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L Marcello Faletra Deserti urbani || 19 L Christian Caliandro Fuoriuscita

DESERTI URBANI

Se la città fosse una specie, e la cultura fosse soggetta alle leggi della selezione naturale, probabilmente sarebbe già scomparsa. E si potrebbe vedere nella presenza onnivora del turismo una forma di terapia intensiva di ciò che resta di essa.

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La pandemia, come in un film di fantascienza, ha reso i centri storici luoghi deserti, residui culturali, dove la presenza dell’uomo, con le sue relazioni e compromissioni sociali, è in via d’estinzione. La città-fiction, la città-cartolina, la città-museo, la città consumo, senza la tera-

pia intensiva del turismo, è una città

morta. In essa l’uomo scomparedietro il turista. Allo stesso modo la città scompare dietro la sua immagine pubblicitaria in un monologo fatale.

Niente a che vedere con le piazze vuote fotografate da Eugène Atget agli inizi del secolo scorso.

Nei primi anni del Novecento la percezione del vuoto metropolitano appariva come una sorta di “inconscio ottico” (Walter Benjamin) che separava, al modo di una buccia, l’uomo dall’ambiente circostante. La percezione del vuoto urbano era vissuta come una scoperta di archeologia del presente, dove la città poteva essere riscoperta come un veicolo di esperienze fuori dalle abitudini quotidiane. Le fotografie di Atget hanno registrato ciò che restava della città in una società votata alla saturazione dello spazio urbano con i manifesti pubblicitari, la cui metamorfosi, oggi, è il culto indiscusso del brand di una città. La fotografia di Atget, per Walter Benjamin, registrava questo isolamento fenomenico, fino a vederlo anche nelle espressioni dei volti.

Ma il vuoto o il deserto generato dalla pandemia ha un altro volto. Un esempio: il vuoto di Las Vegas durante la pandemia aveva qualcosa di spettrale e magico allo stesso tempo. La città-insegna per eccellenza, la città della persuasione totale al gioco d’azzardo, ha vissuto per mesi nello splendore della sua inutilità, che si è aggiunto allo splendore effimero della sua pubblicità.

In questo scenario, in alcune città storiche, le periferie si prendono una rivincita. In esse lo scambio sociale, non mediato dal turismo, paradossalmente ha ancora luogo. Ma le periferie di città come Napoli, Istanbul o Rio de Janeiro – città storiche ma con altri destini – non sono uguali a quelle di città come Firenze o di altre bomboniere storiche. In quest’ultima la museificazione dello spazio urbano ha

Piazza Santo Spirito a Firenze. Photo Alessandro Naldi

La città-insegna per eccellenza, Las Vegas, la città della persuasione totale al gioco d’azzardo, ha vissuto per mesi nello splendore della sua inutilità.

comportato la scomparsa del patrimonio relazionale a vantaggio dell’unica forma di relazione sociale in essa consentita: il consumo della storia. A Napoli o a Palermo, invece, la periferia agisce come propulsore del disordine, un agitatore dell’equilibrio sociale – esiste come un sommovimento che dagli estremi della cinta urbana accerchia la città vecchia e sovverte ogni ordine sociale. C’è una violenza della gentrificazione e della religione del brand a cui risponde, come in uno specchio, una violenza della periferizzazione di vaste aree della popolazione espropriata dei suoi luoghi d’origine.

Se la città è un sogno a occhi aperti come vuole la propedeutica al consumismo, occorre capire la natura di questo sogno. Se esso è trasportato dalla seduzione feticistica della città-cartolina, oppure se agisce come il flâneur di Baudelaire, che gironzola senza scopo, sognando la sua inutilità radicale in un mondo dove tutti recitano con ossequiosa disciplina la parte di un utile consumatore.

FUORIUSCITA – PARTE SECONDA

Ormai ho capito di qua come funziona, dove non so ancora niente è come funziona di là, dall’altra parte, dove questi artisti, illudendomi, molto spesso hanno finto di voler andare e dove io sono andata.” Carla Lonzi

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Uno degli aspetti più affascinanti del percorso compiuto da Carla Lonzi lungo gli Anni Settanta consiste proprio in questo senso di scoperta: la sensazione cioè di addentrarsi in un territorio sconosciuto, nuovo (“di là, dall’altra parte”), dove vigono regole ignote e in ogni caso completamente diverse dalle convenzioni che regnano “di qua”. Questa idea è accompagnata dalla

disillusione e dalla delusione nei con-

fronti degli artisti, che all’epoca di Autoritratto e ancora all’inizio del decennio erano considerati i depositari dell’autenticità, le uniche figure davvero in grado di liberare se stesse e gli altri, di fare esperienza concreta e completa della libertà, e invece hanno illuso l’autrice, ritirando di fatto la reciprocità sognata e richiesta. Ma che cosa è in fondo questa terra “di là, dall’altra parte”, dove “gli artisti… molto spesso hanno finto di voler andare” e dove invece la Lonzi è approdata? Come è fatta?

È una zona la cui conoscenza prende corpo e si articola gradualmente, attraverso l’abbandono della critica d’arte e del mondo dell’arte, e allo stesso tempo con l’esplorazione del femminismo e della sua pratica. Il nuovo mondo si definisce sempre attraverso la dicotomia inautentico-autentico, potere-negazione del potere.

Fin dal testo con cui Carla Lonzi si congeda dalla critica nell’anno-chiave del 1970, e con cui partecipa al dibattito su NAC inaugurato da Per una critica acritica di Germano Celant spostando decisamente i termini della questione, è chiaro che i due territori sono incompatibili e incommensurabili, si muovono su piani distinti e che non comunicano: “Il motivo per cui la funzione critica appare in sé un vero e proprio progetto di falsificazione sta in ciò che essa vuole, a giustificare sul piano delle idee qualcosa che è esclusivamente frutto di una condizione di autenticità. (…) ciò che è vero per l’artista non è affatto vero per la società: né la cultura né la società vivono sull’autenticità, semmai speculano su quella degli altri, cioè vivono su un piano di potere, di gestione indiscriminata dell’autentico e dell’inautentico. Il critico, in quanto fa dell’opera una costruzione di idee, punta sulla connivenza cultura-società all’interno della

La critica è potere rivela con lucidità come gli strumenti tradizionali siano ormai del tutto inadeguati, così come la cornice in cui l’intera discussione si inserisce.

quale non vige alcuna distinzione tra operazione autentica e perciò immune dalla ricerca di potere e operazione mediatrice e perciò stesso alla ricerca di potere, di persuasione, dunque inautentica” (La critica è potere, 1970).

Qui ancora l’artista è in grado di vivere e agire a pieno titolo nell’autenticità, mentre in seguito ci sarà la presa di coscienza che “finiva tutto lì, in una spettatrice ideale”. Ma ogni tentativo di trasferire l’autenti-

cità sul piano delle idee e della cultura è

destinato a fallire, proprio perché la critica come operazione mediatrice si muove sempre sul livello del potere e della sua ricerca.

In confronto a questo testo, la critica acritica – tutta incentrata su “racconto”, “archiviazione”, “registrazione” – suggerita e delineata da Celant si propone quasi come una versione depotenziata del metodo rivoluzionario offerto un anno prima da Autoritratto, un metodo che frantumava il soggetto in un racconto corale e collettivo: “L’arte contemporanea in questo momento chiede di essere lasciata in pace, non vuole essere ridotta a parole (…), non vuole intervenire o offrire una lettura del mondo, non si pone in chiave moralistica” (Per una critica acritica, 1970). Critica, dunque, “come archivista, come bibliotecaria, come documentarista, come traduttrice dei mezzi di informazione in mezzi di documentazione” (ibidem).

La critica è potere sposta invece i termini proprio perché rivela con lucidità come gli strumenti tradizionali siano ormai del tutto inadeguati, così come la cornice in cui l’intera discussione si inserisce. Sarà infatti solo la nuova attrezza-

tura intellettuale provvista dal femminismo a chiarire la questione centrale del

potere. Dieci anni dopo, infatti, la concezione si precisa così: “Probabilmente il mostro che sta dietro tutti i nostri discorsi è che l’uomo sente che, arrivato a questo punto, dovrebbe mettere in crisi il suo piano di potere, perché lui si sta rivelando un individuo che tiene un piede in due staffe; si alimenta in un mondo dove il potere viene negato in quanto si parla su un piano di autenticità, poi riporta tutto sul piano culturale in cui precisamente l’oggetto che produce entra in un sistema di potere” (Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, 1980).

La contraddizione dell’artista sta in questa continua operazione di traduzione, che rappresenta di fatto un tradimento costante delle premesse e delle istanze iniziali e che per questo è destinata al fallimento. L’autenticità è necessaria all’opera e alla creatività, ma ogni volta che viene riportata sul piano culturale essa decade. Si degrada.

Ligornetto, Svizzera

museo-vela.ch

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