Gddicembre2011

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Gabiano e dintorni

Il mensile della nostra terra

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dicembre 2011

In copertina : Rocca delle Donne - Camino


Tamburello: al via la stagione indoor di Riccardo Bonando Sono incominciati nella metà di ottobre, i vari campionati indoor di tamburello. A differenza della specialità open, la versione “al chiuso”,

consta di un campo di gioco di minori dimensioni (dipende dallo spazio offerto dalla palestra), ed una pallina più leggera e quindi meno veloce. Presso la palestra di Portacomaro, le ragazze e i ragazzi under 12 del

Gabiano hanno inaugurato il campionato di categoria, giocando rispettivamente contro Piea e Tigliole. Per entrambe le formazioni gabianesi è stato il debutto in una competizione ufficiale. Le giovani atlete, visibilmente emozionate, non si sono di certo fatte intimorire dai più quotati avversari e per giunta tutti ragazzi (il campionato under 12 è unico e congiunge in un unico girone le squadre maschili con quelle femminili). Dopo aver perso il primo gioco, le giovani atlete hanno offerto una prova di carattere, colpendo la pallina con sicurezza, agguantando un ottimo pareggio ed una conseguente soddisfazione per il risultato raggiunto.

Gabiano under 12 femminile: Muzio Sonia, Cassina Arianna, Bertin Debora, Minchilli Marta, Curletti Elisa, Aurora Mauro, Erika Bione. L’allenatore Francesco Bonando. Gabiano under 12 maschile: Manca Riccardo, Spalasso Riccardo, Bione Marco, Villani Jacopo, Mazzucchelli Micael, Iermieri Tommaso, Cavallo Michele, Spalasso Valentino,

Gabiano serie C femminile: Monferrino Francesca, Monchietto Elisa, Barbieri Emilia, Muzio Jessica, Cabiale Jessica, Sara Bizzotto. Per i ragazzi, invece il debutto ha avuto il sapore di una brutta sconfitta. L’emozione ha tirato un brutto scherzo ai giovani atleti gabianesi, i quali non sono riusciti a dimostrare appieno il proprio valore e rimediando soli 3 giochi nei confronti del Tigliole. Siamo certi, che consci delle loro qualità tecniche, lavoran-

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do sodo negli allenamenti, sapranno comunque ottenere lusinghieri risultati. Anche le atlete più grandi, hanno giocato la loro prima partita nel campionato di serie C indoor presso la palestra di Cossombrato.

Purtroppo una brutta sconfitta all’esordio contro la formazione del Cinaglio. Le astigiane si sono dimostrate più sicure nel gioco al volo e nelle chiusure ravvicinate, cogliendo la vittoria con un sonoro 13 a 2.

La voglia e la passione comunque non mancano e se sapranno migliorarsi ed affinare la tecnica, potranno sicuramente cogliere qualche vittoria contro squadre alla loro portata.

Tamburello: assegnati i titoli del 3 contro 3

Da diversi anni ormai, il torneo 3 contro 3 di tamburello, è la manifestazione che chiude l’annata tamburellistica nella Valcerrina. Molto apprezzata da giocatori e tifosi, questa specialità, a differenza del classico 5 contro 5, permette un gioco veloce e meno attendista, data l’assenza dei terzini (i giocatori che operano sulla linea di metà campo). Le dimensioni del campo, larghezza e lunghezza non sono modificate, mentre al centro del terreno di gioco, la linea di mezzeria è sostituita da un incrocio di due linee che danno origine a una zona neutra. Iniziato a metà di settembre, il torneo vedeva ai nastri di partenza ben 12 formazioni, suddivise in quattro gironi di qualificazione. In base alla classifica nel proprio raggruppamento, le squadre accedevano alle fasi finali di serie B, C e D. Sabato 29 ottobre alle ore 14:30 presso lo sferisterio “Italo Bosco” di

Cerrina (sede di gioco dell’intero torneo), si svolgeva la finale di serie C fra il Cerro Tanato e la formazione locale del Real Cerrina. Partita inizialmente a senso unico per la formazione Cerrinese, che si portava addirittura sul 5 a 1 in proprio favore. Da quel momento, il maggiore tasso tecnico degli astigiani, con un ottimo Ferraris, macinava giochi su giochi concludendo vittoriosamente la partita con il risultato in proprio favore di 10 a 6. A seguire, si disputava l’assegnazione del titolo di serie B fra la formazione del Grazzano (Fracchia V. - Monzeglio M. - Gaggiano), proveniente dal muro, e la formazione del San Paolo di Cerrina (Andrin A. - Raschio - Mazzola). Incontro molto bello, giocato a viso aperto dalle due compagini, con palle tagliate da fondo campo e ottimi recuperi.

Il risultato finale di 10 a 8, premiava il Grazzano, ma una vittoria del San Paolo non avrebbe di certo fatto scalpore, penalizzato solamente da qualche episodio sfavorevole. Domenica 30, ultima finale nel pomeriggio, fra la formazione del Varengo e quella del Vignale per l’assegnazione del titolo di serie D. Anche qui, continuo equilibrio fra le due formazioni in campo, con palleggi profondi e chiusure basse dei centrali. Alla fine, la bravura e la sfrontatezza dei giovani di Varengo aveva la meglio e si aggiudicavano l’incontro con il punteggio di 10 a 8 in proprio favore. Al termine di ogni finale, il Sindaco di Cerrina Aldo Visca, coadiuvato dal Vicesindaco, nonché ottimo interprete delle discipline sferistiche, Luigino Materozzi e l’assessore Marco Cornaglia, premiava le formazioni giunte all’atto finale della manifestazione.

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Bonando Francesco, Partigiano della Monferrato di Riccardo Bonando

...lo fucilammo davanti al plotone di esecuzione con la gente che ci batteva le mani. Non potevamo fare diversamente, erano delinquenti, non Partigiani...

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Bonando Francesco, per tutti “Ceco”, porta con disinvoltura i suoi 86 anni. Lo si può incontrare spesso sulla piazza di Villamiroglio. Cammina lento, ogni tanto si ferma per sentirsi addosso quest’ultimo sole d’inverno. Ha l’aria tranquilla e la sigaretta accesa fra le mani. E’ uno degli ultimi Partigiani rimasti; un Partigiano della “Monferrato”. Gli ho chiesto di raccontarmi la sua storia. Mi ha dato appuntamento a casa sua, in compagnia della moglie Rosa. Comincia a raccontare, a tornare indietro con la memoria…

Tutto comincia nel 1942 a soli diciassette anni. Chiamata alle armi, con massimo otto giorni di tempo per presentarsi al comando. Mi mandarono sopra le montagne della Val Sangone vicino Coazze. Nel settembre del 43’ firmato l’armistizio, con l’esercito ormai sbandato, decidemmo di restare in quella zona. Data la poca conoscenza del territorio e la possibilità di essere catturati, decisi insieme ad alcuni miei compagni di fare ritorno a casa. Giunti a Torino, bisognava attraversare il ponte controllato dai nazifascisti. Per fortuna molta gente stava con noi. Ci dissero di andare a chiedere ad un commerciante di bestiame di trasportarci dall’altra parte. Ci fece mettere nel cassone del camion e ci ricoprì di paglia. Verso le quattro del mattino partimmo, attraversammo il ponte senza problemi arrivando fino ad un vicino bosco, dove ci fece scendere. Quell’uomo bisognava veramente ringraziarlo, ma non avevamo niente. In tre notti arrivammo a casa. Figurarsi

la mia famiglia, che da un anno non aveva mie notizie, come mi accolse. Nel frattempo su queste colline, si era costituita la Brigata Autonoma Monferrato. Entrai a farvi parte con il nome di battaglia “Walter”. Il nostro comandate si chiamava Mariolino del Pozzo (frazione di Odalengo Grande ndr); era un uomo giusto, guai a noi se ci permettevamo di fare dei torti alla popolazione. Eravamo continuamente in movimento. I nostri nascondigli erano a Monte Croce, Sant’Antonio e Odalengo Grande. Come in tutte le cose, come in ogni situazione, ci sono buoni e cattivi da qualunque parte. C’era una banda partigiana nella Valcerrina che operava in modo ambiguo, usando la forza con la popolazione civile per avere del cibo ed arrivando perfino ad uccidere ingiustamente un uomo. Così un giorno ci dirigemmo a Piancerreto e circondammo con armi il gruppo di sbandati. Chiedemmo chi era il loro comandante. Ce lo indicarono. Dicemmo agli altri di tornarsene a casa. Il Comandante lo arrestammo. Dopo due giorni lo portammo in piazza a Piancerreto e lo fucilammo davanti al plotone di esecuzione con la gente che ci batteva le mani. Non potevamo fare diversamente, erano delinquenti, non Partigiani. Le armi e le munizioni ci arrivavo tramite gli aviolanci degli alleati. Avevamo anche bisogno di gasolio per far funzionare i nostri mezzi. Eravamo stati informati che un’autobotte carica di carburante sarebbe passata da Crescentino. La fermammo sul ponte e la portammo fino in piazza a Villamiroglio, mentre i due tedeschi che erano sul mezzo, furono internati nella chiesetta di San Michele. Al successivo rastrellamento, decidemmo di liberarli per evitare che bruciassero l’abitato. Verso la fine della guerra fu ucciso

Bonando Francesco

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Il sommelier racconta…… Questo mese raccontiamo un po’ di storia e di curiosità sulla vite e sul vino

di Sergio Ramoino

Un po’ di storia della bevanda che da secoli caratterizza le nostre colline: il vino

Se per l’uovo e gallina e’ secoli che si presenta il problema su chi e’ apparso prima sul pianeta, per l’uomo e la vite non si discute: e’ apparsa prima quest’ultima, e sembra molti milioni di anni fa. Indubbiamente una pianta molto diversa da quella che abbiamo ora noi sotto gli occhi, piu’ rude, abbarbicata a qualche albero, sembra con uno o due grappoli molto grossi. Il primo fossile di vite pare sia stato trovato in Francia, nella zona dello Champagne in un piccolo paesino nominato Sezanne, ma l’Italia per non restare indietro ha rinvenuto nella zona di Verona l’Ampelophillum Veronensis. Ai tempi degli ominidi nostri antenati, di viti ce n’erano di parecchie specie, fra cui la vitis vinifera, derivante da quella selvatica, tanto e’ che fossili di vitis ne sono comparse in tutta Italia, e qui gli studiosi hanno avuto il loro bel da fare, concordando pero’ sul Quaternario come comparsa. Pero’ quello che possiamo solo supporre e’ la nascita del vino. Anche i grappoli d’uva venivano raccolti e si pensa conservati per i momenti difficili, e siccome il processo di vinificazione e’ un processo naturalissimo, niente e nessuno può proibire all’uva di fermentare. Chissa’, forse un grappolo d’uva dimenticato, ripreso ed assaggiato dopo un po’ ha potuto piacere… e allora perche’ non rifarlo volutamente? Pare che la culla dell’agricoltura sia stata la zona che oggi si dividono Iran, Siria, Turchia e Armenia, e pare che lì sia iniziata la coltura della vite. Che il vitigno Sirah non sia proprio nato lì ? Sono state scoperte “cantine” che potevano ospitare fino a 150.000 litri di vino ed anfore

atte a contenerlo, anfore a due manici per berlo, sostituendo così la comune e quotidiana bevanda, allora ottenuta dai datteri della palma, l’antenata della moderna birra. Siamo arrivati a 5000 anni prima di Cristo, e da come e quanto siano stati rappresentate sia la vite che il vino nella storia (coppe, sculture ecc), sembra proprio un nuovo mito, destinato ai più ricchi, e distribuito al popolo solo in occasioni di feste importanti, negli Egizi quella in onore di Osiride, divinità a cui era dedicato. Disegni e affreschi di calici, anfore e cesti di uva sono stati rinvenuti in tombe di 5/6000 anni or sono e in un affresco particolare viene raffigurata tutta la fase, dalla raccolta effettuata su colline artificiali per una più esatta esposizione al sole, addirittura con viti a pergolato, alla vendemmia in grandi ceste di vimini, al rovescio dell’uva in grandi tini, e alla pigiatura, allegoricamente rappresentata da figure gioiose e festanti, alla raccolta del mosto fatto passare attraverso grandi pezze di stoffa, forse lino, e raccolto in anfore più piccole, e messo in orci di pelle per il trasporto. Sia nel Vecchio che nel nuovo Testamento si parla di uva, di vite; ricordiamoci delle nozze di Cana, oppure del legame del vino al sangue di Cristo. Peccato però per i cinesi che contrariamente al solito, questa volta, e con certezza, nulla hanno potuto con questo “prodotto”. Certamente la civiltà del vino marciò di pari passo con le civiltà egizia e fenicia, la prima per la produzione, e la seconda sia per la produzione che per il trasporto con la loro efficientissima flotta. Per gli Egizi il vino era una bevanda quasi sacra, non ne veniva fatto uso nelle libagioni, peraltro scarsissime, al contrario della civiltà greca che prevedeva un uso più “leggero”. In effetti negli affreschi Egizi si noContinua a pagina 9

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Don Giovanni Balzola da Villamiroglio il contadino Missionario si racconta dervi dalle persecuzioni dei civilizzati. Ma i bianchi sono cattivi e ci ammazzano, ribatterono subito. Non accadrà più, i bianchi me l’hanno promesso. Li tenni due giorni con noi, m’informai della loro vita, dei compagni e dell’abitazione. Andate a chiamare gli altri e venite tutti ad abitare con noi dissi. Villaggio indigeno nella colonia del sacro Cuore Che cos’hai tu mangiare qui? Non hai meliga, non hai mandioca, non hai canna Non so se esultarono tanto i da zucchero e i Bororo mangiacrociati alla vista di Gerusano molto. lemme! Scelto il luogo più conAvete ragione, risposi ma ne veniente, scendemmo tutti di prepareremo. sella, e, inginocchiatici, baNoi andremo, se è così ritorneciammo quelle vergini zolle, remo dopo tre lune. dove con l’aiuto di Dio, doveva Diedi loro alcuni regali da porsorgere la prima casa e la pritare anche agli altri capi e se ma cappella della nuova misne partirono contenti e soddisione. A giugno, il giorno di S. sfatti. Giovanni, per festeggiare la La rinnovata speranza, l’incontro ricorrenza si bevette una botticon gli indigeni, portò all’interno glia di vino. Eravamo in quatdella colonia grande entusiasmo. tordici persone, e fu l’unica che Passati tre mesi, gli indigeni arrivasi bevette in cinque mesi. La rono puntuali alla colonia. seconda la bevemmo dopo cinDopo alcuni giorni passati insieme que anni, ma era vino fatto con ripartirono e così per svariati mesi l’uva delle viti da noi piantate e ci furon brevi incontri di pochi giorquindi non era…barbera . (* In corsivo grassetto i brani

La terza e penultima puntata del nostro conterraneo che partì missionario per il Brasile

Il 17 novembre 1901 la nuova missione parti ufficialmente da Cuyabà. Dopo due mesi di viaggio giungemmo al luogo prestabilito.

estratti dalle sue lettere)

Finalmente dopo tanta attesa il 7 agosto ci fu la tanto sperata notizia

Don Giovanni Balzola

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Padre, ecco gli indi! Corsi là, donde era venuta la voce e vidi cinque selvaggi robusti e forti, tutti nudi e sporchi con i capelli lunghi, armati di arco e freccia che gridavano: Padre Bororo boa (siamo Bororo buoni) A quelle voci Bororo boa, io corsi incontro e li abbracciai, senza paura di sporcarmi al contatto di quei corpi tutti pitturati di urucù e di nero. L’invitai nella nostra capanna: Ci siamo stabiliti in questo luogo con l’unico fine di far del bene a voi e difenBalzola e Malan con indigeni

ni, finché il 15 giugno del 1903 si presentarono alla colonia in tredici tra cui il Cacico maggiore.

Essi mi dissero che tutti gli altri si trovavano nella selva del Rio Barreiro, distante 4 km. Montai a cavallo e mi recai a visitarli in compagnia dei primi venuti. Arrivati vicino al fiume, il cacico mi fece segno di fermarmi, e poi, con un grido prolungato disse:


È giunto il padre! A quelle parole, risposero come un eco clamorose grida di allegria dal mezzo del bosco dove si trovavano accampati. Disceso da cavallo, volli visitarli, ma per passare il fiume, dovetti abbracciarmi alla schiena di un indio il quale mi trasportò all’altra parte. Visitai così tutte le famiglie che stavano intorno al fuoco. Tutti mi offrivano qualcosa: chi un pezzo di tapiro, chi pesce, chi frutta… Io ringraziando accettai solo una bevanda di miele silvestre. Alla fine invitai tutti , per giorno seguente alla colonia. All’interno della colonia, regnava l’entusiasmo ma di certo i problemi non mancavano.

Quello che ci addolorava era in non avere il necessario per vestirli. Avevamo ricevuto dal collegio di Cuyabà un po’ di stoffa ma era troppo poca per così tanta gente. Tuttavia riuscimmo a dare una camicia lunga a ciascuno. Anche a questo si lavorava intensamente, e man mano che le lunghe camicie erano pronte, si distribuivano a coloro che non l’avevano ancora ricevuta: tutti la ricevevano come fosse un tesoro. Un vecchietto ex cacico (comandante) ebbe la sua brava camicia, ma mi volle far notare che per lui, già cacico, era troppo poco. Io sono capitano. Non avendo ne un paio di calzoni, ne una giubba disponibile, gli diedi un panciotto ed un paio di mutande. Non si può credere quanto rimase contento. Il tempo scorreva fra fatica e conti-

nue soddisfazioni da parte degli indigeni. Seppur inizialmente riluttanti al lavoro, impararono a coltivare la terra, appresero alcune parole in Italiano, frequentavano regolarmente la scuola e gradatamente abbandonavano i loro riti per avvicinarsi alla fede cristiana. QUANTI PASSI A metà del 1907 la direzione della Colonia Sacro Cuore passò nelle mani di don Antonio Colbacchini così da permettermi la partenza per nuove escursioni.

Alla fine di luglio dovetti lasciar la colonia per accompagnare don Malan nel viaggio d’esplorazione al centro della tribù. Quantunque desiderassi ardentemente il viaggio per essere quello il punto più popoloso, pure non riuscivo a dissimulare il dolore per la separazione. Dall’alto della collina della croce, rivolsi indietro il mio ultimo sguardo alla cara colonia. Con occhi pieni di lacrime la salutai per la profonda commozione che provavo nella separazione da tanti affezionati figliuoli e nell’evocazione di tanti cari ricordi.

Il 28 luglio la spedizione partì, 260 km fra le selve, in territori ancora inesplorati.

Ad ogni colpo di scure o di falce nei rami o nei tronchi degli alberi, era una pioggia abbondante e torrenziali di piccoli “carrapatos” sopra le nostre persone. Queste legioni di piccoli insetti, che sono una vera piaga, erano così numerose che si potevano paragonare alle innumerevoli gocce d’acqua allorché piove a catinelle. Ma la differenza era troppo stridente. Quella pioggia di

nuovo genere, invece di farci piacere, irritavaci la pelle con effetti che duravano molte ore […] intanto nonostante la frugalità delle nostre refezioni, ogni giorno vedevamo sempre più pulito il fondo delle quattro valigie delle nostre provvigioni…il miglior condimento è l’appetito, dice il proverbio, e noi ne esperimentammo la verità.

Dopo tanto peregrinare a fatica, finalmente il 9 di agosto ci fu l’incontro con gli indigeni; cinquantadue capì tribù in rappresentanza di oltre duemilaseicento indigeni residenti in diversi villaggi ancora inesplorati. Scambiati gli oggetti e dopo alcuni giorni di sosta, riprendemmo la via del ritorno fermandoci a Cuyabà. Il 14 maggio del 1908 ripartimmo alla volta del Rio Vermelho per evitare che i nuovi scontri fra bianchi e indigeni sfociassero in un nuovo massacro.

“A una cosa assolutamente non avevo pensato per quel viaggio: provvedere armi da fuoco. Non avevo nulla, assolutamente nulla, neppure una palla! Io avevo un lungo coltellaccio alla cintura, indispensabile in certi casi per far la picada, cioè per aprirci il cammino nelle selve. In tal modo potevamo dire davvero che andavamo a portare la pace e non la guerra, fiduciosi più in Colui che tutto può, che nelle armi. Dopo 25 km, uscimmo per alcuni istanti dall’oscurità della selva, e ci trovammo in un’altura, donde si apriva ai nostri sguardi uno splendido panorama. Era una distesa collina. Che vista incantevole! Mi pareva d’essere sopra le belle colline del Monferrato e m’uscì spontanea l’esclamazione: Che belle vigne si potrebbero far qui. Dopo alcuni giorni di peregrinazione fra le selve, riuscii a raggiungere il primo villaggio indigeno,

Alcuni indi che ritornavano dalla pesca, appena ci videro, corsero al villaggio gridando Sono arrivati dei bianchi… è arrivato padre Giovanni. Entrati nel villaggio, ci fece incontro il capitano Candido che m’invitò alla sua capanna. Don Balzola Malan e Salvetto con i piccoli indigeni

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Corteo nuziale nella colonia Sacro Cuore

Chiesi che cosa avessero da offrirmi: se caffè o latte. Messisi a ridere, mi offersero una bevanda che stavano preparando con meliga pestata nel mortatio… Berne? Ripugnava, perché generalmente quella meliga non solo è fermentata nell’acqua, ma è spremuta sotto i denti delle indie per provocarne la fermentazione. Non berne? Ne sarebbero stati offesi. Quindi accostai il vaso alla bocca e ne presi un sorso che bastò a soddisfarli. Non tardai ad entrare nell’argomento del viaggio: Il Capo dello Stato è molto ben disposto verso di voi, e vi vuole molto bene. Tanto è vero che mandò me a ristabilire la pace, cioè a dire ai bianchi che vi lascino stare, se no li manderà a prendere dai soldati, ma altrettanto manda a dire a voi. Egli desidera che vi comportiate Indigeno con serpente “Sucury” lungo 4 metri

bene, che lasciate di perseguitare i bianchi. A queste parole tutti approvarono. In una capanna incontrai il famoso Piloto conosciuto nella colonia Teresa Cristina, l’indio cieco da un occhio, basso di statura e sempre terribile, cercato a morte dai bianchi per l’uccisione di un uomo, ma con noi sempre galantuomo. Gli parlai dello scopo della mia escursione e gli raccomandai di ripeterlo agli altri durante la notte. Il terreno che separava il villaggio dal fiume era paludoso e pieno di pantani. Non volendo bagnarmi chiesi il sentiero più asciutto, e pronto il Piloto alzò la voce sopra tutti e si offrì a compagno per un sentiero che credeva il migliore, ma che invece mi condusse sull’orlo di un pantano. Non so dire come pover’uomo ne rima-

Dopo aver percorso 886 km, il 15 giugno 1908 feci ritorno a Cuyabà provato nel fisico, ma soddisfatto nell’animo per aver evitato un inutile massacro di vite umane. I bianchi ed i selvaggi, nei luoghi visitati, non ebbero più alcuno scontro. (Finisce qui, cari lettori, la terza puntata della storia di Don Balzola, sul prossimo numero, la qurta e ultima puntata con: Il censimento delle tribù; Una nuova avventura; Le mani di un missionario; Senza sosta e la Fine dei passi.) Don Balzola con altri missionari

Sosta di missionari nella foresta (foto di Don Balzola)

Missionari in viaggio

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nesse mortificato. Mi guardò in faccia e volle a ogni costo caricarmi sulle spalle. Conobbi che l’avrei disgustato se non l’avessi accontentato e mi rassegnai. Ma arrivato nel mezzo del pantano, essendo egli basso di statura, mi ritrovai anch’io con i piedi nell’acqua; ove a quando a quando mi sentivo immergere anche le ginocchia. Il poco valente ma allegro Piloto cominciò a ridere e a gridare a più non posso. M’attendeva poi una disgrazia. Strada facendo, attraversammo altri corsi d’acqua e caso volle che appunto nel guadare un torrentello, la mula che portava il bagaglio dell’altare, con la cassa dei paramenti, del vino e delle ostie, cadesse in una fossa. Estrassi sull’istante la cassetta dall’acqua, ma le ostie erano già inzuppate e rese inservibili. Fu quello per me il momento più triste del viaggio.

Interno di capanna indigena


Il sommelier racconta… (da pagina 5) tano fanciulle pudiche che versano in una coppa una leggera quantità di “nettare”, mentre negli affreschi e sulle anfore greche sono rappresentate quantità più abbondanti, e bevitori non sempre discinti con larghe coppe. Oltre mille anni prima di Cristo la Grecia ha come parte integrante il vino, e ne inizia il commercio con la sua grande flotta mercantile, ma inizia anche il consumo: una parte di vino e tre di acqua, e perche’ no, anche quella salmastra. Indubbiamente il tenore alcoolico di quel vino era talmente alto, trattandosi di bevanda ottenuta da uve coltivate al sole pieno in una terra molto al sud, e senza alcuna tecnica raffinata per contenere il tenore alcolico. Però, scoperto che da ebbri la vita aveva un altro aspetto, eccoli organizzare i simposi (molto simili a quelli dei nostri giorni) a dedicarsi al culto di Dionisio (Bacco per noi ) attingendolo con una coppa individuale da una grossa brocca al centro diluendolo pero’ solamente con due parti di acqua: un

po’ come cominciare con un delicato “rosè” e terminare con un vino di Marsala. Qualsiasi vino bevessero e qualsiasi quantità avevano già appurato che il vino è un alimento, è corroborante, tonico, vasodilatatore. Ma non solo nei simposi veniva

utilizzato il vino: in tutti i riti appare, come appare quale nutrimento, fino alla morte di Alessandro Magno, che segnò la fine della civiltà ellenica. Sarà già stato consigliato dagli antesignani dei nostri luminari della dietetica ?

Partigiano del Monferrato (da pagina 4) un partigiano ed altri fatti prigionieri, ma non erano della nostra squadra. Quel giorno nevicava. Mia madre si accorse che da Vallegioliti stava salendo una colonna di nazifascisti con le fiaccole accese. Fui avvertito e scappai sulla collina che guardava sullo stradone. Avrei potuto sparare verso di loro, ma ero solo ed avrei causato un inutile ritorsione contro la popolazione. In una stalla dietro alla piazza dormivano un gruppo di partigiani. Mi dispiace dirlo, ma li è stata colpa del loro comandante. Non avevano nessuno di guardia. Noi, nella nostra squadra ci davamo il cambio affinché ci fosse sempre uno di guardia. Quando i partigiani si accorsero dell’arrivo dei nazifascisti ormai era troppo tardi. Cominciò una sparatoria. Lino Cover per permettere agli altri di scappare, comincio a sparare all’impazzata contro la colonna nemi-

ca. Quando finì le munizioni, fece il disperato tentativo di scappare giù dalla riva. Non ci riuscì. Fu ucciso e sulla neve c’era il suo sangue. Gli sarebbero bastati ancora pochi metri e si sarebbe salvato. C’è una lapide dov’è stato ucciso. Alla liberazione, non cercammo vendetta. Al podestà furono tolti i poteri ma non fu ucciso come avvenne in altri paesi.

quello che c’era stato. Un signore disse che tutti i Partigiani erano stati dei ladri. Presi fuoco. Gli dissi che c’erano stati alcuni Partigiani che si erano comportati in malo modo, ma la maggior parte aveva sempre aiutato la gente. In quel periodo c’era poco tempo per pensare, bisognava decidere. O stare da una parte o dall’altra. Io scelsi di essere Partigiano.

Un giorno alla Piagera si facevano vecchi discorsi. Si parlava della guerra e di tutto

(Quello che avete appena letto, è un riassunto della lunga intervista rilasciatami dal Partigiano Bonando Francesco. Per motivi di spazio e di fluidità narrativa, il testo è stato tagliato e revisionato in maniera tale da essere maggiormente discorsivo e di facile lettura, senza però modificarne il contenuto. I fatti avvenuti e le persone menzionate sono interamente veritieri).

E’ bello sentirlo raccontare. Parla sicuro. Si dispera per i ricordi andati perduti dalla sua vecchia memoria. Accende una sigaretta, magari che non gli venga in mente qualcos’altro. Sembra che non abbia mai smesso di essere Partigiano. Scherza un po’ sulla sua vecchiaia, sul tempo passato. Mi lascia con un ultimo ricordo.

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Senza passato non c’è futuro Alfiano Natta - storia di un Comune Una affermazione che qualcuno fa risalire, nientepopodimenochè, a Lao-Tzè filosofo cinese che nel VI secolo Avanti Cristo sentenziò: “Un popolo senza passato non ha presente e un popolo senza presente non ha futuro”. Ma che c’entra il fondatore del Taosimo, religione diffusa in estremo oriente, con noi Monferrini che viviamo all’altro capo del mondo? C’entra, c’entra; il collegamento l’ha procurato la prima cittadina, di una contrada delle nostre amate colline: Gabriella Paletti da Alfiano Natta. L’attivissima sindachessa ha condotto a termine un progetto non facile, quello di raccogliere in un tomo, che alla fine risulterà di ben 568 pagine, la storia passata del suo paese e dei suoi compaesani che ha come titolo appunto: Senza Passato non c’è Futuro. Il libro raccoglie informazioni selezionate in un lavoro durato 6 anni da parte della Commissione Cultura ambiente e turismo del Comune, ed è stato donato a tutte le famiglie del paese. Nella prefazione si citano Clara Lorenzina e Elisa Franceschet come curatrici sia della raccolta dell’imponente mole di informazioni che del testo. Il lavoro è stato articolato in una dozzina di capitoli che vanno dalla storia, ai personaggi illustri, alla cultura popolare del mondo contadino, all’ambiente. L’importanza di libri come questi è racchiusa nella definizione stessa di storia. Basta ricordare le prime lezioni della terza elementare quando i maestri spiegavano che la differenza fra storia e preistoria è sostanzialmente la… scrittura. E’ grazie alla scrittura che oggi sappiamo cosa accadde migliaia di anni fa, grazie ad essa conosciamo personaggi e gesta, ma anche la semplice vita delle persone che vissero un tempo. Tutto ciò che accadde prima che qualcuno cominciasse a incidere una tavola d’argilla o a scrivere su un foglio di papiro o su una pelle di

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animale conciata si è irrimediabilmente perso. Volete un’altra prova più vicina a noi dell’importanza della scrittura? Provate a recarvi nelle canoniche delle chiese, se siete fortunati sono ancora conservati i libri su cui, prima dell’Unità d’Italia, venivano trascritte nascite, morti, matrimoni. Vi vengono citate persone, famiglie, date, titoli, impieghi, parentele. Nell’epoca della globalizzazione, del grande rimescolamento di popoli e persone sarebbe interessante salvare la memoria di chi da secoli sulle nostre colline è nato, cresciuto, ha lavorato, ha messo su famiglia ed infine è trapassato. Probabilmente ci scopriremmo tutti pa-

gestire solo le contingenze. Dnas ca fassa noeuit ossia prima che sopraggiunga la notte della dimenticanza qualcuno ha raccolto informazioni scritte ma soprattutto orali dei vecchi del paese e le ha stampate in qualche migliaio di copie di cui, siam certi, anche fra qualche lustro ci sarà qualcuno che saprà farne tesoro. Una iniziativa che dovrebbero far propria tutti i Comuni e le istituzioni, sarebbe il modo migliore per dare un’anima comune alle nostre collettività ed anche alla nostra “civiltà”, la civiltà contadina che per millenni è stata il fulcro di società e nazioni. Cominciamo con la descrizione che Cesare Vicrobio dà dei Monferrini:

In Mounfrin Soun al tipo dal Mounfrin, coeur countent e saouta ciouendi. Quand’ch’a y hoeu ‘n boun bicer d’vin ciam se l’mund a l’e da vendi. Quand hoeu pinna la cardensa a tranquila la coussiensa Soun al re dal mi-‘m-nou-‘n-fout che i fastidi ‘s campa sout

Un Monferrino Sono il tipo del Monferrino, cuor contento e salta chiudende* Quando dispongo di un buon bicchiere di vino chiedo se il mondo è in vendita Quando ho piena la dispensa e la coscienza tranquilla Sono il re del “me ne frego” che i fastidi si butta alle spalle * la trasposizione italiana di ciouendi è impropria e difficilmente la troverete sul vocabolario. Si tratta di tipiche costruzioni di canne incrociate usate per delimitare proprietà, aree di orto, giardino o come spalliere per rampicanti. Per qualcuno sauta ciouendi è anche la metafora di chi cambia facilmente idea. renti, sarebbe la prova provata che siamo una Comunità che è qualcosa di più dell’insieme di tante persone che abitano un paese, una frazione o un territorio. Scopriremo anche che i proverbi, le vite, i racconti, le abitudini, le credenze, i modi di dire, di fare di pensare sono gli stessi degli altri paesi monferrini. Ebbene il libro della Paletti (consentiteci di chiamarlo così, apparentemente in modo improprio) è un consistente tassello in questo grande mosaico di storie passate che sta lentamente scomparendo per la sostanziale indifferenza generale, anche e soprattutto delle istituzioni prese troppo spesso a

Daremo ora un altro cenno estratto dal libro per consentire ai nostri lettori di farsi una idea di ciò che esso raccoglie e suggerendo gli stessi, se interessati, a richieder il libro al Comune, sperando ne disponga ancora di qualche copia. Il passaggio che riportiamo riguarda un “rito” un tempo presente in tutte le comunità piccole o grandi del Monferrato e non solo: la cottura del pane al forno comune. Ecco come ci viene descritto. I Forni C’era un tempo in cui ogni frazione aveva il suo forno dove tutte le famiglie andavano a cuocere il pane una o due volta alla settimana. In genere, si portava la legna da casa e si


pagava una somma per la cottura. In molti casi il forno era di proprietà del fornaio del paese. Nel XII secolo, dipendendo da Tonco, Alfiano non aveva il diritto di costruire molini, ma gli abitanti, opponendosi alla soggezione, riottennero tale facoltà nel 1473. Come detto, in passato, il forno serviva alla stragrande maggioranza delle famiglie per cuocere il pane: in genere, la cottura era effettuata una volta alla settimana in inverno, due volte nel periodo estivo. La sera precedente al giorno stabilito per le infornate, si preparava il sent, a base per la pasta. Si ammollava in acqua tiepida la necessaria dose di lievito di birra e lo si integrava con farina di grano tenero 00'. Al mattino presto si aggiungeva la giusta quantità di farina, si bagnava con altra acqua e con l'unico condimento, il sale marino, e quindi si impastava il tutto nella madia. Si lasciava lievitare l'impasto per un'ora circa, dopodiché lo si trasferiva avvolto in un telo bianco dentro alla cavagna, la classica cesta di rametti di salice intrecciato e si portava al forno. Giunti al forno, la pasta lievitata veniva nuovamente rimpastata su di un lungo tavolone addossato alla parete. Le massaie, in gruppi di cinque, lavoravano affiancate avendo a disposizione un metro circa di ripiano; prelevavano dal blocco di pasta dei pezzi e li modellavano uno dopo l'altro per ottenere “le munfrine”. Pronte per essere infornate, attendevano che il forno fosse predisposto alla loro introduzione. II braciere delle fascine veniva spostato sul lato destro della camera di cottura, con uno straccio bagnato, fissato su di una pertica, il fertas, si lavava ripetutamente il piano del forno per rimuovere i residui della combustione. Il fornaio testava se la temperatura era giusta mediante l'introduzione di una piccola focaccia; dal tempo impiegato per la cottura e dal colore raggiunto si stabiliva il momento per la cocia. A turno, le donne trasferivano le pagnotte sulla grossa pala che il fornaio appoggiava al bancone, la pala così ricolma veniva avvicinata alla bocca del forno. Quando andavano al forno, le donne spesso avevano al seguito

i bambini piccoli che non potevano lasciare a casa da soli; era così l'occasione per i piccoli di ottenere dalle mamme la preparazione di un dolce semplice e spartano, la schiciola, pasta di pane cosparsa dì zucchero della forma di una focaccia. Dalla relazione di Monica Parola: “Di proprietà della comunità sono anche tre forni situati, uno nel luogo di Alfiano, uno nel cantone di Casarello e l'altro nel cantone di Sanico. I tre forni vengono annualmente affittati dai particolari dei rispettivi cantoni. Coloro che utilizzano i forni versano come pagamento “due pani di libre

una caduno ed una fogassa per ogni cotta oltre la legna necessaria per la medesima cotta”.

Il reddito dei forni viene ceduto dai particolari, nel capoluogo di Alfiano, al cappellano come onorario per l'insegnamento nella scuola, nel cantone di Casarello, ai priori della chiesa di San Rocco di detto cantone e, nei cantone di Sanico, a favore dei priori della compagnia del Santissimo Sacramento, eretta nella chiesa parrocchiale di detto cantone. Circa il possesso dei forni il marchese Pietro Antonio Natta rivendica lire 44 per diritti sui forni di detto luogo e dei suoi cantoni, per questa lite vi è una causa presso il Real Senato (A.S.T.C., Ricavo de'

redditizi quelle comunità, misura de tenitori e de' beni antichi e moderni e notizie diverse, s.d., ma 17601769)”.

Forno sociale di Sanico frazione di Alfiano Natta

da Castelletto Merli La signora Degiovanni Lide e Pier Luigi Verrua (badante) ringraziando per l’encomiabile lavoro svolto la Guardia medica di Cerrina: un vero e proprio punto di riferimento nei momenti di difficoltà, augurano a tutti loro un buon Natale. La Redazione di G&d ringrazia tutti i collaboratori e i nostri lettori che ci hanno sostenuto facendo conoscere la nostra Rivista. Augura a tutti

Buon Natale e un

Felice 2012 Il 30 novembre si è concluso il concorso fotografico:

Gliele faccio vedere io... Ringraziamo tutti coloro che hanno partecipato e quanto prima comunicheremo i nomi dei vincitori e dei premi che verranno pubblicati sul sito : www.gabianoedintorni.net Dove abbiamo pubblicato anche le fotografie pervenute. G&d è distribuito gratuitamente... ma non sprecarlo! Aiutaci a farlo conoscere meglio: quando lo hai letto regalalo a un amico o mettilo nella posta 11 di un vicino !


A spasso con il Santo ovvero le passeggiate autunnali di Don Bosco rivisitate oggi di Stanislao Manzini

Don Bosco il santo che amava le colline Monferrine in cui nacque

Le notizie storiche e i testi sono stati estratti da : L.Deambrogio “Le passeggiate autunnali di Don Bosco per i colli monferrini”

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Don Bosco, Santo dei giovani. E' di comune conoscenza la sua vita spesa per togliere i giovani dalla strada, educarli e trovare loro un lavoro. Durante l'estate, gli studenti più meritevoli ricevevano, come premio dell’impegno dimostrato durante l’anno scolastico, un po’ di meritato riposo ai Becchi di Castelnuovo Don Bosco. Con questi giovani, Don Bosco compiva alcune brevi escursioni nei dintorni e così progressivamente consolidò l’idea delle passeggiate autunnali, che aveva già maturato nelle sue personali escursioni degli anni precedenti. Normalmente erano fatte a piedi, con adeguate tappe, con mete diverse e di durata variabile. Dal 1847 in avanti Don Bosco prende l’abitudine, nel mese di ottobre, di portare i suoi ragazzi per alcuni giorni in giro per il Piemonte. Molto spesso la meta sono i colli monferrini. Visitano diversi paesi: Alfiano, Castelletto Merli, Ponzano, Crea, Casale, Mirabello, Vignale, Lu, San Salvatore, Montemagno, Grana, Calliano. Ancora oggi molti di questi paesi ricordano il passaggio del Santo. Ovunque arrivasse Don Bosco godeva dell’ospitalità da parte di amici, parroci oppure nobili signori e benefattori dell’Oratorio. Castelletto Merli La passeggiata 2011 Quest’anno si è voluto ripercorrere le strade del comune di Castelletto Merli sui cui camminò Don Bosco, 170 anni fa e precisamente il 14 ottobre 1841. L'associazione culturale “Io Vivo Castelletto” ha organizzato, il 2 ottobre, una passeggiata: “Sulle orme di Don Bosco”, con tappe corrispondenti alle soste del santo. La preparazione di questa giornata ha richiesto molto lavoro: sopralluoghi sull'itinerario, pulizia dalla vegetazione con la preparazione dei sentieri poi percorsi dagli intervenuti. Sul percorso è stata apposta segnaletica di pannelli con foto e scritti esplicativi nei punti di sosta per dare il massimo dell'informazione ai partecipanti. La storia cui gli organizzatori si so-

Don Bosco

no è ispirati è la seguente: Don Bosco, poco dopo esser stato ordinato sacerdote, riceve una lettera di Don Lacqua (suo maestro elementare) che, con insistenza, lo invita in Ponzano, con sua madre, a fargli visita. Il 14 ottobre del 1841, Don Bosco partì, senza sua madre, da Montaldo Torinese al mattino, e dopo aver pranzato col Parroco di Cocconato, con un compagno di viaggio riprese il cammino alla volta di Ponzano. È da presumersi che, almeno da Cocconato, il viaggio si sia svolto interamente a piedi. Da Cocco-

Castello dei Merli

nato a Ponzano, in linea d'aria vi sono 20 chilometri! Il racconto è tratto dalle Memorie di Don Bosco. È uno dei tipici esempi di documentazione diretta di Don Lemoyne (biografo del santo), il quale premette che narrerà “minutamente” la singolare vicenda avendola “udita dalle stesse labbra di Don Bosco, il quale era felicissimo in queste narrazioni e nel ricordare ogni più piccola circostanza di esse”. L'oscurità, data la stagione autunnale, era scesa presto, e per di più accompagnata da un violento temporale. I due viandanti si smarrirono nei boschi, senza sapere dove fossero e senza trovare anima viva. Finalmente, nei pressi di un forno in frazione Costamezzana di Castelletto Merli, trovarono le prime persone, ma queste fuggirono spaventate per timore di incontrarsi con un omicida latitante e ricercato che, nella notte precedente, aveva ucciso un uomo. Quando poi, vinto lo spavento, al-


cuni accettarono di scambiar qualche parola, armati di falcetti e forconi, li accompagnarono al signore di un non lontano castello, il quale, pur senza conoscerli, li ospitò con generosità, dando loro indumenti asciutti, cena, e camere per la notte. All'indomani Don Bosco, su invito del padrone del castello, celebrò la Santa Messa nella cappella del castello stesso e, dopo il pranzo, che quel signore volle offrire ad ogni costo, i due viandanti, accompagnati per un buon tratto dal loro benefattore, proseguirono per Ponzano, ormai visibile e non molto lontana. Quel castello era il Castello dei Merli di Castelletto Merli, e del generoso ospite Don Bosco ci trasmise il nome, sig. Moioglio, speziale, col quale contrasse e conservò viva amicizia. Il Santo scrisse poi all'amico teologo Borel nel 1846 dicendo che il Castello dei Merli sorge “nel posto più bello del Monferrato”. Possiamo dire che se non è il più bello, è certamente uno dei più belli. La vista è veramente stupenda e l'orizzonte sconfinato. Chi volesse ripercorrere i luoghi visitati dal santo, oggi, può usufruire di strade asfaltate, che esistono solo a sud delle collina. Dal fondo valle, bisogna deviare a destra nella direzione della frazione di Terfangato. La stradetta, si innalza fra campi, vigne e casolari, fino alla rampa non asfaltata, che, con ripide e strette curve, fiancheggiate da ombrosi viali, balza sul piazzale del castello.

Le pendici nord della collina del castello e di quelle formanti la sua catena, costituiscono una vasta zona estremamente boscosa, che si estende fino ai paesi di Piancerreto, Montaldo Cerrina e Casalino. Le pendici sud e sud-ovest, pur non essendo del tutto boscose, sono infatti in più tratti coltivate a campi e vigne, presentano a tutt'oggi numerosi boschi, talvolta anche molto fitti e di disagevole accesso. Ai tempi del sacerdote, anche i versanti sud e sud-ovest, erano ammantati di boschi assai più che nei tempi presenti. Presso il Castello dei Merli, al crinale ovest, resistono ancora i muri di Casa Carpignano (o Tobia), Il Castello dei Merli Oggi è molto diverso da quello che Don Bosco descriveva al Borel nella lettera del 16 settembre 1846: oggi, oltre all'essere stato quasi completamente trasformato, è quasi del tutto disabitato e porta evidenti i segni dell'abbandono. Di antico rimane solamente il muro di mezzanotte, quello verso il bel parco ancora esistente. A questo muro è fissata una lapide singolare, in latino, che porta la data del 1743. L'iscrizione che troviamo è la seguente: “BE.TE VIR.ES QUE IN. DNO.MOR. (Q) VAR.UM CORPORA HIC. REQUIESCUNT”, che tradotta ci dà: Beate Vergini (monache, suore?) che muoiono nel Signore i cui corpi qui riposano. Non abbiamo oggi spiegazioni riguardo la lapide e meno ancora sulla presenza di ecclesiastici con relativo luogo

di sepoltura sotto l'edificio. Come ogni castello che si rispetti, anche dentro al passato del maniero castellettese, si celano antiche storie; alcune riguardano la presenza di cunicoli segreti che collegherebbero, tramite passaggi sotterranei, il castello dei Merli al castello di Ponzano o addirittura al Sacro Monte di Crea. E' più ragionevole pensare che il cunicolo, la cui entrata è visibile dall'infernotto del castello, sia una semplice scappatoia che portava in qualche casa della frazione di Terfangato. Altre storie sono relative al pozzo, detto “delle taglie”; così profondo da non vedersi il fondo e, secondo alcuni racconti, sulle pareti sarebbero state collocate e fissate lame taglienti, che farebbero pensare ad altri usi, più macabri rispetto alla conservazione delle acque pluviali. Ritornando ai giorni nostri, concludiamo la passeggiata discendendo a valle lungo la strada che costeggia la frazione Terfengo, lasciando i boschi alle spalle e attraversando vigne che caratterizzano il declivio. “Sulle orme di Don Bosco” ha ricevuto tale gradimento che è stata richiesta dai partecipanti una replica per l'anno prossimo (è già allo studio!). Questo pensiamo possa incoraggiare tutti noi a riscoprire e guardare con occhi diversi il nostro territorio, per creare un turismo basato sulle risorse naturali, su valori e tradizioni culturali che esaltino la nostra comunità e il comprensorio e così riscoprire l'orgoglio di essere monferrini.

Foto di Castelletto Merli da: L'Assiolo aperiodico dell'associazione -Io vivo Castelletto-

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Carabinieri: la caserma storica di Camino di Enzo Gino

Un omaggio alla storia e alla memoria della prima arma e di tutti coloro che oggi come in passato ne hanno fatto parte

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Le iniziative nelle nostre colline non finiscono mai di stupire. Nei numeri scorsi avevamo fatto cenno al museo degli Alpini che si trova a Cantavenna di Gabiano e sul quale torneremo nei prossimi mesi. Qui scriveremo invece di un altro museo realizzato non a Gabiano, ma lì vicino, a Camino: è il museo dei Carabinieri. Realizzato da Fiorenzo Bertiglia che per una vita ha raccolto una gran quantità di materiali e pezzi unici scovati nei mercatini dell’usato o direttamente nelle caserme e che ha poi portato nella sua casa in via Villanova 4, a due passi dal Municipio. Con lui collaborano la prof.ssa Maria Melotti, Patrizia Bossina Gianni Granziera e Pierluciano Biginelli. Circa dieci anni fa Fiorenzo ha deciso di rendere pubblica questa raccolta che riempie sei stanze disposte su due piani della vecchia casa rurale. La Caserma Storica è dedicata al generale Francesco Brovida come riconoscimento ai suoi familiari che hanno contribuito all’ampliamento della collezione donando numerosi e importanti cimeli. Lì potrete trovare 42 manichini con le diverse uniformi dei carabinieri, da quelle più recenti a quelle coloniali, utilizzate in Africa, talvolta disposti in modo da ricreare gli ambienti militari tipici della caserme come le camerate con le brande, gli armadi e le suppellettili, piuttosto che un ufficio con tanto di cittadina che sta verosimilmente denunciando qualche reato. Queste divise sono state oggetto di diverse mostre tematiche anche internazionali come quella tenutasi a Canberra in Australia su richiesta del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri. Fanno parte della raccolta anche una gran quantità di documenti, congedi, tesserini,

verbali redatti da militari in servizio, ad esempio in uno del 1844, si riporta lo scontro fra due carri trainati dai cavalli. Poi ancora tante fotografie, oltre trecento, di appartenenti all’arma del circondario casalese a partire dalla seconda metà dell’ottocento. Ogni immagine è corredata dall'indicazione delle generalità ed anche del grado raggiunto nel corso della carriera. Se avete avuto parenti carabinieri qui c’è l'opportunità di individuare l'identità del proprio congiunto. Fra queste la raccolta con tanto di nome, data di nascita, numero di matricola di tutti i carabinieri provenienti da Camino. Sono 70 ed il primo Boetti si arruolò il 10 luglio 1814 con numero di matricola 211. A molti questo dato non suggerisce molto, ma se vi diciamo che l’arma dei carabinieri fu costituita il 13 luglio 1814, cioè tre giorni dopo, che pensate?. Non è un errore, semplicemente prima venne organizzata tutta al struttura e solo dopo venne ufficializzata l’arma con la sua costituzione formale. Fiorenzo ha anche raccolto quasi tutte le fotografie dei 70 Caminesi, è stata una ricerca impegnativa nella quale ha dovuto contattare i discendenti dei militari o recarsi a visionare gli atti e i documenti archiviati nelle caserme sfogliando 200 ruoli matricolari. Mancano ancora le fotografie di 8 compaesani di cui purtroppo non risultano parenti, ma non per questo la ricerca si fermerà… Sono presenti le fotografie di centocinquanta soldati Caminesi della seconda guerra mondiale. Tra di essi, ventotto hanno preso parte alla Campagna d'Africa. Fra i pezzi unici Fiorenzo cita una fotografia originale di Chiaffredo Bergia che ha dato il nome alla sede del Comando Regione Carabinieri Piemonte e Valle d'Aosta a Torino, stabile ove è stato fondato il corpo. Basta pensare che nemmeno la caserma dispone delle foto del capitano e che ha provveduto lui stesso a fornire una copia del

Fiorenzo Bertiglia (il secondo da sinistra) con gli amici davanti alla caserma


quadro. Un altro “pezzo” importante della collezione è il modello della Alfa Romeo Giulia con le tipiche insegne ed il colore blu con tettuccio bianco che per tanti anni fu l’emblema dei carabinieri. E poi i piatti adottati dalla Legione Carabinieri Reali di Torino, armi d’epoca fra cui spicca un fucile ad avancarica con tanto di baionetta del 1843 analogo a quello utilizzato nell’impresa dei 1000 o una pistola del 1848. Ma le sorprese non si “limitano”, si fa per dire, a tutta questa grazia. Il “nostro” Fiorenzo che ha fatto il servizio militare nell’arma: 15 mesi a Milano, ha raccolto anche molte altre “cose” interessanti, magari non strettamente legate alla sua Caserma storica, ma altrettanto belle e intriganti. Come una serie di motociclette d’epoca, fra cui quella targata AL 1.

Poi in un altro locale, se gli siete simpatici, Fiorenzo può anche farvi vedere alcune auto d’epoca perfettamente conservate. Un museo veramente unico nel suo genere, che ha anche un sito che vi segnaliamo: www.carabinieri-casermastorica.it, se volete visitarlo sentite direttamente Bertiglia al 339.6187400. E prima di andar via non dimenticate di firmare l’album dei visitatori come hanno fatto tanti altri, fra cui molti stranieri. E' consultabile dai visitatori il diario del soldato Bertiglia Paolo, che narra la vita quotidiana della spedizione in Africa.

Bertiglia con la carabina del 1843

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