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Le parole che costruiscono muri

Fulvio Vassallo Paleologo

I temi dell’immigrazione, in particolare dei soccorsi in mare e dell’accoglienza, hanno costituito per anni il terreno privilegiato per diffondere la retorica dell’insicurezza e polarizzare il dibattito pubblico fino al rovesciamento del rapporto tra fatto e menzogna: lo stesso meccanismo applicato alla pandemia per aumentare la paura e fomentare l’odio verso il diverso.

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A proposito di immigrazione e soccorsi in mare, il potere della parola è stato utilizzato non solo per diffondere disinformazione ed odio, ma per orientare il consenso politico ed incidere sulle decisioni degli organi della giurisdizione. Una polarizzazione che ha investito il sistema di governo, le decisioni degli apparati amministrativi e i procedimenti davanti all’autorità giudiziaria. L’uso scorretto delle parole o il ricorso a termini evocativi di nuovo conio, come “taxi del mare” e acronimi poco verificabili, come FRONTEX, Agenzia dell’Unione europea per il controllo delle frontiere esterne, hanno sovvertito il rapporto tra sistema delle fonti del diritto, organi giurisdizionali, decisioni dei ministri, opinione pubblica, consenso elettorale, un fatto che ha reso il processo penale sensibile alle maggioranze di governo. In tempi più recenti, la stessa polarizzazione del discorso pubblico si è concentrata sui temi della pandemia, con la stessa crisi di razionalità che si era già evidenziata in passato di fronte all’emergenza permanente dei “flussi migratori” e degli “sbarchi o ingressi di clandestini”, La paura del diverso, se non l’odio verso la persona straniera, riemerge non appena il tema dell’immigrazione si collega alle nuove emergenze dettate dalla pandemia. L’immigrato – ma anche, con sfumature diverse, chi risiede stabilmente da anni e tutti coloro che cercano di fare ingresso nel nostro paese, nella maggior parte dei casi perché costretti da situazioni intollerabili nei propri paesi o nei paesi di transito – vengono visti come i nuovi untori, i diffusori di nuove varianti del virus, o come quella parte di popolazione che rimane libera di circolare, mentre la maggior parte degli italiani deve subire periodicamente limitazioni alla propria libertà di circolazione. Ritorna così in auge la parola clandestino, che non esiste nel lessico delle norme in materia di immigrazione ed asilo, le quali anzi riconoscono espressamente allo straniero «comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato […] i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti» (art. 2 del Testo Unico Immigrazione, d.lgs. n. 286/1998). Anche se i giudici riconoscono la natura discriminatoria del termine, il suo uso ritorna a diffondersi come in tutti i momenti di crisi in cui non si trovano soluzioni efficaci e condivise e si cerca di ricorrere alla figura del capro espiatorio. Il Testo Unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998) utilizza i termini «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato», «cittadini stranieri in posizione di irregolarità», «immigrazioni clandestine» (art. 12 d.lgs. cit.). Lo “straniero” destinatario dei provvedimenti di respingimento, espulsione o trattenimento in un centro di permanenza per i rimpatri (CPR) rimane pur sempre un soggetto al quale vanno riconosciuti i diritti fondamentali della persona. Dunque nessuna persona è “clandestina” o “illegale”Tuttavia la materia della protezione delle persone in fuga è stata inquinata con l’uso strumentale di termini che hanno prodotto la stigmatizzazione delle persone che arrivavano nel nostro paese dopo partenze forzate da eventi bellici, da persecuzioni di vario genere, disastri ambientali o condizioni di sopravvivenza ridotte al minimo. Il sistema di accoglienza è stato descritto come una “pacchia” alla quale porre fine e si è smantellato un sistema di accoglienza che fino al 2018 era ampiamente strutturato e che oggi non sembra in grado di fare fronte alla ripresa degli arrivi, pure in tempi di pandemia, che colpisce anche i paesi di origine e transito, aggravando le condizioni di impoverimento e di crisi sanitaria.

IN-SICUREZZA DI PAESI TERZI

Eppure, malgrado questa situazione si vada aggravando giorno dopo giorno, si sommano gli ostacoli procedurali per le domande di protezione internazionale, ad esempio con l’utilizzazione di una lista di “paesi terzi sicuri”, con le “procedure accelerate in frontiera“ e con le nuove misure che si stanno prospettando a livello europeo contro le nuove “invasioni di massa”, si sta realizzando la cancellazione sostanziale del diritto di asilo e alla protezione internazionale o umanitaria. Funzionale ad una narrazione contraria al riconoscimento delle istanze di protezione si diffonde così la distinzione tra richiedenti asilo e “migranti economici”, per i quali l’unica soluzione praticabile sembra il respingimento o l’espulsione con accompagnamento forzato, anche se poi, la mancata collaborazione dei paesi di origine e di transito rende i rimpatri una prospettiva residuale. Sovente però la differenza non dipende da una diversa situazione delle persone nei paesi di origine, ma dalle procedure amministrative alle quali sono sottoposte al loro arrivo in Italia. La diffusione della pandemia da Covid 19 sta inoltre chiudendo molte vie di ingresso legale per soggiorni brevi, che in passato costituivano la via più ampia per fare ingresso nei diversi paesi europei, anche in assenza di un contratto di lavoro, e di restarvi poi in una situazione irregolare, come overstayers. Sembra quasi che, quanto più fondate siano le possibilità delle persone di ottenere asilo in Europa, maggiore risulti la violenza applicata nei loro confronti per impedire che varchino la frontiera. La prima violenza deriva dall’uso di termini impropri come assalto ai confini esterni dell’Unione europea se non sostituzione etnica, che sono del tutto smentiti dalla dimensione reale del fenomeno e dalle storie personali che riferiscono i pochi giornalisti che riescono ad avere accesso in queste zone di frontiera, ormai del tutto militarizzate e trasformate, come ai confini polacchi e ungheresi, in terra di nessuno. Dove si muore per il freddo o per la mancanza di cibo. Sul fronte penale interno anche la parola “scafista” è stata spesso utilizzata a sproposito, magari con la pretesa di tranquillizzare l’opinione pubblica dopo i rituali arresti che di solito vengono eseguiti dopo gli sbarchi autonomi o le operazioni di soccorso. Ma anche in questo caso si tratta di un termine che viene usato in maniera impropria, sia perché si può trattare di “scafisti per necessità”, come hanno accertato alcune sentenze dei giudici, sia perché possono essere membri di una organizzazione criminale transnazionale, come pure smuggler, che operano in autonomia, conseguendo un profitto ingiusto e facilitando l’ingresso irregolare, oppure ancora soggetti in fuga o in condizioni di vulnerabilità, come minori stranieri non accompagnati. Si sono invece definiti come esponenti della sedicente Guardia costiera libica personaggi che risultavano da anni coinvolti nel traffico internazionale di persone e che sono pure finiti sotto inchiesta da parte del Tribunale Penale internazionale e delle Nazioni Unite, dopo avere partecipato a corsi di formazione in Italia ed essere rimasti al comando delle motovedette donate dal nostro paese per intercettare in acque internazionali i migranti in fuga dalla Libia.

MURI DI PAROLE

Per molti la Libia, seppure priva di unità territoriale e politica, con un governo ancora provvisorio e con un difficile percorso elettorale ancora tutto da svolgersi, rimane un paese nel quale, malgrado evidenti violazioni dei diritti umani che le autorità non riescono ad impedire, se non sono direttamente complici, è lecito contribuire a bloccare e ricondurre con la forza persone migranti che cercano di fuggire. Già usare il termine “Libia” o l’altro di “Guardia costiera libica”, nell’attuale situazione di contrapposizione di governi e milizie, costituisce un espediente linguistico che allontana da scelte razionali ed efficaci, che tengano conto della persistente situazione di frammentazione politica e militare, nonché delle reali condizioni delle persone, libici compresi, che si trovano su quel territorio o vi transitano. Il campo nel quale il senso comune e persino alcune decisioni giudiziarie sono stati influenzati dalle parole che fanno muro, pur non avendo alcuna funzione normativa nella costruzione del sistema dei controlli di frontiere e nell’esercizio della sovranità nazionale, è quello del diritto europeo ed internazionale. A questo riguardo si sono sprecati i richiami a scelte dell’Unione Europea che avrebbero dovuto risolvere i problemi derivanti dalla incapacità di trovare soluzioni razionali, efficaci e rispettose dei diritti umani a livello nazionale. Adesso si arriva a parlare di “attacco ibrido” per descrivere la nuova “emergenza” che si è creata al confine tra la Polonia, la Lituania e la Bielorussia, e si discute addirittura di sospendere il regime di libera circolazione interna Schengen, con la scusa della pandemia, ma in realtà per contrastare i numerosi movimenti secondari, dai paesi del Mediterraneo verso il centro ed il nord Europa. Molte persone che sbarcano in Italia proseguono infatti il loro viaggio verso nord. Negli ultimi anni l’Unione Europea è stata sottoposta ai ricatti dei paesi a guida sovranista o nazionalista e non è riuscita ad adottare nessuna nuova normativa generalmente condivisa, come il Patto sull’immigrazione e l’asilo del 2020, sia sul piano degli ingressi che delle politiche di asilo, e si è ridotta a mero finanziatore delle operazioni più oscure di sorveglianza dei confini, delegate all’Agenzia FRONTEX, di accordi con i paesi terzi e di esternalizzazione dei controlli di frontiera, la cd. dimensione esterna della politica europea. La vicenda degli accordi (rimasti un “preaccordo”) di Malta del 2019 è esemplare, sia per come è stata gestita a livello mediatico e politico, sia per le ricadute vicine al nulla sul piano della controversa distribuzione delle persone migranti sbarcati nei paesi costieri europei. Si è giunti al punto di invocare questi accordi per giustificare scelte politiche e prassi ministeriali di chiusura dei porti sottoposte al vaglio della magistratura, come nel caso del processo nei confronti del senatore Salvini sul caso Open Arms, attualmente in corso a Palermo. La Corte di Cassazione, con sentenza del 20 febbraio 2020 (ud. 16 gennaio 2020), n. 6626, ha tuttavia ribadito che il soccorso in mare, fino allo sbarco in un porto sicuro, è un dovere da adempiere, e non una scelta discrezionale, da rimettere agli orientamenti politici.

ANCORA LA DIFESA DEI CONFINI

Per la Corte di Cassazione, «Non può quindi essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave». Gli operatori umanitari che salvano decine di migliaia di persone abbandonate in mare, dopo il ritiro dei mezzi statali, non possono essere definiti dunque “complici dei trafficanti”, o come “fattori di attrazione (pull factor)”, definizioni spregevoli in contrasto con la realtà, oltre che con i dati normativi, che adesso, dopo i principi affermati dalla Corte di cassazione, dovrebbero essere spazzate via. Dietro la retorica della “difesa dei confini nazionali” e dei “Memorandum d’intesa con i paesi terzi” si è così nascosto il tentativo di precludere l’ingresso nel territorio di persone soccorse in mare, e di accedere dunque al territorio nazionale a potenziali richiedenti asilo, in violazione della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e delle Direttive e dei Regolamenti europei in materia di protezione internazionale, oltre che della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo (art. 14) e della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, che (con il Quarto Protocollo allegato, art. 4) vieta i respingimenti collettivi sia in frontiera che sul territorio nazionale. Dai cd. “decreti sicurezza” adottati dal Governo “giallo-verde”, solo parzialmente modificati nel 2020, fino ai più recenti provvedimenti per contrastare la pandemia (Decreto interministeriale del 7 aprile 2020) si è fatto anche un uso strumentale di termini adottati nelle Convenzioni internazionali di diritto del mare. In particolare, si è giunti a qualificare come “non inoffensivo” ( alla stregua dell’art. 19 della Convenzione di Montego Bay, UNCLOS del 1982) l’ingresso nel mare territoriale (12 miglia dalla costa) di navi che hanno effettuato operazioni di soccorso in acque internazionali e quindi chiedono lo sbarco in un porto sicuro o place of safety (POS), come prescritto dalle stesse Convenzioni internazionali. Un obbligo che gli Stati costieri non possono eludere trincerandosi dietro il rifiuto frapposto da quegli Stati che sarebbero più direttamente responsabili perché, come nel caso di Malta, titolari dell’area di responsabilità per i soccorsi definita come

SAR zone (Search and Rescue Zone). Un’area nella quale gli Stati non possono eludere gli obblighi di soccorso imposti a loro carico dalle Convenzioni internazionali, obblighi che non possono essere delegati né a paesi terzi che non rispettano i diritti umani, né ad organizzazioni non governative che non hanno i mezzi per sostituirsi agli assetti aero-navali statali ed europei, soprattutto in tempi nei quali continua nei loro confronti una diffusa ed odiosa stigmatizzazione, che viene alimentata anche da procedimenti penali tuttora in corso.