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MUZEUM SUSCH

JUNE 5 – DECEMBER 2021 MUZEUM SUSCH SURPUNT 78 CH-7542 SUSCH

www.muzeumsusch.ch info@muzeumsusch.ch

Laura Grisi, East Village, 1967, acrylic on canvas, neon, Plexiglas, aluminium. Courtesy the Estate and P420, Bologna, Foto Carlo Favero

LAURA GRISI: THE MEASURING OF TIME


May 22nd 2021> February 27th 2022 Silvano Rubino iSao & Stephanie blake DiDieR Guillon & special guest

StuDentS fRom publicoloR nyc Curated by

Luca Berta & Francesca GiuBiLei ART EXHIBITION AT

PALAZZO BONVICINI Calle Agnello, 2161/A, Venice everyday 10am - 6pm In collaboration with

www.fondationvalmont.com


DIRETTORE Massimiliano Tonelli DIREZIONE Marco Enrico Giacomelli [vice] Santa Nastro [caporedattrice] Arianna Testino [Grandi Mostre] REDAZIONE Irene Fanizza Claudia Giraud Desirée Maida Roberta Pisa Giulia Ronchi Valentina Silvestrini Valentina Tanni Alex Urso PUBBLICITÀ & SPECIAL PROJECT Cristiana Margiacchi / 393 6586637 Rosa Pittau / 339 2882259 adv@artribune.com Arianna Rosica a.rosica@artribune.com EXTRASETTORE downloadPubblicità s.r.l. via Boscovich 17 - Milano via Sardegna 69 - Roma 02 71091866 | 06 42011918 info@downloadadv.it REDAZIONE via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma redazione@artribune.com PROGETTO GRAFICO Alessandro Naldi COPERTINA a cura di Tatanka Journal STAMPA CSQ - Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 - Erbusco (BS) DIRETTORE RESPONSABILE Marco Enrico Giacomelli EDITORE Artribune s.r.l. Via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011 Chiuso in redazione il 29 giugno 2021

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COLUMNS

6 L GIRO D’ITALIA Andrea Bagnato Anna Positano || 12 L Massimiliano Tonelli Arti e mestieri hanno bisogno di nuovi musei || 13 L Renato Barilli Lettera aperta a Eugenio Viola || 14 L Claudio Musso Una rotatoria su Marte || 15 L Alessandra Mammì L'arte pubblica e il "paradosso Migliora" || 16 L Aldo Premoli La società palliativa. Una teodicea al contrario || 17 L Fabio Severino I bandi pubblici? Trasformiamoli in bandi-corso || 18 L Marcello Faletra Deserti urbani || 19 L Christian Caliandro Fuoriuscita (Parte seconda)

NEWS

22 L LA COPERTINA Tatanka Journal Amuleti Sufi || 23 L OPERA SEXY Ferruccio Giromini Erin M. Riley e il surrogato dell'amore || 24 L FOCUS La lunga estate delle Fiandre || 25 L LABORATORIO ILLUSTRATORI Roberta Vanali Maria Francesca Melis tra Sardegna e Nuova Zelanda || 26 L TALK SHOW Santa Nastro Luoghi del cuore per l'estate della ripartenza || 28 L DURALEX Raffaella Pellegrino Opere derivate o ispirate: quale tutela per gli artisti? || 30 L GESTIONALIA Irene Sanesi La convenienza della collaborazione || 32 L APP.ROPOSITO Simona Caraceni 3 app per ricorrenze centenarie / NECROLOGY || 33 L SERIAL VIEWER Santa Nastro Shtisel / L.I.P. – LOST IN PROJECTION Giulia Pezzoli Antebellum || 34 L COSE Valentina Tanni || 36 L TOP 10 LOTS MILANO Cristina Masturzo || 37 L NUOVI SPAZI Massimiliano Tonelli Giampaolo Abbondio || 38 L ARCHUNTER Marta Atzeni Counterspace || 39 L OSSERVATORIO CURATORI Dario Moalli Marta Orsola Sironi || 40 L DISTRETTI Marco Enrico Giacomelli Milano. Il boom di via Tertulliano || 42 L STUDIO VISIT Saverio Verini Lucia Cantò

STORIES

48 L Marco Enrico Giacomelli (a cura di) Uno sguardo laterale su Europa, Africa e Asia 50 L Maria-Elena Putz I Sámi. Arte e cultura dell'unica popolazione indigena europea 58 L Paola Forgione La riscoperta dell'Altro comincia in Zimbabwe 66 L Giorgia Cestaro Corea del Nord. Fare arte e architettura in dittatura 77 L GRANDI

MOSTRE

ENDING

92 L SHORT NOVEL Alex Urso Eliana Albertini 94 L IN FONDO IN FONDO Marco Senaldi Frisbees per Giulia

ATELIER. GIUSEPPE MODICA OPERE 1990-2021 23 GIUGNO – 24 OTTOBRE 2021

Museo Hendrik Christian Andersen - Roma a cura di Maria Giuseppina Di Monte e Gabriele Simongini www.giuseppemodica.com

artribune

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QUESTO NUMERO È STATO FATTO DA: Giampaolo Abbondio Eliana Albertini Marta Atzeni Andrea Bagnato Lorenzo Balbi Renato Barilli Laura Barreca Martin Bethenod Cristiano Bianchi Nicholas Bonner Christian Caliandro Antonella Camarda Lorenzo Canova Lucia Cantò Paola Capata Simona Caraceni Stefano Castelli Maurizio Ceccato Giorgia Cestaro Raphael Chikukwa Kristina Drapić Marcello Faletra Fabrizio Federici Paola Forgione Katya Garcia-Ántón Marco Enrico Giacomelli Emilia Giorgi Claudia Giraud Ferruccio Giromini Lorenzo Giusti Walter Guadagnini Angela Madesani Desirée Maida Alessandra Mammì Vittoria Mascellaro Cristina Masturzo Maria Francesca Melis Dario Moalli Stefano Monti Claudio Musso Santa Nastro Antonio Natali Pak Hyo Song Camillo Pasquarelli Raffaella Pellegrino Giulia Pezzoli Arianna Piccolo Alfredo Pirri Anna Positano Ludovico Pratesi Aldo Premoli Sergio Risaliti Caterina Riva Giulia Ronchi Irene Sanesi Marco Senaldi Fabio Severino David Shrigley Marta Orsola Sironi Valentina Tanni Tatanka Journal Arianna Testino Massimiliano Tonelli Alex Urso Sumayya Vally Roberta Vanali Saverio Verini Angela Vettese

Labirinto Atelier 3, 2019-2021, olio su tela, trittico, cm 150 x 300

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Cabras (Oristano) ANDREA BAGNATO [ ricercatore ] ANNA POSITANO [ fotografa ]

i racconta che don Efisio Carta, affacciato al suo palazzo nella piazza principale di Oristano, usasse un cannocchiale per controllare il suo stagno, pattugliato da guardie armate. Cabras è un rifugio ideale per i pesci di mare, che vi entrano all’inizio dell’inverno per mettersi al riparo dai predatori; in estate, quando ormai adulti tentano di tornare al largo, è sufficiente calare uno sbarramento alla bocca dello stagno per pescare orate, spigole e muggini in quantità. Da secoli le acque di Mare e Pontis, come è chiamato localmente lo stagno, erano regolate da una rigida gerarchia: don Efisio e i suoi servi avevano il controllo esclusivo delle peschiere. La maggior parte dei pescatori di Cabras dovevano arrangiarsi con attrezzature di fortuna, né potevano lavorare nei pescosi mesi estivi. Sembra che Cabras sia stato per secoli proprietà collettiva, fino a quando un banchiere genovese ne ottenne, nel 1662, i diritti d’uso dal re di Spagna. Nel 1836 re Carlo Alberto abolì i rapporti feudali in Sardegna per favorire la proprietà privata – e lo stagno passò nelle mani dei Carta, una famiglia di proprietari terrieri tra le più ricche dell’isola. Nel 1956 il governo regionale approvò la legge regionale 39 che aboliva “tutti i diritti esclusivi di pesca” nelle acque costiere dell’isola. Stagni e lagune divennero proprietà del demanio – ma non Cabras, quello più grande e pescoso, che don Efisio continuò a gestire in spregio alla legge. Come racconta il giornalista Ugo Dessy, che nel 1973 scrisse un libro su queste vicende, il privilegio feudale si estendeva ovunque arrivasse l’acqua: le guardie di don Efisio minacciavano di sparare persino a chi provasse a pescare il pesce che, in inverno, arrivava sui campi circostanti quando lo stagno esondava. Le proteste dei pescatori iniziarono nel 1960. Il 15 maggio 1961, sessanta di loro occuparono per una settimana lo stagno con le proprie barche, per chiedere l’applicazione della legge; le donne, accampate sulla riva, rifornivano gli uomini di provviste e controllavano che nessuno disertasse. I pescatori furono arrestati e, nonostante la crescente solidarietà dai lavoratori di tutta Italia, a Cabras le condanne per “furto di pesce” continuarono per tutti gli Anni Sessanta. Nel 1971, ben 288 pescatori finirono a processo. Tutti furono assolti, ma la questione della proprietà dello stagno restava in ogni caso irrisolta perché il governo democristiano continuava a rimandare l’applicazione della legge. Nel frattempo si era aperta una contesa giuridica, imperniata sulla natura del canale che collega lo stagno al mare: è opera umana, come affermavano i legali di don Efisio e il

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Venezia Artribune #58

Palermo Artribune #59-60

tribunale locale, oppure un canale naturale, come sostenuto dallo Stato e dai pescatori? Solo nel 1982 la Regione si decise a espropriare lo stagno – dopo aver pagato ai Carta un cospicuo risarcimento – e ad assegnarlo in gestione a una cooperativa. Ma ormai molti pescatori erano emigrati o avevano cambiato mestiere. Riflettiamo sulla storia dei pescatori girando per i campi e gli allevamenti di Arborea, poco lontano. Queste “nuove terre” nacquero con le bonifiche degli Anni Trenta, a cui Cabras è uno dei pochi corpi d’acqua sopravvissuti. È difficile non accorgersi di quanto sia contraddittoria l’idea di modernizzazione propugnata tanto dal Fascismo quanto dallo Stato repubblicano: da un lato le aree umide erano da eliminare in quanto improduttive, dall’altro si era più che disposti a tollerare lo sfruttamento delle acque da parte dei grandi proprietari. Come già intuito da Dessy, aver posticipato così a lungo una soluzione era funzionale a privilegiare i “nuovi” settori dell’economia sarda: agrario, militare e petrolchimico. Quel poco che resta dei modi di vita tradizionali è ormai svuotato di valore ecologico e sociale, e ri-semantizzato per il turismo – come il mestiere della pesca in laguna.

GIRO D’ITALIA è una guida sentimentale che esplora la Penisola, dai più piccoli ai maggiori centri abitati. Seguendo la metafora del ciclismo, procede con lentezza, attraverso lo sguardo dei fotografi associato alle parole di autori di varie discipline. Un viaggio in soggettiva, per tracciare una mappa inedita del nostro Paese – un viaggio curato da Emilia Giorgi.

Questo testo e le immagini di Anna Positano sono parte del progetto “Arborea/Mussolinia” (vincitore del grant della Graham Foundation for Advanced Studies in the Fine Arts) di prossima pubblicazione presso Humboldt Books.

BIO Anna Positano (1981) è una fotografa e una ricercatrice indipendente. Ha completato il Master in Fotografia del London College of Communication dopo la laurea in Architettura a Genova. La sua ricerca indaga il rapporto tra paesaggio, architettura e società. Lavora su commissione per studi di architettura, riviste e istituzioni. Le sue fotografie sono regolarmente pubblicate sulle riviste di architettura. I suoi progetti sono stati esposti presso sedi internazionali, tra cui Triennale di Milano, Biennale di Architettura di Venezia, Cornell University, Camera, Unseen Photo Fair e MAO Ljubljana. Insegna Fotografia allo IED di Firenze. theredbird.org

a destra e seguenti: Anna Positano, Arborea/Mussolinia, 2020 Courtesy l’artista




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MASSIMILIANO TONELLI [ direttore ]

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ARTI E MESTIERI HANNO BISOGNO DI NUOVI MUSEI

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grandi musei autonomi e i loro “super direttori” hanno ottenuto bei risultati nell’ultimo lustro. Ne abbiamo dato atto più volte, sottolineando i limiti e i margini di miglioramento, ma senza mai negare la portata dell’evoluzione. La lista di questi importanti enti culturali – i più recenti sono stati aggiunti a fine giugno – dà però evidenza di una lacuna. Nel novero dei più significativi musei italiani non ci sono spazi dedicati al saper fare, all’artigianato. Fatto salvo il design, non siamo dotati ad esempio di un museo della moda che possa competere a livello internazionale e possa ambire al ruolo di grande “museo autonomo”. Un paradosso, vista l’importanza da noi dell’industria del fashion; e l’impegno dei privati (il Museo Gucci, il Museo Ferragamo ecc.) non può compensare la latitanza dello Stato.

Musei della calzatura, della pelletteria, del merletto, della seta, del cappello, della lana e di mille altre specialità esistono in gran numero in Italia, ma solo raramente si tratta di istituzioni all’altezza dell’importanza del contenuto.

Ma almeno della mancanza di un museo nazionale della moda ogni tanto si dibatte, cosa che non avviene per tutte le altre arti che costituiscono l’identità industriale del made in Italy. Queste competenze diffuse o non possono disporre di una infrastruttura culturale che le racconti, oppure hanno a disposizione infrastrutture inadeguate, vecchie, superate. E quindi dannose. Largamente controproducenti. Musei della calzatura, della pelletteria, del merletto, della seta, del cappello, della lana e di mille altre specialità esistono in gran numero in Italia, ma solo raramente si tratta di istituzioni all’altezza dell’importanza del contenuto. Un contenuto assai importante per motivi storici, sociali, culturali e non ultimo economici. Un contenuto strategico per il futuro: il ritorno ai mestieri artigianali dovrà essere una

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delle chiavi di sviluppo per i prossimi anni, uno degli elementi di attrazione soprattutto per i giovani, che individueranno in questo ambito una chance di carriera e di soddisfazione. Si tratta, è indubbio, di una caratteristica che l’intero pianeta guarda con ammirazione. Le risorse del PNRR, fortemente modulate sulle aree interne, dove l’artigianalità è ancora presente in maniera profonda, sembrano perfette per dare boost a questo comparto. Ma affinché questo avvenga, affinché la percezione diffusa cresca e acquisisca ulteriore prestigio e capacità magnetica per investitori e lavoratori, occorre un racconto ben sceneggiato. E come si fa a strutturare un racconto su un argomento senza avere a disposizione enti culturali che diano una mano? I musei sulle arti e sui mestieri dovrebbero essere finanziati, dovrebbero trovare spazio in edifici contemporanei di nuova architettura, dovrebbero beneficiare di allestimenti coinvolgenti con impiego di tecnologie. La maggior parte di loro sono invece luoghi polverosi e pieni di cimeli, con impianti museografici incapaci di entrare realmente in empatia col pubblico. Non solo rendono un pessimo servizio ai contenuti di cui parlano, ma ne danneggiano l’immagine. Una delle sfide dell’Italia è quella di rendere attrattivi i mestieri artigianali e convincere giovani e giovanissimi che un percorso professionale di quel tipo può essere un’opzione credibile. Ogni museo che non contribuisce in questo senso, ogni museo che rischia di far passar la voglia a un ragazzo dovrebbe essere chiuso in attesa di essere riallestito, ripensato, trasferito in spazi più idonei. L’obiettivo, oltre che raccontare una storia e tutelare un patrimonio unico, deve essere quello di convincere i visitatori che l’artigianato italiano è una delle cose più strabilianti del mondo. Altro che vecchi merletti.


RENATO BARILLI [ critico d’arte militante ]

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2017

CURATELA: Vincenzo Trione TITOLO: Codice Italia ARTISTI: Alis/Filliol, Andrea Aquilanti, Francesco Barocco, Vanessa Beecroft, Antonio Biasiucci, Giuseppe Caccavale, Paolo Gioli, Jannis Kounellis, Nino Longobardi, Marzia Migliora, Luca Monterastelli, Mimmo Paladino, Claudio Parmiggiani, Nicola Samorì, Aldo Tambellini CURATELA: Bartolomeo Pietromarchi TITOLO: Vice Versa ARTISTI: Francesco Arena, Massimo Bartolini, Gianfranco Baruchello, Elisabetta Benassi, Flavio Favelli, Luigi Ghirri, Piero Golia, Francesca Grilli, Marcello Maloberti, Fabio Mauri, Giulio Paolini, Marco Tirelli, Luca Vitone, Sislej Xhafa

CURATELA: Ida Gianelli ARTISTI: Giuseppe Penone, Francesco Vezzoli

CURATELA: Vittorio Sgarbi TITOLO: CURATELA: L’arte non è Cosa Nostra Luca Beatrice, Beatrice Buscaroli ARTISTI: TITOLO: oltre 200 Collaudi 1909-2009. Omaggio a Filippo Tommaso Marinetti ARTISTI: Matteo Basilé, Manfredi Beninanti, Valerio Berruti, Bertozzi&Casoni, Nicola Bolla, Sandro Chia, Marco Cingolani, Giacomo Costa, Aron Demetz, Roberto Floreani, Daniele Galliano, Marco Lodola, Masbedo, Gian Marco Montesano, Davide Nido, Luca Pignatelli, Elisa Sighicelli, Sissi, Nicola Verlato, Silvio Wolf

2007

2009

PADIGLIONE ITALIA ALL’ARSENALE: LE MOSTRE DAL 2007 A DOMANI

2022 2019

CURATELA: Cecilia Alemani TITOLO: Il mondo magico ARTISTI: Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi, Adelita Husni-Bey

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Si potrà dire che in quella landa ultima ci viene però concesso molto spazio, ma direi che conta soprattutto la collocazione e, dunque, ci spetta il diritto di porci in primo piano, in tutta evidenza, il che corrisponde proprio a quell’ala di diretta e manifesta visibilità che eravamo soliti occupare in tempi migliori. Si aggiunga anche un altro fattore non indifferente. Non so perché, quella landa ai confini del mondo che ci concediamo è di solito immersa nelle tenebre, altro aspetto spiacevole, disdicevole, mentre ricordo tanta luce in quelle sale in primo piano. Dunque, se le riesce possibile, faccia ogni sforzo per ritornare all’antico, qualche volta è il modo migliore per andare avanti. Naturalmente, non dubiti che alla prossima occasione manderò anche alla Alemani una bella lettera aperta piena di ammonizioni e scongiuri.

CURATELA: Milovan Farronato TITOLO: Né altra Né questa: La sfida al Labirinto ARTISTI: Enrico David, Chiara Fumai, Liliana Moro

2015

Capisco la regola di un padrone di casa che non vuole abusare, e dunque si va a mettere nel punto più scomodo, assicurando le piazze più vantaggiose agli ospiti. Ma perché questa modestia?

CURATELA: Eugenio Viola TITOLO: TBD ARTISTI: Gian Maria Tosatti [?]

2013

solo due presenze italiane. Sfido a verificare se tanta modestia, tanto spirito riduttivo, siano presenti nelle manifestazioni altrui.

2011

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aro Viola, io non la conosco, così come lei non credo che sappia nulla o quasi di me, ma certo il suo curriculum è molto serio. Mi piace fra l’altro apprendere che ora lei è curatore del MAMBO, quello vero e primigenio, della città di Bogotà in Colombia, una terra che mi è molto cara e che ho visitato molto spesso. Del resto ritengo che il suo nome [per curare il Padiglione Italia, N.d.R.] sia stato proposto dal duo Gioni-Alemani, sotto i cui auspici si porrà l’intera prossima Biennale. Temo che lei potrà fare molto poco in materia, ma vorrei tanto che cogliesse il grido di dolore sollevato da me e da tanti altri colleghi, di riportare in primo piano la presenza dell’Italia. Io ho avuto la ventura di curare, a fianco di Francesco Arcangeli, la partecipazione italiana alla Biennale del ’72. Ebbene, allora ci veniva data l’ala di destra, guardando dall’esterno, del Padiglione Centrale ai Giardini, vale a dire una suite di una decina di stanze, ampie, ben illuminate, in posizione dominante. E anche in seguito, per altre Biennali, si è mantenuta quella posizione, che mi sembra sia l’unica degna del Paese che, con spese ingenti, sostiene ogni due anni la manifestazione veneziana. Non so bene quando è intervenuta l’infelice idea di andare a collocarci nel punto più lontano della pur magnifica sfilata di stanze alle Corderie. Capisco la regola di un padrone di casa che non vuole abusare, e dunque si va a mettere nel punto più scomodo, assicurando le piazze più vantaggiose agli ospiti. Ma perché questa modestia? Per carità, non è il caso di darsi allo sciovinismo, ma neppure di batterci troppo il petto. È vero che siamo esterofili, ma c’è un limite a tutto, siamo arrivati al punto di permettere al direttore di turno di invitare

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LETTERA APERTA A EUGENIO VIOLA

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CLAUDIO MUSSO [ critico d’arte e docente ]

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UNA ROTATORIA SU MARTE

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Filippo Minelli, Padania Classics, 2010-ongoing

ualche giorno fa mi sono svegliato accaldato e agitato, avevo fatto un terribile incubo. La missione era compiuta. Con un equipaggio preparato e numeroso, con mezzi e strumentazione all’avanguardia avevamo finalmente conquistato il Pianeta Rosso. Unico neo di quella straordinaria operazione internazionale – in cui il sottoscritto era coinvolto – nonché motivo che mi aveva causato i sudori freddi nella tuta spaziale (e sotto le lenzuola): invece dell’acqua, al posto di chissà quali materie riutilizzabili, su Marte avevamo scoperto solo uno sterminato agglomerato di rotatorie, bellamente “decorate” da supposte opere d’arte di dubbio gusto. Delle inquiete notti di chi scrive a nessuno interessa, ma sul fattore scatenante del brutto sogno forse si può dire qualcosa. “C’è stato un tempo Prima della Rotatoria e un tempo Dopo la Rotatoria”: esordisce così Emanuele Galesi in quel prezioso volume che è l’Atlante dei Classici Padani, opera a più mani nata da un’idea di Filippo Minelli. “L’espressione massima della rotonda è raggiunta però con l’opera d’arte al centro”, continua Galesi, “la scultura

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Le "rotonde" sono ormai un landmark eccezionale. La loro diffusione e la loro popolarità è diffusa su tutta la Penisola, con aree ad altissima densità. finanziata per accogliere il viaggiatore, per installare un simbolo della zona, per celebrare la potenza dell’imprenditore, per dimostrare una vitalità creativa mai sopita”. Nella “Macroregione” che – nata dall’idea di una possibile affiliazione politica di stampo leghista di aree del Piemonte e del Veneto alla Lombardia – si è espansa oltre i suoi confini naturali e artificiali, le “rotonde” (così vengono chiamate in tono confidenziale) sono ormai un landmark eccezionale. La loro diffusione e la loro popolarità, verrebbe da dire, è diffusa su tutta la Penisola, con aree ad altissima densità, come quella della Via Emilia per esempio, a cui Maurizio Finotto sta dedicando una ricerca che confluirà nel road movie Miraggi di Pianura. Nelle immagini del

film, definito così perché tecnicamente girato in Super8, alcuni rondò occupati da oggetti plastici che fatichiamo a definire “installazioni” si succedono uno dopo l’altro dispiegando una varietà di mezzi, supporti e ipotesi compositive più vicine alla fiera dell’edilizia che al parco di sculture. Quando è che è stato deciso che ogni spazio di questo tipo dovesse accogliere un’opera? Come si è passati dalla manutenzione privata di un luogo pubblico alla possibilità di utilizzarlo come cartellone pubblicitario? Certo, alcuni esempi illuminati non mancano, di recente proprio sull’asse emiliano romagnolo lo ha fatto la Fondazione Dino Zoli a Forlì con l’opera di Massimo Sansavini, ma le percentuali sono ahinoi di gran lunga a favore dell’altro versante. Ora la soluzione più semplice potrebbe essere quella seguita in molti casi simili di arte nello spazio urbano, lasciare spazio ai giovani attraverso chiamate aperte e investimenti risibili. E invece no, perché non sfruttare l’occasione per provare a proporre una riflessione sulla dissennata estetizzazione di infrastrutture e arredi urbani? Perché non fermarsi, per una volta, ad ammirare il vuoto?


ALESSANDRA MAMMÌ [ giornalista ]

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ARTE E VANDALI IN ITALIA: 6 CASI ELOQUENTI 2011, MILANO

Durante i festeggiamenti per la vittoria dello scudetto, i tifosi del Milan devastano la Montagna di Sale di Mimmo Paladino allestita di fronte a Palazzo Reale. 2015, MILANO

Una scultura gonfiabile di Franco Mazzucchelli è oggetto di tag, bruciature e tagli, finché ne viene decisa il ritiro dallo spazio pubblico. 2017, ROMA

Triumphs and Laments, Il fregio sul Lungotevere regalato a Roma dall’artista sudafricano William Kentridge viene vandalizzato in due occasioni. 2017, TORINO

Una delle Luci d’Artista, opera di Vanessa Safavi, viene installata nel quartiere delle Vallette e distrutta a sassate dopo poche ore. 2019, LIVORNO

La targa antisemita e omofoba pensata da Ruth Beraha per il Museo della Città è imbrattata da uno studente che non ne coglie l’intento provocatorio. 2019, VERGATO

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stato un vero esperimento di arte pubblica quello di Marzia Migliora: progettare una doppia installazione, lo stesso lavoro in un giardino pubblico e in una prigione, nel caso specifico il Parco dei Daini e La Casa Circondariale femminile di Rebibbia, per la rassegna Back to Nature che, ancora una volta, Costantino D’Orazio ha proposto in Villa Borghese a Roma. Anche il lavoro era un complesso esperimento tecnico: un’altalena fatta di canne d’organo, arricchite di componenti meccaniche ed elettroniche, studiate per emettere suoni a ogni oscillazione con sonorità più gravi o corali a seconda della velocità, del ritmo, della leggerezza dell’altalena. Ed era infine un esperimento psicologico, perché, come afferma l’artista, se si sale tristi su un’altalena si finisce per sorridere comunque e, se a questo si aggiunge la sorpresa che arriva dalle buffe note dell’organo, l’effetto non può che essere giocoso. Anche il titolo scelto per l’opera, Staccando l’ombra da terra – e via su coi piedi verso il cielo, finalmente leggeri dopo un periodo di lockdown per chi arriva nel parco, e nel lockdown perenne di chi vive in prigione –, sottolinea l’intento liberatorio e il fine di tanto esperimento. Ma, come tutti gli esperimenti, anche in questo caso il risultato è stato imprevisto. Ed ecco che oggi la pubblica e libera altalena danneggiata “per uso inadeguato”, come recita il comunicato della Sovrintendenza, giace spezzata, transennata e irraggiungibile nel libero parco, in attesa di essere rimossa del tutto dal giardino, mentre l’altra altalena, quella reclusa di Rebibbia, è ben curata e accudita dalle detenute e si candida a restare come opera permanente. Cosa insegna tutto ciò? È una grande lezione su quel che vogliamo, dobbiamo e possiamo fare quando si parla di “arte pubblica”. La quale, perché sia davvero pubblica, deve essere condivisa, non solo nell’uso ma nel rispetto e nella consapevolezza che quell’oggetto non vive lì solo per la sua funzione materiale, ma per un benessere più complesso che crei complicità e soprattutto “comunità”. Ed è proprio questa la parola chiave che spiega il “paradosso Migliora” e la forza di un’opera che, spingendosi persino al di là delle intenzioni del suo autore, ci racconta come una comunità, sia pure di reclusione, abbia capito il valore aggiunto di quel lavoro, sfuggito invece ai distratti fruitori di una villa al centro di una capitale, incapaci di

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L’ARTE PUBBLICA E IL "PARADOSSO MIGLIORA"

La Fontana di Luigi Ontani viene prima accusata di satanismo da Simone Pillon, poi è oggetto di un flash mob di Forza Nuova e infine viene imbrattata di letame.

Cosa insegna tutto ciò?  È una grande lezione su quel che vogliamo, dobbiamo e possiamo fare quando si parla di "arte pubblica".

vedere il bene pubblico in un albero, in una panchina, figuriamoci in un’opera d’arte. Non ci consola sapere che la colpa di tanto danno è nell’“uso improprio” da parte di ragazzini entusiasti e iperattivi, gestiti da genitori permissivi, e non di malintenzionati vandali nemici della ricerca contemporanea. Perché a spiegare le dinamiche

del degrado arriva la Teoria delle finestre rotte, che in sostanza recita: “Se in un palazzo si rompe un vetro e nessuno lo ripara, dopo poco l’intero quartiere sarà danneggiato”. Traduzione: se quel parco tra i più belli del mondo è così abbandonato a se stesso, se i suoi prati sono secchi, i suoi alberi macilenti, i sentieri polverosi, se non basta neanche una bella iniziativa come quella di portare insieme alla testimonianza degli artisti l’attenzione sulla meraviglia di quella villa e sul suo bisogno di cure, sarà difficile chiedere il rispetto di un’opera, la cui unica colpa è di essere troppo sola e troppo fragile per resistere all’incuria materiale e morale che ha ormai contagiato una città intera. Dove, per paradosso, l’unica roccaforte nella quale sia possibile Staccare l’ombra da terra è rimasta una prigione.

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ALDO PREMOLI [ trend forecaster e saggista ]

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LA SOCIETÀ PALLIATIVA. UNA TEODICEA AL CONTRARIO

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i fronte al vuoto di senso del dolore che infierisce su un innocente resta solo lo strazio. Nessuna religione ha mai saputo dare una risposta, anche solo sommaria, utile o in qualche modo accettabile al male esistente nel mondo. Il tentativo più coerente di preservare il Dio “buono” dalla presenza del male gratuito e non provocato lo ha fatto – quasi due secoli dopo i farfugliamenti sortiti dal Concilio di Trento – un laico, Leibniz, che nel 1710 pubblicava i Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male. Tuttavia, a chi ha fatto esperienza di un reparto di oncologia infantile, lo sforzo non può che apparire vano.

L’artista contemporaneo avrebbe del tutto isolato il dolore dalla sua fantasia estetica, relegandolo a una questione di mera tecnica medica.

Al tomo di quasi seicento pagine di Leibniz si affiancano ora le ottanta paginette di un filosofo oggi molto ascoltato: il coreano-tedesco Byung-Chul Han, che, ne La società senza dolore (Einaudi, 2021), ne ribalta la prospettiva. Appoggiandosi allo Heiddeger de Gli inni di Hölderin, Han affronta la questione senza mezzi termini, non cerca inutili giustificazioni, al contrario: “Il dolore è un dono”, è “la via per la formazione dialettica dello spirito”; di più: “Il dolore acuisce la percezione di sé. Contorna il sé. Disegna i suoi contorni”. Per converso, è la società senza dolore (la nostra), irrorata da un’onnipresente farmacopea anestetizzante il corpo come lo spirito, a essere messa sotto accusa: è una società crepuscolare, che forse un giorno sarà costretta a raggiungere l’immortalità del singolo, ma al prezzo della sua stessa non-vita. Difficile anche in questo caso, per chi ha ad esempio affrontato l’esperienza – negli scorsi mesi divenuta drammaticamente comune – di una terapia intensiva, simpatizzare con una tesi del genere. E tuttavia, la lettura di questo volumetto risulta fortemente suggestiva. Secondo Han, caratteristica tutta

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contemporanea è la perdita di ogni ordine simbolico del dolore, divenuto di conseguenza solo un disturbo. Ma non è sempre stato così: le società premoderne mantenevano una relazione intima con il dolore. La festa cupa del martirio veniva magnificata da sontuose messe in scena, con i corpi martoriati esibiti come insegne del potere: dal vivo o ritratti in affreschi, pale d’altare e sculture. Più tardi, nel passaggio dalla società “dei martiri” a quella della disciplina necessaria alla produzione industriale, il rapporto con il dolore cambia, il suo ordine simbolico si trasforma. Il corpo straziato diviene “eroico”: è attrezzato a ricevere dolore per rispondere a un comando esterno che è in grado di impiegarlo e persino sacrificarlo in fabbrica o in battaglia. Questo almeno accadeva sino alla metà dello scorso secolo sotto l’egida di nazionalismi e fascismi di ogni sorta. È solo nell’epoca post-industriale e post-eroica che il corpo perde definitivamente la sua funzione tanto di avamposto che di mezzo di produzione. L’intera narrazione cristiana l’abbandona e il dolore, privato di un qualsiasi significato, diventa

inaccettabile, del tutto insopportabile. Non che sia svanita ogni forma di controllo, ma si tratta di nuove forme smart che si esprimono con Sii felice e Sii libero, non più con Sii obbediente. L’illimitata permissività attuale si costruisce utilizzando diversity, community, sharing. La nuova società palliativa ha depoliticizzato il dolore (e quindi ogni forma di ribellione) medicalizzandolo e privatizzandolo. Chi soffre è solo vittima di un corpo stanco che va aiutato a ritrovare la sua forma performante. Alla ribellione che sempre il dolore provoca, l’individuo sostituisce tuttalpiù la depressione. C’è un’ultima affermazione su cui vale la pena di riflettere. Nel capitolo intitolato Poetica del dolore, Han contrappone le figure di Kafka, Proust, Schubert e Nietzsche, per cui il dolore è parte costituente della creatività, al prototipo (non si sa quanto reale) dell’artista contemporaneo, che – a suo dire – avrebbe del tutto isolato il dolore dalla sua fantasia estetica, relegandolo a una questione di mera tecnica medica. Nella società palliativa vale solo la prosa della compiacenza, dove l’Uguale incontra l’Uguale in una vorticosa accelerazione di like.


FABIO SEVERINO [ economista della cultura ]

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n questo momento di grandi opportunità di finanza pubblica – e non solo –, il problema che più emerge è la reale capacità di fare progetti. Fare progetti è purtroppo un mestiere. Società e professionisti vivono di progetti scritti e confezionati per altri; qualcuno, nella maturata abilità di saper fare progetti, ha smarrito il core business originario, ovvero: “Ti so scrivere come erogherei quel servizio che chiedi ma non so più come farlo realmente”. Spesso mi trovo a far parte di commissioni che assegnano fondi o spazi o scelgono fornitori a cui si affidano servizi. Purtroppo i candidati si dividono sempre in due categorie: quelli che sanno fare i progetti e presentano offerte impeccabili; e quelli che non si sanno raccontare, non sanno descrivere cosa intendono fare, si dimenticano qualche documento o di dire qualcosa. I primi, il più delle volte, non sanno poi fare il lavoro che è stato loro affidato, o non hanno idee, sono ordinari e obsoleti; gli altri, bravissimi nel fare il lavoro magari, non prendono però mai un affidamento, perché non hanno saputo confezionare un proposta vincente, secondo le regole del bando.

Il rapporto amministrativo tra finanza pubblica erogatrice e impresa privata affidataria e somministratrice di servizi ha deformato questa relazione. L’ha concentrata tutta nella robustezza delle procedure e nell’affidabilità delle dichiarazioni, perdendosi per strada la qualità dei contenuti. A questo si aggiunga che chi aggiudica spesso non fa neanche i controlli. Quindi, chi fa proposte porta qualcosa di ordinario o di vuoto. Chi assegna è tutto proteso nella formalità della proposta e non cerca e non “legge” cosa c’è di vero e di buono. A regime spesso i servizi sono scarsi, nessuno li controlla, se non l’insoddisfazione dell’utente, e quello che potrebbe essere un comparto sano e virtuoso di rapporto pubblico-privato diventa l’ennesimo spreco di risorse della collettività. Perché ad esempio dentro le strutture (musei, eventi, ma anche scuola, ospedali) i servizi ristorativi sono sempre scadenti? Perché il sostegno pubblico lo prendono sempre gli stessi, che non portano innovazione né qualità? Certo, sto massimizzando, ma è veramente la maggior parte degli affidamenti pubblici: non vince il migliore ma il più abile. Si prendano i servizi aggiuntivi nella cultura. La ristorazione italiana è un fiore all’occhiello ovunque, e poi dentro i luoghi pubblici è spesso cara, quasi sempre scarsa di qualità. I bandi sono fatti male, non premiano il merito, spesso sono anche vessatori nelle richieste di garanzie o di remunerazione. Chi sa fare il lavoro ha le idee, magari non sa scrivere, non sa mettere insieme le mille carte documentali richieste. Allora la mia proposta – sì, ce l’ho la soluzione, non mi limito all’accusa – è di fare dei bandi-corso, dove si selezionano capacità tecnica e intrapresa e poi si accompagna il fornitore/concessionario a costruire un progetto remunerativo per lui, rassicurante per la stazione appaltante, soddisfacente per l’utente.

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I bandi sono fatti male, non premiano il merito, spesso sono anche vessatori nelle richieste di garanzie o di remunerazione. Chi sa fare il lavoro ha le idee, magari non sa scrivere, non sa mettere insieme le mille carte documentali richieste.

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I BANDI PUBBLICI? TRASFORMIAMOLI IN BANDI-CORSO

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MARCELLO FALETRA [ saggista ]

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DESERTI URBANI

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e la città fosse una specie, e la cultura fosse soggetta alle leggi della selezione naturale, probabilmente sarebbe già scomparsa. E si potrebbe vedere nella presenza onnivora del turismo una forma di terapia intensiva di ciò che resta di essa. La pandemia, come in un film di fantascienza, ha reso i centri storici luoghi deserti, residui culturali, dove la presenza dell’uomo, con le sue relazioni e compromissioni sociali, è in via d’estinzione. La città-fiction, la città-cartolina, la città-museo, la città consumo, senza la terapia intensiva del turismo, è una città morta. In essa l’uomo scompare dietro il turista. Allo stesso modo la città scompare dietro la sua immagine pubblicitaria in un monologo fatale. Niente a che vedere con le piazze vuote fotografate da Eugène Atget agli inizi del secolo scorso. Nei primi anni del Novecento la percezione del vuoto metropolitano appariva come una sorta di “inconscio ottico” (Walter Benjamin) che separava, al modo di una buccia, l’uomo dall’ambiente circostante. La percezione del vuoto urbano era vissuta come una scoperta di archeologia del presente, dove la città poteva essere riscoperta come un veicolo di esperienze fuori dalle abitudini quotidiane. Le fotografie di Atget hanno registrato ciò che restava della città in una società votata alla saturazione dello spazio urbano con i manifesti pubblicitari, la cui metamorfosi, oggi, è il culto indiscusso del brand di una città. La fotografia di Atget, per Walter Benjamin, registrava questo isolamento fenomenico, fino a vederlo anche nelle espressioni dei volti. Ma il vuoto o il deserto generato dalla pandemia ha un altro volto. Un esempio: il vuoto di Las Vegas durante la pandemia aveva qualcosa di spettrale e magico allo stesso tempo. La città-insegna per eccellenza, la città della persuasione totale al gioco d’azzardo, ha vissuto per mesi nello splendore della sua inutilità, che si è aggiunto allo splendore effimero della sua pubblicità. In questo scenario, in alcune città storiche, le periferie si prendono una rivincita. In esse lo scambio sociale, non mediato dal turismo, paradossalmente ha ancora luogo. Ma le periferie di città come Napoli, Istanbul o Rio de Janeiro – città storiche ma con altri destini – non sono uguali a quelle di città come Firenze o di altre bomboniere storiche. In quest’ultima la museificazione dello spazio urbano ha

Piazza Santo Spirito a Firenze. Photo Alessandro Naldi

La città-insegna per eccellenza, Las Vegas, la città della persuasione totale al gioco d’azzardo, ha vissuto per mesi nello splendore della sua inutilità.

comportato la scomparsa del patrimonio relazionale a vantaggio dell’unica forma di relazione sociale in essa consentita: il consumo della storia. A Napoli o a Palermo, invece, la periferia agisce come propulsore del disordine, un agitatore dell’equilibrio

sociale – esiste come un sommovimento che dagli estremi della cinta urbana accerchia la città vecchia e sovverte ogni ordine sociale. C’è una violenza della gentrificazione e della religione del brand a cui risponde, come in uno specchio, una violenza della periferizzazione di vaste aree della popolazione espropriata dei suoi luoghi d’origine. Se la città è un sogno a occhi aperti come vuole la propedeutica al consumismo, occorre capire la natura di questo sogno. Se esso è trasportato dalla seduzione feticistica della città-cartolina, oppure se agisce come il flâneur di Baudelaire, che gironzola senza scopo, sognando la sua inutilità radicale in un mondo dove tutti recitano con ossequiosa disciplina la parte di un utile consumatore.


CHRISTIAN CALIANDRO [ storico e critico d’arte ]

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FUORIUSCITA – PARTE SECONDA

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La critica è potere rivela con lucidità come gli strumenti tradizionali siano ormai del tutto inadeguati, così come la cornice in cui l’intera discussione si inserisce.

quale non vige alcuna distinzione tra operazione autentica e perciò immune dalla ricerca di potere e operazione mediatrice e perciò stesso alla ricerca di potere, di persuasione, dunque inautentica” (La critica è potere, 1970). Qui ancora l’artista è in grado di vivere e agire a pieno titolo nell’autenticità, mentre in seguito ci sarà la presa di coscienza che “finiva tutto lì, in una spettatrice ideale”. Ma ogni tentativo di trasferire l’autenticità sul piano delle idee e della cultura è destinato a fallire, proprio perché la critica come operazione mediatrice si muove sempre sul livello del potere e della sua ricerca. In confronto a questo testo, la critica acritica – tutta incentrata su “racconto”, “archiviazione”, “registrazione” – suggerita e delineata da Celant si propone quasi come una versione depotenziata del metodo rivoluzionario offerto un anno prima da Autoritratto, un metodo che frantumava il soggetto in un racconto corale e collettivo: “L’arte contemporanea in questo momento chiede di essere lasciata in pace, non vuole essere ridotta a parole (…), non vuole intervenire o offrire una lettura del mondo, non si pone in chiave moralistica” (Per una critica acritica, 1970). Critica, dunque, “come archivista, come bibliotecaria, come documentarista, come traduttrice dei

mezzi di informazione in mezzi di documentazione” (ibidem). La critica è potere sposta invece i termini proprio perché rivela con lucidità come gli strumenti tradizionali siano ormai del tutto inadeguati, così come la cornice in cui l’intera discussione si inserisce. Sarà infatti solo la nuova attrezzatura intellettuale provvista dal femminismo a chiarire la questione centrale del potere. Dieci anni dopo, infatti, la concezione si precisa così: “Probabilmente il mostro che sta dietro tutti i nostri discorsi è che l’uomo sente che, arrivato a questo punto, dovrebbe mettere in crisi il suo piano di potere, perché lui si sta rivelando un individuo che tiene un piede in due staffe; si alimenta in un mondo dove il potere viene negato in quanto si parla su un piano di autenticità, poi riporta tutto sul piano culturale in cui precisamente l’oggetto che produce entra in un sistema di potere” (Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, 1980). La contraddizione dell’artista sta in questa continua operazione di traduzione, che rappresenta di fatto un tradimento costante delle premesse e delle istanze iniziali e che per questo è destinata al fallimento. L’autenticità è necessaria all’opera e alla creatività, ma ogni volta che viene riportata sul piano culturale essa decade. Si degrada.

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rmai ho capito di qua come funziona, dove non so ancora niente è come funziona di là, dall’altra parte, dove questi artisti, illudendomi, molto spesso hanno finto di voler andare e dove io sono andata.” Carla Lonzi LLL Uno degli aspetti più affascinanti del percorso compiuto da Carla Lonzi lungo gli Anni Settanta consiste proprio in questo senso di scoperta: la sensazione cioè di addentrarsi in un territorio sconosciuto, nuovo (“di là, dall’altra parte”), dove vigono regole ignote e in ogni caso completamente diverse dalle convenzioni che regnano “di qua”. Questa idea è accompagnata dalla disillusione e dalla delusione nei confronti degli artisti, che all’epoca di Autoritratto e ancora all’inizio del decennio erano considerati i depositari dell’autenticità, le uniche figure davvero in grado di liberare se stesse e gli altri, di fare esperienza concreta e completa della libertà, e invece hanno illuso l’autrice, ritirando di fatto la reciprocità sognata e richiesta. Ma che cosa è in fondo questa terra “di là, dall’altra parte”, dove “gli artisti… molto spesso hanno finto di voler andare” e dove invece la Lonzi è approdata? Come è fatta? È una zona la cui conoscenza prende corpo e si articola gradualmente, attraverso l’abbandono della critica d’arte e del mondo dell’arte, e allo stesso tempo con l’esplorazione del femminismo e della sua pratica. Il nuovo mondo si definisce sempre attraverso la dicotomia inautentico-autentico, potere-negazione del potere. Fin dal testo con cui Carla Lonzi si congeda dalla critica nell’anno-chiave del 1970, e con cui partecipa al dibattito su NAC inaugurato da Per una critica acritica di Germano Celant spostando decisamente i termini della questione, è chiaro che i due territori sono incompatibili e incommensurabili, si muovono su piani distinti e che non comunicano: “Il motivo per cui la funzione critica appare in sé un vero e proprio progetto di falsificazione sta in ciò che essa vuole, a giustificare sul piano delle idee qualcosa che è esclusivamente frutto di una condizione di autenticità. (…) ciò che è vero per l’artista non è affatto vero per la società: né la cultura né la società vivono sull’autenticità, semmai speculano su quella degli altri, cioè vivono su un piano di potere, di gestione indiscriminata dell’autentico e dell’inautentico. Il critico, in quanto fa dell’opera una costruzione di idee, punta sulla connivenza cultura-società all’interno della

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Ligornetto, Svizzera

museo-vela.ch


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LA COPERTINA

TATANKA JOURNAL in collaborazione con Camillo Pasquarelli

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AMULETI SUFI Camillo Pasquarelli, fotografo e antropologo, dal 2015 ha lavorato in Kashmir al progetto visivo Monsoons never cross the mountains, pubblicato dalla casa editrice Witty Books nel 2020. Il Kashmir è una delle zone più militarizzate al mondo e dagli Anni Novanta la regione è stata testimone di numerose rivolte contro l’amministrazione indiana. Ogni volta che gli abitanti sono scesi in strada rivendicando l’azadi (“libertà” in lingua urdu e slogan del separatismo kashmiro), le loro voci sono state soffocate nel sangue. Il Kashmir è una regione a maggioranza musulmana e la tradizione del Sufismo è fortemente radicata. Nei santuari della valle, venditori ambulanti vendono cartoline che ritraggono i Pir, santi Sufi defunti, considerate amuleti in grado di proteggere i fedeli. La venerazione dei martiri che hanno sacrificato la loro vita per l’azadi sembra seguire il culto popolare della commemorazione dei santi Sufi, suggerendo che onorare i morti in qualche modo avrebbe un particolare ruolo all’interno della cultura kashmiri.

Tatanka è uno studio indipendente di progettazione grafica, fondato da Sara Ceradini, Francesco Fadani e Jacopo Undari, con sede a Bologna. Lo studio si occupa di editoria, comunicazione visiva e didattica in diversi ambiti artistici e culturali, con particolare attenzione alla materia stampata, all’autoproduzione e alle tecniche di stampa. Tutti i progetti nascono all’interno di processi collaborativi e condivisi, in cui conoscenze, discipline e tecniche differenti si incontrano e si contaminano. Dal 2018 collabora con artisti e curatori in progetti di ricerca e sperimentazione e dal 2020 porta sulle copertine di Artribune il proprio sguardo sul mondo e sul contemporaneo. TATANKA è un progetto di SARA CERADINI, FRANCESCO FADANI, JACOPO UNDARI tatankajournal.com tatankajournal@gmail.com tatanka_journal

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Champagne, arte e ironia. David Shrigley collabora con Ruinart GIULIA RONCHI L Si intitola Unconventional Bubbles il corpus di lavori prodotto da David Shrigley (Macclesfield, 1968) per Ruinart. La maison francese produttrice di champagne, dopo Liu Bolin (2018) e Vik Muniz (2019), prosegue la sua collaborazione con grandi artisti, le cui opere e bottiglie in edizione limitata diventano per un anno protagoniste di esposizioni all’interno delle fiere d’arte di tutto il mondo. L’artista britannico, conosciuto per il suo inconfondibile stile ironico e dissacrante, ha reinterpretato il mondo Ruinart attraverso un insieme di 36 disegni e gouache, tre neon, due ceramiche e una porta. Durante il periodo trascorso a stretto contatto con gli enologi della maison (a Reims, nelle campagne francesi) ha assistito a ogni processo di produzione e vinificazione, facendosi testimone dell’importanza del ruolo di ogni elemento della natura – fino a quelli microscopici – nella creazione dello champagne. “Prima di visitare Reims”, ha raccontato ad Artribune, “sapevo che mi piaceva lo champagne. Ma non sapevo molto sullo champagne. Questa collaborazione mi ha dato l’opportunità di imparare qualcosa sul complesso processo di produzione e di creare un’arte che lo racconta. È un vero e proprio viaggio di scoperta; e infatti, ho scoperto che fare lo champagne è un’arte e è affatto non facile”.

Infine, ha disegnato un’opera in edizione limitata per fare da sfondo a uno jéroboam di Blanc de Blancs: ognuna delle trenta scatole è numerata e firmata dall’artista, corredata da una scacchiera per dama, che fa riferimento a uno dei suoi disegni. “Il messaggio delle opere realizzate ruota attorno al fatto che tutti dobbiamo essere consapevoli dell’ambiente e assumerci le nostre responsabilità. Penso che sia compito dell’artista cercare di dire la verità senza nascondersi. La definizione di politica è dover scendere a compromessi perché si vive con altre persone. Dobbiamo scendere a compromessi per supportare le esigenze del pianeta. D’ora in poi sarà sempre così, credo”, ha commentato. davidshrigley.com | ruinart.com


OPERA SEXY

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ERIN M. RILEY E IL SURROGATO DELL'AMORE erinmriley.com

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FERRUCCIO GIROMINI [ storico dell'immagine ]

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Erin M. Riley, Selfie Project, 2020

“Treasure weaver”, tessitrice di tesori, sono le due parole che Erin M. Riley sfoggia tatuate addosso in enorme elaborato corsivo, la prima subito sotto il seno e l’altra appena sopra il pube. E tessitrice questa 36enne di Cape Cod lo è senz’altro: le sue due lauree, presso il Massachusetts College of Art and Design e la Tyler School of Art, sono entrambe in quella che chiamiamo fiber art. Occupazione tradizionalmente “femminile”, l’attività tessile è ormai diventata un’arte squisitamente “femminista”. Così l’intero universo di riferimento di questa artista si circoscrive nel cosiddetto “donnesco”, anche in quegli angoli che una volta si consideravano vergognosi, da nascondere, e che oggi invece sono diventati spalancati portatori di significati di affermazione se non di orgoglio, a partire dal sangue mestruale. Come per molte sue colleghe sparse per il mondo, dunque, anche Erin Riley concentra le sue attenzioni sul corpo femminile, e in particolare su quel corpo che più facilmente trova a disposizione, il proprio. Le sue opere partono difatti da intime osservazioni di sé, realizzate di norma attraverso

fotografie – via smartphone, ovvio – sovente allo specchio, in pratica quel che in casi qualunque chiameremmo dei selfie. L’oggetto è il suo corpo, si diceva, ripreso in particolare nelle zone più scabrose, quelle più strettamente attinenti alla sfera sessuale: di sopra, di sotto, sul davanti, sul retro. L’operazione in sé non si presenterebbe affatto originale, riconosciamolo, se non fosse la specifica foggia in cui viene presentata: le sue immagini, da banali fotografie che erano, vengono riprodotte tessute in lana e cotone con mimetica artigianalità. L’effetto finale è una sorta di grezza “pixelatura” che rende meno realistiche le singole visioni, sfocandone in parte la crudezza iniziale. Perché crudezza? Perché il metodo di autoanalisi, si sarà capito, è d’ispirazione che potremmo chiamare punk: molto veristico, poco poetico. Accanto a natiche e capezzoli, tra un tatuaggio e l’altro, mentre la protagonista si esibisce sul wc o sdraiata a masturbarsi, di contorno ci vengono serviti appunto tampax impregnati di sangue, preservativi usati, siringhe, pistole, rotoli di banconote, schermi di computer con still porno (di preferenza saffici), e così andando.

Si possono considerare immagini erotiche? Chissà. Di sicuro quasi tutte autoerotiche. Quel che appare evidente difatti è l’ossessiva – non solo sua, ma si direbbe generazionale – carenza d’affetto, che si esplica in un contrario spasmodico slancio di egolatria. Una tempesta dell’anima che un po’ suscita tenerezza e un po’ spavento. Verrebbe da pensare che, in questi frangenti così sociologicamente (e psicologicamente) smarriti, alla crisi del maschio, ampiamente acclarata, si accodi anche una sopraggiunta nuova crisi della femmina, diversa da quelle già tragiche storicizzate in passato. Il desiderio d’amore rimane, e ci mancherebbe altro; ma sempre più ciò che manca è l’amore in assoluto. Amarsi da soli è un surrogato, lo sappiamo, di soddisfazione sì ma incompleta e passeggera. All’esigente angioletto Eros non basta qualche nudità e qualche impudicizia; vuole anche altri confronti, altri abbandoni. Riley li cerca, quei “tesori”: ci prova, tra il tormento e l’estasi, un po’ disordinatamente e angustiatamente. Speriamo che prima o poi raggiunga la felicità – lei e tante (e tanti) come lei.

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LA LUNGA ESTATE DELLE FIANDRE

Nuovi musei in Italia

MARCO ENRICO GIACOMELLI

CLAUDIA GIRAUD

ccanto alle immagini di stradine medieA vali e birre spumeggianti, alla parola Fiandre dovrebbe corrispondere l’immagine di un territorio attivo culturalmente, con lo sguardo fieramente rivolto alla contemporaneità. Ve lo dimostriamo con tre appuntamenti da non mancare questa estate.

LA TERZA TRIENNALE DI BRUGES

La prima tappa è Bruges per la terza edizione della sua Triennale. È intitolata TraumA, con quella seconda A maiuscola che sottolinea il calembour fra “trauma” e “traum”, ovvero “sogno” in tedesco. L’immagine da cartolina, o da sogno appunto, con la quale si identifica Bruges si sovrappone alla realtà talora traumatica della città. Rendiamoci conto: abbiamo a che fare con un’amministrazione che invita a sollevare il tappeto per mostrare la polvere, e lo fa chiedendo il supporto dell’arte e dell’architettura contemporanee. Fra le opere da scovare in città, segnaliamo quella coloratissima di Amanda Browder, una installazione tessile per la strada medievale dei tintori di stoffe, che dall’acqua si arrampica sugli edifici. Grande responsabilità per Nadia Kaabi-Linke, chiamata a intervenire nella piazza del Burg, cuore pulsante della città, per la quale ha ideato Inner Circle, una circonferenza di panchine cui sono stati saldati, proprio sulle sedute, degli spuntoni che ne impediscono l’utilizzo. Da non mancare l’operazione di Laura Splan, che trasforma in delicatissimi ricami le formazioni molecolari, cellulari e virali di cui in questo ultimo anno e mezzo abbiamo sentito parlare a profusione; e poi le installa in un museo, custode di un’altra peculiarità del territorio di Bruges, la pittura fiamminga.

sentata, grazie a due artiste di gran valore come Rosa Barba (la cui opera andrà ad arricchire il Beaufort Sculpture Park) e Rossella Biscotti.

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IL PARADISO A KORTRIJK

Nel 2018 la parola d’ordine era Play, nel 2021 è Paradise. Resta invece invariato il concept della Triennale di Kortrijk: una mostra gratuita che si dispiega dentro e fuori la città, con la particolarità che si tratta di opere interattive realizzate da artisti belgi e internazionali. Anche qui, fra i trentadue protagonisti, chiamati a confrontarsi con un tema certo non semplice, emergono nomi di rilievo come Berlinde De Bruyckere, Dora García, Kendell Geers, Ugo Rondinone, Yoko Ono e il “nostro” Michelangelo Pistoletto, ma anche un coreografo come William Forsythe. Dal sogno/trauma al Paradiso, passando per il dialogo fra uomo e natura, il menu offerto dalle Fiandre non si può dire che non sia ricco.

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ARTIFICIALIA MUSEO WUNDERKAMMER Da un’idea di Marco Lo Muscio, compositore, pianista, organista e collaboratore di Steve Hackett dei Genesis, il museo romano abbina la visita alla collezione d’arte in stile Camera delle Meraviglie a concerti di vario genere, dal Rinascimento al Rock Progressive. wunderkammer-roma.com

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ADI DESIGN MUSEUM Pensato come luogo di incontro per la comunità del design e di scoperta per il grande pubblico, il nuovo spazio espositivo di Milano ha aperto le sue porte con otto approfondimenti multitemporali, che affiancano i Compassi d’Oro dal 1954 a oggi, e una biglietteria digitale. adidesignmuseum.org

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BEAUFORT: ARTE SULLA COSTA FIAMMINGA

Beaufort è una rassegna en plein air che si svolge sulla costa dal 2003 e che ogni tre anni affianca nuove commissioni a quelle divenute permanenti. Per il 2021 è stata selezionata una serie di artisti le cui opere (anche performative) contribuiranno a ridisegnare ancora una volta il paesaggio che si estende da De Panne a Knokke-Heist lungo un itinerario di ottanta chilometri. Il focus è su uno sguardo che vada oltre l’antropocentrismo, non per negare l’essere umano ma per collocarlo in una visione più ampia e complessa. Fra gli artisti invitati dalla curatrice Heidi Ballet ci sono nomi di spicco del panorama internazionale come Laure Prouvost, Michael Rakowitz, Goshka Macuga, Jimmie Durham, Sammy Baloji, Jeremy Deller e Adrián Villar Rojas – quest’ultimo con un lavoro che fa da trait d’union con la Triennale di Bruges. Anche l’Italia è rappre-

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fino al 24 ottobre Triennale di Bruges – TraumA triennalebrugge.be fino al 7 novembre Beaufort 21 beaufort21.be fino al 24 ottobre Paradise Kortrijk 2021 paradisekortrijk.be in alto: Marguerite Humeau, The Dancer V A marine mammal invoking higher spirits, 2020 © Filip Claessens Westtoer

MUDI – MUSEO DISCOCRATICO Il tempio internazionale della musica elettronica, il Cocoricò di Riccione, lancia il primo museo dentro una discoteca in Italia, anche digitale: accoglierà nei suoi nuovi spazi progetti di giovani artisti italiani e proporrà mostre e performance in parallelo alle leggendarie serate che hanno fatto la storia del clubbing. cocorico.it/museo/

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MUSEI CIVICI Nato dalla visione di Italo Rota, il nuovo museo di Reggio Emilia è l’esito di una trasformazione lunga dieci anni del Palazzo dei Musei in via Spallanzani, all’interno del quale sono custoditi tesori di ogni epoca, raccolte e collezioni di archeologica, etnografia, storia dell’arte, storia naturale e di storia della città. musei.re.it CASA DELL’ARTE In questo nuovo spazio espositivo, in una zona boschiva e montana della provincia di Lecco, trovano posto opere di artisti internazionali che nel corso degli anni hanno partecipato al progetto dell’Associazione Culturale Amici di Morterone, nata dalla visione poetico-filosofica dello scrittore Carlo Invernizzi. macamorterone.it/casa-dellarte


LABORATORIO ILLUSTRATORI

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MARIA FRANCESCA MELIS TRA SARDEGNA E NUOVA ZELANDA mfrancescamelis

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ROBERTA VANALI [ critica d’arte e curatrice ]

esiste un’età precisa per inseguire i propri sogni e che non si è mai in ritardo. Qual è il tuo repertorio iconografico? Ho un legame molto bello con la natura, è il mio rifugio quando ho bisogno di staccare la spina, ma anche una grandissima fonte di inspirazione. Per queste ragioni il mio repertorio iconografico è ricco di fiori, piante e animali. Come definisci il tuo lavoro? Botanico, minuzioso, surreale.

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Descrivi il processo creativo di una tua illustrazione. La prima cosa che faccio prima di iniziare a illustrare è decidere che musica ascoltare, poi solitamente faccio molta ricerca, leggo, raccolgo immagini a cui fare riferimento, decido che palette di colori utilizzare e inizio a disegnare su carta. Quando sono soddisfatta dello schizzo a matita, ripasso con inchiostro nero e infine trasferisco l’illustrazione sul computer e lavoro sul colore. Qual è il tuo concetto di bellezza? I capelli al vento fuori dal finestrino, l’odore della terra smossa dell’orto, della pioggia, il sale sulla pelle dopo una giornata al mare e gli abbracci, quelli forti che abbia­ mo desiderato per me­si. © Maria Francesca Melis per Artribune Magazine

Maria Francesca Melis nasce in Sardegna trent’anni fa. Vive in Nuova Zelanda. Tra atmosfere Liberty e suggestioni della cultura Maori, senza mai dimenticare il repertorio iconografico legato alla Sardegna, l’artista dà vita a scenari dove esprime tutta la vitalità che la natura ci riserva con una linea raffinata, sinuosa e accattivante. Descriviti con tre aggettivi. Curiosa, sognatrice, empatica. Qual è la tua formazione? Dopo aver frequentato il Liceo Classico mi sono trasferita a Londra per imparare l’inglese. Le innumerevoli ore trascorse in metropolitana hanno fatto risvegliare la

mia passione per il disegno e l’illustrazione. Grazie a mostre e piccole librerie nascoste, ho scoperto tantissimi artisti che ammiro molto e che hanno cambiato completamente il mio modo di vedere l’arte. Dopo essermi trasferita in Nuova Zelanda, probabilmente grazie allo stile di vita a contatto con la natura e la possibilità di dedicare più tempo a me stessa, ho deciso di intraprendere un corso di studi in Grafica. Gli artisti di riferimento? Sono moltissimi: William Morris, Ernst Haeckel, Cipe Pineles, Joan Kiddell-Monroe, Olaf Hajek, Maria Sibylla Merian Der Rupsen, John Alcorn e, infine, Mary Granville Delany. Lei mi ricorda sempre che non

Quali tecniche prediligi? Inchiostro su carta e colore digitale, ma vorrei sperimentare di più con tempera e matite colorate. Cosa sogni di illustrare? Una copertina del New Yorker e una collezione di tessuti per Liberty. A cosa lavori in questo momento e quali sono i progetti futuri? In questo periodo sto studiando Grafica a Auckland e, fra un esame e l’altro, lavoro ad alcune commissioni. Molto lentamente sto illustrando una raccolta di uccelli endemici della Nuova Zelanda. Non so cosa mi riservi il futuro ma spero di poter trascorrere più tempo in Europa e lavorare nel mondo dell’editoria e della moda.

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LUOGHI DEL CUORE PER L'ESTATE DELLA RIPARTENZA SANTA NASTRO [ caporedattrice ]

Finalmente viaggiare si può, anche se con cautela. Abbiamo chiesto a 10 curatori, direttori di museo, artisti e galleristi di indicarci altrettanti luoghi speciali per itinerari alternativi.

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LAURA BARRECA MUSEO DI CASTELBUONO

ALFREDO PIRRI ARTISTA

LUDOVICO PRATESI CURATORE

C’è un posto speciale in Sicilia dove il gusto si trasforma in una forma d’arte. Si chiama Accursio, ed è lo chef stellato che ha dato nome all’omonimo ristorante di Modica. Al piano terreno di un antico palazzo del centro storico, dal 2014 Accursio celebra la cucina siciliana come un rito, un gioco di suggestioni tra memoria locale, tradizioni mediterranee e riferimenti contemporanei. Proprio come davanti a un’opera d’arte, qui la creatività culinaria diventa un’esperienza estetica per la mente.

Nel 2009 demmo vita all’Accademia dello Scompiglio, a Capannori (Lucca), con un seminario dal titolo Dialoghi d’armonia. Dentro la tenuta (Dello Scompiglio di Cecilia Bertoni) alloggia un albero secolare ai bordi di uno stagno, credo sia un cedro, ma non ricordo esattamente che albero sia, ha poca importanza saperlo. Quell’albero governa l’area che si stende ai suoi piedi come i sudditi verso un re. Standogli vicino ti senti piccolo ma potente della sua forza che si trasmette verso di te.

Non è facile raggiungerlo, ma una volta arrivati sull’altipiano dei monti Sibillini, non lontano da Visso, la visione del Santuario di Santa Maria di Macereto è indimenticabile. Sarà per la sua posizione, sarà per la perfezione della sua architettura ottagonale, firmata da Giovanni Battista da Lugano, un misterioso allievo di Bramante che cadde dai ponteggi del cantiere durante la costruzione nel 1539, ma Macereto è un luogo magico, dove la fusione tra arte e natura raggiunge risultati altissimi.

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ANGELA VETTESE UNIVERSITÀ IUAV – VENEZIA

ANTONELLA CAMARDA MUSEO NIVOLA – ORANI

CATERINA RIVA MACTE – TERMOLI

Sullo svincolo tra l’AutoSole con la Firenze Mare c’è la chiesa di Giovanni Michelucci (1960-64), nata per onorare i caduti nella costruzione dell’autostrada, ma soprattutto un monumento al lavoro. Ciò che mi attrae sono i muri, dove pietre della stessa provenienza sono state tagliate, assemblate, lavorate secondo le maniere suggerite da usi locali differenti: la cultura progettuale si innesta con il saper fare rurale. Oltre che sul tetto a vela, tutto l’aspetto formale doveva rimanere in quel puzzle di manifattura che sono appunto le pareti. Per questo Michelucci chiese e ottenne che le nove sculture di Sciltian che erano state pensate per decorarle venissero eliminate. Una bella lezione.

Vi parlo di Piano d’uso collettivo. A. Gramsci 1977 ad Ales, in provincia di Oristano. Fuori dalle rotte dell’arte, la piazza-monumento dedicata ad Antonio Gramsci, realizzata nel 1977 da Giò Pomodoro, è un luogo in cui sacralità laica e sentimento poetico si incrociano malinconicamente con il silenzio di una comunità scomparsa o forse mai esistita. Non sono sicura che a Gramsci sarebbe piaciuta l’atmosfera mistica e la sovrabbondanza di simbologie, ma è un luogo che ha il pregio di rendere visibili le utopie degli Anni Settanta e il loro inevitabile fallimento.

In cima all’Italia, in provincia di Varese, custodita da prati e boschi c’è Castelseprio. La sua esistenza l’ho scoperta dalle pagine del manuale con cui preparavo l’esame di storia dell’arte medievale all’università, poi ho visitato dal vero la Chiesa di Santa Maria Foris Portas con i suoi sorprendenti affreschi. Nell’alto medioevo longobardo, tra il VII e il X secolo, un maestro, forse bizantino, realizza un sorprendente ciclo di affreschi con storie della Madonna e dell’infanzia di Cristo riprendendo episodi dei vangeli apocrifi. Perle della provincia italiana.


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PAOLA CAPATA MONITOR GALLERY – ROMA-LISBONA-PERETO

LORENZO CANOVA CURATORE

Il mio luogo del cuore è il piccolo Museo Salvatore Fancello a Dorgali, dove è conservato il meraviglioso “disegno ininterrotto”, donato dall’artista all’amico Costantino Nivola in occasione delle sue nozze, nel 1938. Un rotolo di sette metri rappresentativo del sorprendente immaginario dell’artista sardo, morto in guerra all’età di soli 25 anni. Un bestiario “più fiabesco che moralistico, (...) trasposizione dall’umano in chiave di garbata ironia”, come ebbe modo di definirlo Giulio Carlo Argan, tra i primi sostenitori di Fancello.

Il Santuario della Madonna dei Bisognosi si trova sulla sommità del monte di Serra Secca a 1043 metri d’altezza, tra Pereto e Rocca di Botte. Non è possibile datare con precisione l’epoca dell’erezione del primo nucleo del Santuario, ma esso vanta all’incirca mille anni di storia. Al suo interno si trovano sia una statua della Madonna in trono con bambino (XII secolo), valido esempio di arte abruzzese, sia una cappella con affreschi, la maggior parte realizzati nella seconda metà del Quattrocento.

Un mio percorso del cuore a Roma attraversa l’EUR e va dal Palazzo dei Congressi di Libera allo splendido Palazzo delle Poste dei BBPR, fino al “Colosseo Quadrato” di Guerrini, Lapadula, Romano e al Bar Palombini. Spesso ci vado dopo aver cenato a La Rosa Rossa che, senza clamori, è diventato un ritrovo di artisti e di intellettuali, e mi immergo nel vuoto (ir)razionale e metafisico di una città ideale e fallita, per un po’ dimentico la devastazione di Roma e mi consolo, non di rado, con un sigaro Avana dell’evocativo humidor di Palombini.

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LORENZO GIUSTI GAMEC – BERGAMO

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SERGIO RISALITI MUSEO NOVECENTO – FIRENZE Entrati nella Basilica domenicana di Santa Maria Novella vi si trova nel transetto di sinistra per chi guarda la Cappella Gondi, che ospita il Crocifisso ligneo di Filippo Brunelleschi, scolpito tra il 1410 e il 1415 in risposta a quello di Donatello esposto in Santa Croce, o piuttosto tra il 1425 e il 1430. Secondo Giulio Carlo Argan, “il Cristo del Brunelleschi è quasi un canone proporzionale: il corpo ha l’affusolata sodezza d’un fusto di colonna, tra le braccia tese come due archi”. Quell’uomo appeso a una croce è una figura geometrica, disegnata pensando ai cerchi, ai quadrati, in relazione alla musica e allo spazio cosmologico.

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DURALEX

RAFFAELLA PELLEGRINO [ avvocato esperto in proprietà intellettuale ]

OPERE DERIVATE O ISPIRATE: QUALE TUTELA PER GLI ARTISTI? La questione della tutelabilità delle opere ispirate o derivate da altre opere e del loro rapporto con l’opera originaria è molto delicata e può presentare margini di incertezza sul piano giuridico. Il quesito di fondo è se per la creazione di un’opera ispirata o basata su un’opera precedente sia necessario chiedere il consenso dell’autore dell’opera preesistente. La soluzione non è sempre scontata ed è strettamente legata all’esame del caso concreto e di tutte le specificità del caso. In tal senso si vedano due recenti vicende giudiziarie, azionate su territorio francese dalla società belga Moulinsart SA nei confronti di artisti francesi che hanno utilizzato senza consenso il personaggio Tintin creato da Hergé, i cui diritti sono gestiti in tutto il mondo da tale società. Un caso ha visto coinvolti la Moulinsart e l’artista Christophe Tixier (alias Peppone) davanti al Tribunale di Marsiglia. Le opere oggetto di controversia sono dei busti che riproducono alcune pose del personaggio Tintin, realizzate dall’artista senza alcuna autorizzazione da parte della società. Il tribunale ha condannato l’artista e la sua galleria a pagare alla Moulinsart la somma di € 114.157 per contraffazione del personaggio Tintin. In particolare, i giudici, sul presupposto della creatività e originalità del personaggio di Hergé, hanno ritenuto che le sculture di Tixier riproducenti tale personaggio sono realizzate in violazione dei diritti esclusivi dell’autore. Non è stata pertanto accolta la tesi difensiva secondo cui Tintin non sarebbe tutelabile dal diritto d’autore, poiché opera ispirata al preesistente personaggio Tintin-Lutin, creato nel 1898 dall’illustratore Benjamin Rabier. In un diverso caso, davanti al Tribunale di Rennes, la Moulinsart è risultata soccombente nei confronti dell’artista Xavier Marabout, che ha realizzato alcune opere che sono un mashup Hergé-Hopper, cioè sono l’unione delle opere di Edward Hopper e del personaggio Tintin, che vive nel mondo di Hopper. Questa volta il caso è stato inquadrato e deciso secondo le regole sulla parodia, che costituisce un’eccezione al diritto d’autore, secondo cui non è necessario il consenso dell’autore dell’opera originaria quando l’utilizzo avvenga a scopo di caricatura o parodia. La caratteristica della parodia è, da un lato, quella di evocare un’opera esistente, pur presentando percettibili differenze rispetto a quest’ultima, e, dall’altro, quella di costituire un atto umoristico o canzonatorio.

© Maria Francesca Melis per Artribune Magazine

Anche in Italia la parodia è considerata un’eccezione al diritto d’autore. In particolare, la parodia porta alla creazione di un’opera autonoma e distinta rispetto a quella originaria di riferimento, non richiede il consenso da parte del titolare del diritto di utilizzazione economica e si traduce in un risultato imputabile al solo parodista, senza che l’autore dell’opera originaria possa vantare alcun diritto sulla nuova creazione. È necessario però che non vi sia concorrenza commerciale tra la parodia e l’opera originaria parodiata, la cui presenza denuncerebbe la mancata realizzazione di quello stravolgimento concettuale che rappresenta l’essenza della parodia stessa.


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GESTIONALIA

IRENE SANESI [ dottore commercialista ]

LA CONVENIENZA DELLA COLLABORAZIONE

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© Maria Francesca Melis per Artribune Magazine

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Giungiamo alle soglie di questa metà anno, ancora segnata dai postumi della pandemia, con nuove fragilità ma anche inedite consapevolezze. Prima (auspicabilmente) tra queste ultime, la necessaria opportunità di essere collaborativi. Non so se le imprese culturali e creative si siano mai soffermate a valutare i costi (sommersi o ombra) della competizione e soprattutto a comprenderne le differenze rispetto a essere unici, lavorando sulla distinzione, senza scomodare Pierre Bourdieu. Poiché è solo partendo da qui che possiamo riuscire a cogliere il profilo generativo della collaborazione. Senza aver pretese di individuare un elenco esaustivo, eccoli i vantaggi di un approccio collaborativo: propensione all’innovazione con la circolazione libera delle idee, sviluppo di un capitale sociale e relazionale, superamento della frammentazione / segmentazione / iperspecializzazione, pensiero laterale e corresponsabilità. Che l’impresa o l’istituzione culturale sostanzi questi valori in una specifica cornice giuridica piuttosto che in un’altra non è poi così rilevante. Affidiamoci pure a reti (formali e informali), convenzioni, partenariati (tra privati o anche speciali pubblico-privati ai sensi del novellato codice degli appalti). Chiamiamoli accordi, alleanze, protocolli di intesa, patti di prossimità o di mutuo appoggio. Con nomi che in fondo richiamano tempi lontani, il Medio Evo quasi, quando nascevano le prime banche con finalità di solidarietà per garantire, anche a chi non era patrimonializzato, merito creditizio, e si affacciavano sulla scena economica le compagnie, le consorterie e le società i cui soci articolavano con criteri discrezionali e patti parasociali la divisione di utile e perdita, la scelta dei collaboratori e le decisioni negoziali. Modelli di governance capaci di rispondere alle esigenze di un contesto mutevole e in continua evoluzione, in grado finanche di anticiparne i bisogni. Sarà oggi fondamentale avere consapevolezza di cosa gli strumenti collaborativi non sono (o non dovrebbero essere): vie d’uscita (dell’ultima ora), percorsi riduzionistici, scelte border line per aggirare vincoli normativi o procedurali. La collaborazione ha varie forme: dalla co-programmazione alla condivisione alla co-progettazione. Quest’ultima, in particolare, ci sembra attrattiva e sfidante: perché dove c’è un progetto, c’è una visione.



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APP.ROPOSITO

SIMONA CARACENI [ docente di virtual environment ]

3 APP PER RICORRENZE CENTENARIE IN VIAGGIO CON DANTE

Quello di Dante è sicuramente fra i centenari più enfatizzati (nel 2021 si ricordano i 700 anni dalla morte) ed è quello che ha ispirato più celebrazioni, culminate nel Dantedì. Ma una Regione italiana è riuscita a sfruttarlo per prendere per mano il turista e offrirgli un punto di vista letterario e inedito per la sua visita. La Toscana l’ha infatti scelto come ambasciatore in questa app, per gui toscanapatrimoniomondiale.it/it/ dare il viaggiatore in un gioco fra le località dantes-journey/ Patrimonio Mondiale dell’Unesco. La voce free del poeta, quesiti sul suo tempo, realtà iOS e Android aumentata come dettagli da trovare, personaggi illustri della Divina Commedia, ma anche animali e mostri insieme a nozioni di architettura e storia dell’arte guidano il visitatore in un percorso articolato fra i centri toscani, permettendo ai più pigri di poter vedere i percorsi anche da casa.

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GIOCARE CON AIDA

Quest’anno il festival operistico dell’Arena Sferisterio a Macerata festeggia un secolo di attività e, per onorare la tradizione in modo anticonvenzionale, fra le molteplici celebrazioni che accompagnano la ricorrenza e che guardano alle generazioni future, guidate nel meraviglioso mondo dell’Opera, c’è anche questa app, la quale ha preso spunto dal titolo in cartellone per la prima rappresentazione del 1921. Si tratta di un retrogame sferisterio.it/aida-and-the-magic-run fatto apposta per i più piccini, che dovranno free aiutare Aida ad arrivare alla meta, l’Arena iOS, Android Sferisterio, collezionando scarabei dorati, sfuggendo all’invidiosa Amneris, alle serve di palazzo, evitando il fuoco del tempio di Vulcano e liberando nel frattempo il popolo etiope a Tebe. Il tutto sulle note della musica verdiana, riprodotta rigorosamente e irriverentemente a 8 bit.

L ALLA RICERCA DELLA GRANDE RUSSIA

Una delle strategie migliori per intrigare il turista svogliato ma anche quello più preparato sulla destinazione scelta è invitarlo al gioco, e la app Histars ci riesce con un tocco di magia. Il funzionamento della prima versione era semplice e intrigante: come in Pokemon Go, bisognava trovare dei personaggi celebri della cultura russa nella città di Mosca e farsi un selfie con loro per passare ai livelli successivi. Basterebbe già questo mos.ru per assicurare momenti di divertimento e free agganciare il visitatore. Ma dopo poco tem iOS, Android po la committenza ha deciso di espandere la fruizione dell’app: così oggi possiamo trovare i personaggi storici anche a Parigi, con una sezione dedicata all’“odiato” Napoleone per il suo anniversario, o a San Pietroburgo con Dostoevsky (anche lui protagonista di un anniversario quest’anno), o ancora a Londra. Il tutto guidati dai curatori storici dell’app, che hanno così diffuso ancora di più la cultura russa nel mondo.

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Cani ai musei di Bologna. Nasce il servizio di dog sitting CLAUDIA GIRAUD L “MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna e Museo Morandi sono Dog Friendly Museums! Grazie a Bauadvisor puoi prenotare il servizio, venire al museo con il tuo cane e lasciarlo a un dogsitter per tutta la durata della tua visita (avrà anche lui delle opere da vedere nel parco del Cavaticcio!)”. Con queste parole postate su Facebook, il direttore del MAMbo Lorenzo Balbi ha annunciato l’apertura del suo museo alla filosofia pet friendly con l’avvio di un servizio di dog sitting prenotabile su web e app. Dogs & Museum nasce dall’accordo siglato tra Istituzione Bologna Musei e Bauadvisor, nuovo portale di comunicazione e servizi globali e innovativi dedicato al mondo dei cani e dei loro proprietari pensato per vivere tutti i giorni 24 ore su 24 insieme. In Italia ci sono città più propense di altre ad accettare gli amici a quattro zampe nei propri luoghi d’arte, come Milano all’HangarBicocca, Torino al Museo Nazionale del Cinema, al Museo Nazionale dell’Automobile e a Palazzo Madama, dove accettano cani di piccola taglia, mentre per i cani di taglia medio-grande il centralino del museo segnala dei servizi di dog sitting nelle vicinanze. mambo-bologna.org | bauadvisor.it

NECROLOGY ARTURO SCHWARZ 3 febbraio 1924 – 23 giugno 2021 L GIULIA NICCOLAI 21 dicembre 1934 – 22 giugno 2021 L TUONO PETTINATO 27 settembre 1976 – 14 giugno 2021 L CARLO ORSI 8 marzo 1941 – 1o giugno 2021 L DANI KARAVAN 7 dicembre 1930 – 29 maggio 2021 L CARLA FRACCI 20 agosto 1936 – 27 maggio 2021 L ANNA HALPRIN 13 luglio 1920 – 24 maggio 2021 L PAULO MENDES DE ROCHA 25 ottobre 1928 – 23 maggio 2021 L GIULIANO SCABIA 18 luglio 1935 – 21 maggio 2021 L FRANCO BATTIATO 23 marzo 1945 – 18 maggio 2021 L JULIÃO SARMENTO 4 novembre 1948 – 4 maggio 2021 L ELI BROAD 6 giugno 1933 – 30 aprile 2021


SERIAL VIEWER

GIULIA PEZZOLI [ registrar ]

ANTEBELLUM

È sicuramente uno dei casi più interessanti del mondo delle serie dell’ultimo decennio. Shtisel è una serie tv israeliana nata nel 2013 e racconta le vicende di una famiglia di ebrei ultra-ortodossi, gli Shtisel per l’appunto. La produzione è stata discontinua: concepita per essere autoconclusiva, è andata avanti fino alla terza stagione per il grande successo internazionale di questo progetto ardito. Molto più coinvolgente della comunque bella Unorthodox (la protagonista della quale, Etsy, è interpretata da Shira Haas, che ha un ruolo importantissimo anche in Shitsel), che però già soffre, ma solo un pochino, dell’effetto mainstream, Shtisel ha colpito tutti per la semplicità e il realismo delle azioni e dei sentimenti. Lasciandoci scoprire un universo ignoto, le sue regole, le sue problematiche, la sfida della conservazione delle tradizioni e di un’eredità importante e pesante in un mondo che guarda costantemente al futuro. Il protagonista è Kive, pittore contemporaneo ultra-ortodosso, sempre in bilico nella dicotomia tra il proprio essere artista, la sua passione per le immagini, e i ferrei codici culturali cui appartiene e ai quali è legato. È difficile la sua relazione con il padre, il rabbino Shulem, custode rigidissimo della tradizione, ma allo stesso tempo fragile come tutti gli esseri umani. Seguiamo con il fiato sospeso le vicende di Giti, sorella di Kive, e di suo marito Lippe, così come quelle dei loro figli, e insieme a loro quelle di tutta la comunità. Ascoltiamo la loro musica, compagna di tutte le occasioni, ma sempre rivolta a Dio. Entriamo nelle loro cucine, sempre scaldate dal profumo di qualche pietanza a ribollire, con il cibo che si fa veicolo sociale di tanti rapporti umani, già esistenti o pronti a sbocciare. La terza stagione ha visto la luce nel 2020, ma è stata lanciata su Netflix nel 2021. Il finale è un piccolo capolavoro – come dovrebbe concludersi ogni serie tv che si rispetti. Ma i fan, non paghi, chiedono a gran voce una quarta stagione.

XXI secolo. Veronica Henley, sociologa specializzata nei diritti civili, è in Louisiana per il tour promozionale del suo libro La caduta dell’indole mite, in cui porta alla luce le problematiche razziali nell’America trumpiana e incita la comunità femminile afroamericana a conquistare combattendo il proprio posto nella società contemporanea. Lungo un’altra linea temporale, Eden, la stessa Veronica ora nei panni di una schiava in una piantagione di cotone durante la guerra civile americana, viene ridotta al silenzio e alla sottomissione da un manipolo di soldati capeggiati dal senatore della Louisiana Blake Denton. Primo lungometraggio di Gerard Bush e Christopher Renz, che ne curano anche la sceneggiatura, Antebellum, pur peccando di qualche leggerezza, è un prodotto cinematografico interessante, che sembra muoversi con dimestichezza tra generi differenti. Girato completamente in formato panoramico, il film si apre con un piano sequenza di circa 3 minuti capace di restituire con distaccata eleganza tutta la violenza e il pathos di un dramma storico ambientato negli Stati Uniti del Sud durante la Guerra di Secessione. La narrazione si sposta quindi ai giorni nostri in un’escalation di tensione psicologica degna di un thriller, mentre colpi di scena e indizi inquietanti delineano una contemporaneità apparentemente pacifica ma velatamente minacciosa, la cui atmosfera ricorda molto da vicino l’horror politico di Jordan Peele. Con grande abilità, Bush e Renz giocano con le due dimensioni spazio-temporali: intrecciano una narrativa spaesante, trovano soluzioni visive d’impatto e formalmente ineccepibili che accompagnano con una colonna sonora potente e dissonante (composta da Nate Wonder e Roman Gianarthur). Purtroppo il monito di faulkneriana memoria che apre il film (Il passato non è morto. Non è neppure passato) regala troppo didascalicamente allo spettatore gli strumenti per comprendere l’imminente e violenta convergenza dei due piani di realtà, mentre il tema razziale, affrontato con slancio ma senza aggiungere nulla al già detto, tende a perdere forza in favore di una ricerca formale efficace ma forse non del tutto finalizzata allo scopo.

Israele, 2013 | IDEATORE: Ori Elon, Yehonatan Indursky GENERE: drammatico, commedia, sentimentale CAST: Dov Glickman, Michael Aloni, Neta Riskin, Shira Haas, Sasson Gabai STAGIONI: 3 | EPISODI: 33 | DURATA: 45’ a episodio

USA, 2020 | GENERE: thriller, horror REGIA E SCENEGGIATURA: Gerard Bush & Christopher Renz CAST: Janelle Monae, Jena Malone, Jack Huston, Eric Lange DURATA: 105’

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L'ORTODOSSIA DEGLI SHTISEL

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SANTA NASTRO [ caporedattrice ]

LIP - LOST IN PROJECTON

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VALENTINA TANNI [ caporedattrice new media ]

CROCS PSICHEDELICHE

La Luna sul comodino

Le Crocs sono le calzature più amate (e odiate!) al mondo. La loro popolarità non accenna a declinare, anche grazie alla produzione di modelli sempre nuovi. Lo dimostra la collaborazione con Diplo, dj, produttore e rapper statunitense, che ha portato sulle ciabatte di gomma un pizzico del suo amore per la psichedelia. Con una serie di funghi che si illuminano al buio. crocs.com $ 69,99

UN CAFFÈ CON AI WEIWEI

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La nuova illy Art Collection è firmata da Ai Weiwei. In quest’occasione l’artista cinese ha deciso di citare i suoi celebri Coloured Vases, antichi vasi neolitici che l’autore ha immerso in latte di vernice industriale stravolgendone l’aspetto. E trasformando, di fatto, un oggetto del passato in un’opera d’arte contemporanea. illy.com a partire da € 48 Un globo luminoso levitante da appoggiare accanto al letto per allietare nelle ore notturne. La lampada Levitating Moon fa esattamente quanto promesso dal nome: galleggia a mezz’aria su una base di legno, donando un tocco di magia all’ambiente. Realizzata con la stampa 3D utilizzando i dati ufficiali della NASA per rispettare la distribuzione, l’ampiezza e la profondità dei crateri, ha un diametro di 18 centimetri e non ha bisogno di batterie; la base infatti ricarica automaticamente la lampada a ogni utilizzo. Ma come funziona la levitazione? Dietro l’effetto magico si nasconde l’impiego della tecnologia Maglev (Magnetic Levitation), ideata per la prima volta negli Anni Settanta e impiegata perlopiù in ambito ferroviario per realizzare treni in grado di viaggiare sospesi a pochi centimetri dal binario grazie a un campo magnetico, eliminando così gli effetti dell’attrito. Sullo stesso sito è possibile acquistare anche molti altri modelli di lampade “spaziali”: non solo lune di ogni dimensione e colore, ma anche riproduzioni della Terra, di Giove e di Saturno e persino un intero set che riproduce il Sistema solare. levitatingmoon.com $ 259

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TUTTI I COLORI DEL MONDO È un inno all’inclusività il nuovo set Lego Everyone is Awesome, da poco lanciato dall’azienda danese dei mattoncini colorati. Il set è stato progettato dal Vice President of Design Matthew Ashton e celebra la diversità degli esseri umani ispirandosi alla bandiera arcobaleno, simbolo della comunità LGBTQIA+. lego.com $ 34,99


MANUALE PER VIAGGI NEL TEMPO

BOLLE CHIC

Avete mai sognato di possedere una macchina del tempo? Magari proprio la DeLorean di Ritorno al Futuro? Per scoprire tutti i segreti di Doc Brown e della sua vettura, potete immergervi nella lettura di Back to the Future: DeLorean Time Machine: Owner’s Workshop Manual, una guida super approfondita alla macchina più amata della storia del cinema.

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La Maison Francis Kurkdjian Agathe di Parigi ha organizzato un bizzarro incontro tra il mondo della profumeria e quello dei giochi per l’infanzia. Un passatempo immortale per i più piccoli come le bolle di sapone si trasforma in un oggetto sofisticato e chic. Le bolle sono infatti impreziosite da una serie di eleganti fragranze floreali e fruttate.

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SORRISI IN CAMPO Lo Smiley, disegnato per la prima volta da Harvey Ball nel 1963 per una compagnia di assicurazioni di Worcester, negli Stati Uniti, è divenuto uno dei simboli più diffusi al mondo, precorrendo di molti decenni il successo delle emoticon. Questo pallone da basket in edizione limitata disegnato da Chinatown Market lo celebra in grande stile. thechinatownmarket.com $ 59

IL PICCOLO CURATORE

Si gioca imparando con la versione del Monopoli lanciata in collaborazione con il Metropolitan Museum di New York. Monopoly: The Met Edition permette ai giocatori di costruire il proprio mini-museo, aggiungendo gallerie, opere e oggetti. Il manuale di istruzioni, naturalmente, è pieno di informazioni ad alto contenuto artistico.

Se volete introdurre i vostri figli alle professioni del mondo dell’arte, questo è il gioco da tavolo giusto. I giocatori di Curators impersonano i curatori di un museo e devono utilizzare al meglio il personale a loro disposizione con l’obiettivo di creare mostre interessanti, completare contratti e attirare visitatori.

store.metmuseum.org $ 50

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MONOPOLI MUSEALE

KUSAMA E BOLLICINE Veuve Clicquot e Yayoi Kusama insieme per un’edizione speciale del mitico champagne francese. L’artista giapponese ha firmato sia la bottiglia che la scatola dell’annata vintage La Grande Dame 2012 con i suoi famosi motivi floreali e puntinati. In questo caso, gli iconici pois richiamano il tema delle bollicine. veuveclicquot.com TBD

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TOP 10 LOTS MILANO

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CRISTINA MASTURZO [ esperta di mercato ]

Le fiere d’arte nel mondo a settembre 2021. Gli appuntamenti da segnarsi in calendario per il mondo dell’arte che riparte, online e in presenza LONDRA Dal 9 al 12 PHOTO LONDON Dal 15 al 19 AFFORDABLE ART FAIR HAMPSTEAD

LISBONA Dal 16 al 19 ARCO LISBOA

MILANO Dal 5 al 10 SALONE DEL MOBILE Dal 16 al 19 MIART

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Roman Opalka, Opalka 1965/1 – ∞ Détail 185086 – 218302, 1965. Courtesy Sotheby’s

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Roman Opalka, Opalka 1965/1 – ∞ Détail 185086 – 218302, 1965 € 1.222.500 (Record d’asta per l’artista) Sotheby’s

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Giorgio Morandi, Natura Morta, 1942 € 1.004.000 Sotheby’s

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Afro, Villalta, 1958 € 671.950 Sotheby’s

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Leoncillo, San Sebastiano bianco, 1962 € 569.100 Sotheby’s

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On Kawara, Jan.23,1991, from “Today” series No. 1, 1991 € 532.800 Sotheby’s

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Cy Twombly, Sperlonga Drawing, 1959 € 436.000 Sotheby’s

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Sergio Camargo, Relief n. 337, 1971 € 411.800 Sotheby’s

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Alighiero Boetti, Insicuro Noncurante, 1966-75 € 375.000 Il Ponte Casa d’Aste

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Mario Schifano, Tutte stelle, 1967 € 363.400 Sotheby’s

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Lucio Fontana, Concetto spaziale, Teatrino, 1965 € 339.000 Sotheby’s

Lucio Fontana, Concetto spaziale, 1963 € 411.800 Sotheby’s

I prezzi indicati includono il buyer’s premium

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MOSCA Dal 10 al 12 COSMOSCOW

BASILEA Dal 23 al 26 ART BASEL Dal 20 al 26 LISTE ART FAIR Dal 20 al 26 VOLTA BASEL Dal 21 al 26 PAPER POSITIONS Dal 21 al 26 DESIGN MIAMI

Lucio Fontana, Concetto spaziale, 1953 € 411.800 Sotheby’s

CAMPIONE DI ANALISI: Reborn: Modern and Contemporary, Christie’s Italia, Milano (online), 22 aprile – 6 maggio 2021 Arte Moderna e Contemporanea, Il Ponte Casa d’Aste, Milano, 25-26 maggio 2021 Contemporary Art | Milan, Sotheby’s Italia, Milano, 27 maggio 2021

MAASTRICHT Dall’11 al 19 TEFAF MAASTRICHT (ONLINE)

BRUXELLES Dal 15 al 19 ART ON PAPER Dal 22 al 26 AFFORDABLE ART FAIR BRUSSELS

NEW YORK Dal 9 al 12 INDEPENDENT NEW YORK Dal 23 al 26 AFFORDABLE ART FAIR NEW YORK


NUOVI SPAZI

GALBiATI E PIETRACCI IN GERMANIA Fotografie urbane ed estrapolazioni scultoree di spazi architettonici per la mostra Wide Angles nello showroom della Galleria Luisa Catucci, a Berlino nello Schillerkiez di Neukölln. Nadia Galbiati, scultrice milanese, basa la sua ricerca sullo studio degli angoli nell’architettura contemporanea. Il fotografo di Porto San Giorgio Enrico Pietracci presenta invece pezzi della sua serie di foto-estrapolazioni urbane. fino al 23 luglio LUISA CATUCCI GALLERY BERLINO luisacatucci.com

GIAMPAOLO ABBONDIO Da Pack allo Spazio22 condiviso con Federico Luger, la storia galleristica di Giampaolo Abbondio è lunga e articolata. Ora è tempo di una nuova tappa nel suo percorso, che lo porta in Umbria. Com’è nata l’idea di aprire questa nuova galleria? Alla fine di giugno del 2020 è terminata l’esperienza di Spazio22 a Milano. Nella confusione generata dalla prima ondata della pandemia ho iniziato a cercare una nuova location dove ricominciare. L’idea di aprire una galleria a Todi è figlia dell’occasione: avendo scoperto l’esistenza di questo spazio, ho deciso di accantonare la ricerca a Milano e provare questa nuova esperienza, dove l’arte torna a essere al centro dell’attenzione invece che l’evento. Infatti, già molti artisti internazionali hanno espresso il desiderio di venire a esporre qui. Descrivici in poche righe il tuo progetto. Il progetto rimane immutato: generare una ricerca artistica originale, con in più l’opzione di organizzare residenze affinché gli artisti possano beneficiare della bellezza e della storia locale. La novità è la nascita di una collana editoriale curata insieme a Flavio Arensi, che si chiamerà Pensieri Improvvisi, dall’omonima raccolta di aforismi del dissidente Andrei Sinjavskij, che sarà una delle prime uscite, insieme a Lettre à un(e) inconnu(e) di Gina Pane, prima pubblicazione italiana, e a Collision di Petr Pavlensky. A livello di staff come siete organizzati? Ho un ufficio a Milano da cui gestisco la parte organizzativa affiancato da due collaboratori di fiducia, Michela Bassanello e Alberto Pala. A Todi il direttore della galleria si è unito a noi a gennaio, si chiama Jan Eric Lemmi e sto incontrando potenziali assistenti da affiancargli. Ti avvalerai di curatori esterni? È qualcosa che ho sempre fatto. Oggi come oggi cerco il loro ausilio per sostenere il lavoro di artisti più giovani, mentre chiedo

Todi Piazza Garibaldi 7 351 5296839 giampaoloabbondio.com

il loro aiuto per gestire rapporti con autori più affermati. Da questo punto di vista, abbiamo in cantiere dei progetti che a Milano non mi sarebbero venuti in mente. Su quale tipologia di pubblico (e di clientela ovviamente) punti? Il nostro pubblico è composto da persone curiose e attente, che vogliono vedere arte che non sia necessariamente dettata dai diktat di mercato. Una grande artista con una grande storia mi ha espresso la volontà di poter fare una mostra da “dilettante”. Ecco, per me è un onore metterla nelle condizioni di farla e proporla ai nostri amici. E per quanto riguarda il rapporto con il territorio? Ci terrei tantissimo che la galleria contribuisse al richiamo turistico della città. Todi è meravigliosa anche senza di noi e ha mille motivi per essere visitata già per se stessa. Diciamo che mi farebbe piacere che la nostra attività aiutasse a farne girare ancora di più il nome. Detto questo, ho appuntamento con le autorità locali per attivare sinergie future.

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MASTROVITO IN FRANCIA A due anni dalla personale alla Fondation Bullukian di Lione, Mastrovito torna in Francia per la Résidence Plantagenêt. L’artista ha conquistato la giuria, realizzando un’installazione ispirata alla figura di Eleonora di Aquitania dal titolo La Légende Blanche. fino al 19 settembre ABBAZIA DI FONTEVRAUD fontevraud.fr

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ODDO IN FINLANDIA Si conclude in Finlandia, alla XXV edizione del Mänttä Festival di Arti Visive, Performative Habitats di Egle Oddo (1975) a cura di Lori Adragna nell’ambito di Italian Council. Oddo realizza un giardino evolutivo piantando semi locali di specie selvatiche e coltivate che sarà attivato il 21 agosto e rimarrà come parte del demanio pubblico della città per tre anni. fino al 30 settembre SEDI VARIE – MÄNTTÄ aap.beniculturali.it

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MULAS IN DANIMARCA Danimarca 1961 è la mostra di Ugo Mulas (1928-1973) che, ospitata all’Istituto Italiano di Cultura di Copenaghen e realizzata in collaborazione con l’Archivio Mulas e la IMF Foundation, presenta una selezione di fotografie dal reportage che realizzò nel 1961, insieme al critico Giorgio Zampa, come fotoreporter de L’illustrazione italiana. fino al 20 agosto IIC COPENAGHEN iiccopenaghen.esteri.it

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Estate in Europa: le mostre degli artisti italiani in trasferta

Un cenno ai vostri spazi espositivi. Come sono, come li avete impostati e cosa c’era prima? La galleria è composta da quattro stanze successive più una quinta che funge da ufficio in un meraviglioso palazzo del XVI secolo. Non sono il primo a usarla con questa finalità: prima di me ci sono state Extra Moenia di Giuliana Soprani Dorazio e Bibo’s Place di Andrea Bizzarro e Matteo Boetti. Ora qualche anticipazione sulla prossima stagione. Un calendario ancora non è stato definito, devo imparare a vivere con questa nuova modalità. Ho svariati progetti con artisti di grande caratura, oltre che giovani e con quelli con cui già collaboro da lungo tempo. Preferisco non dare anticipazioni per il momento. MASSIMILIANO TONELLI

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MARTA ATZENI [ dottoranda in architettura ]

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Counterspace, Serpentine Pavilion, 2021 © Counterspace. Photo Iwan Baan

Lo scorso anno l’annuncio che Sumayya Vally sarebbe stata l’autrice del 20esimo Serpentine Pavilion ha destato non poco stupore. Non solo perché, a soli 29 anni, l’architetta sudafricana sarebbe stata la più giovane progettista di sempre a misurarsi con il prestigioso incarico, ma anche per l’abilità del suo studio di travalicare le forme tradizionali dell’architettura. Nel portfolio dello studio Counterspace, infatti, oltre ai canonici progetti figurano anche ricerche artistiche, installazioni, film e performance. Una sorprendente attitudine transdisciplinare che ha origine dalla biografia della sua autrice. Cresciuta fra la township di Laudium e il negozio del nonno nel cuore di Johannesburg, Vally sviluppa fin da bambina il desiderio di “lavorare nella città, unendo le sue diverse parti in un unico mondo”. Ancora studentessa, inizia quindi a esplorare i margini della megalopoli sudafricana, testando velocità, scale e media in grado di mettere in relazione “territori, persone e luoghi”. Così la tesi di laurea sulle discariche minerarie della città si traduce in mostra in occasione della prima Biennale di Chicago, poi in un’installazione di specchi che catturano le alterazioni delle polveri iridescenti e infine in un edificio a uso misto nell’area delle Crown Mines. Mentre Conversation Rooms, performance sulle piattaforme per la discussione, si sviluppa prima in un kit per allestire spazi di incontro e poi nel progetto

per la moschea di Brixton, in cui ere, culture e lingue diverse si incontrano in un mix di geometrie di varie provenienze. Dopo soli quattro anni di attività, l’incarico per il padiglione londinese catapulta Vally sotto i riflettori internazionali, al punto da essere menzionata da Time fra i 100 leader del futuro. Esplorando Londra e visitando i suoi archivi, l’architetta va alla ricerca dei luoghi della città più significativi per le comunità di migranti. Attraverso un processo di sovrapposizione, addizione e sottrazione, i mercati, i luoghi di culto, i negozi e le librerie selezionati dalla progettista si traducono nel padiglione in un’articolata composizione di nicchie e sedute. Racchiuso da una copertura circolare di 10 metri di diametro e 7 di altezza, il paesaggio di frammenti incoraggia diverse modalità di incontro, dall’individuale al gruppo, dal casuale al programmato. Un monumento alla socialità, che, dopo il rinvio di un anno dovuto alla pandemia, finalmente dallo scorso giugno anima l’estate nei Kensington Gardens. E mentre nel Serpentine Pavilion installazioni sonore restituiscono voci e suoni dei quartieri di Londra, per la prima volta il padiglione si estende nella città, con quattro frammenti installati in altrettanti luoghi che hanno ispirato il progetto. Da Notting Hill a Barking, passando per Finsbury Park e Deptford, sedute, leggii e scaffali sono pronti ad accogliere nuove voci e storie.

Nasce Artribune University: due i corsi per cominciare Il made in Italy, motivo di orgoglio dei nostri territori, rappresenta anche una grandissima risorsa economica per il Paese. Abbiamo ereditato un patrimonio artistico, creativo e culturale che ha conquistato gli amanti del bello, dell’arte e della creatività. Le mani esperte degli artigiani, la qualità delle materie prime, la bellezza che ci circonda, unite alla straordinaria biodiversità del suolo, al clima e all’incontro di culture diverse, sono elementi che favoriscono il continuo stimolo dei creativi e delle creative. Così le industrie del made in Italy sono diventate un marchio di qualità, ricerca ed eleganza. In questo scenario Artribune, con alle spalle un percorso di narrazione e diffusione delle informazioni, di ricerca delle storie più virtuose del panorama della cultura visiva e di tutti i mondi a esso collegati (la moda, l’architettura, il design, il teatro, il cinema, il fumetto, la tecnologia, il turismo, l’editoria, il videogioco, la pubblicità), lancia il progetto Artribune University. Riflettendo, sui temi dell’alta formazione e della formazione permanente, non senza spaziare su argomenti di grande urgenza quali la digitalizzazione post-pandemia, la globalizzazione dei mercati e delle culture, l’evoluzione e la nascita di nuove figure professionali che confermano il bisogno di una formazione continua. Anche per le imprese, che necessitano di una formazione evolutiva dal punto di vista manageriale e di aggiornamento sulle più attuali espressioni della creatività e delle nuove tecnologie. Il progetto prende vita in collaborazione con Universitas Mercatorum, mettendo a servizio dell’educazione le relazioni e gli approfondimenti che Artribune ha costruito in questi dieci anni. Si parte con due corsi online di Alta Formazione: Comunicazione e digital media per l’Arte, la Cultura e le professioni della Creatività e Moda: innovazione e start-up per la sostenibilità. Il primo ha caratteristiche orizzontali ed è stato pensato per formare comunicatori capaci di raccontare prodotti e attività nel campo dell’arte, della cultura e dei mestieri della creatività. Il secondo affronta invece in maniera verticale quanto di più attuale sta accadendo in termini di sostenibilità nel mondo della moda, in termini di filiera produttiva circolare, di materiali sani e innovativi e di soluzioni creative per scoprire quanto l’approccio sostenibile alla moda non sia solamente un’esigenza ma una grande opportunità di successo. CFU 30 | 750 ore iscrizione online entro il 31 luglio orientamento@unimercatorum.it 800 185458 | 06 88373300


Apre per la prima volta al pubblico il Labirinto Borges sull’Isola di San Giorgio a Venezia DESIRÉE MAIDA L È tra i luoghi più affascinanti di Venezia, sull’Isola di San Giorgio. Ha riaperto il Labirinto Borges, realizzato nel 2011 dalla Fondazione Giorgio Cini su progetto dell’architetto inglese Randoll Coate in omaggio a Jorge Luis Borges e a un suo testo, Il giardino dei sentieri che si biforcano. Inaugurato per volere della vedova dello scrittore, Maria Kodama, è stato fruibile fino giugno 2021 solo dall’alto, dal terrazzo del Centro Branca, da cui è possibile scorgere una serie di simboli che richiamano le opere di Borges: un bastone, gli specchi, due clessidre, un punto di domanda, la tigre, il nome Jorge Luis e le iniziali della Kodama, con siepi disposte in modo da formare il nome Borges. Oggi invece, in occasione dei trentacinque anni dalla scomparsa di Borges, e dei settanta anni della Fondazione, il Labirinto è visitabile tutti i giorni tranne il mercoledì su prenotazione, accompagnati dalle musiche composte da Antonio Fresa, eseguite e registrate con l’Orchestra del Teatro La Fenice. visitcini.com

a cura di DARIO MOALLI [ critico d’arte ]

MARTA ORSOLA SIRONI coattoproject.com

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Photo Antonio Silvestri

Il mio approdo processo di semiosi, BIO all’arte contempoche si sviluppa in Marta Orsola Sironi si è formata con diciotto vetrine ranea avviene fuori Martina Corgnati presso l’Accademia di Brenella Stazione del tempo e in ritardo. ra come archivista e storica dell’arte, speciaDa outsider: prima Passante Ferrovializzandosi in arte italiana del secondo dopoarcheologa, poi icorio di Milano Porta guerra. Parallelamente a queste esperienze nologa, poi archiviGaribaldi al piano ha iniziato a frequentare il circuito degli mezzanino. Il 19 sta. Avviene tra gli spazi indipendenti italiani, curando le sue amici di una piccola marzo 2021, in pieprime mostre, e dal 2019 ha collaborato galleria nel centro na zona rossa, come critica con alcune riviste, tra le quali di Milano, in un abbiamo inaugurato ATP diary, Juliet Art Magazine e Strabismi. inverno trascorso al in_festa, la nostra p r i m a m o s tra , freddo di uno stusecondo un’idea di resistenza culturale e dio della zona Nord, nei corridoi di Brera e tra la polvere di qualche archivio. azione collettiva che ci ha portati a coinvolNon sono mai stata brava a scrivere di gere ventiquattro identità creative e a lanciame e ad aggiornare la mia biografia ci pensa re la nostra fanzine red_atto. sempre qualcun altro. Solitamente preferiLa fine del 2020 ha segnato un’ulteriore sco dire che alle mostre io porto la pasta al straordinaria collisione: quella con Giulia Curforno, ma, se proprio devo, vorrei definirmi rà e la sua Casa Cicca Museum. In questi mesi una curatrice in fase di apprendimento e stiamo lavorando per aprire la nuova sede. continua riconfigurazione. Tutte le mie La mia ricerca trae origine dalla fascinaattività sono il frutto di incontri fortuiti e zione per i temi della memoria e della trafortunati con tutti quegli artisti e quelle smigrazione di immagini e simboli all’interartiste che hanno voluto condividere con no della cultura, a partire da indagini come me le loro ricerche e le loro affezioni. Proquelle di Aby Warburg e Aleida Assman. prio per questo motivo ritengo che l’azione Proprio per la riflessione intorno ai modeldi curatela sia inscindibile dal concetto di li dell’Atlas warburghiano e dei musei di “cura”. Il mio lavoro è prendermi cura dei Malraux e Pamuk, quello dell’archivio costiloro progetti e fare del mio meglio affinché tuisce per me un pretesto e un caso studio possano realizzarli. per portare all’attenzione i processi, indiviA proposito di incontri, a settembre duali e collettivi, di formazione dell’identi2020, grazie alla regia machiavellica del tà e di semiosi che si instaurano continuacuratore Vincenzo Argentieri, ho conosciuto mente nel rapporto io-mondo. Fino al 9 Ludovico Da Prato, Stefano Bertolini e luglio, con la mostra Remembrance from the Daniele Miglietti. Insieme abbiamo dato vita Lethe, dieci artisti e altrettanti contributor danno forma a queste mie ossessioni nelle a co_atto, project space dedicato alla ricerca vetrine di co_atto. transdisciplinare e all’archivio come

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GIULIA RONCHI L Berlino, San Pietroburgo, Salonicco e Napoli: sono le città interessate dal tour di Sardegna Isola Megalitica. Dai menhir ai nuraghi: storie di pietra nel cuore del Mediterraneo, una straordinaria mostra dedicata alle antichissime culture megalitiche della Sardegna, compresa quella nuragica, che si concluderà a settembre del 2022. L’esposizione – ultima tappa di un articolato progetto di Heritage Tourism finanziato dall’Unione Europea, sull’archeologia sarda nel contesto del Mediterraneo – ha il compito di promuovere anche all’estero la conoscenza di queste antiche civiltà. Sardegna Isola Megalitica porterà in tour importanti reperti provenienti dai musei archeologici di Cagliari, Nuoro e Sassari. Eccezionalmente, grazie al Ministero della Cultura italiano e al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, ospite d’onore dell’esposizione sarà la grande scultura di uno dei Guerrieri di Mont’e Prama, risalente all’Età del Ferro. museoarcheocagliari.beniculturali.it

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Sardegna Isola Megalitica: la mostra-evento che porta l’archeologia sarda attraverso l’Europa

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DANCEHAUS Fondata nel 2009 dalla coreografa Susanna Beltrami, che tuttora la dirige, la DanceHaus è stata riconosciuta come Centro Nazionale di Produzione della Danza (in Italia ne esistono quattro). Qui si producono spettacoli, si fa formazione, si svolgono residenze artistiche. Con uno sguardo inclusivo a 360°. via tertulliano 70 dancehaus.it

ATELIER(S) FEMIA Definire quello del genovese Alfonso Femia uno studio di architettura sarebbe davvero riduttivo. AF517 fa anche architettura, certo, ma quanti sono in dialogo così stretto con l’arte? Quanti realizzano oltre 500 interviste a progettisti, politici e personaggi della cultura per capire cosa fare e dove andare? via cadolini 32 atelierfemia.com

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AVANTGARDEN Coraggiosa apripista in zona, la Avantgarden Gallery ha inaugurato nel 2007 e da allora tiene dritta la barra sulla Urban Art. Che significa: non cedere di un millimetro nel rigore analitico ma applicandolo alla cultura underground, che provenga dal nostro Paese o da altri scenari internazionali. via tertulliano 68 avantgardengallery.com

GREEN MEDIA LAB L’ennesima agenzia di pubblicità milanese? In parte è vero, ma qui si fanno comunicazione e marketing non solo ad alti livelli, ma con una specializzazione consapevole ed efficace sulla Corporate Social Responsability. La loro seconda sede è a Los Angeles e lavorano con marchi come Patagonia, GoPro, Vans, Asics... via tertulliano 68/70 greenmedialab.com

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Milano. Il boom di via Tertulliano Via T

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2 Via Giulio Verne

Siamo appena fuori dai viali, a est di Porta Romana. Una zona, anzi poco più di un blocco, piuttosto anonimo fino a un paio d’anni fa, punteggiato dai magazzini di una Milano post-industriale ma non ancora artigianale. Poi, nel giro di pochi mesi, è cambiato tutto. DAVIDE LONGONI È fra i migliori panificatori d’Italia. Ha punti vendita in Porta Romana e in Zona Risorgimento, oltre a un banco al Mercato del Suffragio. Ora c’è anche questo laboratorio: un luogo quasi segreto dove gustare i suoi prodotti e farsi raccontare le iniziative che Longoni porta avanti – ad esempio la rivista L’integrale. via tertulliano 70 davidelongoni.com

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DOTDOTDOT Architettura, design e installazioni coniugati con tecnologie digitali e new media, per creare esperienze uniche e memorabili. La loro storia inizia nel 2004 e da allora hanno lavorato con il MAAT di Lisbona e il Giardino Botanico di Padova, per fare due soli esempi in ambito museale, oltre a grandi aziende come Enel e NTV. via tertulliano 68 dotdotdot.it

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MILANO CITY VILLAGE Dove sorgevano i vecchi capannoni della Telecom sta nascendo un complesso residenziale composto da 163 appartamenti e quasi 5mila metri quadri di verde, su una superficie complessiva di 13.600 mq. Zero consumo del territorio, ampi spazi comuni, alta qualità. E infatti è già tutto sold out. via cornelio tacito 10/14 abitareinspa.com

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U BARBA Dopo tutto questo girovagare vi meritate una sosta come si deve. Ultimo sforzo, allora, per approdare in questa osteria genovese che propone anche pasta fresca da asporto e una selezione di periodici da buongustai, da Monocle a L’Officiel. Iniziate con la Selezione ligure e poi fatevi guidare dallo stomaco. via decembrio 33 ubarba.it

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SAVERIO VERINI [ curatore ]

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Lucia Cant ella sua ultima mostra personale alla galleria Monitor di Roma, Lucia Cantò ha utilizzato i due ambienti espositivi – quasi speculari tra loro – per mostrare le diverse tensioni che abitano la sua poetica. Da una parte una coreografia di gru idrauliche: elementi duri, industriali – quasi un ready-made, se non fosse per la postura inconsueta delle gru, accoppiate come in una danza, un gioco o perfino un atto erotico. Dall’altra una serie di calchi in argilla di vasi da giardino di diverse dimensioni: anche in questo caso Cantò ha formato delle coppie, visto che ogni vaso è “tappato” nella parte superiore da un altro recipiente dello stesso diametro e di analoga fattura, a comporre

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così una popolazione di sculture silenziose, placide, senz’altro meno slanciate delle gru viste in precedenza. Sul pavimento del piccolo corridoio che unisce le due stanze della galleria, l’artista ha infine disseminato dei fiori di buganvillea in alluminio opaco, una traccia tenue e dimessa, anch’essa originatasi a partire dal calco del fiore ancora non schiuso. In questa mostra ci sono degli aspetti ricorrenti, che Lucia Cantò aveva già presentato in altre occasioni: penso soprattutto all’idea di un “gioco di coppia” tra gli elementi, all’utilizzo alternato di un materiale “caldo” come l’argilla e altri di origine industriale, al ricorso al calco di oggetti. Ma c’è un’altra costante nella pratica dell’artista che mi sembra rappresentata da una qualità di tipo

Lucia Cantò, Peso che arrivi al mio peso, 2020, argilla cruda, gres, gru idraulica, ex-voto in argento, 500x300 cm ca. Installation view at Galleria Monitor, Roma 2021. Photo Giorgio Benni


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più squisitamente attitudinale: un approccio quasi d’altri tempi, poco interessato alla coolness e orientato piuttosto a una certa austerità, per quanto venata di lirismo. Mi sorprende, in Lucia Cantò, la totale concentrazione – una dedizione quasi ossessiva che emerge anche dalle sue parole. Partiamo da qua, dalla tua ultima mostra, che mi sembra pensata come un cervello costituito da due emisferi asimmetrici e complementari. Qual è la materia grigia che l’attraversa? Per mesi ho analizzato i rapporti tra coppie: studiarli nelle posture e nei brevi contatti che avvengono sotto gli occhi di tutti, guardarli e rendermi conto di essere distante mi ha messo in una condizione di vuoto, ma non negativo, in cui la distanza, a volte, mi è sembrata parte integrante di questo addizionarsi. Analizzare la vicinanza tra corpi – tra persone – è qualcosa che mi ha portato a mettere in atto delle trazioni invisibili, dei contraccolpi. Volevo che la materia riuscisse in qualche modo a tenere in piedi queste domande sullo “stare insieme”. Ho sentito l’esigenza di lasciare dei vuoti per ospitare risposte altrui, ma allo stesso tempo ho provato una spinta a escludere la possibilità di una piena accoglienza. Sentendomi io stessa una terza parte nella questione. Sicuramente questo contrasto ha attraversato entrambi

gli emisferi della mostra. Tenere aperti dei dialoghi con degli amici, dei colleghi, è stato necessario per poter leggere, durante il processo, quello che stavo facendo. Ma a livello formale, come hai cercato di tradurre questo sentimento? E qual è la relazione tra le coppie di gru idrauliche e le coppie di vasi? Mi capita spesso di ragionare a lungo sulle parole, che mi portano poi a visioni più concrete. Le gru si sono formate nella mia testa pensando a una specie di meccanica del contatto. Sono partita dal termine “rapporto”, soffermandomi su quello matematico: quale può essere il risultato tra due corpi uguali che imprimono la loro energia omo-

geneamente l’uno verso l’altro? Ho così immaginato che questa loro spinta reciproca risultasse senza alcun “resto” – hai presente una divisione? –, come se in questo loro agire, nel cercare di stare insieme, non fosse previsto nessun altro, nessuno al di fuori del loro rapporto.

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Lucia Cantò, Atti certi per corpi fragili, 2021, terre crude, dimensioni variabili. Installation view at Galleria Monitor, Roma 2021. Photo Giorgio Benni

Mentre con i vasi com’è andata? Percorrere la forma dei vasi dal loro interno era un pretesto per poter creare uno spazio d’accoglienza – meno teso, un legame solido che aveva a che vedere con il termine “corrispondenza”. Volevo che le persone intorno a me scegliessero un vaso, una sembianza, e concretamente la legassero alla mia. Alla fine i motori di entrambe le instal-

BIO Lucia Cantò è nata a Pescara nel 1995. Diplomata in Scultura all’Accademia di Belle Arti di Venezia nel 2018, prosegue gli studi all’Accademia di Belle Arti de L’Aquila. È cofondatrice – insieme a Simone Camerlengo, Gioele Pomante, Francesco Alberico, Eliano Serafini, Gianluca Ragni, Matteo Fato e Lorenzo Kamerlengo – dell’Associazione culturale SenzaBagno, con sede a Pescara. Nel 2021 ha esposto per la prima volta in una mostra personale, alla galleria Monitor di Roma. Ha preso parte a diverse collettive: C.U.O.R.E. – Cryogenic Underground Observatory for Rare Events, progetto di Margherita Morgantin a Palazzo Lucarini, a Trevi (2021); straperetana e Io sono verticale, entrambe a Pereto (2020); Sabbia d’oro al Museo Laboratorio di Città Sant’Angelo (2019); Biennale Giovani Monza (2019). Nel 2021 ha curato la mostra collettiva e il progetto editoriale The Blind Leading the Blind alla galleria Monitor di Pereto.

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Lucia Cantò, IO, TU, 2019, macchine da scrivere Olivetti n.32 - Olivetti Studio, inchiostro su tela, dimensioni variabili. Courtesy l’artista & Museo Civico di Monza. Photo Lorenzo Kamelengo

lazioni sono organici, l’olio e le mani. Sicuramente l’intera formalizzazione mi interessava che avesse a che fare con uno scambio di energia tra due sistemi, veicolato da più persone. Questa attrazione per le relazioni si riverbera non soltanto nelle tue opere. A Pescara sei parte di un collettivo di artisti, con i quale condividi spazi, ma anche un certo tipo di orizzonte culturale. Rispetto a qualche anno fa, forse, questo bisogno di prossimità tra artisti sta crescendo, in diversi parti d’Italia. Credo che in questo momento la prossimità sia vitale. A Pescara siamo un gruppo di artisti e amici che collaborano e dialogano sulle rispettive ricerche. Devo dire che, in generale, trovo delle affinità con molti artisti, condividendo interessi e anche una maniera di mettersi in dialogo, a volte cruda a volte estremamente intima, che mi sorprende. Questa dimensione relazionale è per me una fonte d’ispirazione. Sento anch’io che, da qualche anno, questo desiderio di unirsi e fare fronte comune ha generato un’energia condivisa in molte realtà italiane e lo trovo estremamente interessante, non solo per entrare in contatto con altri artisti, ma anche per poter scoprire luoghi meno conosciuti e realtà sommerse.

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Questo desiderio di unirsi e fare fronte comune ha generato un’energia condivisa in molte realtà italiane e lo trovo estremamente interessante.

Recentemente ti sei anche cimentata come curatrice di una mostra, che ha visto proprio la partecipazione di molti degli artisti di cui parlavi poco fa… Sì, è stata un’esperienza che non avevo mai fatto, molto difficile. L’ho fatto soprattutto per l’atto di fiducia da parte dei miei colleghi di affidarmi l’ideazione del progetto, per me è stato un gesto importante. In quel momento stavo facendo diverse letture: Louise Bourgeois, Simone Weil, Chiara Zamboni… È da qua che siamo partiti per la

mostra The Blind Leading the Blind alla sede di Pereto della galleria Monitor. Mi interessava vedere quali effetti inconsci una certa ricerca personale e intima potesse avere su otto artisti di cui conosco bene il lavoro e la personalità. Il fatto di non esporre mie opere mi ha permesso di guardare ai loro lavori con più attenzione, notando particolari a cui altrimenti non avrei fatto caso. Tornando alla tua pratica artistica: le tue opere manifestano quasi un senso “epico”. Intendo una struttura, una robustezza (nella scelta dei materiali, nel processo realizzativo) piuttosto rare per un’artista della tua generazione, in confronto a certe tendenze che, sintetizzando, si basano su una forte fragilità costitutiva e su un immaginario per certi versi apocalittico, da “fine del mondo”. Ti ci ritrovi? Su questo non so bene come risponderti, perché nemmeno io ho compreso a pieno da dove viene questa mia propensione, che devo dire è la stessa da sempre. Credo che, nella mia pratica scultorea, l’utilizzo di materiali concreti sia la risposta a una realtà fatta di sentimenti e stati d’animo che tende a rimanere immateriale, evanescente. Occupare lo spazio fisico equivale per me al tentativo di dare struttura a un’emozione. Spesso questo tentativo coincide con la fragilità.


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L STUDIO VISIT L Lucia Cantò, Tre accoppiamenti, 2021, gru idrauliche, dimensioni variabili, dettaglio. Installation view at Galleria Monitor, Roma 2021. Photo Giorgio Benni

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UNO SGUARDO LATERALE SU EUROPA, AFRICA E ASIA


© Maria Francesca Melis per Artribune Magazine

In Europa, il territorio che abbiamo esplorato è transnazionale. Il suo nome è Sápmi e si estende in porzioni di Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia. È il territorio dei Sámi, l’unico popolo indigeno riconosciuto nel nostro continente. Fra l’altro, il Padiglione dei Paesi Nordici alla prossima Biennale di Venezia sarà un Padiglione Sámi, con tre artisti a rappresentarne la storia millenaria in chiave squisitamente contemporanea. Il secondo reportage proviene dallo Zimbabwe. Non è l’Africa “vicina”, quella mediterranea; non è l’Africa occidentalizzata del Sudafrica; non è nemmeno l’Africa di quelle nazioni cool che sfornano tendenze e personaggi. È un’Africa da scoprire a passo lento, senza paternalismi e con occhi e orecchie spalancati. (En passant, lo Zimbabwe è presente alla Biennale di Venezia con un proprio padiglione nazionale da ben dieci anni.) Il terzo reportage proviene dallo Stato più autoreferenziale del pianeta, la Corea del Nord. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è così difficile ottenere un visto di qualche giorno e visitarlo, beninteso sotto l’occhio implacabile delle guide locali e lungo tragitti predefiniti. Più complicato è comprenderne le sfumature, ed è per questo che non ci siamo limitati a viaggiare al suo interno, ma abbiamo parlato con chi quel territorio lo frequenta da decenni.

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Il cuore di questo numero non è un inserto turistico. È un invito al viaggio, che è ben diverso.

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l mese di giugno sta terminando e si entra di gran carriera nella seconda estate dell’era Sars-Cov-2. La variante Delta del virus, nel momento in cui scriviamo, sta causando gli ennesimi lockdown, da Sidney al Sudafrica. Però il desiderio di tornare a viaggiare è diffuso, persistente. Perché il viaggio, inteso come incontro, è lo stimolo fondante del pensiero critico, che nasce a contatto con la differenza. E tuttavia, questo viaggiare non dev’essere un meccanico ritorno alle modalità pre-pandemia – meglio: niente dovrebbe tornare a essere come prima. Hegel sosteneva che l’unica cosa che insegna la Storia è che non impariamo mai niente da essa. È il pessimismo della ragione al quale possiamo opporre, per l’ennesima volta, l’ottimismo della volontà. Dunque, il cuore di questo numero di Artribune Magazine non è un inserto turistico. È un invito al viaggio, che è ben diverso. Perciò anche le destinazioni sono atipiche, distribuite in tre continenti.

MARCO ENRICO GIACOMELLI

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I SÁMI. ARTE E CULTURA DELL’UNICA POPOLAZIONE INDIGENA EUROPEA

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MARIA-ELENA PUTZ [ progettista culturale | storica dell’arte ]

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Russia

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Máret Ánne Sara, Pile o’ Sápmi, 2017, dettaglio. Photo credit Matti Aikio

La Scandinavia e le fiabesche regioni dell’Artico raccontano una storia antichissima, ma certi capitoli legati al colonialismo nordico sono ancora poco noti, forse perché troppo distanti dai succitati cliché, o forse perché la versione più conosciuta della storia è quella che di regola scrivono i “vincitori”. Fatto sta che, in Italia, arte e cultura del popolo Sámi sono rimaste a lungo trascurate e immerse in una coltre di nebbia. Unica popolazione indigena riconosciuta in Europa, i Sámi hanno abitato fin dall’antichità le regioni della Fennoscandinavia e identificano nel Sápmi la loro patria, un territorio transnazionale che comprende le regioni settentrionali di Norvegia, Svezia, Finlandia e la penisola russa di Kola. Parlano almeno dieci dialetti diversi a seconda del luogo di provenienza e costituiscono una comunità che conta circa 55mila persone soltanto in Norvegia. Nonostante il legame storico con il loro territorio di appartenenza, i Sámi hanno dovuto lottare per il riconoscimento del loro status e dei loro diritti, restando tuttavia discriminati e ignorati “in casa” fino alla fine

Finlandia

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IDENTITÀ CULTURALI IN NORVEGIA E RICONOSCIMENTO DEI SÁMI

SÁPMI

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icordate il video promozionale della SAS, la Scandinavian Airlines, diffuso l’anno scorso? Spiegava come non ci fosse nulla di “veramente scandinavo” e che la forza di quell’area geografica risiedesse proprio nel riuscire ad assimilare, nel corso dei secoli, le tradizioni più varie, costruendo una società aperta e multiculturale. Al di là degli obiettivi della campagna marketing, il tema dell’identità culturale in Norvegia è per certi versi ancora scottante, attuale e poco conosciuto oltreconfine.

In Italia, arte e cultura del popolo Sámi sono rimaste a lungo trascurate e immerse in una coltre di nebbia.

del XX secolo. La politica norvegese li ha vincolati di fatto per anni a un programma ufficiale di “norvegesizzazione” forzata in base al quale il tradizionale stile di vita, la lingua e la cultura Sámi sono stati sistematicamente repressi. E sarebbero andati distrutti del tutto se non fosse stato per la tenacia e la resilienza della popolazione indigena locale. Importante punto di svolta dal punto di vista sociale, culturale e legale fu la prima protesta “eco-indigena” d’Europa, passata alla storia come Controversia di Álta (19791981). In quell’occasione, attivisti Sámi e ambientalisti unirono le forze per opporsi alla costruzione di una diga e di una centrale idroelettrica che avrebbero irrimediabil-

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mente danneggiato una vasta area del Finnmark intorno al fiume Álta e alla città di Máze, compromettendo la sussistenza delle economie rurali della zona, l’allevamento delle renne e la conservazione di un ambiente animale e vegetale estremamente ricco. Oltre a costituire un momento storico di cruciale importanza per la Norvegia in materia di sviluppo delle politiche energetiche e sfruttamento delle risorse naturali, la Controversia di Álta portò a una riforma sostanziale della Costituzione e della politica norvegese a tutela dei Sámi, a un crescente riconoscimento dei diritti di questa popolazione, nonché all’istituzione del Parlamento Sámi (Sámediggi), inaugurato dal re di Norvegia, Olav V, nel 1989.

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TROMSO

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ROVANIEMI

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I SÁMI ATTRAVERSO LA STORIA DELL’ARTE E IL COLLEZIONISMO ISTITUZIONALE

Gli artisti Sámi sono stati, e continuano a essere, profondamente impegnati nei movimenti di emancipazione politica e culturale del Sápmi e l’arte ha storicamente rappresentato il loro mezzo di espressione più importante per comunicare identità, idee e valori al di fuori dei territori del nord. Eppure, la ricchezza della loro arte fu per anni raccontata sommariamente o addirittura oscurata del tutto nei manuali di storia dell’arte; opere e manufatti, salvo rarissime eccezioni, furono esposti unicamente in musei etnografici, tanto in Norvegia quanto nei vicini Paesi scandinavi.

La Controversia di Álta portò a una riforma sostanziale della Costituzione e della politica norvegese a tutela dei Sámi.

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HELSINKI

OSLO STOCCOLMA

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DOVE VEDERE L'ARTE SÁMI 1 NORGES ARKTISKE

UNIVERSITETSMUSEUM uit.no

2 NORD NORSK KUNSTMUSEUM nnkm.no

3 KORO Da una decina di anni a questa parte, la velata indifferenza verso le pratiche artistiche Sámi si sta diradando. Al suo posto sta fiorendo un vivace dibattito intorno alle prospettive postcoloniali grazie al supporto di alcune istituzioni e al prezioso lavoro di ricercatrici e ricercatori delle università scandinave, senza i quali sarebbero andate parzialmente perdute molte delle importanti testimonianze materiali e immateriali dell’arte Sámi, oggi raccolte, studiate, catalogate e valorizzate attraverso mostre, dibattiti e pubblicazioni. Il riconoscimento nazionale e internazionale della cultura Sámi ha comportato più di recente maggiore attenzione da parte dei

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koro.no

4 DE SÁMISKE SAMLINGER rdm.no

5 SÁMI DÁIDDAGUOVDDÁS samidaiddaguovddas.no

6 DAVVI ÁLBMOGIID GUOVDDÁS senterfornordligefolk.no

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arran.no

8 KULTURHISTORISK MUSEUM khm.uio.no

9 NORSK FOLKEMUSEUM norskfolkemuseum.no

10 NASJONALMUSEET nasjonalmuseet.no

11 VÁRJJAT SÁMI MUSEA varjjat.org

12 VÁRDOBÁIKI SÁMISK SENTER vardobaiki.no

13 BILDMUSEET

bildmuseet.umu.se

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korundi.fi


STORIA DELLA BANDIERA SÁMI

Nel 2022 il Nasjonalmuseet aprirà la sua nuova sede con una collezione più inclusiva, a segnare un cambio di passo e una nuova sensibilità.

Nasjonalmuseet, le opere di questi artisti verranno esposte per la prima volta nella nuova sede museale, che aprirà al pubblico nel 2022 con una collezione più inclusiva, a segnare un cambio di passo e una nuova sensibilità verso le differenze culturali nazionali, quali parti integranti e imprescindibili dell’identità scandinava.

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musei e delle istituzioni pubbliche anche nella capitale Oslo, dove hanno finalmente intrapreso una strada costruttiva e virtuosa, sia nell’aggiornamento scientifico degli addetti ai lavori, impreparati rispetto alle tematiche indigene, sia nell’arricchimento delle collezioni pubbliche. Norsk Folkemuseum e Nasjonalmuseet di Oslo, ovvero due dei musei più importanti della Norvegia, sono coinvolti direttamente in questo processo di autentica emancipazione culturale del Paese. Mentre il primo ha avviato nel 2012 un ampio programma di restituzioni del patrimonio culturale e artistico Sámi verso i territori di origine (progetto Bååstede), il Nasjonalmuseet – il museo nazionale norvegese di arte, architettura e design – ha inaugurato un programma di acquisizioni volto a colmare le evidenti lacune fin qui emerse rispetto all’arte Sámi. Alle opere di John Savio e Iver Jåks, già presenti in permanente, si sono aggiunte dal 2017 anche quelle di Hans Ragnar Mathisen, Britta Marakatt-Labba, Aslaug Magdalena Juliussen, Synnøve Persen, Inger Blix Kvammen e Máret Ánne Sara, quasi tutte caratterizzate da un forte contenuto politico. In oltre duecento anni di storia del

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Synnove Persen, Utkast til samisk flagg, 1978. Photo credit Nasjonalmuseet © Synnove Persen/BONO

La prima versione non ufficiale della bandiera Sámi venne realizzata nel 1977 dall’artista attivista norvegese Synnøve Persen e ci porta diritti nel cuore della Controversia di Álta. Ideata inizialmente con lo scopo di rafforzare l’identità di una comunità Sámi indebolita e marginalizzata da decenni di politiche coloniali, la bandiera di Persen venne utilizzata durante le manifestazioni di Álta e Oslo (197881), divenendo presto un simbolo di protesta e lo specchio di una comunità impegnata nella lotta per i diritti fondamentali delle popolazioni indigene del nord. Esposta nel 1978 alla mostra Sámi Álb’mut presso il Museo Etnografico di Oslo tra le proteste dell’allora direttore del museo – che si era detto contrario a mostrare un vessillo non norvegese in un’istituzione culturale –, la bandiera di Synnøve Persen fu poi sostanzialmente dimenticata dal mondo artistico fino al 2017, quando venne esposta prima a Trondheim in occasione delle celebrazioni del centenario della prima Assemblea Sámi e subito dopo ad Atene in occasione della Documenta 14. Il riconoscimento internazionale valse a questa simbolica bandiera l’ingresso nella collezione permanente del Nasjonalmuseet di Oslo nello stesso anno. Sarà esposta al pubblico nella sede del nuovo museo a partire dal 2022. La bandiera attualmente in uso è stata rivisitata e ridisegnata dall’artista norvegese Astrid Båhl e adottata ufficialmente nel 1986. Rappresentativa di tutte le comunità Sámi, è costituita da fasce verticali blu, rosso, giallo e verde e da un cerchio mezzo rosso (il Sole) e mezzo blu (la Luna). I colori riprendono quelli dei tradizionali indumenti Sámi, mentre la forma circolare riporta ai simboli Sámi pre-cristiani presenti anche nelle decorazioni dei tamburi sciamanici (runebomme) e al legame indissolubile di queste comunità con la natura.

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LA PRODUZIONE ARTISTICA SÁMI

Cosa sia, cosa rappresenti e che cosa definisca un’opera d’arte Sámi sono domande che oggi non trovano ancora una risposta univoca, sebbene il tema sia dibattuto dalla fine degli Anni Settanta. Sappiamo però che, tradizionalmente, l’arte in quanto disciplina e fenomeno indipendente è inesistente nella prospettiva indigena dei Sámi, che connette invece le pratiche estetiche all’epistemologia, alla mitologia e alle attività quotidiane, elevando ogni attimo dell’esistenza a un’esperienza artistica di per sé. Nella cultura Sámi l’opera nasce dunque da un equilibrio di conoscenze riassumibili nel concetto di duodji. Nella prospettiva occidentale non esiste sinonimo o parola adatta a definire questo termine senza perderne significati e valori essenziali, e non

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TRADIZIONI ORALI FRA MUSICA E CINEMA La cultura immateriale del popolo Sámi è immensamente ricca e ha rappresentato pressoché l’unica forma di trasmissione della conoscenza fino a circa la metà del XX secolo. Visto in quest’ottica, lo joik, il canto tradizionale Sámi, riproduce molto di più che una semplice melodia cantata individualmente e descrive un legame culturale che unisce più generazioni. I suoni e i ritmi di cui si compongono gli joik corrispondono a emozioni, messaggi, pensieri, e contengono raramente parole. Dichiarato blasfemo durante la cristianizzazione per la sua vicinanza ai riti sciamanici e bandito durante la “norvegesizzazione” del Paese, lo joik è entrato nella cultura pop e moderna a partire dal 1980, quando Sverre Kjelsberg e Mattis Hætta portarono all’Eurovision Song Contest un brano che recitava lo joik nel ritornello. Il momento più solenne nella storia di questa musica fu quando Nils-Aslak Valkepää intonò lo joik durante la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Lillehammer del 1994, facendo per la prima volta conoscere al mondo intero questa forma di canto popolare. Considerato un’icona nel mondo artistico Sámi, Valkepää (1943-2001) è stato un poeta, artista multidisciplinare e joiker di origini svedesi, che visse gran parte della sua vita a Skibotn (Tromsø). Definì con queste parole la melodia tradizionale del suo popolo: “Lo joik è la musica popolare dei Sámi. È un canto libero, flessibile. Non ha inizio né fine. È semplicemente vivo”. Oggi lo joik conta numerosi interpreti e, tra questi, Mari Boine, che ha saputo rinnovare il canto tradizionale fondendolo con melodie e ritmi jazz, rock e folk. Accanto agli joiker, sono numerosi gli artisti che hanno scelto di integrare l’aspetto sonoro e quello visivo, dedicandosi a produzioni video, documentari e cortometraggi. Riconosciuti internazionalmente per la qualità dei loro lavori, partecipano con i loro progetti ai più prestigiosi festival cinematografici, come il Sundance negli Stati Uniti o il Tromsø Film Festival in Norvegia. Tra questi si ricordano Elle Márjá Eira, Marja Bål Nango e Maria Helander.

può quindi essere tradotta e adattata a categorie come l’artigianato artistico o le arti applicate. L’ampio e importante significato del concetto di duodji è dunque un concentrato di tradizioni, storia, conoscenze collettive e spirituali espresse attraverso la fisicità di un oggetto realizzato con materiali naturali, come legno, pelle, corna di renna, argento o altri materiali derivanti da scambi e baratti. Duodji può anche essere il risultato di un atteggiamento o un approccio che contempla la capacità di assemblare materiali di riciclo. Viene realizzato dai duojárs, la cui abilità è tramandata nei secoli di generazione in generazione. In quest’ottica cambia anche il criterio di valutazione del duodji, dove la sua bellezza non si ferma a un mero giudizio estetico ma contempla la perfezione rispetto allo scopo e all’utilità del manufatto prodotto. Ecco dunque che la bellezza di un semplice coltello da caccia, ad esempio, sta racchiusa in un insieme di caratteristiche: deve essere affilato, comodo da maneggiare, perfettamente forgiato per il suo scopo, mentre il raffinato decoro dell’impugnatura deve essere realizzato con le corna recise della renna.

Pauliina Feodoroff, CO2lonialNATION, 2017. Photo credit IIkka Volanen

Infine, si segnalano due proposte cinematografiche diversissime tra loro per contenuto, tipologia e target di riferimento, che hanno avuto una distribuzione su scala globale. Il primo è un film drammatico intitolato Sami Blood (Sameblod) e presentato in anteprima al Toronto Film Festival del 2016, che racconta la storia di Elle Marja e la discriminazione dei Sámi in Svezia. Il secondo, invece, è la fortunatissima saga Disney di Frozen (2013), che prende spunto direttamente dalla cultura dei Sámi nelle tematiche, nei costumi, nelle ambientazioni, nonché nelle parole e nella musica (si pensi alla melodia Vuelie). Per la realizzazione di Frozen II (2019) la Disney si è impegnata ufficialmente a coinvolgere, riconoscere e rappresentare la comunità indigena del Sápmi facendosi carico del doppiaggio in lingua Sámi.

L’ampio significato del concetto di duodji è un concentrato di tradizioni, storia, conoscenze collettive e spirituali. Nel XX Secolo, tuttavia, si sono affermati artisti multidisciplinari, che hanno ampliato il loro repertorio spingendosi oltre il concetto duodji, pur ispirandosi alle tradizioni Sámi. È il caso, per fare qualche esempio, di Joar Nango (1978), Áillohaš / Nils-Aslak Valkepää (1943-2001), Iver Jåks (1932-2007) o del loro precursore John Savio (19021938), il primo artista Sámi ad aver ricevuto una formazione accademica. Gli artisti appartenenti alle comunità Sámi e attualmente attivi lavorano con una

grande varietà di media, tra cui scultura, video, installazione, stampa su legno, ricamo e fotografia, e sono ancora indissolubilmente legati al concetto di duodji.

MÁZEJOAVKU: UN COLLETTIVO RIVOLUZIONARIO

Otto persone con diverso background sociale, artistico e culturale si ritrovarono a Máze (Finnmark) alla fine degli Anni Settanta e fondarono il collettivo Mázejoavku. Accomunati dalla loro identità e da esperienze discriminatorie simili, gli otto artisti del gruppo hanno saputo tradurre nelle loro opere il desiderio di affermazione, di rinascita culturale e sociale delle popolazioni Sámi. Aage Gaup, Trygve Lund Guttormsen († 2012), Josef Halse, Berit Marit Hætta, Rannveig Persen, Hans Ragnar Mathisen, Britta Marakatt-Labba e Synnøve Persen – questi i loro nomi – hanno avuto il merito di cambiare radicalmente la percezione dell’estetica Sámi nelle regioni nordiche, affermando il potente ruolo comunicativo e aggregante della cultura indigena di fronte al colonialismo nordico. Riconosciuti ancora oggi come pionieri, rappresentano i pilastri culturali della


NASCERÀ UN MUSEO D’ARTE SÁMI?

Si ringraziano per la collaborazione: Katya Garcia-Ántón (OCA), Karoline Trollvik (OCA), Anne May Olli (RiddoDuottarMuseat), Randi Godø (Nasjonalmuseet), Monica Grini (UiT – Norges Arktiske Universitet).

Una mostra fondamentale che esaminava storia, identità, politica e cultura visiva dei Sámi. Guardando alla tradizione del duodji ma anche all’arte contemporanea, e spaziando dal XVII secolo al presente.

2014

THERE IS NO NORDNORSK KUNSTMUSEUM TROMSO

SÁMI STORIES SCANDINAVIA HOUSE NEW YORK

2017 Oltre 60 artisti dal Sápmi in rappresentanza di una collezione che all’epoca comprendeva più di 1.300 opere, ovvero la più ampia collezione di arte Sámi al mondo. In attesa che il Sámi Dáiddamusea trovi una collocazione.

L’edizione numero 14 della rassegna quinquennale ha visto la partecipazione di parecchi artisti provenienti dal Sápmi, in coincidenza con il centenario del primo congresso del popolo Sámi, tenutosi il 6 febbraio 1917 alla Chiesa Metodista di Tråante.

2017

2018 LET THE RIVER FLOW OCA | TENSTA KONSTHALL OSLO | STOCCOLMA

Tre generazioni di artisti Sámi provenienti da Norvegia, Svezia e Finlandia: dal pioniere Iver Jåks a esponenti del collettivo Masi, dal monumentale fregio tessile di Marakatt-Labba alla produzione filmica di Synnøve Persen fino agli artisti più giovani.

DOCUMENTA 14 KASSEL | ATENE

Una rassegna che ha raccontato l’ÁltáGuovdageaidnu Action (1978–82), movimento che si opponeva alla diga sull’Álttáeatnu. Tre anni di ricerche per ricostruire le vicende, in particolare quelle che videro protagonista il collettivo artistico radicale Mázejoavku.

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Per capire cosa ne sarà del museo Sámi in Norvegia si dovrà attendere almeno la fine del 2021. Solo allora si saprà se avrà un esito positivo la proposta della direttrice del Riddo Duottar Museat di Karasjok, Ánne May Olli, di ospitare a Oslo un museo temporaneo Sámi usufruendo dei vecchi spazi espositivi del Nasjonalmuseet. Sebbene temporanea, sarebbe un’ottima soluzione per il progetto di un museo d’arte Sámi richiesto fin dalla metà degli Anni Settanta e mai realizzato. Per capire meglio l’argomento bisogna partire dal 1972, anno dell’inaugurazione di SVD – De Sámiske Samlinger, prima istituzione culturale Sámi, spazio polifunzionale e luogo aggregativo situato nella città norvegese di Karasjok. Progettato in stile modernista dagli architetti Magda Eide Jessen e Vidar Corn Jessen utilizzando principalmente cemento e legno di pino, l’edificio venne decorato internamente dall’artista Sámi Iver Jåks, che ha realizzato pannelli di varie dimensioni in legno intagliato e dipinto, dettagli in ottone per corrimano e maniglie con chiari riferimenti religiosi e simboli tradizionali Sámi. Nonostante la “mission” iniziale di SVD non fosse quella di un museo, la collezione di quest’istituzione si è arricchita negli anni grazie a depositi, donazioni private e ai nuovi acquisti resi possibili grazie al supporto economico del Parlamento Sámi. Attualmente conta 1.500 opere, 2.000 fotografie e circa 500 opere su supporto digitale e audio, realizzate dagli artisti attivi su tutto il territorio del Sápmi ed è oggi la più vasta e importante collezione d’arte Sámi al mondo. La promessa mai mantenuta dal Ministero norvegese per i Beni Culturali per la costruzione di un museo rende non solo difficile la conservazione, la valorizzazione e la gestione di questa collezione, ma anche parzialmente inaccessibile al pubblico questo immenso patrimonio. Il crescente interesse per l’arte Sámi, il suo riconoscimento internazionale, nonché l’attuale dibattito intorno ai temi della decolonizzazione e valorizzazione delle culture indigene, hanno rinnovato le speranze degli addetti ai lavori di poter presto inaugurare un museo d’arte dedicato alla ricca e caleidoscopica produzione artistica dei Sámi.

2014-2021: 7 MOSTRE AD ALTO TASSO DI ARTE SÁMI

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storia dell’arte contemporanea del Sápmi. La partecipazione di Britta Marakatt-Labba, Hans Ragnar Mathisen e Synnøve Persen alla Documenta 14 nel 2017 ha confermato ancora una volta il valore delle istanze poste da questa generazione di artisti, sia nel dibattito culturale contemporaneo sia nel loro ruolo di guida per i giovani artisti Sámi.

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HISTORIER DRONNING SONJA KUNSTSTALL OSLO

Una mostra altamente inclusiva, organizzata in occasione della Frankfurt Book Fair nell’anno in cui la Norvegia era il Paese ospite. Arte moderna e contemporanea, design e architettura, con particolare attenzione alla cultura del Sápmi.

2019

HOUSE OF NORWAY MUSEUM ANGEWANDTE KUNST FRANCOFORTE

La più grande retrospettiva di Nils-Aslak Valkepää / Áillohaš (1943-2001), icona culturale e “nation builder” del Sápmi. Tra i suoi molti meriti, l’aver organizzato uno dei primi festival internazionali di cultura indigena nell’estate del 1979.

2020 NILS-ASLAK VALKEPÄÄ / ÁILLOHAS HENIE ONSTAD KUNSTSENTER HOVIKODDEN

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TRE ARTISTI SÁMI ALLA BIENNALE DI VENEZIA

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Anders Sunna, SOADA, 2020. Photo credit Ander Sunna

Il Padiglione dei Paesi Nordici alla 59. Biennale d’Arte di Venezia assumerà un’identità temporanea inedita, prendendo il nome di Padiglione Sámi. Selezionati per realizzare un ambizioso progetto coordinato da OCA – Office for Contemporary Art Norway, gli artisti Pauliina Feodoroff, Máret Ánne Sara e Anders Sunna, tutti e tre appartenenti alla comunità Sámi, saranno gli interpreti di un intervento artistico che si preannuncia di epocale importanza. Ne abbiamo discusso con Katya Garcia-Ántón, curatrice del Padiglione Sámi e storica direttrice di OCA, fresca di nomina come prossima direttrice del Nordnorsk Kunstmuseum di Tromsø. Fin dagli inizi del tuo mandato come direttrice e curatrice di OCA hai avviato numerosi progetti volti a diffondere la conoscenza dell’arte Sámi e delle pratiche artistiche delle popolazioni indigene. Quand’è iniziato il tuo interesse per queste tematiche? Devo all’artista Joan Jonas il mio primo contatto con l’arte e la cultura Sámi. Fu proprio lei, nel 2012, a farmi conoscere Andé Somby, un eccezionale pensatore, artista, musicista, professore di Diritto delle popolazioni indigene all’Università di Tromsø. Casualmente lo rincontrai qualche anno dopo in veste di direttrice dell’OCA e il confronto con lui su tante questioni legate all’arte Sámi, e alle culture delle popolazioni indigene in generale, suscitò in me una viva curiosità. Perché hai deciso di approfondire la questione? Rientrata a Oslo, notai che tra i colleghi aleggiava un sostanziale disinteresse rispetto alle questioni del popolo Sámi. Capii, dunque, quanto fossero ancora forti in Norvegia alcune resistenze culturali risalenti all’epoca della “norvegesizzazione” del Paese. L’OCA ha quindi raccolto la sfida di superare queste obsolete barriere sociali e strutturali, promuovendo sia localmente sia internazionalmente una serie di iniziative a supporto dello studio e della conoscenza delle popolazioni indigene del Nord Europa e della loro cultura. Nacque da queste premesse un programma di ricerca strutturato sul lungo periodo cui seguirono workshop, seminari, pubblicazioni, mostre e dibattiti. Il progetto espositivo curato da OCA nel 2018 a Oslo, Let the River Flow. The Sovereign Will and the Making of a New Worldliness, ha permesso di dare visibilità internazionale all’arte contemporanea Sámi, rivendicandone il pieno diritto a entrare all’interno della storia dell’arte e della museologia norvegesi e internazionali.

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Quando si è internazionalizzato l’interesse? La Documenta 14 ha consacrato l’arte contemporanea Sámi a livello mondiale, invitando otto artisti a esporre ad Atene e Kassel nel 2017. Legittimati da una fitta rete relazionale che si stava consolidando a ridosso e oltre i confini tracciati dalla Documenta, il Sápmi e i progetti dedicati alle culture indigene sviluppati in seno a OCA si sono moltiplicati e riceviamo oggi richieste di partecipazione a mostre e biennali da tutto il mondo. Quali sono le tematiche che più ti hanno colpito in questi anni di collaborazione con artisti e colleghi situati dentro e oltre i confini del Sápmi? Il perdurare delle conseguenze lasciate dal colonialismo, tanto nelle comunità indigene locali quanto nella nostra società contemporanea, rientra tra le cose più spiazzanti che ho potuto notare. Il processo di emancipazione da una cultura coloniale prevaricante ha caratterizzato la storia recente del Sápmi ed è una sfida transgenerazionale che le comunità Sámi stanno ancora affrontando, anche in un Paese riconosciuto per essere un pioniere del benessere sociale, dell’uguaglianza e dell’ecologia come la Norvegia. Ci sono ferite ancora aperte, tracce di un passato prossimo che le nuove generazioni di artisti affrontano con forza e determinazione, come già avevano fatto gli artisti del collettivo Mázejoavku nel 1978. Quali altre caratteristiche sono emerse? Il ruolo riservato alla figura femminile, non soltanto leader spirituale all’interno delle comunità ma anche figura essenziale nella gestione delle attività quotidiane legate all’allevamento delle renne e la pastorizia. La sua centralità venne meno durante il fenomeno dei processi alle streghe che si è diffuso in tutta Europa tra il XV e il XVIII secolo. Lo Steilneset Memorial, eretto a Vardø nel 2011-12 e progettato da Louise Bourgeois e Peter Zumthor, ricorda questo periodo in cui oltre un centinaio di persone furono processate e condannate. In seguito, il modello matriarcale nel Sápmi è stato nuovamente violato da quello patriarcale imposto dal colonialismo occidentale. Partendo da questo tema, OCA ha sostenuto nel 2019 il progetto SápmiToo sviluppato dal collettivo Dáiddadállu, che affrontava tematiche legate al genere, alla violenza e agli abusi sessuali nelle comunità Sápmi e indigene, il loro rapporto con l’esperienza coloniale e come l’arte riesca a farsi carico dei temi di queste conversazioni.


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Qual è la tua opinione sull’uso dell’aggettivo “indigeno” per descrivere l’arte contemporanea Sámi? È un termine “neutrale” per riferirsi a essa? L’utilizzo della parola “indigeno” è stato indicato dalle Nazioni Unite nel 2007 quale termine legittimo, rafforzativo ed efficace da utilizzare nelle discussioni internazionali per rivolgersi a queste comunità. Tuttavia, descrive un gruppo di persone eterogeneo e vario, che condivide solo alcuni aspetti della storia comunitaria, come le esperienze coloniali e il legame peculiare con la natura e la terra. A parte questo, le comunità indigene sono molto diverse tra loro e sarebbe erroneo omologarle. OCA ha recentemente pubblicato una trilogia dedicata all’arte e alle pratiche curatoriali indigene con importanti contributi da parte dei membri di queste stesse comunità. Quanto è tangibile il rischio di incomprensioni quando a occuparsi di “questioni” indigene sono professionisti con altre culture, e viceversa? Il rischio c’è ma lo scambio costruttivo di idee e la diffusione universale della conoscenza sono fattori essenziali per la cultura e l’arte contemporanea, quindi ben venga chi desideri parlarne. La sfida per i curatori norvegesi e, in generale, per tutti i professionisti che non fanno parte delle comunità indigene, è mantenere un atteggiamento umile di fronte a una cultura poco nota, per evitare imprecisioni ed essere sicuri che ciò che viene detto o scritto sia davvero in linea con le prospettive indigene.

Il progetto per il Padiglione Sámi collocherà i Paesi Nordici in prima linea nell’impegno per il riconoscimento e la valorizzazione delle pratiche artistiche riguardanti le popolazioni indigene. Ci sono stati progetti analoghi in Biennale che ti hanno ispirato? La decisione di portare l’arte contemporanea Sámi a Venezia è il frutto di anni di lavoro. Significa aver conquistato la fiducia da parte di questa comunità e un sufficiente livello di conoscenza che ci permette di lavorare con consapevolezza rispetto alle attuali questioni che riguardano il Sápmi. Pur non ispirandosi a progetti specifici, il Padiglione Sámi si concentra su prospettive indigene che sono state toccate in passato da precedenti interventi artistici, dentro e fuori gli spazi della Biennale. Ricordo tre progetti: quello di Lisa Reihana per la Nuova Zelanda e di Tracy Moffat per l’Australia alla 57. Biennale e il progetto del Miracle Workers Collective esposto nel 2019 al Padiglione finlandese. La Biennale del 2022 si prospetta ricca di novità (vedi i progetti presentati dalla Francia con Zineb Sedira, dagli USA con Simone Leigh e dalla Gran Bretagna con Sonia Boyce) e darà senza dubbio un forte contributo alla riflessione su quelli che sono i temi più scottanti della nostra contemporaneità. Potresti approfondire alcuni aspetti del Padiglione Sámi e dei relativi progetti artistici? Il progetto è strutturato in modo da avere un’ampia partecipazione di professionisti Sámi accanto agli artisti selezionati. Diretto da me e da due curatori Sámi, cui si aggiunge un assistente curatore Sámi, il team si avvale della preziosa collaborazione di due consulenti internazionali, Brook Andrew e Wanda Nanibush, curatori indigeni di grande esperienza. Abbiamo chiesto ai tre artisti selezionati, Máret Ánne Sara, Paulina Feodoroff e Anders Sunna, di farsi guidare da una persona della loro comunità nel processo di creazione delle loro opere. Interessante, ma non imprevedibile, è stata la scelta di tutti e tre gli artisti, che è ricaduta su persone anziane. Questo è un dato rilevante, perché nelle prospettive indigene gli anziani sono molto stimati e viene ritenuta fondamentale la trasmissione delle tradizioni e della cultura orale alle giovani generazioni. Il progetto di un Padiglione Sámi alla prossima Biennale include e pone le comunità del Sápmi in una posizione decisionale nei riguardi della diffusione di una vasta cultura, mostrando il profondo rispetto e il riconoscimento per questa popolazione indigena.

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Quali altri spazi espositivi indipendenti, centri di ricerca e istituzioni scandinave collaborano con OCA su questi argomenti? Stiamo collaborando con alcune istituzioni “sorelle”, come Norwegian Crafts, e con altri spazi culturali in città, come la Kunstnernes Hus. Interlocutori primari sono anche le organizzazioni simili a noi per dimensione e vocazione, come Frame a Helsinki o Iaspis e Tensta Konsthall a Stoccolma. Sul piano internazionale, OCA è coinvolta nello sviluppo di un grande progetto espositivo insieme al museo MASP di San Paolo previsto per il 2024, cui seguiranno diverse tappe internazionali, tra cui KODE a Bergen; la mostra conterà, tra gli altri, la partecipazione di artisti e curatori Sámi.

natura, con una prospettiva spirituale e con altri elementi che andrebbero perduti utilizzando un termine adatto ad altri ambiti, come il design occidentale.

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Ritieni che l’arte Sámi sia equamente rappresentata a livello istituzionale e conosciuta dai professionisti dell’arte non indigeni, sia in Norvegia sia all’estero? Ritengo che da parte della comunità globale non indigena ci siano curiosità, consapevolezza e interesse sempre maggiori, anche grazie al prolifico dialogo avviato con altre comunità in Nuova Zelanda, Australia e Canada. Tuttavia, la strada da percorrere è ancora lunga, considerato che l’arte e la cultura Sámi non sono ancora adeguatamente rappresentate a livello nazionale. Si sente discutere molto di questioni indigene ma persistono lacune da colmare. Tra tutte, la quasi completa assenza di professionisti appartenenti alle comunità Sámi nello staff delle istituzioni culturali norvegesi, dove OCA resta uno dei rari casi virtuosi in questo senso.

Pauliina Feodoroff, CO2lonialNATION, 2017. Photo credit IIkka Volanen

Ci fai un esempio? La parola duodji viene spesso tradotta come “arti applicate” e, così facendo, inserita automaticamente in una gerarchia lessicale occidentale secondo cui le “belle arti” occupano un ruolo di prim’ordine rispetto alle discipline minori. Il termine duodji, invece, indica una meta-categoria della cultura e dell’estetica Sámi che potrebbe tradursi con “cultura materiale”, perché non descrive solo gli oggetti, ma ha a che fare con la conoscenza della

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LA RISCOPERTA DELL’ALTRO COMINCIA IN ZIMBABWE

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PAOLA FORGIONE [ PhD in giustizia internazionale e diritti umani ]

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ZIMBABWE HARARE Mozambico

Namibia

Botswana

BULAWAIO

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Zambia

PROBLEM? NO, CHALLENGE

Photo Jez Bennet

Questa unicità si può forse spiegare con l’innato senso estetico dei suoi abitanti, la cui eleganza si riflette anche nella forma di comunicare, pacata e costantemente tesa al rispetto verso l’interlocutore. In Shona, una delle lingue ufficiali del Paese, qualsiasi conversazione comincia così: “Buongiorno, come ti sei svegliato stamattina?”. “Mi sono svegliato bene, ma solamente se tu ti sei svegliato altrettanto bene”. L’eleganza si accompagna a una profonda capacità di resilienza, anch’essa riflessa nel linguaggio. In inglese, un’altra lingua ufficiale del Paese, gli zimbabwani non usano mai la parola “problem”, sostituendola sempre con “challenge”: i problemi non sono altro che sfide, che vanno affrontate e vinte. La resilienza, la raffinatezza e la predilezione per forme espressive non violente hanno contribuito a sviluppare l’inclinazione artistica di questo popolo che, nonostante le poche scuole di arte presenti nel Paese, ha generato un numero sorprendente di talenti. Forse sono state proprio queste caratteristiche a permettere di fare delle sanzioni delle Nazioni Unite contro la Rodesia negli Anni Sessanta l’occasione per trasformare un campo di tabacco – prodotto colpito dall’embargo – in un atelier di scultura, che ha presto raggiunto fama internazionale. Le stesse caratteristiche hanno incoraggiato

aw al M

a riscoperta del mondo e della curiosità verso l’Altro, dopo mesi di chiusura e paura nei confronti di tutti, compresi amici, parenti e vicini di casa, non potrebbe cominciare da un posto migliore dello Zimbabwe. Conosciuto come Rodesia fino alla sua indipendenza dal potere minoritario bianco nel 1980, il Paese gode di una vivacità artistica e culturale unica, che può risultare inaspettata in un luogo conosciuto soprattutto per l’instabilità politica, l’inflazione, le divisioni razziali e le sanzioni internazionali che ne hanno accompagnato la storia.

Sudafrica

l’uso del mezzo artistico per esprimersi, in mancanza di altri spazi, durante i quasi quarant’anni di potere ininterrotto di Robert Mugabe (1980-2017).

L’ARCHITETTURA DI HARARE

Harare non è la tipica metropoli africana soffocata da grattacieli, traffico, confusione e inquinamento.

Che la capitale Harare – chiamata Salisbury prima dell’indipendenza – non sia la tipica metropoli africana soffocata da grattacieli, traffico, confusione e inquinamento, si coglie sin dal primo sguardo. Per buona parte dell’anno le sue strade hanno un’atmosfera incantevole, grazie ai petali viola dei jacaranda e rossi dei flamboyant che le ricoprono delicatamente. Anche gli spazi verdi non mancano e sono spesso testimoni della complicata e sofferta storia coloniale e post-coloniale del Paese. Ad esempio, il parco Africa Unity Square presenta una struttura somigliante alla Union Jack inglese.

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Questo elemento geometrico non è casuale: il parco fu costruito nel 1898 e giace dove i primi coloni inglesi posero la bandiera della madrepatria. La presenza coloniale si ritrova anche fra il verde degli Harare Gardens, creati all’inizio del Novecento dall’amministrazione coloniale inglese, al cui centro vi è un laghetto artificiale costruito nel 1937 per celebrare l’incoronazione di Giorgio V. L’architettura della città è un’armonica sovrapposizione fra il periodo coloniale inglese (1890-1965), i quindici anni di potere della minoranza bianca rodesiana che dichiarò unilateralmente indipendenza dal Regno Unito (1965-1980) e lo Zimbabwe indipendente (dal 1980). Una passeggiata sulla via pedonale First Street, la zona dello shopping a partire dagli Anni Venti, permette di attraversare centotrent’anni di storia in pochi metri. L’edificio più antico risale ai primi anni del XX secolo ed è stato costruito dall’architetto James Cope-Christie. Conservato in perfetto stato, attualmente accoglie un fast food. Si trovano poi l’Edward Building, edificio degli Anni Trenta in stile Art Déco e oggi sede della TV Sales&Home, e i Batanai Gardens, un complesso in mattoni ispirato ai templi indiani, costruito nel 1986 dall’architetto Michael Pierce e così chiamato dal termine “batanai”, che in Shona significa “viviamo insieme”, per omaggiare l’aspetto cosmopolita degli uffici che lo avrebbero occupato. Ogni angolo di First Street offre qualche sorpresa, come il bassorilievo dal richiamo cubista realizzato negli Anni Cinquanta dallo scultore bergamasco Edoardo Villa sull’edificio della CBZ Holding, una compagnia di servizi finanziari. L’artista, che era stato prigioniero di guerra in Sudafrica durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo la liberazione decise di rimanere nel continente, trovandovi grande spazio per la sperimentazione, al contrario dell’Europa, dove tutto gli appariva già provato, già fatto, ormai esaurito. Nelle vicinanze di First Steet, è interessante l’Eastgate Center, un centro commerciale con negozi e uffici costruito nel 1996. Vincitore di riconoscimenti internazionali, è il primo complesso commerciale al mondo di grande magnitudine (26mila mq) a utilizzare un sistema naturale di regolamento della temperatura, senza uso dell’aria condizionata. Ispirato dai formicai, l’architetto Michael Pierce ha voluto creare un ecosistema sostenibile anziché un conglomerato per persone che lavorano.

MODA, DESIGN E MERCATI IN ZIMBABWE

La Duchessa di Cambridge, Kate Middleton, li ha indossati spesso: i gioielli fatti a mano in argento sterling e oro a 18 carati di Patrick Mavros sono una sintesi fra lusso e semplicità. Secondo la leggenda, il business familiare dei Mavros, che oggi vanta negozi a Nairobi, alle Mauritius e a Londra, comincia negli Anni Ottanta, quando il signor

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HARARE

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BOTTOM DRAWER

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AVONDALE FLEA MARKET

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VICTORIA FALLS

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10 BULAWAYO

1 NATIONAL GALLERY OF ZIMBABWE nationalgallery.co.zw

2 GALLERY DELTA gallerydelta.com

3 FIRST FLOOR GALLERY HARARE firstfloorgalleryharare.com

4 VILLAGE UNHU

facebook.com/village1unhu

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FIRST FLOOR GALLERY elephantswalk.com

6 MOFFAT TAKADIWA STUDIO www.patrickmavros.com

7 PATRICK MAVROS GALLERY patrickmavros.com

8 KUMBA HOME & GIFTS kumbahomeandgifts.com

9 TENGENENGE ART COMMUNITY tengenengeartcommunity.com

10 NATIONAL GALLERY IN BULAWAYO nationalgallerybyo.com

11 NATIONAL GALLERY IN MUTARE nationalgallery.co.zw

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AFRICA UNITY SQUARE

FIRST STREET EAST GATE CENTER, HARARE

Mavros scolpisce a mano e regala alla futura signora Mavros degli orecchini. La galleria Mavros a Harare è un piccolo safari, con gioielli handmade dal design ispirato alla fauna del Paese. Celebre è la Ladies Pangolin Collection, che celebra il grazioso animale recentemente balzato, suo malgrado, agli onori delle cronache internazionali quale possibile veicolo della pandemia. Da anni Mavros è impegnato nella battaglia contro il bracconaggio dei pangolini in Zimbabwe, molto ricercati nel mercato clandestino internazionale per le sedicenti proprietà afrodisiache delle sue scaglie. Sul fronte del design, e a breve distanza dalla Mavros Gallery, la coppia danese composta da Allard & Esther Ilsink ha da pochi anni aperto la Kumba Home and Gifts, che propone accessori e oggetti per la casa molto ricercati, fatti a mano in Zimbabwe, il cui design rappresenta un punto d’incontro fra Europa e Africa. Una visita a Harare non può essere completa senza un passaggio per i mercati.


LA SCULTURA SHONA E LE SANZIONI DELL’ONU

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Durante gli Anni Settanta e Ottanta la scultura Shona fiorisce e diviene l’espressione artistica più conosciuta e apprezzata della Rodesia, e in seguito dello Zimbabwe. Le famiglie di scultori si tramandano il savoir-faire di generazione in generazione, mentre il campo di tabacco di Tengenenge non tornerà mai più alla sua originale funzione, nemmeno una volta revocate le sanzioni dell’ONU nel 1979. Ancora oggi è il punto di riferimento per la formazione di nuovi talenti, nonché una meta imperdibile per gli appassionati di scultura. Attualmente le sculture Shona fanno parte della collezione permanente di moltissimi musei, come il British Museum, che espone i lavori di Henry Munyaradzi (1931-1998), appartenente al gruppo di scultori di Tengenenge. La scultura ha rappresentato il mercato principale per gli artisti locali, fino almeno alla fine degli Anni Ottanta, quando cominciano ad avvertirsi i primi segni di affaticamento. Da una parte il mercato è saturo, dall’altra, fra le nuove generazioni di scultori, alcuni sentono la necessità di introdurre un elemento di criticità e discontinuità con la tradizione. Molti cercano infatti un dialogo con le complessità della società contemporanea dello Zimbabwe, dialogo che è assente nella scultura tradizionale, rivolta esclusivamente a preservare memoria, spiritualità e folklore. Così, accanto agli scultori “puristi”, alcuni giovani decidono di intraprendere un percorso sperimentale, fondendo la tradizione scultorea Shona con materiali che riflettono la società contemporanea e la vita odierna nelle comunità dello Zimbabwe. Lo scultore contemporaneo più rappresentativo di questa tendenza è Terrence Musekiwa, classe 1990, uno degli artisti che rappresenterà lo Zimbabwe alla Biennale di Venezia del 2022. Terrence appartiene alla terza generazione di scultori ed esprime perfettamente il ponte fra tradizione e modernità. Ogni suo lavoro comincia lavorando la pietra secondo la tecnica Shona, a cui però vengono aggiunti oggetti di provenienza industriale come cavi, metalli e plastica, che riflettono lo Zimbabwe moderno e che l’artista raccoglie per le strade. Musekiwa cerca così di tracciare il viaggio del popolo dello Zimbabwe dal recente passato basato su spiritualità e magia alle complessità della società contemporanea, affetta da problematiche politiche ed economiche, ma ancora profondamente legata ai valori tradizionali.

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Nel 1965 la Rodesia si dichiara unilateralmente indipendente dal Regno Unito, su iniziativa del Governo rodesiano di Ian Smith. L’ONU lo definisce un “regime minoritario razzista” e adotta sanzioni economiche contro la Repubblica di Rodesia. L’embargo colpisce anche le esportazioni di tabacco, costringendo molti imprenditori rodesiani, fra cui Tom Blomefield, a interromperne la produzione. Invece del tabacco, Blomefield decide di coltivare il suo hobby: la scultura. Coinvolgendo i braccianti delle sue piantagioni nella città di Tengenenge, a 150 chilometri a nord della capitale Salisbury (ora Harare), Blomefield trasforma il campo di tabacco in un atelier di scultura. I braccianti diventano scultori e la prossimità della proprietà di Blomefield alla Great Dyke – una diga naturale ricca di minerali e rocce serpentinitiche – offre un’opportunità unica per reperire la materia prima. Se Blomefield mette a disposizione spazi e risorse, i braccianti apportano la componente creativa, traendo ispirazione dalla tradizione religioso-spirituale locale, una fusione fra Cristianesimo, misticismo e antico folklore. Le opere degli scultori riproducono i valori solidi propri della cultura locale: il rispetto per le forze della natura, la centralità della famiglia, la fertilità femminile, la saggezza degli anziani. Parallelamente all’esperienza di Tengenenge, anche il primo direttore della Rhodes National Gallery (ora National Gallery of Zimbabwe), Frank McEwan, si interessa alla scultura, fondando un’apposita scuola nei primi Anni Sessanta. McEwan promuove la scultura della Rodesia nel mondo, organizzando esposizioni a New York (La nuova arte africana, MoMA, 1968), Parigi (Scultura contemporanea degli Shona d’Africa, Museo Rodin, 1971), Londra (Scultura Shona della Rodesia, Institute of Contemporary Arts, 1972). La scultura locale diviene internazionalmente conosciuta come Shona, dal nome dell’etnia maggioritaria dello Zimbabwe, anche se in realtà, sin dagli inizi, molti scultori appartengono ad altri gruppi etnici. Alcuni sono lavoratori migranti, giunti in Rodesia dai Paesi limitrofi in cerca di opportunità, come Amali Malola (1921-2015), partito dal Malawi per lavorare come bracciante stagionale nel campo di tabacco di Tengenenge. Malola non poteva immaginare che, complici le sanzioni dell’ONU, sarebbe diventato uno dei più grandi artisti rappresentativi della scultura tradizionale Shona.

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tengenengeartcommunity.com

Terrence Musekiwa, African Royal (Mambo), 2019. Courtesy l'artista & Catinca Tabacaru Gallery

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L’Upmarket di Bottom Drawer è un sofisticato mercato di prodotti alimentari locali, nel quale l’artista Enok Kolimbo espone regolarmente i suoi lavori: arazzi tradizionali con design moderno eseguiti con tecnica batik. Imperdibile è poi l’Avondale Flea Market, dove l’inventiva degli artigiani permette di comprendere appieno il significato del termine Shona “kukiya-kiya”, traducibile con “darsi da fare per arrivare a fine mese”. Come in una fiera delle invenzioni, vi si trovano oggetti molto curiosi, spesso kitsch, ma con una indiscutibile utilità, come le simpatiche giraffe di perline porta-carta igienica.

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LA RESISTENZA ATTIVA DELLA NATIONAL GALLERY

Per familiarizzare con la scena artistica di Harare è opportuno cominciare con una visita alla National Gallery of Zimbabwe, immersa nel verde degli Harare Gardens nel centro della città, che ospita una collezione permanente – un connubio fra pezzi di arte europea e africana – e numerose esposizioni temporanee. Fondata dall’amministrazione coloniale britannica nel 1957 con il nome di Rhodes National Gallery, la galleria esemplifica perfettamente la capacità di resilienza presente in questo Paese. Istituzione pubblica, negli anni la galleria è sopravvissuta a eventi decisamente destabilizzanti: la tormentata decolonizzazione dal Regno Unito, ottenuta con una controversa dichiarazione unilaterale di indipendenza proclamata dal Governo rodesiano bianco suprematista di Ian Smith (1965), il tramonto della Repubblica di Rodesia e la nascita dello Zimbabwe sotto la guida di Mugabe (1980), nonché il recente colpo di Stato che ne ha provocato la deposizione (2017). Questi intensi cambiamenti politici sono stati accompagnati da profonde oscillazioni economiche, con ben quattro cambi di valuta in soli quindici anni e la crisi inflazionistica del 2009, fra le più gravi che la storia mondiale ricordi. Malgrado tutto, non soltanto il museo è riuscito a resistere, ma anche ad avventurarsi in diverse iniziative di successo volte a connettere lo Zimbabwe al mercato artistico internazionale.

SPAZI D’ARTE PRIVATI A HARARE

Accanto alla National Gallery esistono importanti spazi gestiti da privati. Il decano è Gallery Delta, che ha da poco celebrato quarantacinque anni. Si tratta di un progetto dell’insegnante Helen Lieros, inizialmente concepito come spazio di esposizione per la scultura locale, divenuto in seguito un centro promotore delle arti visive. Molto più recente, ma altrettanto rappresentativa della scena artistica locale, è la First Floor Gallery Harare, una galleria di artisti e per artisti fondata nel 2009 e attualmente gestita da Marcus Gora e Valerie Kabov; è un autentico catalizzatore di eventi, formazioni, mostre, talenti, intorno al

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Moffat Takadiwa, Land of Coca-Cola and Colgate, 2019. Courtesy l'artista & Nicodim Gallery

Questi spazi sanno attrarre persone molto diverse sotto il profilo sociale, economico e razziale, cosa non scontata in un Paese come lo Zimbabwe. quale gravitano artisti locali e stranieri. Fra le varie iniziative, la galleria è impegnata a connettere gli artisti dello Zimbabwe fra loro e con quelli di altri Paesi africani. È membro promotore dell’Emerging African Art Galleries Association, che sostiene l’organizzazione strutturata di una scena africana e vuole offrire agli artisti un’alternativa autoctona

alle gallerie europee o americane. Attualmente First Floor sta partecipando, insieme ad altri spazi indipendenti africani, all’esposizione digitale African Galleries Now, in collaborazione con Artsy. Inoltre, da pochi mesi First Floor Gallery ha aperto uno spazio vicino alle cascate Vittoria, per connettere gli artisti della zona alla scena di Harare. In Zimbabwe, come nel resto del continente, le iniziative indipendenti si stanno moltiplicando. Nel 2012, ad esempio, una giovane coppia di artisti, Georgina Maxim e Misheck Masamvu, ha deciso di aprire la propria casa ad altri artisti, fondando la galleria-atelier Village Unhu. Questi spazi sono catalizzatori di diversità e talento e sanno attrarre persone molto diverse sotto il profilo sociale, economico e razziale, cosa nient'affatto scontata in un Paese come lo Zimbabwe, ancora profondamente turbato dal recente passato coloniale e


L’ASTRATTISMO DI HELEN TEEDE

Tom Tafadzwa, Bereaved Filaments, 2020 (particolare)

La spazzatura di questi sobborghi riflette una società che è stata violentemente colpita dalla globalizzazione.

intense siccità, ma dei contorti meccanismi di potere che portano l’uomo a cercare di comprenderla, alterarla e possederla, generando conflitti e cambiamenti climatici. L’artista si interroga sulla possibilità di creare nuove forme di dialogo fra l’uomo e la natura, basate su accettazione e rispetto. Spesso tratteggia delle figure umane che si dissolvono fragilmente nel paesaggio, nell’inutile tentativo di comprenderlo, incapaci di dominarlo. L’elemento figurativo emerge più prepotentemente nella sua serie più recente, che Helen ha intitolato Artemisia, ispirandosi alla dea greca protettrice della natura, alla pittrice Artemisia Gentileschi, nonché, curiosamente, al nome di una delle erbe tradizionali dello Zimbabwe. Helen spiega che questi lavori sono una sintesi fra la sua identità africana e la residenza a Venezia e riflettono il diverso approccio al corpo, soprattutto al corpo femminile, che l’artista ha percepito nella cultura italiana rispetto a quella africana e che l’ha spinta a reinterrogare la relazione fra corpo e natura. Helen ricerca un universo femminista, egalitario e orientato verso la comunità, in contrasto con le scelte patriarcali e capitaliste che hanno segnato il nostro pianeta fino ad oggi.

LA SPAZZATURA DI MOFFAT TAKADIWA

Utilizzare rifiuti per creare opere d’arte non è certo una novità. Di solito è una scelta, ma per alcuni è una pratica nata dalla necessità e dalla speranza di recuperare fra la spazzatura qualcosa di utile per creare opere d’arte, quando pennelli, carta e colori scarseggiano. È in questo modo che Moffat Takadiwa (1983) ha cominciato a familiarizzare con i rifiuti delle periferie di Harare e ne ha colto l’espressione dello Zimbabwe contemporaneo: il regno del Colgate e della Coca-Cola. La spazzatura di questi sobborghi riflette una società che è stata violentemente colpita dalla globalizzazione e che, pur essendo formalmente decolonizzata, rimane soffocata, letteralmente sommersa, dai grandi brand occidentali, che dominano il commercio e la cultura. Fra i rifiuti di Mbare, un quartiere densamente popolato nella parte suburbana di Harare, Moffat recupera lattine, scatolette, tastiere e le lavora secondo una tecnica di tessitura della tradizione korekore, il gruppo etnico del nordest dello Zimbabwe da cui proviene l’artista. Questa tecnica segue regole specifiche, alternanze e simmetrie che esprimono un altro linguaggio, alternativo ai grandi centri di potere economico globale. Moffat vanta numerose personali in città come Los Angeles, Parigi, Milano ma, malgrado le molteplici possibilità di scelta ottenute grazie al successo internazionale, continua a vivere a Mbare, con cui ha sviluppato una relazione di interdipendenza. Da un lato, Moffat necessita di questo sobborgo, della sua confusione, dei suoi tre grandi mercati e della sua spazzatura per continuare ad

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Anche dopo aver ottenuto successo a livello internazionale, la maggior parte degli artisti continua a vivere in Zimbabwe, malgrado le difficoltà del Paese. Il legame con le proprie radici, tema ricorrente per gli artisti zimbabwani, viene declinato in molti modi diversi: mentre alcuni esprimono la fascinazione verso la natura, la magia, la tradizione, altri si concentrano sui sobborghi di Harare per comprendere ed esprimere le dinamiche sociali contemporanee. I lavori degli artisti ci restituiscono un’immagine articolata della società dello Zimbabwe – che lo accumuna con molti altri Paesi del continente africano –, stretta fra il desiderio di connettersi con il mondo e le conseguenze più nefaste della globalizzazione. Abbiamo riflettuto su questi temi con tre artisti di Harare, in diverse fasi della loro carriera. La natura è sempre stata la protagonista dei lavori di Helen Teede (1988), artista di First Floor Gallery Harare che vive fra Venezia e Harare e i cui lavori sono stati esposti

in Italia al Traffic Festival di San Lorenzo in Campo. Helen esplora l’articolata relazione fra la Terra e l’essere umano. I suoi lavori dal sapore astrattista catturano le emozioni suscitate dalla spettacolare natura del suo Paese, le sue riserve, le cascate Vittoria, i tramonti mozzafiato. In Zimbabwe, prima di iniziare una nuova tela, Teede cammina per giorni nei parchi naturali, raccogliendo rocce e altri materiali, in una fase che l’artista chiama il suo “outside studio”. Tornata in atelier, espone la tela bianca alle intemperie per giorni, per poi posizionarla orizzontalmente e disporvi i materiali raccolti durante le escursioni, perché direzionino il colore. Malgrado l’affascinante richiamo alla bellezza misteriosa della natura, le sue opere presentano un elemento sinistro e angosciante. Splendida e accattivante, la stessa terra è anche un catalizzatore di aggressività, non soltanto per la violenza delle piogge o per le

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post-coloniale. Ma è proprio in luoghi come Harare che si comprende fino in fondo il potere di aggregazione dell’arte, che permette di sgretolare le differenze fra le persone, unendole attraverso la passione comune. Gli artisti stessi sono molto diversi fra loro, ma hanno deciso di uscire insieme dal circolo vizioso delle divisioni e degli stereotipi, comunicando in una lingua differente, per risolvere attraverso le arti visive i problemi che milioni di parole non sono state in grado di curare.

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analizzare e interpretare la società. Dall’altro, poiché a Mbare non vi sono molte opportunità per i giovani artisti, Moffat sta trasformando il suo studio in un distretto artistico dove ospitare art residencies e connettere gli artisti locali alla scena internazionale.

IL GIOVANISSIMO TALENTO DI TOM TAFADZWA

Anche i giovanissimi studenti di arti visive cercano incessantemente un dialogo con la società complessa e contraddittoria nella quale vivono, esprimendo la propria inquietudine per il futuro, resa ancora più intensa e drammatica dagli eventi dell’ultimo anno. Tuttavia, intrattenersi con gli studenti della National Gallery of Visual Arts and Design School nel sobborgo di Mbare, una delle zone meno abbienti di Harare, offre speranza sul potenziale delle nuove generazioni nel Paese. La scuola è stata aperta nel 1981 con il supporto della British American Tobacco, ereditando l’esperienza della prima scuola d’arte del Paese, istituita da Frank McEwan alla fine degli Anni Cinquanta. La National Gallery organizza regolarmente la Green Shots Exhibition, in cui ospita i lavori degli studenti, guidandoli verso il mercato dell’arte.

Intrattenersi con gli studenti della National Gallery of Visual Arts and Design School, nel sobborgo di Mbare, offre speranza sul potenziale delle nuove generazioni. Raphael Chikukwa. Courtesy National Gallery of Zimbabwe

Fra gli studenti che abbiamo incontrato nella scuola colpisce il ventenne Tom Tafadzwa, le cui opere presentano crude considerazioni sulla società, dove manca la coesione fra gli individui, rappresentati come enormi mani o grandi piedi, espressione di una presenza nel mondo priva di interiorità e di sentimenti. Nel suo ultimo lavoro, Bereaved Filaments, esprime l’effetto disfunzionale della pandemia sulla società attraverso la metafora della fornitura elettrica, la cui intermittenza è un grande problema per gli zimbabwani. Il giovane artista constata in modo sconfortante che ogni Paese, ma anche ogni individuo, è rimasto solo e isolato nel proprio dolore e lutto, circondato da un’umanità inutile, incapace di trasmettere empatia, come fili elettrici – che Tom ha rappresentato attraverso un collage di fili di lana – che non portano elettricità. L’amara ironia e l’aspetto caricaturale dei suo lavori trasmette solitudine e sfiducia, ma è anche l’espressione di una generazione che, per sempre marcata dalla pandemia, chiede un profondo cambiamento.

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Inaugurata dalla Regina Madre nel 1957, la National Gallery of Zimbabwe ha avuto una capacità straordinaria di resistere a tutto quello che il Paese ha vissuto negli ultimi settant’anni, preservando una continuità culturale e artistica con il passato, malgrado i conflitti e le divisioni di cui il Paese ha sofferto. La galleria ha oggi tre sedi nel Paese: nella capitale Harare e nelle città di Bulawayo e Mutare. Inoltre, da dieci anni, grazie alla guida di Raphael Chikukwa, zimbabwano formatosi a Londra, il museo sta connettendo la scena artistica locale con il mercato internazionale. Una delle prime iniziative di Chikukwa è stata garantire allo Zimbabwe, dal 2011, una presenza fissa alla Biennale di Venezia. Anche nel 2022 lo Zimbabwe avrà un padiglione alla Biennale di Venezia. Quali sono le challenge per un Paese africano nel partecipare alla Biennale? La partecipazione dei Paesi africani alla Biennale di Venezia è attesa da molti anni. Spesso ci lamentiamo della mancanza di opportunità, ma dobbiamo anche essere consapevoli che queste opportunità non arrivano senza sforzi e che dobbiamo lavorare per coglierle. Le istituzioni culturali in Africa hanno il ruolo e la responsabilità di sostenere gli investimenti nell’arte e di avviare la volontà politica in questa direzione.


NATIONAL GALLERY OF ZIMBABWE. INTERVISTA A RAPHAEL CHIKUKWA

La partecipazione a piattaforme internazionali come la Biennale può cambiare l’immagine dell’Africa? L’Africa è spesso rappresentata come un bambino povero e bisognoso, ma noi non siamo più i bambini che piangono. Partecipare a eventi come la Biennale di Venezia ci permette di raccontare la nostra storia, che è stata a lungo raccontata da altri. Si tratta di un’opportunità che cambia la vita per gli artisti e i curatori africani, permettendo loro di demistificare i preconcetti sul nostro continente e di mostrarlo sotto la nostra prospettiva. Non vogliamo rimanere passeggeri della nave: vogliamo guidare il nostro destino. Le immagini che vediamo sulle agenzie di news internazionali non rappresentano davvero l’Africa. La partecipazione degli artisti africani a eventi come la Biennale è fondamentale. Non abbiamo mai raccontato la storia dell’Occidente: perché l’Occidente dovrebbe continuare a voler raccontare la nostra storia? A proposito di indipendenza, ci parli di Zimbabwe41? Zimbabwe41 è una nuova collezione permanente con tutte le opere che la galleria ha acquisito dall’indipendenza del Paese, quarantuno anni fa, a oggi. All’interno di questa collezione stiamo sviluppando anche una “collezione Biennale di Venezia”, che raccoglie le opere del Padiglione Zimbabwe esposte a Venezia negli ultimi dieci anni. È un modo per celebrare la continua partecipazione dello Zimbabwe alla Biennale. Stiamo anche cercando di ottenere un budget per acquisire opere di altri artisti africani in mostra alla Biennale. Nella maggior parte dei casi, queste opere vengono acquistate da istituzioni e collezionisti occidentali. Desideriamo invertire questa tendenza e far tornare quelle opere in Africa. Come la pandemia ha influito sul vostro lavoro? Oltre alla tragica perdita dei nostri cari, la pandemia ci ha

Nel 2017 la National Gallery ha organizzato la seconda conferenza internazionale sulla cultura africana e stai pianificando la terza, che si terrà nel novembre 2021 a Harare. Quale sarà la tematica? Affronteremo il lungo, oscuro e doloroso problema del rimpatrio del patrimonio e degli archivi africani, saccheggiati durante l’era coloniale, facendo seguito all’impegno ufficiale del presidente francese di aprire la strada al rimpatrio dell’eredità africana attualmente conservata nei musei occidentali. A volte il contributo dell’Africa alla civiltà viene messo in dubbio e veniamo etichettati come un “popolo primitivo”. Se così fosse, allora perché i musei in Occidente non sarebbero disposti a restituire i nostri oggetti? Questi oggetti ci appartengono e il loro significato per il popolo africano non è stato pienamente realizzato a causa della loro prigionia nei cosiddetti “musei” in Europa e in America. L’accessibilità di questi oggetti per gli africani è limitata perché affrontiamo restrizioni di viaggio, la necessità di sottoporci a una complessa procedura di visto, umiliazioni alle frontiere... Ricercatori, artisti e curatori africani devono dichiarare i loro parenti, cani e gatti, compresi i loro antenati morti più di duecento anni fa solo per ottenere un visto di una settimana o un mese.

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Quanto è importante l’indipendenza culturale? L’indipendenza artistica e culturale dell’Africa è stata uno dei principi ispiratori dei padri fondatori del movimento di liberazione africano, ed è tanto importante quanto la nostra indipendenza politica ed economica. Questa indipendenza culturale è stata rivendicata per molti anni dalla diaspora di curatori africani, ad esempio Okwui Enwezor, il primo curatore africano della Biennale di Venezia nel 2015, Simon Njami, Sallah Hassan, Olu Oguibe, Gilane Tawandros e molti altri. Sono felice di vedere così tante iniziative fiorire nel continente negli ultimi anni, attraverso l’impegno pubblico, ma anche con progetti artistici indipendenti, come la First Floor Gallery di Harare, il Nairobi Art Trust, la Biennale di Kampala, la Biennale di Dakar, i Rencontres di Bamako, Cape Town Art Fair, Joburg Art Fair, Art X Lagos e la Biennale di Lagos...

privato anche del contatto fisico: ci mancano gli abbracci, ci mancano i baci, ci manca incontrarci alle fiere e alle biennali di tutto il mondo. Ma è stata anche una chiamata per il mondo intero, un’opportunità di rinascita, di ripensamento, per riflettere e agire fuori dagli schemi. Per noi la pandemia ha rappresentato una spinta per recuperare il ritardo con il resto del mondo nel campo della digitalizzazione. Ad esempio, abbiamo potuto partecipare a eventi virtuali con istituzioni come il MoMA e Art Basel, cosa che sarebbe stata molto più complicata e costosa – per noi e per l’ambiente – prima della pandemia. Abbiamo anche avviato una serie di discussioni online chiamate Harare Conversations e lanciato mostre virtuali sul nostro sito web. Uno dei nostri attuali progetti virtuali è una mostra fotografica sul ciclone che ha colpito il nostro Paese due anni fa e le sue conseguenze sulla popolazione. Il progetto fotografico riflette anche sulla deforestazione e sui cambiamenti climatici come cause profonde dei disastri naturali. Sono convinto che questo sia il ruolo e la funzione dell’arte: raccontare le storie delle persone.

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Convincere i miei concittadini e le istituzioni della necessità di investire in un Padiglione dello Zimbabwe è stata per me una sfida, ma dopo più di dieci anni di presenza alla Biennale sono orgoglioso dei risultati. Il sostegno alle nostre iniziative è benvenuto, ma vogliamo essere noi a dettare le regole. Saremo per sempre grati a chi ha appoggiato la prima apparizione dello Zimbabwe alla Biennale di Venezia: il British Council, la Missione dell’Unione Europea in Zimbabwe, l’Ambasciata italiana, l’Ambasciata svizzera, Culture France, il Museo di Monaco e Culture Fund Trust Zimbabwe, solo per citarne alcuni.

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Si tratta di un discorso “limitato” alle opere d’arte? Ci interessa anche la questione del rimpatrio dei resti umani attualmente conservati nei musei della scienza in Occidente, spazi che potrebbero essere descritti come “scene del crimine” di quanto accaduto durante la colonizzazione. Il loro rimpatrio può contribuire al processo di guarigione delle cicatrici coloniali. Dovremmo anche pensare al trattamento di questi resti mortali una volta che ci saranno restituiti, fornendo loro una degna sepoltura. Sarà importante affrontare questa discussione a Harare, poiché faciliterà lo scambio di idee all’interno del continente e la crescita di un dialogo continuo africano, su chi siamo come africani. A volte ho l’impressione che io e i miei colleghi africani ci incontriamo più in Europa che in Africa… Credo nella connessione Africa-Africa, che è la chiave per realizzare i nostri sogni, piuttosto che i sogni altrui. nationalgallery.co.zw | labiennale.org

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COREA DEL NORD. FARE ARTE E ARCHITETTURA IN DITTATURA

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GIORGIA CESTARO [ storica dell’arte | dottoranda in storia dell’architettura ]

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COREA DEL NORD

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Mirae Scientist Street, Pyongyang. Photo © Cristiano Bianchi

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PYONGYANG

ESSERE ARTISTI IN COREA DEL NORD

Come ci racconta Nicholas Bonner – fondatore di Koryo Tour and Studio, scrittore e curatore con un piede a Pechino e uno a Pyongyang –, gli artisti nel Paese godono di un grande riconoscimento sociale, strutturato in un ranking che può portarli a diventare delle celebrità. Su una scala che va da 5, considerato il valore più basso, a 1, gli artisti vengono valutati ogni tre anni sulla base della loro produzione creativa, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. A influire positiva­‑ mente sul giudizio è la partecipazione e selezione a esposizioni nazionali, mentre il comportamento morale giudicato poco virtuoso può e far retrocedere l’artista a una posizione inferiore. Al culmine della carriera, gli artisti possono aspirare ai titoli di Artista Meritevole, a quello di Artista del Popolo, ambendo a vincere il Premio Kim Il Sung, il più alto riconoscimento artistico del Paese. Alla fama, però, non corrisponde un tenore di vita elevato. I benefici stanno nell’aver accesso a uno studio più grande e nella possibilità, di fatto negata al resto della popolazione, di viaggiare per mostre ed eventi espositivi (anche se i viaggi sono limitati quasi esclusivamente alla Cina). Al di là

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osa significa essere artisti in un Paese come la Corea del Nord, che ritiene un affare di Stato persino il taglio di capelli dei propri cittadini? Come si può facilmente intuire, l’arte da quelle parti non rappresenta una rielaborazione personale o una risposta a istanze sociali o a un sentire interiore; le arti figurative rappresentano il mezzo attraverso cui educare e instillare valori rivoluzionari nella collettività. Non deve sorprendere, dunque, se il simbolo del Partito dei Lavoratori vede spuntare – in mezzo al tradizionale binomio falce e martello – un pennello da calligrafia, in rappresentanza degli artisti e degli intellettuali.

di questi aspetti, il vero privilegio sta nella conquista di una maggiore autonomia nelle scelte stilistiche e iconografiche.

Gli artisti vengono valutati ogni tre anni sulla base della loro produzione creativa, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo.

FORMAZIONE E CARRIERA ARTISTICA

Come per qualsiasi altra carriera “pubblica” – superfluo specificarlo, visto che qui il concetto di “privato” non esiste –, gli aspiranti artisti devono superare una dura selezione. Ai candidati eccellenti è riservato un posto alla Pyongyang University of Fine Art, gli studenti meritevoli potranno accedere ad altre accademie della capitale, mentre il resto dei candidati potrà frequentare college provinciali che non sono reali accademie, bensì istituti d’arte in cui la pittura e la scultura trovano posto assieme ad altre discipline come la danza.

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La formazione di un artista è strettamente centrata sull’apprendimento accademico, basato sulla padronanza delle tecniche tradizionali come il chosonhwa, sulla conoscenza dei materiali e dei valori estetici locali. Il curriculum della Pyongyang University prevede sezioni dedicate alla pittura a inchiostro, alla pittura a olio, alla scultura, alla ceramica, alla pittura murale, nonché alle declinazioni delle arti visive legate all’industrial design e alla grafica. L’intera carriera di un artista nordcoreano è dettata dalla competizione, tant’è che l’aver ottenuto la laurea in un istituto della capitale non assicura un ambìto posto lavorativo a Pyongyang. Solo gli artisti migliori vengono selezionati dagli Studios della capitale – autentiche imprese artistiche statali –, mentre gli altri vengono assegnati a dipartimenti artistici provinciali. Ciò che accomuna tutti è che in Repubblica Popolare Democratica di Corea nessuna espressione artistica è fine a se stessa. Come si legge nel Korean Fine Arts, uno dei compendi che inquadrano gli aspetti della vita all’interno della Juche – l’ideologia ufficiale del Paese –, “le nostre arti devono essere popolari nella misura in cui rispondono ai sentimenti del nostro popolo: devono essere rivoluzionarie e servire gli interessi del Partito e della Rivoluzione”.

L’artista Im Hyok ritratto davanti alla sua opera realizzata per l’Asia Pacific Triennial of Contemporary Art © Koryo Studio

In Repubblica Popolare Democratica di Corea nessuna espressione artistica è fine a se stessa.

ARTE O PROPAGANDA?

Date le premesse, viene chiedersi dove stia il confine fra arte e propaganda. “La creatività degli artisti nordcoreani sta all’interno dei limiti imposti dal Realismo Socialista, inteso come stile e strumento di rappresentazione, ed è circoscritta dal fatto che tutti gli argomenti rappresentati rimandano sempre a contenuti politici e ideologici, perciò sono soggetti ad approvazione del Partito”, ci spiega Bonner. “Nella mia collezione ho dipinti di contadini eroici che sfoggiano raccolti eccezionali, costruttori che lavorano alla realizzazione di nuovi cantieri, operai siderurgici. Soggetti molto simili tra loro sia nell’iconografia che nella composizione, rimaste praticamente invariate dagli Anni Cinquanta a oggi. La creatività dell’artista sta nel declinare il contenuto e la composizione di un’opera all’interno di un limitato formulario politicamente accettato”.

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Laureato in Architettura del Paesaggio e lecturer presso la Leeds Metropolitan University, durante il suo primo viaggio studio in Cina Nicholas Bonner ha visitato la Corea del Nord, decidendo poi di trasferirsi a Pechino e fondare Koryo Tour, l'agenzia di viaggi più autorevole e longeva che opera con la RPDC, da cui è nata poi Koryo Studio. Autore di numerose pubblicazioni, ha co-diretto diverse pellicole, tra cui i tre premiati documentari sul Paese: The Game of Their Lives (2002), A State of Mind (2004) e Crossing the Line (2006). Curatore di numerose mostre, commissiona e colleziona arte nordcoreana. Quali sono stati i primi progetti culturali a cui hai collaborato? Nel 1993 abbiamo fondato Koryo Tour con sede a Pechino. Mi sono trasferito qui dal Regno Unito perché Pechino rappresentava l’unico accesso diretto alla Corea del Nord. Aver fondato l'agenzia di viaggi costituiva la prerogativa sia per ottenere un visto che per entrare e uscire dal Paese. I primi progetti artistici sono stati delle pellicole: nel 1996 abbiamo girato il nostro primo documentario di viaggio in Corea del Nord. Dal 2002 al 2006, insieme a VMS Productions e alla BBC, abbiamo prodotto molti film e documentari, tra cui il lungometraggio Comrade Kim goes Flying, premiato al Toronto International Film Festival del 2012 e primo film nordcoreano a essere mostrato al pubblico sudcoreano. Un altro tra i primi docu-film a cui ho lavorato è The Game of Their Lives, una pellicola sulla squadra di calcio nordcoreana che nel 1966 ha battuto l’Italia in quello che divenne noto come il più grande shock nella storia della Coppa del Mondo.


ARTE, ARTISTI E PROGETTI. PAROLA A NICK BONNER

Come è nata l’idea di commissionare, esporre e vendere opere di artisti della DPRK? Verso la fine degli Anni Novanta ho iniziato a proporre agli artisti locali commissioni su piccola scala lavorando con i principali art studio di Pyongyang. Con il tempo sono riuscito a costruire rapporti di fiducia reciproca con i manager degli studi, tanto che oggi posso trattare commissioni direttamente con gli artisti. Piuttosto che acquistare opere già fatte, la politica di Koryo è quella di cooperare con gli artisti e progettare commissioni ad hoc, con lo scopo di creare programmi che diano margini di libertà di espressione e sperimentazione per gli artisti.

Come è nato il progetto The Beautiful Future e quale è stata la risposta degli artisti? È il risultato di una discussione nata con il designer Dominic Johnson-Hill. Parlando della crescita economica della Cina, e vivendola in prima persona quali residenti a Pechino dal 1993, ci siamo chiesti come gli artisti nordcoreani avrebbero interpretato lo sviluppo cinese e come lo avrebbero conciliato con i loro ideali comunisti. Partendo da input visivi da noi forniti, un gruppo di artisti nordcoreano, estraneo al contesto cinese, ha lavorato alla realizzazione di una loro immagine della Cina, restituendo ai cinesi stessi uno sguardo nuovo suo loro Paese. The Beautiful Future si compone di otto lavori che ritraggono luoghi decontestualizzati dal tempo, in cui la celebrazione del socialismo stride con le comodità della vita moderna. La mostra è stata inaugurata durante la Beijing Design Week del 2013, per poi essere trasferita alla Art Labor Gallery di Shanghai e al Taipei Museum of Fine Arts di Taiwan. Le immagini delle opere sono diventate virali, riscuotendo un enorme successo soprattutto in Cina, dove sono state il contenuto di maggior tendenza sui social media per tre giorni consecutivi, registrando oltre 300 milioni di utenti interessati al tema.

Com’è lavorare con artisti provenienti da un background culturalmente così diverso? La parte più interessante del mio lavoro consiste nello sviluppare progetti con gli artisti locali e vedere le loro interpretazioni a partire da un nostro input. I risultati non sono sempre assicurati, ma in molti casi, com’è accaduto per i progetti The Beautiful Future, Utopian Tours, Heroines and Villains, le opere hanno superato le aspettative. I nostri programmi non contengono mai tematiche considerate politicamente sensibili, in ogni caso cerchiamo di creare progetti che spingano gli artisti a uscire, per quanto possibile, dai rigidi schemi entro cui sono soliti lavorare. Per i progetti più sensibili chiediamo all’artista di usare uno pseudonimo, tutelando la provenienza dell’opera d’arte con il timbro di Koryo Studio.

Ci sono mai state difficoltà a lavorare in un contesto così particolare? Si deve partire dal presupposto che si lavora con artisti che non hanno quasi nessuna esperienza del mondo esterno e che si trovano a proprio agio solo con la propria sensibilità estetica. A questo si deve aggiungere una buona conoscenza dei limiti entro cui è possibile agire. Stabilito questo, si possono trovare le modalità per cercare di spingere gli artisti a lavorare fuori dalla loro comfort zone. Nonostante la mia lunga esperienza, sono incappato in due grossi problemi che hanno compromesso alcuni progetti. In entrambe le occasioni le criticità si sono manifestate all’ultimo minuto, dopo anni di lavoro e sono sorte sempre da parte degli studi, mai da singoli artisti. Il primo problema è nato su una questione di prezzi: un art studio ha improvvisamente alzato il prezzo delle opere che avevo già saldato, facendo fallire l’intero progetto della mostra. Qualche anno dopo, mi è stato offerto di acquistare un certo numero di opere nonostante fossero già mie, cosa che mi ha piuttosto irritato. L’altro “incidente” è un po’ più delicato e preferisco rimandare il racconto.

Rispetto al fortunato progetto Underwater & Space: The

koryogroup.com

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Com’è la scena artistica emergente in Corea del Nord? Ti viene in mente qualche nome in particolare? Come ogni Paese, anche la Corea del Nord ha i suoi artisti emergenti, dotati di talento e audacia, palpabili anche oltre le rigide regole del regime. Tra questi, Choe Chang Ho si distingue per la sua incredibile capacità di rappresentare gli argomenti dettati dal protocollo, riuscendo a gestire la composizione e il tema in maniera personale. È cresciuto nel nord del Paese e mi è stato detto che il suo stile nel disegnare riflette tutta l’energia e il rumore della fabbrica in cui lavorava suo padre e nella quale praticava il disegno da ragazzo. È uno degli artisti più dotati e spero che vedremo presto il suo lavoro anche fuori dai confini nazionali.

Future is Bright, come hai incontrato l’artista Kim Guang Nam e qual è stata la sua reazione a questa commissione? Nell’agosto del 2012 ho fatto visita a Kim Guang Nan, un artista specializzato nell’incisione su linoleum con cui avevo già lavorato. Sulla sua scrivania c’era un fumetto, probabilmente di suo figlio, che parlava dello spazio. Questo input proiettò entrambi nel passato, a quando eravamo due bambini degli Anni Sessanta-Settanta e ci trovavamo ai due poli opposti della Guerra Fredda. Avevamo però qualcosa in comune: come tutti i bambini del tempo, eravamo affascinati dal tema del viaggio nello spazio. Abbiamo quindi creato assieme un portfolio di 17 incisioni su linoleum che reinterpretassero questi sentimenti di fascinazione nostalgica. Kim ha evitato qualsiasi contenuto politico, raffigurando il tema nella più ampia cornice concettuale del lavoro umano in un ambiente vasto, ostile ma affascinante.

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Ricordi il primo incontro con un artista nordcoreano? Uno dei primi è stato Son U Yong, che al tempo era già molto famoso, avendo ottenuto l’altissimo riconoscimento di Artista del Popolo. Un artista dotato di enorme talento, le cui doti si possono apprezzare soprattutto nei dipinti di paesaggi montani, in cui si riesce a distinguere il suo stile personale. Purtroppo è morto relativamente giovane, ma il suo ricordo e la sua fama sono già stati immortalati nei nuovi capitoli di storia dell’arte del Paese.

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ARCHITETTI CHE GUARDANO ALLA COREA DEL NORD. INTERVISTA A CRISTIANO BIANCHI E KRISTINA DRAPIC Cristiano Bianchi ha fondato lo Studio ZAG, con sede in Toscana e a Pechino. Pratica la fotografia di architettura come attività collaterale e metodo di studio, all’interno di un percorso di ricerca incentrato sulle trasformazioni sociali e urbane in atto in Asia. Kristina Drapić è un’architetta e graphic designer serba. Appassionata di comunicazione e rappresentazione grafica dell’architettura, da diversi anni svolge attività di “esploratrice urbana”, incentrata sul rapporto tra architettura, società e ideologia. Il suo lavoro è focalizzato sullo sviluppo delle periferie delle megalopoli cinesi e sulla morfologia della “città generica” asiatica. Com’è nata l’idea di visitare la Corea del Nord? In quel periodo vivevamo entrambi a Pechino e stavamo indagando lo sviluppo e le grandi trasformazioni delle metropoli asiatiche. Pyongyang rappresentava un unicum di grande interesse in questo panorama. Subivamo, inoltre, una certa fascinazione per l’idea di “pianificazione totale”, una specie di sogno proibito per gli architetti di tutte le epoche. Qual è stata la risposta nordcoreana al vostro libro Model City Pyongyang? Purtroppo, a ora, non c’è stata in Corea del Nord alcuna forma di diffusione del nostro libro. Sia la mostra che i workshop che avevamo progettato di organizzare a Pyongyang in collaborazione con l’Università di Architettura locale sono saltati a causa della pandemia. In ogni caso, gli architetti coreani con cui abbiamo avuto modo di interagire si sono dimostrati molto interessati al nostro lavoro. Quanto alla risposta delle autorità nordcoreane, ottenere l’approvazione del progetto editoriale non si è rivelato troppo difficile. L’architettura, infatti, non è considerata argomento sensibile. La parte più complicata è stata ottenere le autorizzazioni per accedere agli edifici normalmente chiusi al pubblico. Ci sono state limitazioni al vostro lavoro di studio e indagine? Abbiamo dovuto attenerci a regole ferree che hanno enormemente condizionato la nostra indagine fotografica: non si possono ritagliare le immagini dei leader o dei loro slogan, che devono sempre comparire nella loro interezza, né fotografare i complessi residenziali da vicino. Dovevamo chiedere il permesso prima di fotografare le persone, mentre è proibito fotografare i militari. A volte ci veniva addirittura impedito, senza motivo apparente, di attraversare la strada per ottenere un angolo di ripresa migliore. È stato molto importante rispettare queste restrizioni, in quanto le nostre guide sarebbero state ritenute responsabili di eventuali violazioni. Comprendere e accettare le regole come parte dell’esperienza di questa diversa realtà ci ha portato a guadagnare la fiducia delle nostre guide, gli unici coreani con cui abbiamo avuto l’opportunità di interagire. C’è stata l’interazione con la comunità locale? La reciproca fiducia stabilita con le nostre guide ci ha dato un certo margine di libertà nello scattare fotografie e ci ha permesso di instaurare un rapporto umano più stretto con loro. Abbiamo avuto modo di parlare più liberamente e siamo rimasti stupiti da alcune conversazioni che abbiamo avuto con loro, come quella in cui ci è stato chiesto, con molta circospezione, se Michael Jackson fosse davvero morto. Altra indimenticabile occasione si è presentata a novembre 2016. Eravamo a Pyongyang durante le elezioni americane, senza accesso alle notizie,

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quando le nostre guide sorprendentemente ci hanno informati dell’elezione di Donald Trump, cui è seguita un’inaspettata conversazione sulla politica americana. Qual è stata, invece, la risposta occidentale al vostro libro e l’atteggiamento degli addetti ai lavori nei confronti dell’architettura nordcoreana? L’architettura nordcoreana suscita interesse in quanto è ancora molto poco conosciuta. Nonostante si tratti di un libro decisamente di nicchia, la risposta del pubblico è stata molto buona anche dal punto di vista commerciale e questo ci fa pensare che abbia coinvolto una audience più ampia. Il nostro intento era proprio quello di aprire una finestra di conoscenza su una realtà sociale e architettonica ancora in larga parte sconosciuta e spesso fraintesa. Abbiamo dovuto però lottare con molte realtà occidentali in cui a volte prevalevano comportamenti e logiche di boicottaggio verso qualsiasi tipo di contenuto tangenziale alla Corea del Nord. Durante le presentazioni del libro abbiamo subito forti critiche, mentre per noi questo progetto editoriale vuole solo essere un’occasione di scambio culturale e di conoscenza reciproca. Avete avuto modo di rapportarvi con architetti locali? Abbiamo incontrato due architetti che avevano entrambi studiato a Roma. Con loro abbiamo avuto una interessantissima discussione sulla difficoltà di applicare in patria concetti legati alla conservazione e al restauro, nozioni acquisite in Italia ma considerate incompatibili con i dettami dell’architettura locale. A Pyongyang è in corso una imponente campagna di ristrutturazione del patrimonio architettonico che vede l’adozione di un approccio opposto a quello europeo. Materiali ed elementi originali, spesso di grande pregio, vengono smantellati e sostituiti in favore di un rinnovamento totale. Nel nostro ultimo viaggio, abbiamo intervistato un architetto impegnato in una grande progetto di ricostruzione a nord del Paese, a seguito di una grave alluvione. È emerso come le recenti direttive di Kim Jong Un, in materia di ristrutturazione, spingano il Paese verso una “rivoluzione verde” (necessità dettate più da ragioni di autosufficienza energetica che da ragioni di ordine ecologico). La cosa più curiosa che ricordiamo di quell’intervista era l’atteggiamento dell’architetto nordcoreano, il quale era molto più interessato a porci domande che a rispondere ai nostri quesiti. La sua era una grande curiosità per il mondo esterno, in quella che era per lui una rara occasione di interazione con occidentali. Cristiano Bianchi & Kristina Drapic – Model City Pyongyang Thames & Hudson, Londra 2019 Pagg. 223, € 28 ISBN 9780500343531 thamesandhudson.com


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Le opere nordcoreane sono autentiche espressioni artistiche o piuttosto meri strumenti di propaganda?

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Veduta dei complessi residenziali di Pyongyang. Photo © Cristiano Bianchi

Parlando della sua collezione, Bonner ci spiega che le opere degli Anni Cinquanta e dei primi Sessanta sono particolarmente interessanti in quanto mostrano qualche timido segno di sperimentazione e una diversificazione tra gli stili adottati dagli artisti. In quegli anni i pittori erano ancora agli albori dell’elaborazione di un linguaggio figurativo che rispondesse all’ideologia del neonato Paese, il che permetteva margini di personalizzazione. L’arte, in quanto espressione del popolo, progredisce esclusivamente in risposta a cambiamenti interni del Paese e del partito. La comparsa di nuovi elementi iconografici, compositivi o stilistici non è altro che la risposta a determinati cambiamenti sociali, soluzioni che vengono declinate all’interno dei canoni del Realismo Socialista. Nonostante ciò, esiste ancora un microspazio di originalità. L’artista Pak Hyo Song, che gestisce un’unità di pittura presso il Mansudae Art Studio, ha dichiarato che non è esattamente vero che non ci sia spazio per le scelte personali: “Alcuni artisti preferiscono lo stile moderno caratterizzato da pennellate energiche e forti contrasti, mentre altri rimangono più legati alla tradizione, privilegiando uno stile più accademico”. Lo spazio di manovra è direttamente

essere solo il Partito dei Lavoratori. Ad acuire la carica ideologica e la lettura politica delle opere nordcoreane contribuisce anche la posizione dell’Occidente, ben rappresentata da due avvenimenti. A Vienna, nel maggio del 2010, si è tenuta la mostra Flowers for Kim II Sung – Art and Architecture from the DPRK, organizzata dal MAK in collaborazione con la Korean Art Gallery di Pyongyang e la Paektusan Academy of Architecture, il più importante design and research institute della Corea del Nord. L’allora direttore artistico del MAK, Peter Noever, aveva dichiarato che si trattava di un evento unico in quanto, per la prima volta, quei lavori venivano presentati fuori dal suolo nazionale. Il grande interesse della critica si trasformò ben presto in un acceso dibattito che mise in dubbio la posizione del museo viennese rispetto alla leadership nordcoreana. A essere accusato fu proprio il contenuto delle opere esposte, considerate troppo esplicite rispetto all’ideologia del partito. Il simposio Exploring North Korean Arts, evento collaterale della mostra, raccolse questo dibattito trasformandolo in una occasione di confronto e dialogo. Un altro episodio, accaduto in Australia, conferma i labili confini che esistono fra arte e propaganda. Il Koryo Studio era stato incaricato dalla Queensland Modern Art Gallery di Brisbane di selezionare alcuni artisti nordcoreani per l’Asia Pacific Triennial of Contemporary Art del 2009. Il team di Nicholas Bonner aveva invitato gli artisti, nel rispetto del Realismo Socialista, a creare opere che uscissero dagli schemi, proponendo loro di lasciare da parte i sorrisi plastici, in favore di una resa più “vera” dei personaggi e con l’invito a far trapelare le sfumature della fragilità umana. Il corpus di lavori presentato si dimostrò intriso di realtà, stilisticamente diverso dal modello accademico. Ma, come spesso accade con le collaborazioni che coinvolgono la Corea del Nord, ci fu una svolta: il governo australiano rifiutò di concedere il visto agli artisti per la partecipazione alla rassegna, dichiarando che le opere realizzate rappresentavano uno strumento di “propaganda mirata a glorificare e sostenere il regime nordcoreano”.

PITTURA: UN AFFARE DI STATO proporzionale alla fama; più un artista invecchia e raggiunge gli status di Artista Meritevole o Artista del Popolo, più conquista margini di indipendenza.

MOSTRE INTERNAZIONALI E INCIDENTI DIPLOMATICI

Il limite fra arte e propaganda è un dibattito che da tempo anima la critica occidentale, manifestandosi in discussioni sulla legittimità di considerare o meno le opere nordcoreane delle autentiche espressioni artistiche. Il responsabile della politicizzazione dell’arte coreana potrebbe, però, non

La pittura nordcoreana trasferisce su tela una realtà “aumentata”, plastica, ieratica, che celebra la gloria dei leader, il valore del lavoro e la lotta contro l’oppressione. L’unico tipo di rappresentazione che esula da contenuti esplicitamente politici è la pittura di paesaggio, ma anche in questo caso l’indipendenza dall’ideologia è solo apparente, in quanto questo tipo di rappresentazione nasconde valori sociali come la forza e lo stoicismo incoraggiati dal Partito. Le raffigurazioni astratte, invece, non sono accettate. L’arte concettuale è un linguaggio che gli artisti non incontrano nella loro formazione, tant’è vero che la Storia

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espressione artistica praticamente ininterrotta dagli Anni Cinquanta, un unicum nel panorama artistico globale. La pittura è ritenuta un’interpretazione delle linee guida istituite dal mecenate, il Partito dei Lavoratori, e rappresenta a tutti gli effetti un affare di Stato, tanto che ogni artista ha il dovere di dipingere almeno un’opera che rappresenti la Rivoluzione da regalare alla collettività. La sensibilità e l’individualità artistica trovano posto solo nei disegni, negli schizzi e nei bozzetti.

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IL MERCATO DELL’ARTE NORDCOREANA E LA RISPOSTA OCCIDENTALE

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Beth McKillop, ricercatrice al Victoria and Albert Museum di Londra, specializzata in Arte dell’Asia Orientale, ha recentemente dichiarato che, nonostante la generale indifferenza nei confronti delle espressioni artistiche della penisola coreana, esiste un crescente interesse da parte delle istituzioni museali occidentali, che si manifesta in una “caccia” a pezzi nordcoreani. L’interesse, però, non sembra essere legato soltanto a ragioni di natura artistica, piuttosto è condizionato dalla ricerca di un nostalgico ricordo di un’epoca non contaminata dalla globalizzazione. B. G. Muhn, professore di pittura alla Georgetown University di Washington e curatore nel 2018 della sessione nordcoreana della Biennale di Gwangju, ha affermato che gran parte dell’interesse occidentale per l’arte nordcoreana è riservato al chosonhwa, una forma di pittura tradizionale a inchiostro su carta di riso che presenta soggetti iconografici legati al tema del lavoro. A catturare l’attenzione del pubblico occidentale sono anche i dipinti monumentali creati negli studios da grandi squadre di artisti. Nonostante tuttavia si riscontri un avvicinamento nei confronti della pittura nordcoreana, la maggior parte dei collezionisti sono cinesi e il mercato dell’arte rimane ancora su piccola scala.

GRAPHIC E INDUSTRIAL DESIGN Cartolina per festeggiare il nuovo anno, l’89o anno Juche, ossia il 2000 © Koryo Studio

dell’Arte in Corea del Nord viene insegnata solo fino all’Impressionismo. Tutte le sperimentazioni del contemporaneo non compaiono nei curriculum delle accademie. Come si legge in una delle tante opere di filosofia Juche, il leader Kim Jong Il dichiarava che “un quadro deve essere dipinto in modo tale che lo spettatore possa comprenderne il significato. Se le persone che vedono un’immagine non riescono a coglierne il significato, indipendentemente dal talento del suo creatore, non possono dire che sia una buona immagine”. Dal 1948, anno di fondazione del Paese, non ci sono stati movimenti che abbiano intaccato o il sistema artistico nazionale. In Nord Corea si trova, dunque, una forma di

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La Storia dell’Arte insegnata in Corea del Nord arriva fino all’Impressionismo. Le sperimentazioni del contemporaneo non compaiono nei curriculum delle accademie.

Il design nordcoreano non ha lo scopo di promuovere un prodotto rispetto a un altro: la grafica e il packaging servono più a informare il compratore sul contenuto piuttosto che a promuoverne l’immagine. Come vale per gli artisti, anche i grafici, completato il loro percorso universitario, aspirano a trovare una posizione all’interno degli Industrial Art Studios. Visto che non esiste un’economia di mercato e l’industria è statale, ogni produzione grafica deve avere il nulla osta del Partito. Di conseguenza, anche in questo settore l’innovazione e il cambiamento sono lenti e determinati da complessi meccanismi. Nell’ambito della comunicazione, il millenario patrimonio culturale del Paese si manifesta in grafiche cariche di motivi tradizionali e in palette color pastello che, fino ai primi Anni Zero, venivano eseguite a mano.


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Nicholas Bonner, con il suo team di Koryo Studio, nel 2017 ha dato vita a Made in North Korea. Graphics from everyday life in DPRK, un progetto editoriale, diventato poi mostra, che racconta la società nordcoreana a partire dall’aspetto grafico della cultura del Paese. “Fin dai miei primi viaggi in Corea del Nord sono stato attratto dalle grafiche e dal packaging dei prodotti locali. Ho iniziato a raccogliere questi frammenti di colorata frivolezza che, paragonati al rigore sociale e all’intimidatoria propaganda militare del Paese, apparivano in sorprendente contrasto. Un binomio quasi stridente. Dopo decenni di viaggi sono riuscito ad accumulare una considerevole raccolta di materiale grafico che va dai biglietti del treno alle carte di caramelle, dai pacchetti di sigarette alle guide per turisti. Alcuni pezzi sono antecedenti alla mia prima visita, ad esempio alcuni set di cartoline degli Anni Settanta, nelle loro buste originali. Le ho trovate sugli scaffali di un negozio riservato agli ospiti di un hotel sulla costa orientale. Il posto aveva avuto così pochi turisti che le cartoline sono rimaste invendute per decenni”. Made in North Korea è stata l’occasione per catalogare questa peculiare collezione, trasformandosi, assieme alla mostra, in un’occasione unica per avvicinare il mondo occidentale alla cultura nordcoreana da un punto vista privilegiato, quello della vita quotidiana. La rassegna alla House of Illustra-

MANSUDAE ART STUDIO: IL CAMPUS D’ARTE PIÙ GRANDE AL MONDO Fondato nel 1959, il Mansudae Art Studio è il più importante centro espositivo e di produzione artistica del Paese. Il sito presenta dimensioni simili a quelle di un piccolo campus universitario e al suo interno ospita un negozio di souvenir, una sauna, una clinica medica, un asilo nido e un campo da calcio. Il complesso sembra rispettare gli standard di una grande multinazionale; si tratta invece dello studio d’arte più grande del mondo, con una superficie complessiva di circa 120mila mq e una struttura che coinvolge ben 4mila dipendenti, di cui più di un migliaio sono artisti. Il Mansudae Studio produce la maggior parte delle opere d’arte pubblica della Corea del Nord; inutile dirlo, è il laboratorio più prestigioso in cui un artista coreano può ambire lavorare. Il complesso è strutturato in tredici dipartimenti creativi, ognuno dei quali specializzato in una determinata disciplina o tecnica artistica; i dipartimenti sono a loro volta organizzati in vari team creativi, ulteriormente suddivisi in gruppi di lavoro, ognuno guidato da un artista qualificato da alti titoli onorifici. A eccezione dei più illustri, la maggior parte degli artisti non ha un proprio studio ma spartisce una postazione personale all’interno di spazi condivisi. Tra i diversi settori, il gruppo che gode di grande prestigio è quello dedicato alla pittura coreana tradizionale chosonhwa, che conta circa cento artisti, al quale, in termini di importanza, segue il dipartimento di pittura a olio, composto da circa ottanta artisti. Un intero piano del dipartimento di pittura a olio e a inchiostro è dedicato alla rappresentazione dei Leader. Le opere degli artisti che lavorano in queste sezioni sono costantemente monitorate. A livello più generale, il lavoro degli studi è sottoposto a un rigido protocollo di verifica e consigliato da un comitato di studio che giudica la qualità delle opere e il rispetto delle linee guida. Ogni opera è sottoposta a due livelli di verifica, quello del consiglio interno allo studio e quello di un consiglio superiore ed esterno. Ottenuto il nulla osta, il pezzo può raggiungere la mostra o la destinazione per cui è stato creato.

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Electronics Industry Hall a Pyongyang. Photo © Cristiano Bianchi

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tion di Londra si è poi spostata alla Hongik University Daehangno Arts Center di Seoul, rappresentando un momento non solo culturale, ma anche storico. Per la prima volta dalla divisione della penisola, oggetti della vita quotidiana della Corea del Nord sono stati esposti al pubblico del Sud, un’occasione così popolare che ha visto, come evento collaterale, la creazione di un “supermercato” per la vendita di prodotti di imitazione “made in North Korea”.

PYONGYANG. TRA REALTÀ E ALIENAZIONE

Abbiamo chiesto a Cristiano Bianchi e a Kristina Drapić, autori del libro Model City: Pyongyang – Architecture and urban space of Pyongyang, di accompagnarci nella lettura del tessuto urbano e architettonico della città. Architetto italiano lui, fondatore di Studio ZAG con sede in Toscana e a Pechino, architetta e graphic designer serba lei, hanno intrapreso una serie di viaggi nella capitale nordcoreana spinti dalla fascinazione di vedere e toccare con mano la città frutto di una pianificazione totale. “Pyongyang è una bella città, ma spiegarne il perché, così su due piedi, è quasi impossibile, ce lo siamo chiesti molte e volte e forse proprio il bisogno di chiarire questa insolita bellezza è stato il motivo che ci ha portati a intraprendere il progetto editoriale di ‘Model City Pyongyang’”. La premessa per visitare e comprendere una città come Pyongyang è l’abbandono dei canoni estetici con cui, da occidentali, si è abituati a misurarsi. “Il primo impatto con la statura architettonica di Pyongyang è stato dominato da percezioni fortemente contrastanti e da una sconcertante sensazione di essere immersi in una realtà fittizia. Avendo intenzionalmente lasciato a casa tutti gli stereotipi sulla Corea del Nord, ci siamo immersi per la prima volta in una realtà straordinariamente diversa pensando, dopo anni di residenza in Cina, di essere pronti a comprenderla. Entrambi, invece, abbiamo vissuto un grandissimo straniamento dalla realtà, un vero e proprio senso di smarrimento, in cui i limiti della percezione tra il reale e la messa in scena a volte sfumavano”. È stato proprio questo il punto di partenza del loro progetto di indagine urbana. I due hanno pazientemente rielaborato tutte le architetture della città, attraverso un sapiente e inedito uso della fotografia e della grafica. Il senso di straniamento provato durante le visite alla capitale nordcoreana è stato trasferito su pellicola. Nel libro, tutte le fotografie vedono la sostituzione del cielo reale con gradiente di colore tale da astrarre l’immagine dell’architettura e catapultarla in una dimensione surreale. Forte è il richiamo ai tratti peculiari delle arti visive nordcoreane la citazione è diretta soprattutto alla ritrattistica dei Leader in cui il cielo è sempre rappresentato come un semplice gradiente di colori, come un tramonto o un’alba iper-saturi. Si tratta di un espediente in grado di

Confezioni di caramelle di inizio anni '90 © Koryo Studio

La solennità e l’austerità delle architetture della capitale stridono con il cielo color pastello in cui sono ricontestualizzate. trasfigurare il reale in ideale, un linguaggio metaforico molto efficace che aumenta il senso utopico del messaggio.

IDEOLOGIA E NARRAZIONE. UNO SGUARDO ALL’ARCHITETTURA

Dopo la Guerra di Corea, che i coreani chiamano Guerra Americana, Pyongyang è stata costruita da zero, concepita come una città-modello da cui ripartire per far crescere una nuova società. La capitale rappresenta, quindi, un esempio per tutte le altre città dello Stato, una vetrina architettonica portatrice di principi e valori dell’ideologia

Juche. Nella storia dell’architettura si incontrano diverse città-modello; Pyongyang, però, rappresenta un unicum perché si è sviluppata all’interno di un contesto sociale, ideologico e di progettazione urbana ininterrotto per oltre settant’anni. Si tratta di un esempio di “utopia urbana”, un prototipo di città che non ha eguali per il contesto in cui ha preso forma: una città che è stata originata da un’unica visione e il cui sviluppo non è stato intaccato dalle regole del mercato. Come ci spiega Cristiano Bianchi, il contenuto ideologico-narrativo della città è perfettamente leggibile e Pyongyang viene descritta come un “museo a cielo aperto di architettura socialista. L’architettura nordcoreana è rigorosamente codificata, tanto che il leader Kim Jong Il nel 1991 ne ha pubblicato le linee guida nel suo trattato ‘Sull’Architettura’. I principi contenuti nel trattato risultano di fatto leggibili in gran parte dell’impianto urbanistico, visibili soprattutto negli schemi compositivi dei complessi monumentali. Qui le figure dei leader sono inquadrate ed entrano in relazione con il contesto secondo regole molto precise”.


A differenza della matrice socialista da cui prende forma, l’architettura nordcoreana presenta forti cromatismi che la contraddistinguono rispetto all’austero grigiore del modello sovietico, risultando a tratti quasi naïf grazie al contenuto fortemente narrativo da cui è caratterizzato il suo linguaggio.

61 LUGLIO L AGOSTO 2021

ESSERE ARCHITETTI IN COREA DEL NORD

L STORIES L COREA DEL NORD L

All’ingresso della Paektusan Academy of Architecture campeggia un grande murale che raffigura una veduta a volo d’uccello di Pyongyang, modello costantemente aggiornato con il modificarsi della città. Al suo interno, la scuola di architettura presenta una sala espositiva dedicata alle più importanti architetture del mondo. Questo perché, ci spiega Kristina Drapić, “il curriculum di studi di un architetto prevede una buona conoscenza del panorama architettonico internazionale. Una volta uscito dal mondo accademico ed entrato nella sfera lavorativa, all’architetto coreano è richiesto di progettare edifici che rispettino gli standard internazionali, ma che siano fedeli al linguaggio formale dell’architettura Juche, rigorosamente codificata”. A differenza degli artisti, gli architetti nordcoreani hanno una speranza di contatto e formazione internazionale: ogni dieci anni un piccolo gruppo studenti viene inviato a studiare in Europa. Nonostante abbiano già completato gli studi in patria, dovranno ripetere cinque anni di università all’estero. Il Paese di destinazione viene scelto di volta in volta, anche se l’Italia è il preferito dal governo per formare i propri futuri architetti. Sono tre gli istituti di progettazione della Nord Corea in cui gli architetti troveranno impiego: l’Università di Architettura di Pyongyang, la Paektusan Academy e l’Università delle Costruzioni. In un Paese dove tutte le opere sono pubbliche, risulta particolare il processo di attribuzione delle commesse: per ogni progetto competono i tre istituti nazionali, ognuno dei quali presenta il progetto vincitore di una gara. I progetti vengono presentati al Leader, al quale spetta la scelta finale.

Complessi residenziali a Pyongyang. Photo © Cristiano Bianchi

PADIGLIONE COREA. IL LEONE D’ORO ALLA BIENNALE DEL 2014

Il padiglione coreano presente ai Giardini della Biennale di Venezia è stato costruito nel 1994 ed era originariamente pensato per ospitare un’esposizione congiunta tra la Corea del Nord e la Corea del Sud, cosa accaduta solamente vent’anni dopo, nell’edizione 2014 della Biennale di Architettura. La mostra si ispirava a Crow’s Eye View, composizione poetica dell’architetto coreano Yi Sang (1910-1937). Pubblicata nel 1934 e influenzata dal movimento dadaista, Crow’s Eye View è l’emblema della visione frammentata e frammentaria di una Corea ancora unita, ma debilitata dal dominio coloniale

A differenza degli artisti, gli architetti nordcoreani hanno una piccola speranza di contatto e formazione internazionale.

giapponese. In forte contrasto con la prospettiva singolare e universalizzante rappresentata dalla vista a volo d’uccello, la frammentarietà della successiva storia coreana indica l’impossibilità di una comprensione univoca non solo dell’architettura di una Corea divisa, ma dell’idea stessa di architettura. Ironia della sorte, mentre la maggior parte del mondo è relativamente libera di visitare la Corea del Nord e la Corea del Sud, ai coreani raramente viene data l’opportunità di comunicare con l’esterno. Curata da Minsuk Cho, Crow’s Eye View è stata la prima mostra di architettura della penisola coreana che ha visto le partecipazioni congiunte del Nord e del Sud, vincendo il riconoscimento più prestigioso della Biennale di Venezia: il Leone d’oro.

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Con il contributo di


BOTTICELLI/ROVERETO • FOTOGRAFIA ITALIANA/AOSTA

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IN APERTURA / BOTTICELLI / ROVERETO

Botticelli e l’arte contemporanea Stefano Castelli otticelli “in carne e ossa” e poi, senza soluzione di continuità, i suoi echi nell’arte e nell’immaginario contemporanei. La mostra Botticelli. Il suo tempo. E il nostro tempo riunisce nella prima parte, dalla struttura distesa e scandita, opere del maestro rinascimentale contestualizzandole con lavori coevi, mentre nella seconda sezione, vulcanica e “panottica”, ne verifica la persistenza odierna.

B

IL RINASCIMENTO DI BOTTICELLI

La prima parte, curata da Alessandro Cecchi, si sviluppa in ordine cronologico e ripercorre “a campione” le varie fasi botticelliane con opere del maestro e di bottega. Si inizia con la fase giovanile, incontrando subito lo sguardo straordinariamente interlocutorio del Ritratto di fanciullo con mazzocchio (147071 circa), primo di sette prestiti dagli Uffizi. Per circostanziare la fase giovanile, il dipinto è accompagnato da esempi della poetica di Filippo Lippi, alla cui bottega Botticelli si formò. Proseguendo, Pallade e il centauro, del 1482 circa, propone già un esempio delle figure femminili botticelliane che rimangono nell’immaginario collettivo odierno, mentre opere come la Flagellazione del 1495-98 mostrano una straordinaria caratterizzazione plastica. Passando per accostamenti con lavori del Pollaiolo e di Andrea del Verrocchio, si giunge a opere come il Compianto sul Cristo morto di inizio Cinquecento in prestito dal Poldi Pezzoli di Milano e alla maestosa coralità dell’Adorazione dei Magi (1509-10 circa), tra le ultime opere eseguite, ancora una volta custodita dagli Uffizi. Ed è la presenza ipnotica a metà percorso della Venere del 149597 proveniente dai Musei Reali di Torino (che fa qui in un certo senso le veci della celeberrima Nascita di Venere) a far cambiare prospettiva e a innescare idealmente, più delle altre opere qui riunite, il confronto con lo sguardo odierno.

DAL PASSATO AL PRESENTE

Terminata la sezione rinascimentale, la sezione contemporanea curata da Denis Isaia esplode in un colpo d’occhio (la maggioranza delle opere sono racchiuse in un’unica, grande sala). Ci s’imbatte subito nella ripresa e nella moltiplicazione delle icone botticelliane: le reinterpretazioni di Giosetta Fioroni e Mario Ceroli adottano canoni cinetico-cinematografici (non a caso i loro lavori dialogano proprio con estratti di film di Visconti, Gilliam, Cuarón, Polanski proiettati su due schermi sospesi al soffitto). La riproducibilità dell’immagine, che sia in forma pittorica oppure scultorea, è il vero

fino al 29 agosto

BOTTICELLI. IL SUO TEMPO. E IL NOSTRO TEMPO

a cura di Alessandro Cecchi e Denis Isaia Catalogo Silvana Editoriale MART Corso Bettini 43 – Rovereto mart.trento.it

in alto: Miles Aldridge, Like A Painting #1 (particolare), 2005. Courtesy of the artist a destra in alto: Vik Muniz, The Birth of Venus, after Botticelli (triptych) (Pictures of Junk), 2008 © Vik Muniz. Courtesy Ben Brown Fine Arts London in basso: © Maurizio Ceccato per Grandi Mostre

tema della citazione dei due artisti: il suo scorrere e frangersi in mille frammenti più tecnologici che umani. Sempre in quota “pop all’italiana” c’è poi il grande dipinto su tessuto imbottito di Cesare Tacchi, mentre la monumentale fantasia bucolica di Renato Guttuso (Primavera, 1985) non appartiene al meglio della sua produzione ma è efficace nel rappresentare il “luogo comune” come consapevole modulo espressivo. La Primavera di Piero Gilardi (uno dei suoi tipici Tappeti natura) è un trionfo dell’artificiale che però finisce per essere maestoso e “realistico”, mentre la celebre Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto rivolge le spalle allo spettatore e gli nega il proprio sguardo, regalandolo invece alla montagna di tessuti d’occasione evocata dal titolo. Stimolante la presenza di John Currin con un'opera del 1996, leggermente precedente al suo stile oggi conosciutissimo, ma che riecheggia e distorce alla perfezione certe caratteristiche dei corpi botticelliani.


IN APERTURA / BOTTICELLI / ROVERETO

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KITSCH, MODA E FOTOGRAFIA

C’è il kitsch voluto che diventa sublime, ad esempio nella Rebirth of Venus di David LaChapelle, e talvolta quello mal gestito oppure involontario. Nel servizio di Michal Pudelka per Vogue che ritrae Chiara Ferragni agli Uffizi, poi, si verifica una sorta di cortocircuito culturale nel quale l’ambizione da star entra in contatto con la dimensione inconsapevolmente dimessa e maldestra di certe scene da turismo di massa. La moda è rappresentata dalle creazioni pionieristiche di Rosa Genoni e da quelle contemporanee di Valentino, mentre la sezione sulla fotografia risulta tra le più efficaci nel confronto tra ispirazione rinascimentale e declinazione contemporanea. L’apparente accessibilità dell’immagine fotografica crea infatti un accesso diretto al confronto, che negli scatti di Aldridge, Davey, Djikstra, Lux, Teller, Walker diventa una sorta di stimolante discesa agli inferi fatta di ambiguità e consapevolezza, sardonica deviazione dal canone e ricerca di una bellezza possibile anche nel caos del mondo d’oggi. Il dialogo tra antico e contemporaneo instaurato dalla mostra è dunque via via letterale oppure metaforico, citazionista oppure iconoclasta. Con diverse sfumature: l’idea di bellezza femminile botticelliana è talvolta citata in maniera diretta e voluta, altrove in maniera quasi inconscia. Come se ad agire fosse un retropensiero che dimostra come certe immagini, nel loro percorso dal capolavoro assoluto allo stereotipo, siano un istinto “automatico” e imprescindibile della cultura visiva occidentale.

I NUMERI DELLA MOSTRA SEZIONE RINASCIMENTALE (1435-1510)

19 opere 10 prestatori

7 opere dalla collezione degli Uffizi 2 dalla Fondazione Giorgio Cini di Venezia 2 dal Poldi Pezzoli di Milano e 2 dalla Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino 12 opere di Botticelli 4 di Filippo Lippi 1 di Filippino Lippi 1 del Pollaiolo 1 di Andrea del Verrocchio.

SEZIONE MODERNA E CONTEMPORANEA (1922-2021)

34 opere 5 registi 2 stilisti

che vengono “accostati” a Botticelli nel percorso espositivo

INQUIETUDINI A CONFRONTO Tra le varie linee parallele che collegano in mostra i capolavori botticelliani e le loro reinterpretazioni contemporanee, una delle più interessanti è quella che ha a che fare con la dimensione del perturbante. Il punto d’origine di questo percorso giunge alla metà della sezione rinascimentale, con la Venere in prestito da Torino. Le caratteristiche inusitate, se viste con gli occhi di oggi, del corpo raffigurato si ricollegano ad alcune opere contemporanee che smentiscono l’idea di perfezione idealizzata comunemente associata nell’immaginario collettivo alle figure femminili di Botticelli. Opere che aprono a una dimensione del corpo controversa e contrastata, “nordica”, altera e conturbante. Nel dipinto di John Currin, ad esempio, la figura femminile è conforme e difforme, seducente e mortifera: vive in un limbo tra assolutezza idealizzata e velenosa caratterizzazione. La franchezza dello sguardo contende l’attenzione alle linee del corpo, mentre a livello di luce e colori i toni pastello si contraddicono in una generale atmosfera allucinata. Ma è soprattutto nelle opere fotografiche che questa linea si esprime. In Rineke Djikstra la posa del corpo è perfetta nel suo essere sbilenca, fatta di alternanza di pieni e vuoti, mentre la dignità del soggetto poggia proprio su canoni di non conformità. Le fantasie che compenetrano la sfera umana e vegetale di Miles Aldridge presentano un’idea di grazia che viene smentita da uno sguardo spento e da toni taglienti perché surreali; nel ritratto di Kate Moss a opera di Juergen Teller la bellezza viene invece dal disfacimento in nuce, mentre una dimensione propriamente “diabolica” è quella esplorata da Loretta Lux con la sua bambina horror. La Botticelli’s Venus di Joel-Peter Witkin, poi, è androgina, scatologica e mortifera eppure quanto mai libertaria e vitale. Nei canoni di una bellezza che rimane assoluta anche quando è “negativa”, si insinua e trionfa dunque il seme del perturbante e di una diabolica, verosimile realtà/irrealtà.


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OPINIONI

Ripartire dalla cura per i musei di domani

Il caso della Costa San Giorgio a Firenze

Lorenzo Balbi direttore del MAMbo, Bologna

Antonio Natali storico dell’arte

M

Firenze ci si vanta di un passato le cui stagioni più eminenti hanno davvero pochi paragoni al mondo. E noi fiorentini ci gloriamo d’essere eredi degli uomini che quelle stagioni di secoli trascorsi resero grandi. Sulle loro spalle esercitiamo il nostro orgoglio, e purtroppo anche la nostra presunzione e non di rado la superbia, nella convinzione d’esserne eredi diretti. Un conto però è ricevere in eredità gratuita un patrimonio, altro conto è meritarlo. Si è eredi degni di chi ci ha preceduti solo quando almeno ci si sforzi di coltivare le sue stesse virtù e si sappia nel contempo conservare con cura quanto ci sia pervenuto, avendo peraltro in animo l’aspirazione a trasmetterlo, a nostra volta, a chi verrà dopo di noi. È un monito morale che per naturale conseguenza impone di porsi alcuni quesiti: quali sono i nostri meriti reali nella tutela del ricco patrimonio toccatoci e nel processo storico cui siamo chiamati a essere attivamente partecipi? Cosa facciamo per difendere l’eredità di cui senza fatica siamo venuti in possesso? Davvero si pensa che bastino alcuni restauri (quasi sempre d’opere celebrate) per dire che c’impegniamo nella salvaguardia di quel lascito? Sono domande ch’esigono risposte sincere da parte di tutti; cittadini e amministratori. E l’esigono tanto più oggi, che a Firenze è viva la minaccia d’un intervento pesante su uno dei colli più belli che da vicino le fanno corona. Un intervento ch’è vòlto a ristrutturare antiche e ragguardevoli architetture conventuali per realizzare sulla Costa San Giorgio un albergo con tante stelle, tanti servizi e tanti agi lussuosi.

i sono recentemente imbattuto in un saggio di The Care Collective, dal titolo Manifesto della Cura – Per una politica dell’interdipendenza, che pone al centro della riflessione sulle politiche sociali contemporanee il concetto e il problema della cura. Di fronte al modello capitalista neoliberale corrente, il cui sistema di welfare ha dimostrato numerose falle nel corso dei mesi più duri della crisi pandemica, il collettivo propone “uno stato della cura”, la cui democrazia è orientata ai bisogni collettivi, individuando nel diritto alla cura la principale responsabilità politica. L’aspetto più interessante del testo è l’assunto che non basta uno Stato centrale votato a tali scopi, ma che sia necessario sviluppare la consapevolezza comune dell’interdipendenza che ci lega. La cura promiscua, intesa come relazione tra estranei basata su un mutuo soccorso vicino e prossimo ma non necessariamente familiare, è proposta come un primo passo a quello che mi auguro possa essere un radicale cambiamento sociale e politico.

UNA NUOVA IDEA DI MUSEO

Ma come è possibile portare questi intenti all’interno di un museo d’arte contemporanea? Iniziando a trasformare la nostra idea di museo, da luogo espositivo e di conservazione di patrimoni a centro culturale capace di ingaggiare diversi pubblici, operando in modo attivo alla delineazione di una proposta culturale che mira alla trasformazione sociale. Progetti educativi, programmi di residenza e strutture di formazione di lunga durata possono proporre il museo come un’istituzione orientata alla comunità artistica, che volutamente si rivolge ai suoi bisogni e alla sua crescita. È questo che ha guidato l’idea di istituire uno spazio di produzione permanente all’interno del MAMbo che, sotto il nome di Nuovo Forno del Pane, potesse accogliere e sostenere le artiste e gli artisti della propria città.

Inizialmente nato dalla conversione della Sala delle Ciminiere da spazio espositivo ad area di lavoro condiviso, oggi il progetto si sta instaurando in una propria sede diventando il centro di un nuovo dipartimento del museo, votato alla ricerca e alla formazione.

CURA E CURATELA

Così come il modello di uno “stato della cura” non si può sostenere se non grazie a una pratica radicale di cura reciproca dal basso, allo stesso modo il museo diventa una piattaforma in cui lasciare che diverse entità si incontrino per poi creare spontaneamente alleanze.

La cura è il primo passo per un radicale cambiamento sociale e politico Il problema della cura può inoltre ispirare nuove metodologie curatoriali per creare relazioni di attenzione con il pubblico e metterlo nella posizione di riflettere su possibili contro-azioni alla sempre più frequente perdita di contatto e socialità. Dear you è un progetto che, di fronte alla diffusione della crisi pandemica, ha deciso di invitare sei artisti, da sempre legati alla ricerca sulla parola e alla delineazione di nuove pratiche di cura, amore e lealtà, a concepire un’opera d’arte che fosse recapitata a casa del pubblico via posta. La mostra ha cercato inoltre di infiltrarsi nella vita di ognuno degli iscritti, nascondendosi tra le bollette e le comunicazioni condominiali per arrivare tra le mani del destinatario come un attimo di sorpresa, innescando dinamiche di attenzione più sottili e individuali.

A

UN HOTEL SULLA COSTA SAN GIORGIO?

A uso di coloro che non ne conoscono le vicende si dirà che quel colle è chiamato “poggio delle rovinate” (ch’è come dire delle frane), giacché, per via delle sue caratteristiche idrogeologiche, di frane n’ha viste parecchie

nella sua storia. Memorabile è quella di metà Cinquecento, in cui crollarono interi stabili, compreso il palazzo di Lorenzo Nasi, committente della Madonna del Cardellino di Raffaello, i cui pezzi furono in buona parte recuperati fra le macerie.

Cosa facciamo per difendere l’eredità di cui senza fatica siamo venuti in possesso?

Si dice, a sostegno dell’intervento progettato, che gli antichi edifici religiosi coinvolti sono stati nel corso del tempo manomessi per altri e assai differenti scopi; il che giustificherebbe la nuova manipolazione, gabellata come un’opera di tutela e di valorizzazione (di nuovo leggendo quest’ultima – con buona dose di mistificazione – nella sua accezione economica, che purtroppo ai giorni nostri è quella che santifica ogni impresa). Ne vengono ulteriori domande: è questa la nostra strategia di salvaguardia? È così che tuteliamo l’eredità generosa e gratuita di cui ci vantiamo? Veramente alle generazioni future vogliamo lasciare alberghi e centri commerciali al posto di conventi storici?

LA FRAGILITÀ DEL PATRIMONIO

Non credo sia chiara la gravità dei rischi che corriamo; non solo sul piano della cultura, ma anche – e forse soprattutto – su quello sociale e morale. Incombe su Firenze e i fiorentini il pericolo che si perda il senso della delicatezza del nostro patrimonio; che di sicuro è nobilissimo, ma molto, molto fragile. Sarà bene ne tenga conto chi debba decidere sul destino della Costa San Giorgio. Lo faccia nel rispetto del bene comune e della memoria che lascerà di sé.


OPINIONI

La nuova frontiera delle mostre intangibili

Monumenti e mutamenti

Stefano Monti economista della cultura

Fabrizio Federici storico dell'arte

I

n tutto il clamore mediatico che ha recentemente circondato il cosiddetto hype degli NFT e dell’arte digitale, c’è un elemento che è stato forse un po’ trascurato e che invece potrebbe rappresentare uno degli aspetti più interessanti di tutto il fenomeno: le mostre intangibili. Con la prossima implementazione della tecnologia 5G, e con le release future che già sono allo studio, sarà sempre più diffusa la possibilità di fare interagire il territorio con i nostri device (smartphone, tablet, smartwatch e via dicendo).

Il digitale aiuta a creare percorsi artistici laddove lo spazio fisico lo impedisce Dotando il territorio delle adeguate infrastrutture, sarà possibile abilitare una visione “multilivello” della realtà, come già in parte accade con le audioguide che si attivano automaticamente attraverso il GPS, ma con contenuti sempre più ricchi e sempre più coinvolgenti. Molto infatti si è discusso e si discute sulle nuove frontiere della fruizione del territorio. Meno dibattuta, invece, è l’applicazione di questo tipo di tecnologie nel comparto delle grandi mostre e del settore museale.

LE POTENZIALITÀ DEL DIGITALE

La diffusione di infrastrutture attraverso le quali realizzare delle mostre intangibili ha infatti un potenziale che va ben oltre la semplice dimensione “fruitiva”: è una condizione che potrebbe favorire lo sviluppo di una più diffusa cultura legata all’arte contemporanea, e non solo come contenuti, ma come possibilità del medium. È indubbio, infatti, che per molte delle nostre istituzioni museali l’organizzazione di mostre d’arte contemporanea presenta difficoltà sia in termini di adeguatezza degli spazi, sia in termini di coerenza del percorso

artistico. Sebbene ormai tutti, o quasi, i principali musei italiani abbiano aree adibite alla sezione mostre, è anche vero che sussiste una rilevante distanza che separa il linguaggio contemporaneo dal linguaggio pre-moderno. Ciò si traduce di frequente in un “vincolo” strutturale per il museo e per chi organizza le mostre, spesso superabile soltanto attraverso linee curatoriali che riescano a coniugare per assonanza o per contrapposizione espressioni umane così differenti. In tale contesto, la strutturazione di un percorso digitale permetterebbe di arricchire il livello di realtà, andando a definire dei percorsi artistici in luoghi in cui lo spazio fisico lo impedisce.

MOSTRE ALLA PORTATA DI TUTTI

Si pensi, ad esempio, alle numerose istituzioni culturali circondate da parchi e giardini presenti nella nostra penisola in cui, per ragioni di sicurezza e di ovvia tutela delle opere, si crea una separazione talvolta netta tra la dimensione interna del museo e la dimensione esterna dell’ambiente naturale. In uno scenario del genere, la possibilità di arricchire il percorso museale attraverso grandi mostre digitali, fruibili mediante app per smartphone o grazie all’ausilio prossimo venturo di specifici visori, permetterebbe alle istituzioni museali di “invadere” d’arte gli ambienti esterni al museo e di fornire ai visitatori del parco e/o del museo un prodotto culturale innovativo che, per caratteristiche del medium, meglio si presta a operazioni di coinvolgimento dei visitatori e della cittadinanza in generale. Il nostro mondo potrebbe così dotarsi di una sovrastruttura artistica che si sovrappone alle città, ai parchi, ai musei, con opere site specific e con bassi costi di “riproduzione”. Non è solo un fatto di fruizione. È un modo attraverso il quale poter ridurre quella distanza che ancora divide l’arte viva dall’arte istituzionalizzata.

I

n maniera quasi miracolosa, in un Paese nel quale non si contano i progetti lasciati a metà e i proclami a cui non seguono i fatti, il processo di costruzione della nuova arena del Colosseo prosegue il suo cammino. Come ogni tappa precedente, anche la presentazione del progetto vincitore è stata accolta, oltre che da elogi per la funzionalità della proposta, da accese critiche. In particolare, è stato obiettato che “i monumenti non sono cose da riempire”: il monumento basta a se stesso, e al pubblico, è un’entità assoluta, immutabile, che a un certo punto si cristallizza per sempre e che da questa cristallizzazione trae il suo valore quasi sacrale. Una visione di questo tipo potrebbe essere contestata sotto più punti di vista (per la sua impostazione assolutistica e antidemocratica, innanzitutto; e poi chi stabilisce in quale punto scatta la cristallizzazione e ogni mutamento diventa un delitto?); ma ci si limita qui a considerare la sola questione terminologica, l’ambiguità del termine “monumento”, che può, in parte, essere all’origine di letture come questa.

IL SIGNIFICATO DI MONUMENTO

Con “monumento” si identificano infatti cose molto diverse tra loro. Da un lato abbiamo la statua, il rilievo, la targa commemorativa. E questi monumenti coincidono in tutto con il loro messaggio: li si accetta così come sono, o li si abbatte, come si è visto fare spesso ultimamente. Accanto al monumento-statua c’è il monumento-edificio, la cui funzione è sì quella di essere, etimologicamente, portatore di un ‘ammonimento’, e dunque di rappresentare la testimonianza di un’epoca, di una civiltà artistica, di una società, ma questa non è la sua unica funzione, visto che il monumento-edificio è anche un’architettura, uno spazio incastonato, spesso, nel tessuto vitale delle nostre città, un luogo che può, e anzi deve, essere investito di sempre nuove funzioni e

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di ulteriori significati, che tuttavia non cancellano quelli precedenti, a cominciare dalla natura di puro e semplice ‘monumento’ del bene. Usi e significati si accumulano e convivono, non si sostituiscono.

Un monumentoedificio può avere nuove funzioni senza cancellare le precedenti IL FUTURO DEL COLOSSEO

Quando una chiesa di eccezionale valore storico-artistico viene usata per le funzioni religiose smette forse di essere anche un monumento? No, e non smette di esserlo neanche quando vi si tengono concerti. E neanche una chiesa sconsacrata riconvertita in biblioteca dismette il suo carattere monumentale. Il Colosseo ‘ripavimentato’, dunque, può divenire luogo di spettacoli, conferenze, concerti, senza per questo smettere di essere anche un monumento. Il sogno, certo, è un altro: che con l’arena restituita torni a essere quello che è stato per secoli, una piazza aperta alla libera circolazione e al libero incontro di chiunque (mentre le strutture in elevato e i sotterranei possono continuare a essere spazi musealizzati, cui si accede con un biglietto). Questo esito rappresenterebbe un grande passo in direzione del reinserimento sociale dell’Antico.


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FOTOGRAFIA ITALIANA / AOSTA

30 anni di fotografia italiana Angela Madesani

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he Families of Man è una mostra di grandi dimensioni che descrive la realtà del nostro Paese degli ultimi trent’anni, non solo attraverso un approccio tematico, ma anche grazie a un’analisi linguistica dell’attuale senso della fotografia. Daria Jorioz, storica dell’arte e dirigente delle attività espositive della Regione Valle d’Aosta, afferma nel testo in catalogo: “Spero che le mostre possano tornare a essere per il pubblico esperienze reali più che virtuali. Credo che nulla potrà sostituire l’emozione derivante dalla fruizione di un medium fisico, sia esso una fotografia, una scultura o un dipinto. Forse non è un caso che oggi, nell’era di Instagram e dei social, siano tornate in auge le Polaroid. A questo proposito ricordo le parole di Christopher Anderson, reporter dell’Agenzia Magnum, che nel corso di un’intervista, disse: ‘Un’immagine, in quanto oggetto, dà l’idea che possa resistere di più nel tempo’. Una riflessione aperta sul futuro della fotografia”. Riflessione che segna l’intera rassegna divisa in tre sezioni: la prima trae origine dal 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, la seconda prende il via nel 2001, con la distruzione delle Torri Gemelle, e la terza, quella più attuale, inizia nel 2019, con la pandemia che ha trasformato radicalmente le nostre vite.

FOTOGRAFARE IL CAMBIAMENTO

Nel corso di questi ultimi trent’anni molto è cambiato in Italia. La nostra è diventata una società multietnica dove ancora tanto va compreso e risolto. Il Mediterraneo è una tomba a cielo aperto, l’economia ha preso pieghe diverse, la famiglia è diventata altro da quello che era. Abbiamo affrontato grandi crisi, grandi battaglie, l’Italia ha vissuto e sta vivendo momenti difficili, che la fotografia riesce ancora a raccontare. Così, dalle immagini in bianco e nero dei Dondero, dei Berengo Gardin, degli Scianna si arriva a quelle di Ghirri, di Basilico, di Guidi. E poi a quelle delle generazioni più giovani, dei Francesco Jodice e degli Armin Linke. Da segnalare è anche la presenza di artisti come Jacopo Benassi, che molto ha lavorato sul concetto di gender, The Cool Couple e Lamberto Teotino, per i quali l’immagine fotografica è un punto di partenza verso riflessioni altre. Al pari di quanto accade nelle opere di Silvia Bigi, Alberto Sinigaglia, Pierluigi Fresia, caratterizzate da una forte matrice esistenziale.

I TEMI: DALLA POLITICA ALL’ECONOMIA

Combinando immagini e parole, undici giornalisti, studiosi e scrittori approfondiscono i temi della mostra fra le pagine del catalogo.

Filippo Ceccarelli, ad esempio, introduce così la voce Politica: “Non cadde solo un muro, ‘il teso elastico del secolo’ si spezzò e come in una poesia di Fernando Bandini dedicata al fatale 1989, ‘molti cuori si afflosciarono’. Ma poi, tornando in prosa, quando casca un oggetto, un ordine, un sistema, un ciclo di potere, ecco che spesso si trascina appresso molto altro. Servono anni perché tutto torni a farsi forma, storia, istituzioni, immaginario”.

È una caduta pesante, capace di frantumare, di lì a poco, un’ideologia che aveva costituito per tanti un faro per oltre un secolo. Sono gli anni di Papa Giovanni Paolo II, che molto ha operato in tal senso. Il 1989 è anche l’ultimo anno della presidenza Reagan, la cui “filosofia” di vita muta radicalmente la storia dell’Occidente. In breve anche in Italia il Partito Comunista, eterno secondo, ma forza determinante, si sarebbe sfasciato. In mostra questa sezione è


FOTOGRAFIA ITALIANA / AOSTA accompagnata da una fotografia di Mario Dondero, che ritrae il Muro pochi giorni prima della caduta. Scianna, a colori, immortala un giovane e baldanzoso Berlusconi con un telecomando in mano e le televisioni alle spalle. La saggista Roberta Carlini scrive, invece, all’interno della sezione dedicata all’Economia: “L’89 per l’economia italiana arriva nel ’92. Quando crolla il sistema politico nato dopo la Seconda Guerra Mondiale, quello economico segue a ruota. Ammesso che questa distinzione abbia senso, visto che l’economia non vive e non opera in un mondo separato da quello delle istituzioni e della politica”. I tempi sarebbero mutati, gli anni da bere si sarebbero eclissati definitivamente. La pacchia, se tale era mai stata, era finita. In questo caso le fotografie di Gabriele Basilico, di qualche anno precedenti, ritraggono la Milano fordista al tramonto, mentre Armin Linke racconta il nuovo concetto di fabbrica, in Giappone, alle porte del nuovo millennio. Quelle di Carlo Valsecchi sembrano immagini di fantascienza e invece non sono altro che fabbriche dei nostri anni. Poche o nulle le presenze umane. Michele Borzoni mostra in un’immagine altrettanto fantascientifica una distesa di persone, 1.550, che partecipano a un concorso pubblico per il reclutamento di 40 storici dell’arte. Così vanno i giochi. Non è detto che una risata ci seppellirà, ma l’immagine finale di Lorenzo Vitturi, nella sezione La ripresa, forse lascia qualche speranza.

IDENTIKIT DELLA MOSTRA NEWYORCHESE THE FAMILY OF MAN

MoMA

24 gennaio – 8 maggio 1955

Edward Steichen Curatore

più di 500 fotografie inviate da 69 Paesi

La mostra ha viaggiato per il mondo per 8 anni

più di 9 milioni di visitatori totali

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INTERVISTA AL CURATORE WALTER GUADAGNINI Nel titolo della mostra c’è un chiaro rimando a The Family of Man, la rassegna ideata nel 1955 da Edward Steichen, allora a capo del dipartimento di fotografia del MoMA. Perché avete scelto questo riferimento? Il riferimento a quella colossale mostra è esplicito. Quanto c’è di comune è la volontà di considerare ancora, nonostante tutto, la fotografia come un mezzo che può servire per conoscere e raccontare il mondo. L’attuale posizionamento della fotografia è, tuttavia, completamente diverso. Un aspetto che oggi si fa fatica a individuare è la parte ideologica di quella

fino al 10 ottobre

THE FAMILIES OF MAN

mostra, un ecumenismo che oggi sarebbe difficile immaginare. Inoltre quella rassegna presumeva di poter raccontare tutto il mondo da una prospettiva unica, quella americana. Oggi tutto questo è impossibile, ecco perché ci siamo concentrati sull’Italia. Questa di Aosta può essere considerata una mostra sull’uomo in senso ampio, una mostra sociale? È una mostra che cerca di leggere e rileggere, in estrema sintesi, oltre trent’anni di società italiana attraverso alcune immagini fotografiche che non sono immagini di cronaca, ma che sono, a loro volta, un’interpretazione, un ripensamento e una riflessione sulla realtà.

a cura di Elio Grazioli e Walter Guadagnini Catalogo Electa MUSEO ARCHEOLOGICO REGIONALE Piazza Roncas 12 – Aosta regione.vda.it

La mostra si colloca in un momento di riapertura, di ritorno alla vita. Non credo sia casuale. Infatti non lo è. La mostra è nata come idea durante la pandemia, a partire da riflessioni legate all’attualità. È una risposta a questa situazione, una reazione.

a sinistra: Lorenzo Vitturi, Manta, Cochinilla Dyed Yarn, Polypropylene Sack, Body in Paracas, 2019 © Lorenzo Vitturi IN BASSO: Luca Campigotto, Honk Kong, 2016 © Luca Campigotto

In base a quali criteri avete scelto gli artisti? Sia io che Elio [Grazioli, N.d.R.] cerchiamo di non fare le squadre, siamo abbastanza curiosi, speriamo abbastanza freschi nella nostra visione. In due abbiamo sommato elementi che non ci sarebbero stati se avessimo organizzato la mostra da soli. Questo è anche l’aspetto divertente della mostra. In alcuni casi abbiamo portato a sintesi delle idee che coincidevano perfettamente, in altri ne abbiamo aggiunte di nuove.


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OLTRECONFINE / BOURSE DE COMMERCE / PARIGI

La nuova Bourse de Commerce di Parigi Arianna Piccolo

L

a nostra epoca in uno sguardo” è l’espressione-manifesto che annuncia al pubblico l’apertura della Bourse de Commerce-Collection François Pinault. Dopo diversi slittamenti causati dalla pandemia, il 22 maggio ha finalmente inaugurato Ouverture, la mostra concepita negli spazi del terzo sito museale voluto dal magnate francese François Pinault, su progetto dall’architetto Tadao Ando. L’edificio, insieme alle due sedi veneziane di Palazzo Grassi e Punta della Dogana, ha lo scopo di mostrare e valorizzare le opere appartenenti a uno dei più importanti collezionisti d’arte contemporanea al mondo. Si tratta di una raccolta impressionante, che costituisce un insieme di più di 10mila opere realizzate da circa 350 artisti a partire dagli Anni Sessanta. Una collezione eterogenea, che testimonia un particolare interesse verso le correnti emergenti.

LA MOSTRA E GLI ARTISTI

Per l’esposizione inaugurale, François Pinault ha deciso di presentare le opere che chiariscono gli orientamenti della sua attività di collezionista, riunendo una trentina di artisti: da Urs Fischer a Maurizio Cattelan, da Martial Raysse a Cindy Sherman passando per Bertrand Lavier, Philippe Parreno e Ryan Gander, solo per citarne alcuni. Il titolo Ouverture si riferisce, letteralmente, all’apertura di un nuovo capitolo del progetto della Collezione Pinault, finalizzato ad avvicinare l’arte contemporanea al grande pubblico. I temi dell’impermanenza, della vanità e del tempo che passa occupano un posto centrale nello spazio della Rotonda e sono incarnati dallo spettacolare Untitled di Urs Fischer. L’opera è composta da nove sculture in cera che riproducono a grandezza naturale il Ratto delle Sabine di Giambologna, ma anche l’effige di un amico dell’artista e nove sedie. Autentico monumento all’impermanenza, Untitled durerà giusto il tempo che servirà alle candele per consumarsi, divenendo il simbolo di una distruzione creatrice. Immerso nello spazio estatico della Bourse de Commerce, intriso di luce proveniente dall’esterno, lo spettatore è riportato alla realtà dalla curiosa incursione di un topolino che spunta dalla sua tana, opera di Ryan Gander. Volgendo lo sguardo verso l’alto, i piccioni imbalsamati di Maurizio Cattelan, disseminati un po’ ovunque lungo il perimetro della passerella, spiazzano per la loro naturalezza, smorzando l’atmosfera quasi sacrale della scenografia espositiva.

Anche per quanto riguarda l’allestimento, Pinault ha voluto che non fosse definitivo, ma solamente il primo atto delle presentazioni future, che restituiranno un’immagine via via più nitida della collezione.

L’ARCHITETTURA DELLA BOURSE DE COMMERCE

Situato nei recenti giardini delle Halles, a metà strada tra il museo del Louvre e il Centre Pompidou, l’edificio della Bourse de Commerce è uno dei monumenti emblematici della storia di Parigi. Concentra quattro secoli di stratificazioni architettoniche e di innovazioni tecniche, racchiudendo il primo esempio di colonna monumentale di Parigi, voluta alla fine del XVI secolo da Caterina de’ Medici, e le vestigia di un mercato del grano edificato nel 1767, caratterizzato dall’impressionante struttura circolare e coperto nel 1812 da una cupola in vetro e metallo, la prima in ferro e acciaio di così grandi dimensioni. Nel 1889 l’intero complesso fu trasformato nella Borsa di Commercio, mantenendo tale funzione fino alla fine degli Anni Novanta. Quando Anna Hidalgo, il sindaco di Parigi, ha proposto a François Pinault di interessarsi all’edificio, necessitava di un restauro completo, che fosse in linea con la sua storia secolare e con la nuova funzione museale. Il compito è stato assolto da Tadao Ando, architetto giapponese noto per la sua sensibilità estetica minimalista, che già in precedenza si era occupato dei siti veneziani della collezione. Il cantiere si è svolto tenendo in considerazione gli elementi storici dell’edificio, attraverso un progetto che ha saputo conciliare radicalità e semplicità, basandosi sulla forma geometrica pura di un cerchio. All’interno della rotonda è stato, infatti, inserito un cilindro di 29 metri di diametro, delimitato da un muro in cemento di 9 metri d’altezza, che accoglie uno spazio espositivo al piano terra e un auditorium nel sottosuolo. Le scale assicurano l’accesso alle dieci gallerie espositive, fino al piano più elevato del cilindro, dove si trova una passerella circolare. Gli affreschi della cupola sono il punto culminante di questo susseguirsi di spazi. Secondo un principio caro all’architettura giapponese tradizionale, la struttura della Bourse de Commerce suggerisce al visitatore un percorso che gli lasci il tempo di “purificarsi”, mediante una scenografia circolare ipnotica che lo allontani dai consueti punti di riferimento per trasportarlo nella dimensione del “qui e ora”.

fino al 31 dicembre

OUVERTURE BOURSE DE COMMERCE 2 rue de Viarmes pinaultcollection.com

Bourse de Commerce – Pinault Collection © Tadao Ando Architect & Associates, Niney e Marca Architectes, Agence Pierre-Antoine Gatier. Photo Patrick Tourneboeuf


OLTRECONFINE / BOURSE DE COMMERCE / PARIGI

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INTERVISTA AL DIRETTORE MARTIN BETHENOD Quale ruolo ha l’imponente architettura della Bourse de Commerce e come interagisce con le opere e le diverse esigenze del museo? Tadao Ando ha utilizzato, parlando del suo intervento a Palazzo Grassi e Punta della Dogana, la bella espressione “trait d’union”. La Bourse de Commerce, quinta tappa della collaborazione iniziata da due decenni tra François Pinault e il grande architetto giapponese, è una nuova versione di questa nozione di “trait d’union”, tra la storia e il presente, tra l’architettura e l’opera d’arte, tra il contesto e gli interni. Il gesto architettonico, in particolare il cilindro di cemento che si inserisce in modo radicale e sottile nella grande sala circolare al centro dell’edificio, permette di disegnare uno spazio espositivo dedicato alla sola contemplazione delle opere, alle quali dà uno sfondo, una scala, una dimensione di astrazione e silenzio, pur lasciando visibile, ma sempre a distanza, il contesto architettonico originale e dunque più antico.

PALAZZO GRASSI

&

Come sarà la programmazione del nuovo museo? Seguirà la logica della programmazione sviluppata dal 2006 a Venezia a Palazzo Grassi, che ho avuto la grande fortuna di dirigere dal 2010 al 2020. La Bourse de Commerce è interamente votata all’arte contemporanea, a partire dalla Collection Pinault e dal suo punto di vista allo stesso tempo unico e impegnato. Come a Venezia, dunque, ma secondo un ritmo differente: da una parte si articola in progetti collettivi o tematici, concepiti guardando alle opere della Collezione (spesso integrate da interventi site-specific o da nuove produzioni) e, dall’altra parte, in progetti monografici ideati intorno agli artisti (il più delle volte insieme agli artisti stessi) con cui la Collezione intrattiene un rapporto forte e duraturo. A questo calendario di esposizioni, che comprenderà dalle 10 alle 15 proposte all’anno, sarà affiancato un programma di incontri, conferenze, ma anche performance, concerti e proiezioni. Uno dei tanti successi di Palazzo BOURSE Grassi, dopo il 2013, è il Teatrino, diventato un DE COMMERCE luogo culturale tra i più attivi di Venezia. L’auditorium della Bourse de Commerce ci permette di andare in questa direzione, senza la quale un museo contemporaneo non avrebbe senso di esistere a pieno.

A CONFRONTO 1748-72 1840 1951

Realizzazione a opera dell’architetto Giorgio Massari

1574-84

La famiglia Grassi vende il palazzo

1763-66

Diventa il Centro internazionale delle arti e del costume

1983

Fiat acquista Palazzo Grassi per allestirvi mostre di arte e archeologia

2005

Comprato da François Pinault

2006

Dopo il restauro a opera di Tadao Ando, nell’aprile 2006 inaugura la mostra Where Are We Going?, con una selezione di opere della raccolta Pinault

1806-13 1885-89 2016

2017-20

Edificata la colonna che è l’ultimo resto del palazzo di Caterina de’ Medici, poi distrutto Nel sito della futura Bourse de Commerce è costruita la Halle au Blé (mercato del grano) La Halle è completata da una poderosa cupola di ferro e ghisa Trasformazione della Halle au Blé nella Bourse de Commerce Il Comune di Parigi dà in concessione per 50 anni a François Pinault la ex Bourse de Commerce Restauro a opera di Tadao Ando Architect & Associates, Niney e Marca Architectes, Agence Pierre-Antoine Gatier

Sia Palazzo Grassi a Venezia che la Bourse de Commerce a Parigi sono edifici storici situati nel cuore della città. Come si crea il legame tra la collezione di arte contemporanea e questi edifici secolari? I musei della Collection Pinault hanno in effetti una identità molto forte di luoghi a dimensione umana, inseriti nel contesto urbano, storico e culturale. Rivendicano questo forte legame con il contesto in cui operano, all’opposto rispetto al “white cube” standardizzato e al dogma dell’autonomia dell’opera d’arte. Gli spazi espositivi riaffermano la loro specificità e il loro carattere eccezionale: a Venezia, le travi, i mattoni, i marmi, le aperture verso il paesaggio lagunare, mentre a Parigi i muri circolari, i decori originali del XIX secolo e le centinaia di aperture verso l’esterno. Questa idea di dialogo con il contesto e di apertura – Ouverture è esattamente il titolo che François Pinault ha voluto dare alla mostra inaugurale del museo parigino – è una grande fonte di ispirazione per gli artisti e di fascino per i visitatori.


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RECENSIONI

fino al 5 dicembre

fino al 7 novembre

a cura di Marco Scotini Catalogo JRP MUZEUM SUSCH Surpunt 78 - SUSCH muzeumsusch.ch

a cura di Anna Coliva e Mario Codognato Catalogo Marsilio GALLERIA BORGHESE Piazzale Scipione Borghese 5 – ROMA galleriaborghese.beniculturali.it

LAURA GRISI. THE MEASURING OF TIME

Lavorare sulla riscoperta delle artiste donne dimenticate è una delle mission del Muzeum Susch, in Svizzera. Già presente nella prima mostra temporanea A Woman Looking at Men Looking at Women, il lavoro di Laura Grisi, scomparsa nel 2017, viene analizzato accuratamente, in omaggio al processo stesso dell’artista. Nata a Rodi nel 1939 da genitori italiani, Laura Grisi frequenta gli ambienti romani, newyorchesi e parigini. La relazione con il popolare filmmaker di documentari Folco Quilici, che sposerà nel 1957, sarà motivo di continui viaggi. Le numerose esperienze fuori porta le permettono non solo di rapportarsi con culture non occidentali, ma anche di sperimentare la fotografia e soprattutto mettere in crisi il suo utilizzo. L’artista, che gira con una Rolleiflex e una Hasselblad, diviene consapevole di come la macchina fotografica sia uno strumento di cattura. Decide quindi di superare l’attitudine coloniale, abbandonando il mezzo fotografico a favore della pittura. Nascono così, nel 1964, le prime tele, in cui i segni testimoniano dell’artificialità del medium.

nel 1969, alla Galleria Marlborough di Roma, gli Antinebbia: colonne totemiche polimateriche, che grazie all’uso di un neon freddo permettono la riproduzione della nebbia artificiale, vero oggetto dell’installazione. Lo stesso anno, a Caorle, Volume d’aria, una stanza a volume cubico totalmente bianca. L’aria diventa così elemento della femminilizzazione dello spazio. LA MOSTRA IN SVIZZERA Come l’aria che abita ogni spazio, Laura Grisi vivifica ogni elemento. Impossibile non cedere alla bellezza delle sue infinite azioni, volte alla riscoperta dell’impercettibile. L’attenzione verso il micro-cosmo è solo uno dei capitoli della mostra svizzera, che assume le sembianze di un viaggio nelle prime due decadi dell’attività artistica della Grisi. Così le venti fotografie, inedite, esposte qui per la prima volta, sono punto di snodo della rassegna. Il display riprende, non a caso, il progetto epico e sacrale di The Family of Man. L’intera mostra ruota attorno alla ricerca e al riconoscimento del mistero che questa grande donna porta con sé.

DAMIEN HIRST. ARCHAEOLOGY NOW

Dopo la visita alla mostra di Damien Hirst a Venezia nel 2017, nessuno avrebbe potuto immaginare che un’esposizione di quelle dimensioni avrebbe avuto un sequel in grande stile e in una cornice unica al mondo, la Galleria Borghese. Archaeology now non è solo una mostra ma una lettura del presente attraverso lo sguardo scomodo e tagliente di Damien. Se a Venezia Hirst aveva giocato la carta della meraviglia, sconfinando spesso nel territorio del kitsch, a Roma invece punta sul mimetismo, proponendo le sue opere come un ideale prolungamento della collezione Borghese, arrivando in alcune sale del piano terreno (come la Sala Egizia) a una simbiosi perfetta.

di mettere accanto a severi esempi di statuaria romana gli scandalosi dipinti di Caravaggio. IL CONFRONTO CON IL PASSATO Pur con alcuni accostamenti meno riusciti, come i Five Grecian Nudes nella sala di Paolina o la serie dei Five Friends nella sala di Mariano Rossi, la mostra ci mette di fronte ad alcune problematiche sulle quali è opportuno riflettere: l’evoluzione del gusto, i limiti del rapporto tra antico e contemporaneo, la possibilità che un museo d’arte antica possa essere trasformato ipso facto nell’opera di un artista vivente in grado di confrontarsi ad armi pari con la storia dell’arte. In questo caso Hirst ha voluto misurarsi con Scipione sullo stesso piano, quasi per suggerirgli nell’orecchio che si può combattere con il passato se si ha coraggio, visione e consapevolezza.

DALLA PITTURA AL NEON Una sorta di climax caratterizza la pratica di Grisi. Dalla pittura si dedica alla realizzazione di pannelli scorrevoli, combinati e combinanti. Subito dopo l’aggiunta del neon. Nel 1968, invitata al Teatro delle mostre, propone una stanza completamente buia. Solo un ventilatore con 40 nodi di velocità investe lo spettatore. Un anno dopo,

HIRST E LA COLLEZIONE BORGHESE Davvero inquietanti i due esemplari di Skull of Cyclops o il Museum Specimen of Nautilus Shell nella loggia di Lanfranco al primo piano, che ricordano i connubi tra naturalia e artificialia delle Wunderkammer rinascimentali, capaci di stupire gli ospiti dei Gonzaga nel Palazzo Ducale di Mantova, tra coccodrilli impagliati e corna di narvalo, mentre A collection of weapons rimanda alle raccolte d’armi presenti in alcune case museo come il Poldi Pezzoli di Milano. A Hirst non sono sfuggiti nemmeno gli assi prospettici tipici delle dimore secentesche, che ha riproposto collocando Extraordinarily Large Museum Specimen of Giant Clam Shell davanti al Ratto di Proserpina di Bernini, andando incontro al gusto audace e coraggioso di Scipione, che non temeva

Laura Grisi, Antinebbia (Antifog), 1968. Installation view a Roma, 1968 © Laura Grisi Estate

Damien Hirst, Neptune. Collezione privata. Photo A. Novelli © Galleria Borghese – Ministero della Cultura © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved DACS 2021/SIAE 2021

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Autrice protagonista dell’ultima raccolta di Canicola A.M.A.R.E., Eliana Albertini (Adria, 1992) è una delle nuove matite della nona arte italiana. Le sue storie parlano di adolescenza, provincia e altre “terre di mezzo”. Cosa significa per te essere fumettista? Significa avere l’opportunità di andare a fondo nelle cose con il mezzo espressivo che ho scelto, di osservare e trasporre tutto filtrandolo con i miei disegni e le mie parole, di capire le cose del mondo attraverso i fumetti e di capire i fumetti attraverso le cose del mondo.

LUGLIO L AGOSTO 2021

Eliana Albertini

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Sei nata in provincia di Rovigo nel 1992. Ti presenti? Ho vissuto in un piccolo paese fino ai 19 anni, poi mi sono trasferita a Bologna per frequentare l’Accademia. Lì ho trovato tutto quello che mi serviva per capire cosa avrei voluto fare, ma soprattutto la consapevolezza che anche ciò che avevo vissuto dagli 0 ai 19 anni mi sarebbe stato molto utile. È stato bello anche per le esperienze “extra” accademiche, come Blanca, collettivo di fumetto e illustrazione che ho fondato nel 2013 insieme a Irene Coletto, Martina Tonello e Noemi Vola.

Dal 2017, anno del tuo esordio con Luigi Meneghello, apprendista italiano, di cose ne sono cambiate... È stato un libro che mi è servito molto e ancora adesso ci sono affezionata. Da allora sono cambiate molte cose ma in realtà mi sento come allora: nel bel mezzo di una ricerca infinita.

L SHORT NOVEL L

Sei considerata uno dei giovani talenti del fumetto italiano. Come ti collochi all’interno di questa scena e cosa vedi intorno a te? Non riesco a collocarmi e, quando qualcuno lo fa, difficilmente mi sento rispecchiata. Ognuno nel lavoro altrui vede ciò che sente più vicino, e probabilmente lo faccio anch’io con il lavoro degli altri. Detto ciò, credo che il fumetto in Italia stia vivendo un bel momento e sono sempre più curiosa di ciò che può riservare il futuro.

Nei tuoi lavori prevale un forte senso di adesione alla realtà. Cosa ti ispira? Penso che il mondo sia pieno di storie che devono solo essere trovate e raccontate. Lo penso quando cammino per strada o quando sento parlare le persone che non conosco. Il guardare disimpegnato è diventato il modo per ispirarmi, soprattutto da quando ho iniziato a lavorare a Malibu, il secondo libro che ho realizzato per BeccoGiallo. E la tavola qui di fianco, invece, da cosa nasce? È nata molto liberamente, partendo da un disegno che avevo realizzato in precedenza: l’ho usato come pretesto per iniziare un dialogo interiore in cui penso molti possano ritrovarsi dopo questo lungo anno e mezzo. Cosa vuol dire raccontare, facendone parte, la periferia italiana? Se non facessi parte di quell’universo, non sarei mai riuscita a raccontarlo. Per questo motivo Malibu sarà sempre il libro del mio cuore, come la casa in cui si cresce da bambini. Quanto si è penalizzati (o, viceversa, quanto si guadagna) stando lontani dai grandi centri culturali del Paese? Penso che ci siano dei pro e dei contro sia nel crescere in città, sia nel crescere in provincia, ma personalmente non farei mai a cambio. Dalla provincia puoi imparare a vivere in città, ma è abbastanza difficile che avvenga il contrario. elianaliena_

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a scomparsa inattesa di Giulia Niccolai è un fatto che rattrista profondamente. Eppure, sono sicuro che se avesse anche solo sospettato che mi accingevo a scrivere un coccodrillo per lei, per giunta in forma di frisbee, sarebbe uscita in una di quelle sue famose e irrimediabilmente contagiose risate. Si dice che Giulia abbia vissuto tre vite: la prima, quella da fotografa di talento, inviata per Life e Paris Match, rotocalchi per i quali aveva anche realizzato reportage sulle Olimpiadi del 1960; poi quella di scrittrice e poetessa, vicina al Gruppo 63, compagna di Adriano Spatola e affascinata dalla poesia visiva; e infine, dal 1990, monaco buddista. A me, però, è sempre parsa una persona unica – non solo nel senso di unitaria, al di là delle vicissitudini e delle stagioni in cui ci trascina la vita, ma unica nel senso di irripetibile, peculiare, irriducibile ad alcun parametro. Ricordo bene quando, da adolescente, l’ho conosciuta a metà degli Anni Settanta, raggiungendo lei e Adriano al Mulino di Bazzano, dopo un viaggio su un trenino da presepe e l’ultimo tratto in autostop, fino alla grande casa sulle rive dell’Enza. Già allora, quella coppia di poeti che abitava alla periferia di tutto, ed era stata capace di trasformare quell’esilio nel centro di ogni cosa, appariva a me e ai miei amici come un qualcosa di semi-mitologico. Ancora oggi non saprei dire con esattezza che cosa mi condusse fino a lì – ma l’incontro fu comunque superiore a ogni aspettativa. Al mulino infatti si macinava davvero letteratura, si produceva poesia, si faceva arte. E lo si faceva in diretta, sul grande tavolo del soggiorno, bevendo e parlando sul grande tavolo del soggiorno, ascoltando vecchi dischi di Mina, creando nonsense in italoamericano e andando di forbici e colla per creare un nuovo numero della leggendaria Antologia di Geiger (il periodico d’arte e poesia, numerato e firmato, fiore all’occhiello della casa editrice omonima). A quell’epoca, Adriano e Giulia apparivano come un duo poeticamente complementare, ma anche come un duplice nume tutelare dai caratteri ben distinti; se Adriano era istrionesco e teatrale, pur nel rigore di certe

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sue composizioni accuratissime, Giulia era invece ospitale e apparentemente noncurante, ma dotata di un occhio fotografico quasi implacabile (non le sfuggì la punta acuminata dei miei peraltro abbastanza ridicoli stivaletti da pseudo-cowboy). E devo dire che ho sempre ritrovato le medesime qualità anche quando ci siamo rivisti in seguito, nella sua casa di Milano o a qualche lettura di poesia in giro per l’Italia. Insomma, si sarebbe quasi tentati di dire che Giulia non sia stata rispettivamente una fotografa, una poetessa e un monaco buddista, ma piuttosto che in lei fotografia, poesia e buddismo si siano inspiegabilmente fusi in un mélange inimitabile, tanto impossibile da pensare quanto semplice (per lei) da praticare.

È strano come ci si renda conto sempre troppo tardi di quali sono stati gli incontri che ci hanno davvero formato. Ma mi sento di poter dire che Giulia Niccolai, con i suoi frisbees e col suo olimpico sense of nonsense, è certamente stato uno di quelli.

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FRISBEE PER GIULIA testo di

MARCO SENALDI [ filosofo ] L



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