Grandi Mostre #33

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33 PERUGINO/PERUGIA • HELMUT NEWTON / MILANO • VITTORE CARPACCIO/VENEZIA MICHELANGELO PISTOLETTO/ROMA • ROY LICHTENSTEIN/PARMA

Tutto il meglio di Perugino

LFabrizio Federici a mostra su Perugino, allestita alla Galleria Nazionale dell’Umbria in occasione dei cinquecento anni dalla morte, offre una ricca panoramica della produzione del maestro tra gli inizi degli Anni Settanta del Quattrocento e i primi anni del secolo successivo, affiancando a opere significative di Pietro Vannucci (Città della Pieve, 1450 circa –Fontignano, 1523) un buon numero di dipinti di artisti coevi.

Il percorso si articola in sette sezioni, in parte a carattere cronologico e in parte tematico: la prima sezione illustra la formazione tra Perugia e Firenze e il confronto con Verrocchio, mentre la seconda racconta il momento di svolta della carriera del pittore, tra la

fino all’11 giugno 2023

“IL MEGLIO MAESTRO D’ITALIA”

PERUGINO NEL SUO TEMPO a cura di Marco Pierini e Veruska Picchiarelli

Catalogo Dario Cimorelli Editore

GALLERIA NAZIONALE DELL’UMBRIA

Corso Vannucci 19 – Perugia gallerianazionaledellumbria.it

in alto: Perugino, Trittico Galitzin 1482-85 ca., olio su tavola trasferita su tela, National Gallery of Art, Washington

a destra: Perugino, Ritratto di Lorenzo di Credi, 1488, olio su tavola trasferito su tela, National Gallery of Art, Washington

fine degli Anni Settanta e gli inizi degli Anni Ottanta, quando papa Sisto IV lo chiama a lavorare a Roma. Si passa quindi a esemplificare la fase in cui lo stile dell’artista giunge a maturazione, all’insegna di una qualità strepitosa e di una “dolcezza ne’ colori unita”, come scrisse Vasari, che incanta lo spettatore. Sono qui riuniti capolavori assoluti, come tre delle otto opere prestate dagli Uffizi (l’Orazione nell’orto, il Compianto e la Madonna con il Bambino tra i santi Giovanni Battista e Sebastiano) e il Trittico della Certosa di Pavia da Londra, qui riunito con il Dio Padre che ancora si trova alla Certosa.

Splendida anche la sezione successiva, dedicata alla ritrattistica: tra gli altri capolavori spicca il dibattuto Ritratto di Perugino degli Uffizi, già assegnato a Lorenzo di Credi o a Raffaello, e presentato in mostra come autoritratto

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PERUGINO / PERUGIA

PAROLA AI CURATORI

Nella conferenza stampa della mattina del 3 marzo, giorno dell’inaugurazione della mostra, si sono succeduti diversi interventi: dopo i saluti del sindaco Andrea Romizi, l’intramontabile Ilaria Borletti Buitoni, presidente del Comitato Nazionale per le celebrazioni peruginesche, non ha esitato a dare al Perugino del testimonial delle bellezze umbre e dell’influencer, mentre la chiusura della conferenza è stata affidata al sottosegretario Vittorio Sgarbi, autore di uno spumeggiante intervento-fiume. In mezzo, i curatori della rassegna Marco Pierini e Veruska Picchiarelli hanno evidenziato le caratteristiche salienti dell’evento, proponendone alcune chiavi di lettura.

Il direttore della Galleria Nazionale dell’Umbria ha sottolineato come a lungo Perugino sia stato visto soprattutto come un grande allievo (di Verrocchio) e un grande maestro (di Raffaello), quando invece l’artista, nel momento del suo maggiore successo, ovvero nell’ultimo quarto del Quattrocento, ebbe un assoluto primato nell’intera Penisola: tutti volevano averlo al loro servizio o possedere almeno una sua opera, e non sempre ci riuscirono (è il caso di Ludovico il Moro, mentre Isabella d’Este dovette penare sette anni e scrivere cinquanta lettere per avere un suo dipinto). Papa Sisto IV gli affidò prima la decorazione di una cappella in San Pietro, andata perduta al principio del Seicento con la demolizione di quanto restava della basilica costantiniana, e poi lo assoldò per le pitture ad affresco della Cappella Sistina, impresa in cui Perugino ebbe un ruolo di primo piano, coordinando l’intervento di artisti di vaglia, come Botticelli e Pinturicchio. Forte della sua supremazia, il pittore fu il primo artista dopo Giotto, ha puntualizzato Pierini, che creò un linguaggio nazionale, utilizzato dalle Alpi alla Calabria.

Veruska Picchiarelli ha ripercorso l’articolazione dell’itinerario espositivo, sottolineando come la mostra sia il frutto di un lavoro di tre anni e come nel titolo della rassegna si vogliano evidenziare i due principali livelli di lettura del progetto: si illustrano gli anni in cui Perugino fu “il meglio maestro d’Italia” (come ebbe a definirlo Agostino Chigi nel 1500) e nel contempo si mostra l’artista “nel suo tempo”, collegandolo alle figure con cui si è formato, a quelle con cui ha collaborato e infine ai grandi pittori che su tutto il territorio della Penisola lo hanno preso come punto di riferimento, rielaborando gli spunti offerti dall’arte peruginesca in maniera originale.

dell’artista. La questione parrebbe definitivamente risolta: solo pochi giorni prima dell’apertura della rassegna si è verificato come le misure del volto degli Uffizi corrispondano al millimetro a quelle dell’autoritratto dipinto da Perugino su una delle pareti del poco distante Collegio del Cambio, a suggerirci che il maestro utilizzò per entrambe le opere lo stesso cartone.

IL DIALOGO CON GLI ALTRI ARTISTI

Dopo una sezione dedicata alle Madonne di Perugino e alla loro fortuna, testimoniata da copie e derivazioni, si incontra un approfondimento riservato alla diffusione del linguaggio messo a punto dal maestro umbro: la scelta degli artisti e delle opere presenti è molto

azzeccata, includendo personalità di diverse aree della penisola e rielaborazioni originali degli spunti perugineschi (si va dal piemontese Macrino d’Alba al veneto Francesco Verla ai campani Stefano Sparano e Cristoforo Faffeo).

La mostra si chiude con due dipinti antitetici, uno di soggetto sacro e l’altro profano, uno eseguito a olio su tavola e l’altro a tempera su tela: il celeberrimo Sposalizio della Vergine da Caen, il cui temporaneo ritorno a Perugia a oltre due secoli dalla sottrazione napoleonica costituisce il grande evento intorno al quale è germogliato il progetto espositivo, e la Lotta di Amore e Castità dal Louvre, realizzato per Isabella d’Este, che non fu del tutto convinta (e non senza ragioni) del risultato.

L’ULTIMO PERUGINO

Siamo nel 1504-05, e a questo punto si arresta il racconto: ne resta fuori tutta l’ultima parte della carriera di Perugino, fino alla morte avvenuta nel 1523, gli anni della decadenza, in cui la produzione dell’artista, destinata ormai a centri e committenti minori, si fa sempre più stanca e ripetitiva. La scelta può lasciare interdetti: Perugino affascina non solo perché raggiunse il vertice, ma anche come esempio di artista che non riuscì a rinnovarsi, come “sopravvissuto” di un’epoca ormai superata.

È vero, tuttavia, che gli spazi destinati alla mostra non sono estesissimi, e quindi soffermarsi anche su questa produzione non così strepitosa avrebbe costretto a tagliare opere eccelse degli anni precedenti. Ed è vero che diversi esempi di questa produzione più fiacca del Perugino tardo il visitatore li può trovare in Galleria (da dove infatti non sono stati spostati): questo però non viene detto, quando invece sarebbe bastato un breve accenno per invitare lo spettatore a concludere la visita nelle sale del museo, riflettendo su quanto sono varie le parabole della sorte e dell’ingegno umano.

LA NUOVA GALLERIA NAZIONALE DELL’UMBRIA

Dopo la chiusura di un anno per i lavori di ristrutturazione, la Galleria Nazionale dell’Umbria ha riaperto i battenti nell’estate del 2022 in una veste completamente rinnovata. Dal Maestro di San Francesco a Pierre Subleyras (ma non manca una piccola appendice novecentesca), il visitatore ha l’opportunità di ripercorrere quasi mille anni di arte prodotta in o per l’Umbria, in sale ampie – come la prima, di grande effetto, dedicata ai primitivi – o più raccolte, con i pezzi esposti alla luce naturale o sapientemente rischiarati dai faretti, con un apparato di pannelli e didascalie vario ed efficace, che comprende schermi su cui scorrono brevi video di spiegazione delle opere. La pittura fa la parte del leone, con celebri capolavori di Beato Angelico, Piero della Francesca, Perugino, Pinturicchio, e con gemme meno note che illustrano l’evoluzione dell’ars pingendi a Perugia e nell’Italia centrale; ma tra i pezzi esposti si annoverano anche vertici della storia della scultura, come le parti superstiti della Fontana degli Assetati di Arnolfo di Cambio. Un percorso ragionato, affascinante e, cosa non meno importante, godibilissimo: numerosi sono i punti in cui si può sostare, comodamente seduti, per ammirare meglio certi pezzi o gli ambienti stessi, che non di rado sono di notevole interesse (siamo all’interno del principale edificio pubblico di Perugia, il Palazzo dei Priori).

In questo senso, meritano di essere ricordate almeno la cappella, affrescata da Benedetto Bonfigli nella seconda metà del Quattrocento, e la Sala Farnesiana, con il suo fregio realizzato tra il 1546 e il 1548 su commissione di papa Paolo III.

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PERUGINO / PERUGIA

La fotografia sincera e scomoda di Helmut Newton

Helmut Newton Legacy è il titolo della mostra pensata per il centenario della nascita di Helmut Newton (Berlino, 1920 – Los Angeles, 2004). A causa della pandemia tutto è stato posticipato, così l’esposizione, che ha debuttato a Berlino, raggiunge Milano soltanto ora. Abbiamo chiesto a Denis Curti, co-curatore della rassegna, di parlarcene.

Chi era Helmut Newton?

Helmut Newton è stato un grande innovatore. La sua è una dimensione di racconto. Era ossessionato dalle immagini della cronaca nera, anche quelle splatter. Fa sorridere pensare che un personaggio del suo calibro fosse abbonato, tra le altre, alla rivista italiana Cronaca vera. Si divertiva a ricostruire le scene dei delitti.

Le sue foto hanno spesso una dimensione noir.

Amava i fotografi pulp di cronaca nera, ma anche il cinema noir. La foto con la modella che

dal 24 marzo al 25 giugno 2023

HELMUT NEWTON. LEGACY

a cura di Matthias Harder e Denis Curti

Catalogo Taschen

PALAZZO REALE

Piazza del Duomo 12 – Milano mostrahelmutnewton.it

corre sovrastata da un aereo è chiaramente ispirata ai film di Hitchcock.

Come è stata impostata la mostra?

I materiali, sia quelli fotografici sia quelli di compendio, sono divisi per decenni e sono inseriti in un allestimento serrato. Si parte dagli Early Works. Inizialmente era fotoreporter, ma arrivava sempre tardi agli appuntamenti, così decise di cambiare strada.

Uno degli elementi che maggiormente emergono è il suo rapporto con le donne. In molti hanno pensato che Newton sia stato un duro, un violento, le femministe non lo hanno mai amato. E lui divertito dichiarava: “Bisogna essere all’altezza della propria cattiva reputazione”. Ma così non era, amava le donne, le idolatrava, le sue fotografie sono un grande omaggio alla potenza femminile. Con la moglie June aveva un rapporto simbiotico, spesso lei lo accompagnava sul set, come rivelano alcune immagini.

Carla Bruni ha recentemente raccontato che era un piacere lavorare con lui, che alle

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Angela Madesani in alto: Helmut Newton, Amica. Milano, 1982 © Helmut Newton Foundation a destra: Helmut Newton, Mansfield, Vogue Inghilterra. Londra, 1967 © Helmut Newton Foundation

NEWTON E LA MODA

La mostra pone un interesse specifico sui servizi di moda più anticonvenzionali. Helmut Newton inizia il proprio cammino nella fotografia a 16 anni come assistente della fotografa di moda Yva (Else Ernestine Neuländer-Simon), che viene uccisa nel 1944, in un campo di concentramento, perché ebrea.

Le foto – caratterizzate da un dinamismo sino ad allora mai visto – che lo rendono famoso nel mondo della moda sono quelle dedicate ad André Courrèges, pubblicate nel 1964 sulla rivista inglese Queen Collabora in questo periodo con Vogue Francia ed Elle Francia. Sempre durante gli Anni Sessanta lavora per Yves Saint Laurent e Karl Lagerfeld, realizzando una tipologia di immagini che potrebbe essere definita metafisica.

Tra i suoi lavori più particolari ci sono Naked and Dressed, dittici in cui i modelli sono chiamati a posare nudi e vestiti. Chiamato da Burberry, deve fotografare un impermeabile di materiale plastico, completamente trasparente, che fa indossare alla modella nuda, fotografata poi di profilo, dando vita a un’immagine di grande raffinatezza.

Come spiega Denis Curti: “È tra i primi a lavorare, in tempi non sospetti, alla comunicazione unbranded. Una sua bellissima immagine ritrae Paloma Picasso, che mostra parte del seno nudo. Indossa un vestito elegantissimo e un gioiello prezioso, ha in mano un bicchiere di vino. Il committente è con ogni probabilità Cartier”.

Proprio attraverso la moda Newton cattura lo spirito del tempo, con una visione e un linguaggio di ampio respiro che lo rendono unico nel panorama della fotografia fashion del XX secolo.

modelle faceva fare quello che volevano. E questa è anche la versione della modella Sylvia Gobbel. L’attrice Charlotte Rampling, che di Newton è stata grande amica e modella tra le preferite, ha sottolineato in più occasioni la sua capacità di fare emergere la sensualità delle protagoniste delle sue foto e di smascherare i tabù.

Non ha fotografato solo donne, però.

Infatti. Quando fotografa Andy Warhol, lo fa come se l’artista fosse il Cristo morto del Mantegna, lo immortala mentre dorme su un divano con la stessa prospettiva. Conosceva la storia dell’arte e la utilizzava, aveva un occhio straordinario. Era capace di metabolizzare quanto vedeva. Per realizzare i Big Nudes, a grandezza naturale, stampati su carta da affissione, che accolgono il visitatore nella Helmut Newton

Foundation a Berlino, si era ispirato ai grandi manifesti piazzati dalla polizia tedesca, negli Anni Settanta, per ricercare i membri della banda Baader-Meinhof. È stato uno dei primi a realizzare delle immagini così grandi, esagerate. Da esse emerge una donna potente, totalmente consapevole del proprio corpo, della propria bellezza, del proprio potere seduttivo. Emergono il suo amore per il lusso e la sua capacità di dare un volto alla liberazione dei gusti sessuali, che non era per forza perversione.

Le fotografie in mostra sono degli scatti vintage?

La maggior parte sì. Arrivano dalla Fondazione. Ci sono anche materiali di formato contenuto, ai quali il pubblico è poco abituato, quando si tratta di Newton. Sono materiali preziosi e importanti.

A tuo parere una donna del nostro tempo come guarda la fotografia di Newton?

Ho fatto questa domanda ad alcune donne e tutte mi hanno risposto che non ci penserebbero un attimo a farsi fotografare da lui. La sua idea di bellezza è tutta da riscoprire.

Se dovessi riassumere, con poche parole, la figura di questo protagonista della fotografia del XX secolo, quali useresti?

Newton è stato un grande indagatore della dimensione segreta del mondo privilegiato del lusso, della ricchezza, che ha raccontato come

LA MOSTRA A MILANO

se fosse alla portata di tutti. È stato soprattutto un grande innovatore, che ha usato la fotografia per scardinare una serie di pregiudizi che, forse, in molti casi sono ancora in essere. È stato un punto di riferimento imprescindibile per la nuova generazione di fotografi, i quali hanno preso da lui questo coraggio di non piacere a tutti, per forza, e che, in tal senso, hanno cercato di essere se stessi. È stato un uomo profondamente sincero e scomodo.

Curata da Matthias Harder, direttore della Helmut Newton Foundation, e da Denis Curti, la mostra al Palazzo Reale di Milano riunisce 250 fotografie, riviste, documenti e video per descrivere il percorso del fotografo tedesco, naturalizzato australiano.

Oltre alle immagini iconiche di Newton, nato nel 1920 e scomparso in un incidente d’auto, a Los Angeles, nel 2004, sono esposte anche molte opere inedite, collocate in ognuna delle sezioni cronologiche in cui è divisa la rassegna.

Dopo la morte di Newton e quella della moglie June, più conosciuta come Alice Springs, nel 2021, l’archivio berlinese è stato riorganizzato, con la conseguente riscoperta di alcuni lavori fondamentali. Gli inediti riescono a sottolineare l’imprescindibile mutamento prodotto nel mondo della fotografia di moda: se William Klein aveva portato le modelle nel traffico newyorchese e Richard Avedon aveva chiesto all’indossatrice Dovima di mettersi in posa tra le zampe degli elefanti del circo, Helmut Newton crea autentici racconti per i quali trae ispirazione dal cinema e dalla cronaca

Lo spettatore della mostra è guidato alla scoperta della genesi dei lavori attraverso Polaroid e contact sheet. Accanto al “pubblicato” sono allestite le foto che, al termine dei diversi servizi su committenza, Newton realizzava per la sua ricerca personale – veri e propri gioielli che offrono ulteriori chiavi di lettura rispetto alla sua poetica.

A partire dagli Anni Novanta, il fotografo inizia a lavorare per campagne pubblicitarie commissionate da grandi brand di moda e non solo: Chanel, Thierry Mugler, Yves Saint Laurent, Wolford, ma anche Swarovski e Lavazza. Molte delle foto realizzate in tale ambito erano rimaste sino a ora chiuse nelle cassettiere dell’archivio. La mostra milanese presenta numerosi inediti relativi a questo capitolo della produzione di Newton, che contribuiscono a porlo in una dimensione altra rispetto ai fotografi più “tradizionali” della sua generazione.

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Carpaccio, Venezia e la pittura

Marta Santacatterina

Non si sa quando nacque, non si sa con quali maestri si formò – probabilmente con Gentile o Giovanni Bellini –, non si sa nemmeno esattamente quando morì, se non che nel 1525 era ancora vivo e che nel 1526 la moglie venne definita vedova. Del misterioso Vittore Carpaccio si sa invece che era “veneziano di Venezia” e figlio di Pietro Scarpazza, un mercante di pellami: con questo cognome, indicativo di una classe sociale umile, firmò le prime opere (Vetor Scarpazo), per poi latinizzarlo in Carpatius o Carpathius, con un’evidente presa di coscienza della sua abilità artistica e della stima goduta tra i concittadini.

Se l’attenzione verso il pittore ha avuto fasi alterne, il suo riconoscimento presso il grande pubblico risale a sessant’anni fa, quando al Palazzo Ducale di Venezia venne allestita una monografica che riuniva quasi tutti i suoi dipinti e i disegni ritenuti autografi. A contribuire alla sua notorietà fu pure un genio della ristorazione italiana, quell’Arrigo Cipriani che, già del 1950, nel suo Harry’s Bar proponeva il “carpaccio”, sottilissime fettine di filetto di manzo condite con una salsa.

dal 18 marzo al 18 giugno 2023 VITTORE CARPACCIO DIPINTI E DISEGNI

a cura di Peter Humfrey, con Andrea Bellieni e Gretchen Hirschauer Catalogo Marsilio Arte PALAZZO DUCALE

Piazza San Marco 1 – Venezia palazzoducale.visitmuve.it

in alto: Vittore Carpaccio, Consacrazione di Stefano e degli altri diaconi, 1511, olio su tela, 148x231 cm., Staatliche Museen zu Berlin, Berlino

a destra immagine ricomposta: Vittore Carpaccio Due dame, 1492/1494 ca., olio su tavola, 94,5x63,5 cm, particolare. Museo Correr, Musei Civici Veneziani, Venezia Vittore Carpaccio Caccia in valle (recto), 1492/1494 ca., olio su tavola, 75,4x63,8 cm.

J. Paul Getty Museum, Los Angeles

Ma torniamo al Carpaccio che non si mangia: di lui si ricordano soprattutto gli imponenti cicli realizzati per le “scuole” veneziane, cioè le confraternite laiche assai diffuse nella Venezia dell’epoca. Per più di cinque secoli questi grandi dipinti “hanno rappresentato l’essenza immaginativa della città: lo sfarzo dell’abbigliamento e la solennità dei riti, l’opulenza dei palazzi ricoperti di marmo e le piazze fiancheggiate dai canali, l’onore e la devozione della sua gente”, scrive la studiosa Susannah Rutherglen. L’artista ci presenta così la vita quotidiana nella Serenissima, un’eccezionale scena urbana che infarcisce con fantastiche architetture, rendendo d’altra parte evidente l’inevitabile rapporto tra Venezia e il suo mare.

RITORNO A VENEZIA

La Fondazione Musei Civici e il Palazzo Ducale di Venezia dedicano ora a Carpaccio una nuova esposizione che sbarca in laguna dopo una prima tappa a Washington, la cui National Gallery of Art ha generosamente collaborato con studi e prestiti. “Rispetto al 1963 abbiamo voluto riportare a Venezia le opere di Carpaccio che si erano allontanate dalla città”, ci racconta il co-curatore Andrea Bellieni, “in modo

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CARPACCIO / VENEZIA

CARPACCIO / VENEZIA

da ricomporre per quanto possibile il suo percorso artistico, dalla prima ‘Madonna con bambino’ un po’ acerba e così vicina ai modelli belliniani, da poco riscoperta dai depositi del Museo Correr, fino ai lavori dell’ultimo periodo che spesso la critica considera come ‘stanchi’, nei quali prevale la partecipazione della bottega piuttosto che del maestro. Anche grazie a recenti restauri possiamo oggi riconoscere dei risultati eccellenti in questi lavori tardi, come dimostra per esempio la ‘Fuga in Egitto’, con la sua qualità di dettaglio e di luce”.

Il curatore evidenzia inoltre come si siano riunite alcune opere realizzate in origine per lo stesso contesto: “In primo luogo tutti i sei teleri della Scuola degli Albanesi, oggi dispersi in vari musei, poi le ante della cantoria del duomo di Capodistria affiancate ora a due tele raffiguranti dei profeti e che verosimilmente ne decoravano il parapetto”, e poi lo straordinario caso della tavola con le Due dame (vedi box).

DAGLI ESORDI AL SUCCESSO

Tra le fonti da cui Carpaccio trasse insegnamenti vanno sicuramente citati Antonello da Messina, che fu a Venezia tra 1475 e 1476, Alvise Vivarini e le opere degli artisti fiamminghi che circolavano nel contesto veneto. E quasi certamente il pittore vide gli affreschi tardogotici di Pisanello che adornavano la sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale. A tutto ciò Vittore unì la conoscenza degli artisti del primo Rinascimento italiano, come Perugino e Pinturicchio, che gli permisero di affinare l’impianto prospettico, ma da buon veneziano accese di luce e colore tutti quei modelli, dando vita a uno stile originale, in cui la componente decorativa si unisce alla narrativa.

Non si deve però dimenticare che Vittore Carpaccio fu anche autore di pale d’altare e dipinti con soggetti devozionali, mitologici o ritratti commissionati dall’aristocrazia veneziana. Di fronte al Ritratto del doge Lorenzo Loredan o al tessuto che fa da quinta al Sangue del Redentore, non si può peraltro non citare quella raffinatissima produzione di broccati e velluti in seta che rese celebre Venezia in tutto il mondo. Dal secondo decennio del Cinquecento opere dell’artista furono richieste anche fuori dai confini della sua città, a Treviso, a Brescia e nel territorio bergamasco, nonché sulla sponda orientale dell’Adriatico.

I DISEGNI DI CARPACCIO

Già dal titolo della mostra si può intuire la considerevole presenza di opere su carta. I disegni di Carpaccio costituiscono “il più grande corpus grafico superstite di un pittore veneziano quattrocentesco, e ciò sfata il luogo comune che i pittori veneti non disegnassero”, racconta Bellieni, sottolineando peraltro che schizzi e bozzetti evocano alcuni grandi cicli di teleri rimasti nelle sedi storiche veneziane. Dalle figure tracciate su carta azzurra e lumeggiate con colpi di biacca, oppure disegnate con

I GRANDI CICLI DI CARPACCIO

committente soggetto collocazione

1490-1500

Scuola di Sant’Orsola

9 teleri con le Storie di Sant’Orsola Gallerie dell’Accademia, Venezia

1494-1495

Scuola Grande di San Giovanni Evangelista Miracolo della reliquia della Croce a Rialto Gallerie dell’Accademia, Venezia

1502-1507

Scuola di San Giorgio degli Schiavoni

9 teleri relativi a 4 cicli narrativi indipendenti sulla vita di Cristo, Girolamo, Giorgio e Trifone in situ

1504-1506

Scuola degli Albanesi

6 teleri con le Storie della Vergine Accademia Carrara, Bergamo Pinacoteca di Brera, Milano Galleria Giorgio Franchetti alla Ca' d'Oro, Venezia

1507

Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale Consegna del baldacchino distrutto dall’incendio del 1577

1511-1520

Scuola di Santo Stefano

5 teleri (di cui uno perduto) con le Storie di Santo Stefano Gemäldegalerie, Berlino Louvre, Parigi

Pinacoteca di Brera, Milano Staatsgalerie, Stoccarda

la calda sanguigna, si coglie la genesi del processo creativo del maestro e si capisce anche il business model alla base di una bottega rinascimentale: i disegni costituivano un preziosissimo repertorio che venne usato dagli allievi e dai due figli Pietro e Benedetto, anch’essi collaboratori di bottega dal 1510, per replicare le figure di Carpaccio, rispondendo così alle numerose richieste del mercato.

Andrea Bellieni spiega infine i motivi per cui vale la pena visitare la mostra: “Innanzitutto perché Carpaccio è un grande artista, nonostante sia stato sottovalutato dalla critica che lo ha considerato un pittore nazional-popolare. In realtà molte opere sono espressione di altissima poesia, e lo dimostra la ‘Pietà’ della Fondazione Magnani-Rocca. Non è solo un pittore decorativo, nonostante a prima vista si venga catturati dalla sua capacità di dettaglio. I veneziani inoltre apprezzeranno la ‘Caccia in valle’: un’autentica elegia di paesaggio di laguna, nella quale si riconoscono lo stormo di uccelli, le tecniche di pesca con i cormorani, i costumi dei vogatori africani, le imbarcazioni dette fisolere. Una piacevolezza di racconto che lo pone tra i grandi maestri del Quattrocento veneziano”.

Nella seconda metà dell’Ottocento, John Ruskin contribuì alla fama di Venezia nel mondo e alla conoscenza dell’amato Vittore Carpaccio. Inaspettatamente l’inglese rimase folgorato dalle Due dame del Museo Correr: “Io non conosco nessun altro dipinto al mondo che possa essere paragonato ad esso”, dichiarò. Quella tavola enigmatica che raffigura due “maliarde” su un balcone, circondate da un bambino, dei volatili e due cani, è protagonista di un “ricongiungimento” straordinario. Già da tempo si sa che il dipinto intitolato Caccia in valle è stato ricavato dalla stessa tavola, prima del 1776: tornate a combaciare le due parti, si è restituita quella che è stata interpretata come l’anta di una porta a soffietto, sul retro della quale è ancora presente un trompe l’œil con lettere appese. Verosimilmente l’anta si completava con un pendant: chissà che grazie alla mostra non sia possibile rintracciare la parte perduta!

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LE DUE DAME

90 anni di Michelangelo Pistoletto

Fa il punto su oltre sei decenni di carriera la mostra che il Chiostro del Bramante di Roma dedica a Michelangelo Pistoletto (Biella, 1933). A curarla è Danilo Eccher, il quale ha collaborato con l’artista alla messa a punto di una personale che racchiude in sé la forza di una collettiva. Ispirata sin dal titolo al tema dell’infinito, solido punto di ancoraggio della poetica di Pistoletto, la mostra affonda le radici nell’idea di molteplicità, fulcro di una ricerca incessantemente perfezionata e consolidata dall’artista. Gli abbiamo chiesto di farci da guida tra i capitoli di una storia che il pubblico romano potrà ripercorrere sullo sfondo di una delle architetture simbolo della Capitale.

Da dove è nata l’idea di una mostra al Chiostro del Bramante?

È stata un’idea di Danilo Eccher, che finora aveva realizzato in questa sede mostre collettive per avere la possibilità di creare dei confronti dinamici tra gli artisti. Stavolta desiderava fare una mostra personale che avesse le medesime caratteristiche di dinamicità. Caratteristiche ritrovate da Eccher nel mio lavoro.

Eccher ha descritto questa mostra come “una mostra collettiva di un unico artista”, chiamando in causa due concetti chiave della sua poetica: molteplicità e differenza.

La molteplicità e l’unicità sono presenti già nei Quadri specchianti, a partire dal 1961-62. La figura fissata sulla superficie convive con tutte le figure in movimento della realtà riflessa nel quadro stesso. Allo stesso tempo la persona che si riflette nel quadro – lo spettatore – non è sola, ma è insieme a tutti quelli che contemporaneamente si possono specchiare. Esiste una molteplicità dall’uno al noi. Questa molteplicità

MICHELANGELO PISTOLETTO INFINITY

L’ARTE CONTEMPORANEA

SENZA LIMITI

a cura di Danilo Eccher

DART – CHIOSTRO DEL BRAMANTE

Via Arco della Pace 5 – Roma

chiostrodelbramante.it

#33 82 MICHELANGELO PISTOLETTO / ROMA
Arianna Testino dal 18 marzo al 15 ottobre 2023 in alto: Michelangelo Pistoletto, Venere degli stracci, 1967, cemento, smalto, stracci 190 x 240 x 100 cm. Photo credit L. Fiaschi. Courtesy Galleria Continua San Gimignano a destra: Michelangelo Pistoletto, Solidarity 2007, serigrafia su acciaio inox supermirror, 250 x 625 cm. Photo credit N. Morittu. Courtesy Galleria Giorgio Persano, Torino

si è poi sviluppata con gli Oggetti in meno: non ci sono collegamenti fra le opere di questa serie, ognuna è autonoma e irripetibile, al pari degli spettatori presi uno per uno individualmente. Il rapporto tra me e il mondo avviene con i Quadri specchianti e diventa pratica con gli Oggetti in meno, perché io pratico il passaggio dal possibile dell’esistenza di una immagine o di una persona alla realtà dell’essere, la realtà fisica che si riflette nello specchio. È una dinamica della molteplicità delle unità.

Il concetto di infinito si lega agli aspetti di cui ha parlato ed è molto presente nella sua ricerca: come è cambiato nel tempo il suo approccio a questo tema?

L’infinito è nella superficie specchiante del quadro, dove esiste un presente che cambia costantemente. L’infinito è nel presente, che non è unico né definitivo. L’infinito sta fra il presente costantemente mutevole e il tempo e lo spazio che non hanno limiti. Ho poi cominciato a fare un’indagine sul funzionamento dell’universo che è riflesso nell’opera d’arte: ho diviso lo specchio a metà e ho notato che i due specchi, riflettendosi fra di loro, ne creano un terzo. Questa è la formula della creazione: 1+1 = 3. Chiudendo ad angolo i due specchi, avviene una moltiplicazione, i numeri possibili crescono all’interno dello specchio. La moltiplicazione arriva al massimo dei numeri possibili quando i due specchi si chiudono all’angolo zero e si sovrappongono. A quel punto abbiamo il possibile. Aprendo i due specchi il possibile diventa realtà fisica. Il lavoro degli specchi riproduce la nascita dell’universo quando nel vuoto si verifica il primo incontro fra spazio-tempo da una parte e massa-energia dall’altra. Al centro c’è l’origine dell’universo, che si apre e si estende, a partire dal Big Bang, così come quando, aprendo i due specchi, ricompaiono tutti i numeri possibili.

La mostra ripercorrerà la sua carriera dal 1966 al 2023: come avete immaginato l’allestimento e la struttura?

È stato un lavoro di cooperazione con Danilo Eccher, che conosce perfettamente gli spazi e che non ha voluto fare una mostra museale, ma individuare punti salienti che scatenassero dinamiche di energia. Una energia data dai vari lavori in rapporto allo spazio stesso. Non è una mostra puramente cronologica, ma a effetto. Lo stesso Eccher ha una natura artistica, quindi è stato quasi un incontro duale fra l’artista che si relaziona agli spazi e il curatore che si relaziona all’arte, ma in un’ottica di scambio. Io divento curatore tanto quanto lui diventa artista. C’è stato un dialogo costante in merito all’articolazione della mostra, ma io ho messo a disposizione di Eccher l’intero mio lavoro perché lui potesse scegliere come comporlo in base alla sua idea creativa.

Al centro del chiostro ci sarà il grande simbolo trinamico della creazione. Lo stesso disegno sarà riportato a colori sulle bandiere appese fra le arcate. Il colore di ogni cerchio è diverso dal colore del cerchio opposto, ma al centro ci sarà un terzo colore che nasce dalla combinazione dei due colori precedenti. In ognuna di queste bandiere c’è dunque il ripetersi del fenomeno della creazione fra i colori, a riprova che 1+1 = 3.

Il 23 marzo inaugura anche la sua mostra nella Sala delle Cariatidi a Milano. Come si è relazionato a un luogo così denso di storia?

Il titolo della mostra è La pace preventiva Tutto si basa sul concetto che al centro dei due famosi cerchi esterni – rappresentati dal mostro-guerra e dalla virtù, ovvero il desiderio di pacificazione – ci sia la pace, dettata dall’equilibrio e dall’armonia. L’idea del direttore Piraina era evocare la mostra di Guernica di Picasso nella Sala delle Cariatidi. Sia la mia opera sia quella di Picasso rispondono al fenomeno tragico della guerra, che si sta riproponendo oggi. Nell’opera di Picasso il mostro è il Minotauro e io con il mio labirinto – un’opera realizzata a partire dagli Anni Sessanta utilizzando la carta

corrugata –, che occupa tutto lo spazio, faccio riferimento all’idea della pace preventiva, ovvero un percorso difficile e complesso. Questo labirinto, invece di condurci al Minotauro-guerra, pronto a divorarci, ci consente di evitarlo, perseguendo l’idea della pace preventiva.

Nei suoi scritti, nelle sue azioni, nel lavoro di Cittadellarte a emergere è l’idea di responsabilità, come artista e come individuo sociale. Che cosa si augura, come artista e come individuo, per la società del futuro?

La responsabilità è stata un’acquisizione dell’arte contemporanea risalente agli Anni Cinquanta del secolo scorso, quando l’artista ha assunto la totale autonomia del proprio segno, della propria espressione – la libertà massima. Questa libertà è una grande conquista, ma come l’artista trasferisce tale libertà nella società? Acquisita la libertà personale, l’artista deve acquisire anche la responsabilità verso gli altri. L’artista diventa così parte attiva nella trasformazione sostenibile della società stessa. La sua capacità individuale di sviluppare il massimo della propria immaginazione ed espressione deve essere combinata con la responsabilità di tutti gli individui, gli artisti per primi.

PISTOLETTO IN 10 TAPPE

dal

1961 1965-

83 #33 MICHELANGELO PISTOLETTO /
ROMA
66
Ci può anticipare qualcosa a proposito delle opere esposte? QUADRI SPECCHIANTI OGGETTI IN MENO
1967
VENERE DEGLI STRACCI
SCULTURA DA PASSEGGIO
DIVISIONE E MOLTIPLICAZIONE DELLO SPECCHIO 1981 ANNO UNO 1998 CITTADELLARTE
DIFFERENCE Movimento Artistico per una Politica InterMediterranea
TERZO PARADISO 2022 Il libro LA FORMULA DELLA CREAZIONE
MICHELANGELO
1968
1978
2002 LOVE
2003

La Pop Art di Roy Lichtenstein

Tutto inizia da un punto. Segue una linea, un campo di colore, e poi le consistenze, le prospettive. Attraversare l’universo componibile di Roy Lichtenstein (New York, 1923-1997) è un po’ come ripercorrere la storia dell’arte, della scrittura e del gioco, imparando daccapo come si guarda. Una apparente ingenuità dalle sfumature densamente concettuali pervade la mostra parmense dedicata al genio della Pop Art nella sala ipogea di Palazzo Tarasconi – restaurato da Corrado Galloni e ora riaperto per una serie di dediche all’arte americana.

Qui, con cinquanta opere, si delinea un percorso ambizioso, che abbraccia le molte spinte sottese al lavoro del celebre artista. Oltre gli Speech Painting, infatti, c’è un mondo di sperimentazioni che fa dei celebri punti Ben-Day e dei colori piatti gli elementi fondativi di un percorso artistico talmente metodico da diventare scientifico.

“Quella di Lichtenstein è un’arte della visione che mette al centro il rapporto sensoriale radicato nella percezione visiva, ossia il processo per cui noi riceviamo, organizziamo e diamo significato alle sensazioni che ci vengono dagli stimoli visivi. Lichtenstein mutua questa prospettiva dalla branca psicologica della Gestalt creando un’arte della forma, che qui diventa come prima cosa ‘arte dell’occhio’”, racconta Gianni Mercurio, curatore della mostra aperta fino al 18 giugno. “Dietro l’apparente semplicità dell’arte di Lichtenstein si nasconde una complessità enorme, tecnica e concettuale”.

GIOCARE CON L’ARTE

Attraverso pochi elementi riconoscibili –che va a raffinare con un labor limae maniacale –, Lichtenstein attua una scomposizione dell’arte facendo allo stesso tempo una sua “messa a terra”, una sua irriverente decostruzione. Compie una lucida analisi della propria formazione e del proprio ruolo, contestando un sistema che sceglie di elevare certi temi o premiare certi artisti preservandone il mito e creando riferimenti noti solo agli adepti. Lichtenstein, con le sue Ninfee, i suoi Covoni di grano e i suoi nudi privi di erotismo, ha il ruolo opposto di un gate-keeper, diventando gate-opener. Forse anche per questo non viene sempre capito: nel ‘64 Life chiede ai lettori se sia il peggior artista d’America. Ma Lichtenstein non se ne ha troppo a male, e continua con spirito lieve questo processo di smottamento di proporzioni epiche, che nella sua opera diventa gioco ed esperimento scientifico

insieme, tra tecniche e materiali che spaziano dal gesso al tessile dall’acrilico fino alle plastiche Rowlux, lasciandosi influenzare dalla musica jazz e classica, ma anche dall’archeologia e dalle tecniche prospettiche rinascimentali. L’unica regola: non rompere il gioco. In questo,

fino al 18 giugno 2023

ROY LICHTENSTEIN

VARIAZIONI POP

a cura di Gianni Mercurio

Catalogo BesideBooks

PALAZZO TARASCONI

Strada Farini 37 – Parma palazzotarasconi.it

Lichtenstein manifesta un rigore inaspettato, totale. Per smontare i classici, dopotutto, devi conoscerli, e per comprendere un medium o un tema devi analizzarlo in serie, senza distrazioni. E così fa.

FRA IRONIA E PATRIOTTISMO

Dalla smitizzazione della pennellata in Brush Stroke fino alla reinterpretazione dell’Urlo di Munch con un bambino berciante, lo spirito ironico di Lichtenstein è una cifra nota della sua produzione. “Uno dei suoi principali intenti era quello di demistificare la figura dell’artista: i maestri del passato sono ‘usati’ alla stregua di oggetti pop, senza timore reverenziale”, spiega il curatore Gianni Mercurio. Allora come spiegare il tono epico, da ciclo cavalleresco medievale, della grande opera patriottica I love liberty? “Roy era una persona tranquilla, radicata in una vita a tutti gli effetti normale e lontana dalla ribellione mostrata dai contemporanei come Warhol, Basquiat, Haring. E, a differenza loro, credeva davvero nella grandezza degli Stati Uniti. Si parla sempre della sua ironia, ma quando riproduce la Statua della Libertà è serissimo. Era stato soldato nella Seconda Guerra Mondiale e aveva un forte senso della patria. È come se ponesse chiaramente un limite: ironia sì, ma su certe cose non si scherza”.

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ROY LICHTENSTEIN / PARMA
Roy Lichtenstein. Variazioni Pop, installation view at Palazzo Tarasconi, Parma 2023. Photo LaltroSCATTO

ARTE E PAESAGGIO

In Senegal si trovano quasi tutti gli ambienti tipici del continente africano: dune, foreste di mangrovie, grandi alberi di Baobab, fiumi, paludi, spiagge oceaniche, riserve naturali, perfino giungle equatoriali. Gran parte della biodiversità di questo Paese è visibile nella capitale, Dakar.

In mezzo al traffico e al rumore delle strade appaiono macchie di verde. Sono i micro-jardin, ovvero gli orti urbani di Dakar, piccole oasi di pace a interrompere la frenetica vita della città. Si tratta di una soluzione ecologica introdotta dalla FAO per il recupero di spazi urbani in stato di abbandono e per favorire la produzione orticola. Il progetto ha uno sfondo sociale: rende possibile coltivare ortaggi e aromatiche in maniera economica e facilmente accessibile alle categorie più fragili.

SPAZI VERDI A DAKAR

Nel centro di Dakar alcuni edifici storici sono contornati da rigogliosi giardini aperti al pubblico, come il Palazzo presidenziale, architettura in stile coloniale di inizio Novecento, e l’Institut Français, che all’interno del suo giardino ospita un enorme esemplare di Baobab, in grado di contenere fino a 120mila litri d’acqua per resistere alle dure condizioni di siccità. Lungo la Corniche, arteria principale che costeggiando l’oceano corre fino alla punta della città, sono stati recentemente inaugurati i nuovi Giardini pubblici. Da qui si possono osservare meravigliosi tramonti e arrivare allo storico faro (secondo in tutta l’Africa) sulla collina di Mamelles. Di recente realizzazione questi giardini lineari sono spazi ricreativi molto frequentati e tra la vegetazione accolgono playground per famiglie, alternati a spazi per sport all’aperto.

Giardini speciali sono quelli realizzati sul tetto di Trames, agenzia per la promozione di arte, musica, cultura, sede principale della Biennale di Dakar. Situata in un ex deposito nei pressi del porto, la terrazza accoglie ogni settimana concerti live, presentazioni, mostre.

LE ISOLE NGOR E GORÉE

Ma i giardini più affascinanti crescono sulle due isole che affiancano Dakar. L’Isola di Ngor, raggiungibile in barca in cinque minuti, è senza elettricità e senza automobili. Qui si trovano un villaggio di pescatori e una serie di vecchi edifici trasformati in atelier d’artisti con ampi giardini tropicali. Tra questi l’aula didattica e officina d’arte del pittore Abdoulaye Diallo E la Maison du Bonheur, scuola d’arte e alloggio per ragazzi di strada, che offre corsi, seminari e ospitalità a coloro che desiderano avvicinarsi alla filosofia dell’Abbé Pierre. L’Isola di Gorée, Patrimonio Unesco, situata a mezz’ora di battello da Dakar, è un luogo tranquillo e fuori dal tempo, con stradine sterrate dove non circolano automobili. Le case coloniali con balconi in ferro battuto sono ricoperte da vegetazione e bouganville, circondate da giardini con alberi di mango, rose del deserto, oleandri, acacie e cespugli di aloe.

ASTE E MERCATO

Cinquanta mostre per un cinquantenario. È più o meno questo l’ordine di grandezza del fittissimo calendario di eventi espositivi dedicati nel 2023 a Pablo Picasso, in coincidenza con i cinquant’anni dalla data della morte del grande artista scomparso l’8 aprile 1973. E naturalmente in prima fila a celebrarlo ci sarà il suo Paese natale, la Spagna, insieme all’Europa e al Nord America.

PICASSO ALL’ASTA

Dal canto suo anche il mercato dell’arte parteciperà all’omaggio: le grandi case d’asta globali come Sotheby’s e Christie’s saranno impegnate in iniziative e vendite collegate alla ricorrenza. Già a quest’ultima sessione londinese non si sono fatte scappare l’occasione di ricordare Picasso, che è stato a lungo l’artista del XX secolo più costoso mai aggiudicato in asta. A scalzare il record del suo Les Femmes d’Alger (Version O), capolavoro del 1955 venduto per 179,4 milioni di dollari nel 2015 da Christie’s a New York, è infatti arrivata solo nel maggio 2022 la Shot Sage Blue Marilyn di Andy Warhol, che, sempre da Christie’s a New York, è diventata l’opera d’arte più cara al mondo a quota 195 milioni di dollari, passando dalla munifica collezione Amman alla proprietà di Larry Gagosian.

E così, anche se il sentiment del collezionismo nei confronti delle opere di Picasso che riescono ad arrivare in asta non è in forma smagliante in questo momento, la sua presenza nei cataloghi delle sessioni di Londra di fine febbraio e inizio marzo è stata frequente, con almeno quattro lotti selezionati da Sotheby’s e cinque da Christie’s, dove l’artista è diventato anche il top lot dell’intera vendita

I RISULTATI

Quasi a celebrare intenzionalmente la sua opera e la sua eredità artistica a cinquant’anni tondi dalla morte, alla 20th/21st Century: London Evening Sale di Christie’s a Londra l’opera Femme dans un rocking-chair (Jacqueline) del 1956 è diventata il lotto più costoso aggiudicato durante la serata del 28 febbraio, con la cifra di martello di 14,5 milioni di sterline – quasi 17 milioni con le commissioni –, poco sotto la stima minima di 15 milioni di sterline, a un’unica offerta arrivata a Giovanna Bertazzoni, specialista del Dipartimento Impressionist and Modern di Christie’s, molto probabilmente da una garanzia di terza parte. Un risultato anche migliore è stato ottenuto da Sotheby’s il giorno dopo per un’opera meno recente, Fillette au bateau, Maya, del 1938, aggiudicata a 18 milioni di sterline. Il dipinto, che ritrae la figlia Maya –scomparsa lo scorso dicembre 2022 e che nel 1938 aveva poco più di due anni –, arrivava da un’importante collezione europea, dopo essere appartenuto a Thomas Ammann e Gianni Versace. Carica di energia e colori sgargianti, l’opera fu realizzata a poca distanza da Guernica e il cambio di tavolozza sembra incarnare la dose di gioia che quella fillette, avuta da Picasso e Marie-Thérèse Walter, fu in grado di portare nella vita dell’artista.

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Claudia Zanfi I GIARDINI DI DAKAR CHRISTIE'S SOTHEBY'S PABLO PICASSO Pablo Picasso, Fillette au bateau, Maya (part.), 1938. Courtesy of Sotheby’s Photo Claudia Zanfi
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