, come il film Io ricordo, di Ruggero Gabbai. Ma soprattutto mi sono prefissa l’obiettivo di girare l’Italia per raccontare la mia storia ai giovani, a scuola o nelle carceri minorili. Le nostre storie devono passare da lì. È lì che occorre portare la nostra testimonianza, spronare al cambiamento e a continuare sulla via della legalità.”

Avevi solo ventun anni quando la mafia ha massacrato la tua famiglia. Chi era Chiara prima del delitto e chi è diventata dopo?

Il 16 ottobre 1996 la mafia ha distrutto la mia famiglia uccidendo mio padre di soli quarantasei anni e mio fratello di soli ventidue. Mia madre è rimasta viva solo perché la pistola si è inceppata. Io ero una ragazza spensierata prima del duplice omicidio, una ragazza piena di sogni che vedeva il mondo tutto roseo. Frequentavo l'Università e abitavo a Catania dal lunedì al venerdì. Il sabato e la domenica ritornavo a Niscemi per stare con la mia famiglia. Dopo il tragico evento ho lasciato l'università per occuparmi del negozio, del processo e per stare vicino alla mia mamma rimasta sola. Il mio sorriso si è spento di colpo e mi sono sentita catapultata nel mondo dei grandi.

Tua madre ti ha lasciato una lunga lettera in cui ti pregava di allontanarti dalla Sicilia, da Niscemi, da questa terra che non merita nulla. Cosa ti ha spinto a restare e ad andare avanti?

Mia madre mi lasciò questa lunga e tristissima lettera dove esprimeva tutto il suo dolore e la paura che aveva per la mia incolumità, pregandomi di andare via. Ma io, un po’ per incoscienza un po’ per orgoglio, ho deciso di rimanere. Non potevo scappare, al solo pensiero mi sentivo una codarda e così decisi di rimanere. Ho sempre amato la Sicilia, terra bellissima e martoriata. La forza di andare avanti mi è stata data dall'alto, dai miei cari, mi è stata data da mio marito e da miei figli, da quella sete di giustizia...

Hai anche rinunciato alla scorta. Perché?

Ho rinunciato alla scorta perché non mi sentivo libera, mi sentivo prigioniera. Ogni qualvolta avevo la necessità di uscire dovevo chiamare, avvisare...non si può privare una ragazza così giovane della libertà. Ho sempre amato la mia libertà, non potevano privarmi anche di questo. Era chiedermi troppo. Decisione che il procuratore della repubblica di Caltagirone non ha condiviso, ma ha accettato per mia volontà. Oggi, con il senso del poi, ritengo che è stata una decisione alquanto azzardata.

Nel 2003 i due assassini vengono condannati: Salvatore Infuso a 28 anni per duplice omicidio, il fratello Maurizio a 17 per concorso. Ma nel 2018 incontri per strada l’uomo che ha ucciso la tua famiglia, fuori per buona condotta. Dopo allora, quanto e come è cambiato il tuo concetto di giustizia?

Quando il criminale che ha ucciso i miei cari è stato scarcerato il mondo mi è crollato addosso. Avevo rinunciato a girare per le scuole, per la forte delusione. Non ci credevo più. È stata Tina Montinaro a farmi ritrovare la forza e la voglia di continuare. Una sera al telefono, prima mi ha fatto sfogare, poi mi ha detto: “E adesso? Cosa vuoi fare, piangerti addosso? E tutti questi anni li vuoi sprecare così? Così gliela dai vinta. Pensaci stanotte”. Ci ho pensato e mi ha convinta: aveva ragione. Con la sua liberazione però ho preso coscienza di una cosa che mi fa tanto male: l'ergastolo è mio e non suo. Ho preso coscienza che mi sento intrappolata in un dolore grande che riuscirà a spegnersi solo quando il mio cuore cesserà di battere e miei occhi si chiuderanno per sempre. Solo quando la mia anima si incontrerà nuovamente con quella dei miei cari.

L’amicizia con Tina Martinez, la vedova di Antonio Montinaro, capo della scorta del giudice Giovanni Falcone, è un altro importante capitolo della tua vita.…

Tina è una persona vera, di cuore e di “pancia”. Ha una grande forza e una grande sensibilità e mi ha insegnato a non piangermi addosso. Lei per prima non l’ha mai fatto. Quando il marito è stato ucciso, Tina ha dovuto prendere in mano le redini della vita sua e dei suoi figli, da sola, lontana dal paese di nascita. Ha avuto grande coraggio e lo ha trasmesso anche a me. Solo una volta l’ho vista piangere, quando, da sole, ho finito di raccontarle la mia storia. Mi ha dato un buffetto sulla guancia, sorridendo tra le lacrime, e mi ha detto: “Ce l’hai fatta alla fine a farmi piangere, eh?” Da allora non l’ho mai vista far trapelare all’esterno le sue emozioni. Ha una corazza fuori, ma dentro una sensibilità straordinaria. È per me amica ed esempio.

Niscemi è un piccolo paese, da sempre costretto a guardare in faccia la mafia. La tua storia e la tua determinazione sono state esemplari, persino una legge di solidarietà porta oggi il tuo nome. Come ha reagito la gente di fronte al tuo coraggio? Hai avuto sostegno o sei rimasta ancora più sola?

All'inizio, a parte i pochi rimasti attorno a me, c'è stato il vuoto. La gente aveva paura di quella ragazzina sotto scorta che aveva deciso di costituirsi parte civile al processo penale contro gli autori del crimine, avevano paura di quella ventunenne che aveva deciso di alzare la testa contro la mafia. Ma a distanza di anni e soprattutto adesso mi rendo conto che la ragazzina che ero ha lanciato un messaggio di coraggio, di forza, di amore. E quel messaggio ha convinto molte altre persone a dire di no alla mafia.

È cambiata la Sicilia rispetto ad allora? Venticinque anni di storie come la tua sono serviti a creare una coscienza antimafia?

Negli ultimi venticinque anni, la Sicilia è cambiata, la mentalità è cambiata, storie come la mia sono riuscite a cambiare la mentalità e a dar forza a chi magari aveva paura di denunciare. Ne ho prova tangibile nelle centinaia di messaggi e di lettere che continuo a ricevere. Un imprenditore un giorno mi ha detto: "Se tu a ventun anni sei riuscita a dire no alla mafia, io a quarantacinque ho il dovere di farlo.” Questi sono segnali che ti fanno capire che hai piantato tanti semini buoni e che il tuo tempo, i tuoi sacrifici, il tuo dolore non sono stati vani.

Quando senti qualcuno che per legittima difesa impugna una pistola ed uccide, cosa pensi? È giusto difendersi a costo di un'altra vita? Una legge sulla "legittima difesa" Chiara Frazzetto come la farebbe?

Non sono una giurista, ma in linea di massima sono d'accordo con la legittima difesa, purché proporzionata all'offesa.

Oggi si parla poco di racket. È davvero finita?

Non penso sia finita, ma penso che la gente abbia meno paura perché le istituzioni sono più vicine al cittadino onesto. Il mondo dell'antimafia ha aiutato molto, riesce a stare accanto alla gente che si sente sola, che molte volte dice "ma chi me l'ha fatto fare?". Dire di no alla mafia è una strada tutta in salita, scomoda, tortuosa. Ma vale la pena percorrerla, per i nostri figli e per le generazioni future. Le leggi antimafia sono d'aiuto per i cittadini, anche se credo bisogna migliorarle. Ritengo che ci siano dei buchi legislativi che è doveroso colmare. Un dovere morale verso chi non ha chinato la testa.