23 minute read

L Maria-Elena Putz

I SÁMI. ARTE E CULTURA DELL’UNICA POPOLAZIONE INDIGENA EUROPEA

MARIA-ELENA PUTZ [ progettista culturale | storica dell’arte ]

Advertisement

Ricordate il video promozionale della SAS, la Scandinavian Airlines, diffuso l’anno scorso? Spiegava come non ci fosse nulla di “veramente scandinavo” e che la forza di quell’area geografica risiedesse proprio nel riuscire ad assimilare, nel corso dei secoli, le tradizioni più varie, costruendo una società aperta e multiculturale. Al di là degli obiettivi della campagna marketing, il tema dell’identità culturale in Norvegia è per certi versi ancora scottante, attuale e poco conosciuto oltreconfine.

IDENTITÀ CULTURALI IN NORVEGIA E RICONOSCIMENTO DEI SÁMI

La Scandinavia e le fiabesche regioni dell’Artico raccontano una storia antichissima, ma certi capitoli legati al colonialismo nordico sono ancora poco noti, forse perché troppo distanti dai succitati cliché, o forse perché la versione più conosciuta della storia è quella che di regola scrivono i “vincitori”. Fatto sta che, in Italia, arte e cultura del popolo Sámi sono rimaste a lungo trascurate e immerse in una coltre di nebbia.

Unica popolazione indigena riconosciuta in Europa, i Sámi hanno abitato fin dall’antichità le regioni della Fennoscandinavia e identificano nel Sápmi la loro patria, un territorio transnazionale che comprende le

regioni settentrionali di Norvegia, Svezia,

Finlandia e la penisola russa di Kola. Parlano almeno dieci dialetti diversi a seconda del luogo di provenienza e costituiscono una comunità che conta circa 55mila persone soltanto in Norvegia.

Nonostante il legame storico con il loro territorio di appartenenza, i Sámi hanno dovuto lottare per il riconoscimento del loro status e dei loro diritti, restando tuttavia discriminati e ignorati “in casa” fino alla fine

SÁPMI

Svezia Norvegia Finlandia

Russia

In Italia, arte e cultura del popolo Sámi sono rimaste a lungo trascurate e immerse in una coltre di nebbia.

del XX secolo. La politica norvegese li ha vincolati di fatto per anni a un programma ufficiale di “norvegesizzazione” forzata in base al quale il tradizionale stile di vita, la lingua e la cultura Sámi sono stati sistematicamente repressi. E sarebbero andati distrutti del tutto se non fosse stato per la tenacia e la resilienza della popolazione indigena locale. Importante punto di svolta dal punto di vista sociale, culturale e legale fu la prima protesta “eco-indigena” d’Europa, passata alla storia come Controversia di Álta (19791981). In quell’occasione, attivisti Sámi e ambientalisti unirono le forze per opporsi alla costruzione di una diga e di una centrale idroelettrica che avrebbero irrimediabil-

mente danneggiato una vasta area del Finnmark intorno al fiume Álta e alla città di Máze, compromettendo la sussistenza delle economie rurali della zona, l’allevamento delle renne e la conservazione di un ambiente animale e vegetale estremamente ricco.

Oltre a costituire un momento storico di cruciale importanza per la Norvegia in materia di sviluppo delle politiche energetiche e sfruttamento delle risorse naturali, la Controversia di Álta portò a una riforma sostanziale della Costituzione e della politica norvegese a tutela dei Sámi, a un crescente riconoscimento dei diritti di questa popolazione, nonché all’istituzione del Parlamento Sámi (Sámediggi), inaugurato dal re di Norvegia, Olav V, nel 1989.

I SÁMI ATTRAVERSO LA STORIA DELL’ARTE E IL COLLEZIONISMO ISTITUZIONALE

Gli artisti Sámi sono stati, e continuano a essere, profondamente impegnati nei movimenti di emancipazione politica e culturale del Sápmi e l’arte ha storicamente rappresentato il loro mezzo di espressione più importante per comunicare identità, idee e valori al di fuori dei territori del nord.

Eppure, la ricchezza della loro arte fu per anni raccontata sommariamente o addirittura oscurata del tutto nei manuali di storia dell’arte; opere e manufatti, salvo rarissime eccezioni, furono esposti unicamente in musei etnografici, tanto in Norvegia quanto nei vicini Paesi scandinavi.

1 2 4

EVENSKJER

DRAG 7 12 6

SAMUELSBERG 11

VARANGERBOTN

14

ROVANIEMI

10

9

OSLO

3 8 13

UMEA

STOCCOLMA HELSINKI

La Controversia di Álta portò a una riforma sostanziale della Costituzione e della politica norvegese a tutela dei Sámi.

Da una decina di anni a questa parte, la velata indifferenza verso le pratiche artistiche Sámi si sta diradando. Al suo posto sta fiorendo un vivace dibattito intorno alle prospettive postcoloniali grazie al supporto di alcune istituzioni e al prezioso lavoro di ricercatrici e ricercatori delle università scandinave, senza i quali sarebbero andate parzialmente perdute molte delle importanti testimonianze materiali e immateriali dell’arte Sámi, oggi raccolte, studiate, catalogate e valorizzate attraverso mostre, dibattiti e pubblicazioni.

Il riconoscimento nazionale e internazionale della cultura Sámi ha comportato più di recente maggiore attenzione da parte dei

DOVE VEDERE L'ARTE SÁMI

1 NORGES ARKTISKE

UNIVERSITETSMUSEUM

uit.no

2 NORD NORSK KUNSTMUSEUM nnkm.no

3 KORO koro.no

4 DE SÁMISKE SAMLINGER rdm.no

5 SÁMI DÁIDDAGUOVDDÁS samidaiddaguovddas.no

6 DAVVI ÁLBMOGIID GUOVDDÁS senterfornordligefolk.no

7 ARRAN

arran.no 8 KULTURHISTORISK MUSEUM khm.uio.no

9 NORSK FOLKEMUSEUM norskfolkemuseum.no

10 NASJONALMUSEET nasjonalmuseet.no

11 VÁRJJAT SÁMI MUSEA

varjjat.org

12 VÁRDOBÁIKI SÁMISK SENTER vardobaiki.no

13 BILDMUSEET bildmuseet.umu.se

14 KORUNDI korundi.fi

Synnove Persen, Utkast til samisk flagg, 1978. Photo credit Nasjonalmuseet © Synnove Persen/BONO La prima versione non ufficiale della bandiera Sámi venne realizzata nel 1977 dall’artista attivista norvegese Synnøve Persen e ci porta diritti nel cuore della Controversia di Álta. Ideata inizialmente con lo scopo di rafforzare l’identità di una comunità Sámi indebolita e marginalizzata da decenni di politiche coloniali, la bandiera di Persen venne utilizzata durante le manifestazioni di Álta e Oslo (197881), divenendo presto un simbolo di protesta e lo specchio di una comunità impegnata nella lotta per i diritti fondamentali delle popolazioni indigene del nord. Esposta nel 1978 alla mostra Sámi Álb’mut presso il Museo Etnografico di Oslo tra le proteste dell’allora direttore del museo – che si era detto contrario a mostrare un vessillo non norvegese in un’istituzione culturale –, la bandiera di Synnøve Persen fu poi sostanzialmente dimenticata dal mondo artistico fino al 2017, quando venne esposta prima a Trondheim in occasione delle celebrazioni del centenario della prima Assemblea Sámi e subito dopo ad Atene in occasione della Documenta 14. Il riconoscimento internazionale valse a questa simbolica bandiera l’ingresso nella collezione permanente del Nasjonalmuseet di Oslo nello stesso anno. Sarà esposta al pubblico nella sede del nuovo museo a partire dal 2022. La bandiera attualmente in uso è stata rivisitata e ridisegnata dall’artista norvegese Astrid Båhl e adottata ufficialmente nel 1986. Rappresentativa di tutte le comunità Sámi, è costituita da fasce verticali blu, rosso, giallo e verde e da un cerchio mezzo rosso (il Sole) e mezzo blu (la Luna). I colori riprendono quelli dei tradizionali indumenti Sámi, mentre la forma circolare riporta ai simboli Sámi pre-cristiani presenti anche nelle decorazioni dei tamburi sciamanici (runebomme) e al legame indissolubile di queste comunità con la natura.

musei e delle istituzioni pubbliche anche nella capitale Oslo, dove hanno finalmente intrapreso una strada costruttiva e virtuosa, sia nell’aggiornamento scientifico degli addetti ai lavori, impreparati rispetto alle tematiche indigene, sia nell’arricchimento delle collezioni pubbliche.

Norsk Folkemuseum e Nasjonalmuseet di Oslo, ovvero due dei musei più importanti della Norvegia, sono coinvolti direttamente in questo processo di autentica emancipazione culturale del Paese. Mentre il primo ha avviato nel 2012 un ampio programma di restituzioni del patrimonio culturale e artistico Sámi verso i territori di origine (progetto Bååstede), il Nasjonalmuseet – il museo nazionale norvegese di arte, architettura e design – ha inaugurato un programma di acquisizioni volto a colmare le evidenti lacune fin qui emerse rispetto all’arte Sámi. Alle opere di John Savio e Iver Jåks, già presenti in permanente, si sono aggiunte dal 2017 anche quelle di Hans Ragnar Mathisen, Britta Marakatt-Labba, Aslaug Magdalena Juliussen, Synnøve Persen, Inger Blix Kvammen e Máret Ánne Sara, quasi tutte caratterizzate da un forte contenuto politico. In oltre duecento anni di storia del

Nel 2022 il Nasjonalmuseet aprirà la sua nuova sede con una collezione più inclusiva, a segnare un cambio di passo e una nuova sensibilità.

Nasjonalmuseet, le opere di questi artisti verranno esposte per la prima volta nella nuova sede museale, che aprirà al pubblico nel 2022 con una collezione più inclusiva, a segnare un cambio di passo e una nuova sensibilità verso le differenze culturali nazionali, quali parti integranti e imprescindibili dell’identità scandinava.

LA PRODUZIONE ARTISTICA SÁMI

Cosa sia, cosa rappresenti e che cosa definisca un’opera d’arte Sámi sono domande che oggi non trovano ancora una risposta univoca, sebbene il tema sia dibattuto dalla fine degli Anni Settanta. Sappiamo però che, tradizionalmente, l’arte in quanto disciplina e fenomeno indipendente è inesistente nella prospettiva indigena dei Sámi, che connette invece le pratiche estetiche all’epistemologia, alla mitologia e alle attività quotidiane, elevando ogni attimo dell’esistenza a un’esperienza artistica di per sé.

Nella cultura Sámi l’opera nasce dunque da un equilibrio di conoscenze riassumibili nel concetto di duodji. Nella prospettiva occidentale non esiste sinonimo o parola adatta a definire questo termine senza perderne significati e valori essenziali, e non

La cultura immateriale del popolo Sámi è immensamente ricca e ha rappresentato pressoché l’unica forma di trasmissione della conoscenza fino a circa la metà del XX secolo. Visto in quest’ottica, lo joik, il canto tradizionale Sámi, riproduce molto di più che una semplice melodia cantata individualmente e descrive un legame culturale che unisce più generazioni. I suoni e i ritmi di cui si compongono gli joik corrispondono a emozioni, messaggi, pensieri, e contengono raramente parole. Dichiarato blasfemo durante la cristianizzazione per la sua vicinanza ai riti sciamanici e bandito durante la “norvegesizzazione” del Paese, lo joik è entrato nella cultura pop e moderna a partire dal 1980, quando Sverre Kjelsberg e Mattis Hætta portarono all’Eurovision Song Contest un brano che recitava lo joik nel ritornello. Il momento più solenne nella storia di questa musica fu quando Nils-Aslak Valkepää intonò lo joik durante la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Lillehammer del 1994, facendo per la prima volta conoscere al mondo intero questa forma di canto popolare. Considerato un’icona nel mondo artistico Sámi, Valkepää (1943-2001) è stato un poeta, artista multidisciplinare e joiker di origini svedesi, che visse gran parte della sua vita a Skibotn (Tromsø). Definì con queste parole la melodia tradizionale del suo popolo: “Lo joik è la musica popolare dei Sámi. È un canto libero, flessibile. Non ha inizio né fine. È semplicemente vivo”. Oggi lo joik conta numerosi interpreti e, tra questi, Mari Boine, che ha saputo rinnovare il canto tradizionale fondendolo con melodie e ritmi jazz, rock e folk. Accanto agli joiker, sono numerosi gli artisti che hanno scelto di integrare l’aspetto sonoro e quello visivo, dedicandosi a produzioni video, documentari e cortometraggi. Riconosciuti internazionalmente per la qualità dei loro lavori, partecipano con i loro progetti ai più prestigiosi festival cinematografici, come il Sundance negli Stati Uniti o il Tromsø Film Festival in Norvegia. Tra questi si ricordano Elle Márjá Eira, Marja Bål Nango e Maria Helander. Infine, si segnalano due proposte cinematografiche diversissime tra loro per contenuto, tipologia e target di riferimento, che hanno avuto una distribuzione su scala globale. Il primo è un film drammatico intitolato Sami Blood (Sameblod) e presentato in anteprima al Toronto Film Festival del 2016, che racconta la storia di Elle Marja e la discriminazione dei Sámi in Svezia. Il secondo, invece, è la fortunatissima saga Disney di Frozen (2013), che prende spunto direttamente dalla cultura dei Sámi nelle tematiche, nei costumi, nelle ambientazioni, nonché nelle parole e nella musica (si pensi alla melodia Vuelie). Per la realizzazione di Frozen II (2019) la Disney si è impegnata ufficialmente a coinvolgere, riconoscere e rappresentare la comunità indigena del Sápmi facendosi carico del doppiaggio in lingua Sámi.

Pauliina Feodoroff, CO2lonialNATION, 2017. Photo credit IIkka Volanen

può quindi essere tradotta e adattata a categorie come l’artigianato artistico o le arti applicate. L’ampio e importante significato del concetto di duodji è dunque un concentrato di tradizioni, storia, conoscenze collettive e spirituali espresse attraverso la fisicità di un oggetto realizzato con materiali naturali, come legno, pelle, corna di renna, argento o altri materiali derivanti da scambi e baratti. Duodji può anche essere il risultato di un atteggiamento o un approccio che contempla la capacità di assemblare materiali di riciclo. Viene realizzato dai duojárs, la cui abilità è tramandata nei secoli di generazione in generazione.

In quest’ottica cambia anche il criterio di valutazione del duodji, dove la sua bellezza non si ferma a un mero giudizio estetico ma contempla la perfezione rispetto allo scopo e all’utilità del manufatto prodotto. Ecco dunque che la bellezza di un semplice coltello da caccia, ad esempio, sta racchiusa in un insieme di caratteristiche: deve essere affilato, comodo da maneggiare, perfettamente forgiato per il suo scopo, mentre il raffinato decoro dell’impugnatura deve essere realizzato con le corna recise della renna.

L’ampio significato del concetto di duodji è un concentrato di tradizioni, storia, conoscenze collettive e spirituali.

Nel XX Secolo, tuttavia, si sono affermati artisti multidisciplinari, che hanno ampliato il loro repertorio spingendosi oltre il concetto duodji, pur ispirandosi alle tradizioni Sámi. È il caso, per fare qualche esempio, di Joar Nango (1978), Áillohaš / Nils-Aslak Valkepää (1943-2001), Iver Jåks (1932-2007) o del loro precursore John Savio (1902-

1938), il primo artista Sámi ad aver rice-

vuto una formazione accademica.

Gli artisti appartenenti alle comunità Sámi e attualmente attivi lavorano con una grande varietà di media, tra cui scultura, video, installazione, stampa su legno, ricamo e fotografia, e sono ancora indissolubilmente legati al concetto di duodji.

MÁZEJOAVKU: UN COLLETTIVO RIVOLUZIONARIO

Otto persone con diverso background sociale, artistico e culturale si ritrovarono a Máze (Finnmark) alla fine degli Anni Settanta e fondarono il collettivo Mázejoavku. Accomunati dalla loro identità e da esperienze discriminatorie simili, gli otto artisti del gruppo hanno saputo tradurre nelle loro opere il desiderio di affermazione, di rinascita culturale e sociale delle popolazioni Sámi.

Aage Gaup, Trygve Lund Guttormsen († 2012), Josef Halse, Berit Marit Hætta, Rannveig Persen, Hans Ragnar Mathisen, Britta Marakatt-Labba e Synnøve Persen – questi i loro nomi – hanno avuto il merito di cambiare radicalmente la percezione dell’estetica Sámi nelle regioni nordiche, affermando il potente ruolo comunicativo e aggregante della cultura indigena di fronte al colonialismo nordico. Riconosciuti ancora oggi come pionieri, rappresentano i pilastri culturali della

storia dell’arte contemporanea del Sápmi.

La partecipazione di Britta Marakatt-Labba, Hans Ragnar Mathisen e Synnøve Persen alla Documenta 14 nel 2017 ha confermato ancora una volta il valore delle istanze poste da questa generazione di artisti, sia nel dibattito culturale contemporaneo sia nel loro ruolo di guida per i giovani artisti Sámi.

NASCERÀ UN MUSEO D’ARTE SÁMI?

Per capire cosa ne sarà del museo Sámi in Norvegia si dovrà attendere almeno la fine del 2021. Solo allora si saprà se avrà un esito positivo la proposta della direttrice del Riddo Duottar Museat di Karasjok, Ánne May Olli, di ospitare a Oslo un museo temporaneo Sámi usufruendo dei vecchi spazi espositivi del Nasjonalmuseet. Sebbene temporanea, sarebbe un’ottima soluzione per il progetto di un museo d’arte Sámi richiesto fin dalla metà degli Anni Settanta e mai realizzato.

Per capire meglio l’argomento bisogna partire dal 1972, anno dell’inaugurazione di SVD – De Sámiske Samlinger, prima istituzione culturale Sámi, spazio polifunzionale e luogo aggregativo situato nella città norvegese di Karasjok. Progettato in stile modernista dagli architetti Magda Eide Jessen e Vidar Corn Jessen utilizzando principalmente cemento e legno di pino, l’edificio venne decorato internamente dall’artista Sámi Iver Jåks, che ha realizzato pannelli di varie dimensioni in legno intagliato e dipinto, dettagli in ottone per corrimano e maniglie con chiari riferimenti religiosi e simboli tradizionali Sámi. Nonostante la “mission” iniziale di SVD non fosse quella di un museo, la collezione di quest’istituzione si è arricchita negli anni grazie a depositi, donazioni private e ai nuovi acquisti resi possibili grazie al supporto economico del Parlamento Sámi. Attualmente conta 1.500 opere, 2.000 fotografie e circa 500 opere su supporto digitale e audio, realizzate dagli artisti attivi su tutto il territorio del Sápmi ed è oggi la più vasta e importante collezione d’arte Sámi al mondo.

La promessa mai mantenuta dal Ministero norvegese per i Beni Culturali per la costruzione di un museo rende non solo difficile la conservazione, la valorizzazione e la gestione di questa collezione, ma anche parzialmente inaccessibile al pubblico questo immenso patrimonio. Il crescente interesse per l’arte Sámi, il suo riconoscimento internazionale, nonché l’attuale dibattito intorno ai temi della decolonizzazione e valorizzazione delle culture indigene, hanno rinnovato le speranze degli addetti ai lavori di poter presto inaugurare un museo d’arte dedicato alla ricca e caleidoscopica produzione artistica dei Sámi.

Si ringraziano per la collaborazione: Katya Garcia-Ántón (OCA), Karoline Trollvik (OCA), Anne May Olli (RiddoDuottarMuseat), Randi Godø (Nasjonalmuseet), Monica Grini (UiT – Norges Arktiske Universitet).

Una mostra fondamentale che esaminava storia, identità, politica e cultura visiva dei Sámi. Guardando alla tradizione del duodji ma anche all’arte contemporanea, e spaziando dal XVII secolo al presente. 2014 SÁMI STORIES

SCANDINAVIA HOUSE NEW YORK

THERE IS NO

NORDNORSK KUNSTMUSEUM TROMSO 2017

Oltre 60 artisti dal Sápmi in rappresentanza di una collezione che all’epoca comprendeva più di 1.300 opere, ovvero la più ampia collezione di arte Sámi al mondo. In attesa che il Sámi Dáiddamusea trovi una collocazione.

L’edizione numero 14 della rassegna quinquennale ha visto la partecipazione di parecchi artisti provenienti dal Sápmi, in coincidenza con il centenario del primo 2017 congresso del popolo Sámi, tenutosi il 6 febbraio 1917 alla

Chiesa Metodista di Tråante. DOCUMENTA 14

KASSEL | ATENE

LET THE RIVER FLOW

OCA | TENSTA KONSTHALL OSLO | STOCCOLMA

2018 Una rassegna che ha raccontato l’ÁltáGuovdageaidnu Action (1978–82), movimento che si opponeva alla diga sull’Álttáeatnu. Tre anni di ricerche per ricostruire le vicende, in particolare quelle che videro protagonista il collettivo artistico radicale Mázejoavku.

Tre generazioni di artisti Sámi provenienti da Norvegia, Svezia e Finlandia: dal pioniere Iver Jåks a esponenti del collettivo Masi, dal monumentale fregio tessile di Marakatt-Labba alla produzione filmica di Synnøve Persen fino agli artisti più giovani.

2019

HISTORIER

DRONNING SONJA KUNSTSTALL OSLO

2019

HOUSE OF NORWAY

MUSEUM ANGEWANDTE KUNST FRANCOFORTE

Una mostra altamente inclusiva, organizzata in occasione della

Frankfurt Book Fair nell’anno in cui la Norvegia era il Paese ospite. Arte moderna e contemporanea, design e architettura, con particolare attenzione alla cultura del Sápmi.

La più grande retrospettiva di Nils-Aslak Valkepää / Áillohaš (1943-2001), icona culturale e “nation builder” del Sápmi. Tra i suoi molti meriti, l’aver organizzato uno dei primi festival internazionali di cultura indigena nell’estate del 1979.

2020

NILS-ASLAK VALKEPÄÄ / ÁILLOHAS

HENIE ONSTAD KUNSTSENTER HOVIKODDEN

Anders Sunna, SOADA, 2020. Photo credit Ander Sunna

Il Padiglione dei Paesi Nordici alla 59. Biennale d’Arte di Venezia assumerà un’identità temporanea inedita, prendendo il nome di Padiglione Sámi. Selezionati per realizzare un ambizioso progetto coordinato da OCA – Office for Contemporary Art Norway, gli artisti Pauliina Feodoroff, Máret Ánne Sara e Anders Sunna, tutti e tre appartenenti alla comunità Sámi, saranno gli interpreti di un intervento artistico che si preannuncia di epocale importanza. Ne abbiamo discusso con Katya Garcia-Ántón, curatrice del Padiglione Sámi e storica direttrice di OCA, fresca di nomina come prossima direttrice del Nordnorsk Kunstmuseum di Tromsø.

Fin dagli inizi del tuo mandato come direttrice e curatrice di OCA hai avviato numerosi progetti volti a diffondere la conoscenza dell’arte Sámi e delle pratiche artistiche delle popolazioni indigene. Quand’è iniziato il tuo interesse per queste tematiche?

Devo all’artista Joan Jonas il mio primo contatto con l’arte e la cultura Sámi. Fu proprio lei, nel 2012, a farmi conoscere Andé Somby, un eccezionale pensatore, artista, musicista, professore di Diritto delle popolazioni indigene all’Università di Tromsø. Casualmente lo rincontrai qualche anno dopo in veste di direttrice dell’OCA e il confronto con lui su tante questioni legate all’arte Sámi, e alle culture delle popolazioni indigene in generale, suscitò in me una viva curiosità.

Perché hai deciso di approfondire la questione?

Rientrata a Oslo, notai che tra i colleghi aleggiava un sostanziale disinteresse rispetto alle questioni del popolo Sámi. Capii, dunque, quanto fossero ancora forti in Norvegia alcune resistenze culturali risalenti all’epoca della “norvegesizzazione” del Paese. L’OCA ha quindi raccolto la sfida di superare queste obsolete barriere sociali e strutturali, promuovendo sia localmente sia internazionalmente una serie di iniziative a supporto dello studio e della conoscenza delle popolazioni indigene del Nord Europa e della loro cultura. Nacque da queste premesse un programma di ricerca strutturato sul lungo periodo cui seguirono workshop, seminari, pubblicazioni, mostre e dibattiti. Il progetto espositivo curato da OCA nel 2018 a Oslo, Let the River Flow. The Sovereign Will and the Making of a New Worldliness, ha permesso di dare visibilità internazionale all’arte contemporanea Sámi, rivendicandone il pieno diritto a entrare all’interno della storia dell’arte e della museologia norvegesi e internazionali.

Quando si è internazionalizzato l’interesse?

La Documenta 14 ha consacrato l’arte contemporanea Sámi a livello mondiale, invitando otto artisti a esporre ad Atene e Kassel nel 2017. Legittimati da una fitta rete relazionale che si stava consolidando a ridosso e oltre i confini tracciati dalla Documenta, il Sápmi e i progetti dedicati alle culture indigene sviluppati in seno a OCA si sono moltiplicati e riceviamo oggi richieste di partecipazione a mostre e biennali da tutto il mondo.

Quali sono le tematiche che più ti hanno colpito in questi anni di collaborazione con artisti e colleghi situati dentro e oltre i confini del Sápmi?

Il perdurare delle conseguenze lasciate dal colonialismo, tanto nelle comunità indigene locali quanto nella nostra società contemporanea, rientra tra le cose più spiazzanti che ho potuto notare. Il processo di emancipazione da una cultura coloniale prevaricante ha caratterizzato la storia recente del Sápmi ed è una sfida transgenerazionale che le comunità Sámi stanno ancora affrontando, anche in un Paese riconosciuto per essere un pioniere del benessere sociale, dell’uguaglianza e dell’ecologia come la Norvegia. Ci sono ferite ancora aperte, tracce di un passato prossimo che le nuove generazioni di artisti affrontano con forza e determinazione, come già avevano fatto gli artisti del collettivo Mázejoavku nel 1978.

Quali altre caratteristiche sono emerse?

Il ruolo riservato alla figura femminile, non soltanto leader spirituale all’interno delle comunità ma anche figura essenziale nella gestione delle attività quotidiane legate all’allevamento delle renne e la pastorizia. La sua centralità venne meno durante il fenomeno dei processi alle streghe che si è diffuso in tutta Europa tra il XV e il XVIII secolo. Lo Steilneset Memorial, eretto a Vardø nel 2011-12 e progettato da Louise Bourgeois e Peter Zumthor, ricorda questo periodo in cui oltre un centinaio di persone furono processate e condannate. In seguito, il modello matriarcale nel Sápmi è stato nuovamente violato da quello patriarcale imposto dal colonialismo occidentale. Partendo da questo tema, OCA ha sostenuto nel 2019 il progetto SápmiToo sviluppato dal collettivo Dáiddadállu, che affrontava tematiche legate al genere, alla violenza e agli abusi sessuali nelle comunità Sápmi e indigene, il loro rapporto con l’esperienza coloniale e come l’arte riesca a farsi carico dei temi di queste conversazioni.

Ritieni che l’arte Sámi sia equamente rappresentata a livello istituzionale e conosciuta dai professionisti dell’arte non indigeni, sia in Norvegia sia all’estero?

Ritengo che da parte della comunità globale non indigena ci siano curiosità, consapevolezza e interesse sempre maggiori, anche grazie al prolifico dialogo avviato con altre comunità in Nuova Zelanda, Australia e Canada. Tuttavia, la strada da percorrere è ancora lunga, considerato che l’arte e la cultura Sámi non sono ancora adeguatamente rappresentate a livello nazionale. Si sente discutere molto di questioni indigene ma persistono lacune da colmare. Tra tutte, la quasi completa assenza di professionisti appartenenti alle comunità Sámi nello staff delle istituzioni culturali norvegesi, dove OCA resta uno dei rari casi virtuosi in questo senso.

Quali altri spazi espositivi indipendenti, centri di ricerca e istituzioni scandinave collaborano con OCA su questi argomenti?

Stiamo collaborando con alcune istituzioni “sorelle”, come Norwegian Crafts, e con altri spazi culturali in città, come la Kunstnernes Hus. Interlocutori primari sono anche le organizzazioni simili a noi per dimensione e vocazione, come Frame a Helsinki o Iaspis e Tensta Konsthall a Stoccolma. Sul piano internazionale, OCA è coinvolta nello sviluppo di un grande progetto espositivo insieme al museo MASP di San Paolo previsto per il 2024, cui seguiranno diverse tappe internazionali, tra cui KODE a Bergen; la mostra conterà, tra gli altri, la partecipazione di artisti e curatori Sámi.

Qual è la tua opinione sull’uso dell’aggettivo “indigeno” per descrivere l’arte contemporanea Sámi? È un termine “neutrale” per riferirsi a essa?

L’utilizzo della parola “indigeno” è stato indicato dalle Nazioni Unite nel 2007 quale termine legittimo, rafforzativo ed efficace da utilizzare nelle discussioni internazionali per rivolgersi a queste comunità. Tuttavia, descrive un gruppo di persone eterogeneo e vario, che condivide solo alcuni aspetti della storia comunitaria, come le esperienze coloniali e il legame peculiare con la natura e la terra. A parte questo, le comunità indigene sono molto diverse tra loro e sarebbe erroneo omologarle.

OCA ha recentemente pubblicato una trilogia dedicata all’arte e alle pratiche curatoriali indigene con importanti contributi da parte dei membri di queste stesse comunità. Quanto è tangibile il rischio di incomprensioni quando a occuparsi di “questioni” indigene sono professionisti con altre culture, e viceversa?

Il rischio c’è ma lo scambio costruttivo di idee e la diffusione universale della conoscenza sono fattori essenziali per la cultura e l’arte contemporanea, quindi ben venga chi desideri parlarne. La sfida per i curatori norvegesi e, in generale, per tutti i professionisti che non fanno parte delle comunità indigene, è mantenere un atteggiamento umile di fronte a una cultura poco nota, per evitare imprecisioni ed essere sicuri che ciò che viene detto o scritto sia davvero in linea con le prospettive indigene.

Ci fai un esempio?

La parola duodji viene spesso tradotta come “arti applicate” e, così facendo, inserita automaticamente in una gerarchia lessicale occidentale secondo cui le “belle arti” occupano un ruolo di prim’ordine rispetto alle discipline minori. Il termine duodji, invece, indica una meta-categoria della cultura e dell’estetica Sámi che potrebbe tradursi con “cultura materiale”, perché non descrive solo gli oggetti, ma ha a che fare con la conoscenza della natura, con una prospettiva spirituale e con altri elementi che andrebbero perduti utilizzando un termine adatto ad altri ambiti, come il design occidentale.

Il progetto per il Padiglione Sámi collocherà i Paesi Nordici in prima linea nell’impegno per il riconoscimento e la valorizzazione delle pratiche artistiche riguardanti le popolazioni indigene. Ci sono stati progetti analoghi in Biennale che ti hanno ispirato?

La decisione di portare l’arte contemporanea Sámi a Venezia è il frutto di anni di lavoro. Significa aver conquistato la fiducia da parte di questa comunità e un sufficiente livello di conoscenza che ci permette di lavorare con consapevolezza rispetto alle attuali questioni che riguardano il Sápmi. Pur non ispirandosi a progetti specifici, il Padiglione Sámi si concentra su prospettive indigene che sono state toccate in passato da precedenti interventi artistici, dentro e fuori gli spazi della Biennale. Ricordo tre progetti: quello di Lisa Reihana per la Nuova Zelanda e di Tracy Moffat per l’Australia alla 57. Biennale e il progetto del Miracle Workers Collective esposto nel 2019 al Padiglione finlandese. La Biennale del 2022 si prospetta ricca di novità (vedi i progetti presentati dalla Francia con Zineb Sedira, dagli USA con Simone Leigh e dalla Gran Bretagna con Sonia Boyce) e darà senza dubbio un forte contributo alla riflessione su quelli che sono i temi più scottanti della nostra contemporaneità.

Potresti approfondire alcuni aspetti del Padiglione Sámi e dei relativi progetti artistici?

Il progetto è strutturato in modo da avere un’ampia partecipazione di professionisti Sámi accanto agli artisti selezionati. Diretto da me e da due curatori Sámi, cui si aggiunge un assistente curatore Sámi, il team si avvale della preziosa collaborazione di due consulenti internazionali, Brook Andrew e Wanda Nanibush, curatori indigeni di grande esperienza. Abbiamo chiesto ai tre artisti selezionati, Máret Ánne Sara, Paulina Feodoroff e Anders Sunna, di farsi guidare da una persona della loro comunità nel processo di creazione delle loro opere. Interessante, ma non imprevedibile, è stata la scelta di tutti e tre gli artisti, che è ricaduta su persone anziane. Questo è un dato rilevante, perché nelle prospettive indigene gli anziani sono molto stimati e viene ritenuta fondamentale la trasmissione delle tradizioni e della cultura orale alle giovani generazioni. Il progetto di un Padiglione Sámi alla prossima Biennale include e pone le comunità del Sápmi in una posizione decisionale nei riguardi della diffusione di una vasta cultura, mostrando il profondo rispetto e il riconoscimento per questa popolazione indigena.

Pauliina Feodoroff, CO2lonialNATION, 2017. Photo credit IIkka Volanen

This article is from: