Conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna | Giuseppe Alberto Centauro

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Conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna

Atti della Giornata di Studio «Il restauro del Moderno. Il patrimonio dell’industria pratese del ‘900. Dalla conservazione alla rigenerazione delle funzioni»

giuseppe alberto centauro

La serie di pubblicazioni scientifiche Ricerche | architettura, design, territorio ha l’obiettivo di diffondere i risultati delle ricerche e dei progetti realizzati dal Dipartimento di Architettura DIDA dell’Università degli Studi di Firenze in ambito nazionale e internazionale. Ogni volume è soggetto ad una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata al Comitato Scientifico Editoriale del Dipartimento di Architettura. Tutte le pubblicazioni sono inoltre open access sul Web, per favorire non solo la diffusione ma anche una valutazione aperta a tutta la comunità scientifica internazionale.

Il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze promuove e sostiene questa collana per offrire un contributo alla ricerca internazionale sul progetto sia sul piano teorico-critico che operativo.

The Research | architecture, design, and territory series of scientific publications has the purpose of disseminating the results of national and international research and project carried out by the Department of Architecture of the University of Florence (DIDA).

The volumes are subject to a qualitative process of acceptance and evaluation based on peer review, which is entrusted to the Scientific Publications Committee of the Department of Architecture. Furthermore, all publications are available on an open-access basis on the Internet, which not only favors their diffusion, but also fosters an effective evaluation from the entire international scientific community.

The Department of Architecture of the University of Florence promotes and supports this series in order to offer a useful contribution to international research on architectural design, both at the theoretico-critical and operative levels.

Editor-in-Chief

Saverio Mecca | University of Florence, Italy

Scientific Board

Gianpiero Alfarano | University of Florence, Italy; Mario Bevilacqua | University of Florence, Italy; Daniela Bosia | Politecnico di Torino, Italy; Susanna Caccia Gherardini | University of Florence, Italy; Maria De Santis | University of Florence, Italy; Letizia Dipasquale | University of Florence, Italy; Giulio Giovannoni | University of Florence, Italy; Lamia Hadda | University of Florence, Italy; Anna Lambertini | University of Florence, Italy; Tomaso Monestiroli | Politecnico di Milano, Italy; Francesca Mugnai | University of Florence, Italy; Paola

Puma | University of Florence, Italy; Ombretta Romice | University of Strathclyde, United Kingdom; Luisa Rovero | University of Florence, Italy; Marco Tanganelli | University of Florence, Italy

International Scientific Board

Francesco Saverio Fera | University of Bologna, Italy; Pablo Rodríguez Navarro | Universitat Politècnica de València, Spain; Nicola Braghieri | EPFL - Swiss Federal Institute of Technology in Lausanne, Switzerland; Lucina Caravaggi | University of Rome La Sapienza, Italy; Federico Cinquepalmi | ISPRA, The Italian Institute for Environmental Protection and Research, Italy; Margaret Crawford, University of California Berkeley, United States; Maria Grazia D’Amelio | University of Rome Tor Vergata, Italy; Carlo Francini | Comune di Firenze, Italy; Sebastian Garcia Garrido | University of Malaga, Spain; Xiaoning Hua | NanJing University, China; Medina Lasansky | Cornell University, United Sta tes ; Jesus Leache | University of Zaragoza, Spain; Heater Hyde Minor | University of Notre Dame, France; Danilo Palazzo | University of Cincinnati, United States; Silvia Ross | University College Cork, Ireland; Monica Rossi | Leipzig University of Applied Sciences, Germany; Jolanta Sroczynska | Cracow University of Technology, Poland

Conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna

Atti della Giornata di Studio «Il restauro del Moderno. Il patrimonio dell’industria pratese del ‘900. Dalla conservazione alla rigenerazione delle funzioni»

giuseppe alberto centauro

Questo volume è stato pubblicato con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Prato, ottenuto dall’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Prato

Con il patrocinio di SIRA - Società Italiana per il restauro dell’Architettura

Il volume è l’esito di un progetto di ricerca condotto dal Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze.

La pubblicazione è stata oggetto di una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata dal Comitato Scientifico del Dipartimento DIDA con il sistema di blind review. Tutte le pubblicazioni del Dipartimento di Architettura DIDA sono open access sul web, favorendo una valutazione effettiva aperta a tutta la comunità scientifica internazionale.

coordinamento generale

Giuseppe Alberto Centauro

coordinamento del catalogo

Giada Buti

referenze fotografiche

Se non diversamente indicato in didascalia le immagini sono dell’autore del saggio

in copertina

Ex cimatoria “L. Campolmi & Co.”, Progetto di recupero, sezione trasversale (Fonte: Mattei 2003, p. 39)

progetto grafico

didacommunicationlab

Dipartimento di Architettura

Università degli Studi di Firenze

didapress

Dipartimento di Architettura

Università degli Studi di Firenze

via della Mattonaia, 8 Firenze 50121

© 2023

ISBN 978-88-3338-186-2

Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni Arcoset
sommario Presentazione 11 Lulghennet Teklè Prefazione 15 Giuseppe Alberto Centauro Giornata di Studio Sessione mattutina Il restauro del moderno: status quaestionis 31 Giuseppe Alberto Centauro Nascita dell’industria ed espansione urbanistica a Prato 55 Giuseppe Guanci Materiali contemporanei per il consolidamento delle strutture moderne 69 Silvio Van Riel Patrimonio industriale. Conoscenza per il riutilizzo 85 Pietro Matracchi, Giorgio Verdiani, Milena Lorusso, Denise Fresu Il patrimonio della produzione come infrastruttura territoriale. L’Ecomuseo del Tessile per il territorio di Prato 97 David Fanfani Patrimonio e patrimonializzazione dei luoghi del lavoro per la rigenerazione del territorio pratese 119 Daniela Poli Le politiche urbane di Prato: pianificazione, urbanistica e progetto. Il caso della “Porta Nord” di Prato 135 Valerio Barberis Sessione pomeridiana L’Ordine degli Architetti e il progetto del restauro del Moderno 155 Giada Buti Il restauro del Moderno: la sfida dei professionisti di oggi 163 Cecilia Arianna Gelli
conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 6 La forma dell’esistente. Il restauro della nuova sede della Camera di Commercio di Prato 179 Marcello Marchesini Possibili forme di rigenerazione urbana attraverso il recupero del patrimonio industriale dismesso. Il “Progetto di innovazione urbana P.I.U. Prato” al “Macrolotto Zero” 193 Massimo Fabbri Usi temporanei degli edifici industriali dismessi. Sperimentazione di nuove funzioni, l’accompagnamento della valorizzazione e l’attivazione della loro rigenerazione 209 Lorenzo Vacirca, Andrea Del Bono, Rita Duina, Marco Berni Seminario didattico sul Fabbricone di Prato Didattica, ricerca, gestione dati e progetto 225 Giuseppe Alberto Centauro, con i contributi di Giuseppe Guanci, Antonio Silvestri, Lorenzo Vacirca, Giada Buti Nuovi studi sul complesso industriale “il Fabbricone” 245 Giuseppe Alberto Centauro Il modello di scheda “A-OA” 248 Esercitazioni 253 Elaborati degli studenti del Laboratorio di Restauro Bibliografia generale 283 Ringraziamenti 293 Brevi note curriculari degli autori 295

i sedimenti dell’archeologia

debbono essere considerati una risorsa di valore piuttosto che un intralcio all’organizzazione delle o allo sviluppo compatibile

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dell’archeologia

industriale considerati valore assoluto intralcio delle funzioni urbane compatibile sul territorio

Enunciazione del voto finale del convegno: « Archeologia Industriale. Metodologie di recupero e di fruizione del bene industriale» Prato, 2000

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Restauro e Archeologia Industriale, discipline per Architetti

L’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Prato si è sempre occupato, anche grazie al lavoro di Gruppi di Lavoro appositamente istituiti, del tema del restauro e del riuso del patrimonio industriale del territorio, il che implica non solo il trovare nuove e diverse funzioni agli attuali complessi industriali dismessi, procedendo ad un semplice cambio di destinazione d’uso o adattamento alla normativa vigente, bensì valutare lo spazio urbano che spesso queste trasformazioni mettono in gioco modificandolo.

Così, già nel 1984, la mostra e il catalogo “La Città abbandonata” pubblicato nel 1985 (a cura di Alberto Breschi, Tommaso Caparrotti, Paola Falaschi, Flaviano Lo Russo) offriva lo spunto per aprire un dibattito, non solo in città, sul patrimonio industriale pratese già allora sottoposto a forte rischio.

Nel 1986, con il Piano Regolatore Sozzi e Somigli, che prevedeva un piano operativo d’intervento alla stesura del quale gli Architetti pratesi dettero il loro contributo con la partecipazione a tutti i “laboratori”, veniva favorito il trasferimento delle attività produttive indicando una nuova destinazione per le aree e gli edifici lasciati liberi.

Nel 1988 abbiamo avuto uno studio esemplare condotto dagli architetti Franco Severino e Sergio Tacconi che conteggiava, all’interno delle aree di ristrutturazione urbanistica residenziale, commerciale e direzionale, un nucleo di 144 impianti dismessi.

Nel 1994 gli studi furono poi proseguiti ed aggiornati dall’Iris (Istituto di ricerche e interventi sociali).

Nel 2000 è da menzionare per il rilievo nazionale che ha avuto, anche a seguito dalla pubblicazione degli atti, il convegno del CICOP, tenutosi a Prato, con il quale avviene la svolta che ha segnato la strada sui principi della tutela e valorizzazione del patrimonio di interesse culturale dato dalle testimonianze dell’industria pratese del ‘900. Un lavoro certosino alimentato da una ricerca condotta per l’Ordine del Architetti PPC di Prato dall’arch. Giuseppe Centauro, che ha offerto una dimensione internazionale al “caso Prato”.

Nei primi anni 2000, inoltre, va ricordato il restauro condotto dall’arch. Marco Mattei, esempio di recupero e riuso di grande rilevanza: l’ex Cimatoria Campolmi che, rigenerata, da lanificio dismesso qual era è divenuta un polo culturale della città: oggi, infatti, è sede del

presentazione

Museo del Tessuto e dell’Istituto Culturale e di Documentazione – Biblioteca “A. Lazzerini”.

Degli anni 2013-2017 è il laboratorio condotto all’interno dell’Ordine e che vide le colleghe e i colleghi architetti produrre interessantissimi risultati, con soluzioni sull’aera del Macrolotto Zero, area che a tutt’oggi è oggetto di un importante recupero urbanistico. Nelle consiliature successive è proseguito il dibattito all’interno dell’Ordine anche con la creazione di un ulteriore Gruppo di Lavoro che si doveva occupare del censimento dei manufatti moderni presenti sul territorio ed è proprio in quell’occasione che sono iniziati i rapporti con il DIDA e con il corso del prof. arch. Centauro. Nel 2022 il corso curato dal prof. Centauro, che ha visto colleghe e colleghi dell’Ordine dare il loro contributo ed il supporto alle attività del Laboratorio di Restauro, si è concluso con il Seminario interdisciplinare dal titolo “Il restauro del Moderno: il patrimonio dell’Industria pratese del ‘900. Dalla conservazione alla rigenerazione delle funzioni”, seminario che si è svolto al PIN/Polo Universitario Città di Prato e che per il suo alto profilo ha ricevuto il patrocinio della “Società Italiana per il Restauro dell’Architettura” (SIRA).

Come Ordine abbiamo dato il nostro contribuito al seminario attraverso l’individuazione di alcuni progetti realizzati negli ultimi decenni a Prato che rappresentano significativi esempi di progettazione e trasformazione di architetture moderne:

• la Camera di Commercio di Prato, uno fra i primi e più rinomati esempi il recupero di un edificio industriale, risultato di un concorso di architettura bandito nel 2004;

• il Progetto di Innovazione PIU del Comune di Prato iniziato da alcuni anni e che vede già eseguiti il Playground e il Mercato Coperto ed in corso di realizzazione la Medialibrary.

La scelta è avvenuta dopo un’approfondita riflessione sulla storia del processo che ha portato a sviluppare sul territorio pratese una coscienza critica del patrimonio moderno e del recupero degli edifici industriali. Infatti, come sinteticamente sopra riportato, gli architetti pratesi hanno affrontato in tutti questi anni il tema del restauro e del recupero dell’archeologia industriale con grande passione dando il loro massimo contributo.

L’Ordine degli Architetti PPC, infine, è risultato vincitore di un contributo attraverso la partecipazione ad un bando indetto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Prato per la richiesta di un finanziamento che è stato finalizzato a dare alle stampe questa pubblicazione e che permetterà dì mantenere viva la memoria storica della città di Prato attraverso il racconto del recupero e della valorizzazione del patrimonio dell’industria del ‘900 sostenendo la qualità dell’architettura e del progetto.

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Città di Prato. Assessorato alla Cultura e al Centro Storico: A. Breschi, T. Caparrotti, P. Falaschi, Flaviano M. Lorusso (a cura di), La città abbandonata. Ricerca documentaria sui luoghi del lavoro nell’area pratese, finalizzata ad un progetto di recupero e di riqualificazione urbana, 1ma ediz., s.d. [1984].

•Teatro Bruno Banchini, ultimazione del montaggio della struttura di copertura (ing. Pier Luigi Nervi, 1925) , (Guanci 2008)

Il progetto oltre il laboratorio didattico, ricerche ed esperienze sul restauro del Moderno

La trattazione degli argomenti che costituiscono l’ossatura di questa pubblicazione, strutturata come un’opera collettanea in riferimento ai contributi presentati in occasione della “Giornata di Studio” svoltasi al Polo Universitario della città di Prato (PIN) il 26 maggio 2022, fa sostanzialmente riferimento a due tematiche dedicate al restauro della moderna architettura industriale, la prima metodologica di carattere generale, la seconda riferita a casi studio riguardanti interventi e ricerche sul patrimonio architettonico dell’industria pratese del’900, rispettivamente indicate:

1) Il restauro del Moderno nell’Archeologia industriale;

2) Metodologie di recupero a confronto e studi sul comparto produttivo del Fabbricone1. Al primo punto, la tematica attiene agli aspetti generali del restauro delle architetture moderne nel percorso di conoscenza che si accompagna allo studio dei valori riconosciuti per quanto concerne i beni dell’archeologia industriale. A questi valori, non solo riferiti alle qualità architettoniche e testimoniali, è stato assegnato un ruolo strategico precipuo come fattori trainanti per la riabilitazione funzionale del patrimonio industriale, ma anche come motori di interesse al fine di promuovere un loro recupero formale, seguendo i principi del restauro per la conservazione e la valorizzazione.

1 L’area urbana presa come campione di studio, comprende lo storico complesso industriale del Fabbricone, fondato nel 1889. Dal 1948, l’area produttiva a ciclo continuo, di proprietà del Lanificio Fratelli Balli S.p.A., occupa oltre 25.000 mq. dello storico complesso. Si tratta di una vera e propria cittadella dell’industria, a sviluppo diacronico, che si contraddistingue per i caratteri costruttivi nell’alternanza di capannoni e magazzini realizzati nel corso del ‘900 in molteplici fasi di accrescimento e di trasformazione. Per queste sue peculiari caratteristiche architettoniche e per l’integrità che si conserva di gran parte delle strutture il complesso è stato individuato come ideale ambito di studio e di rilievo per condurre le esercitazioni seminariali da parte degli studenti del corso di restauro. Il Fabbricone è una testimonianza iconica della manifattura laniera pratese del ‘900, tanto da essere riconosciuta come “la più grande fabbrica di tessuti” della città. Nell’ottica degli studi sul restauro del Moderno l’’esperienza condotta sul Fabbricone ha costituito un caso studio ideale a livello architettonico ed urbanistico per evidenziare i pro e i contro che si registrano nel dualismo restauro/ rifacimento, negli interventi di conservazione/innovazione di strutture e tecnologie. Allo studio del Fabbricone per la messa a punto di idonee metodologie di restauro è interamente dedicata la seconda parte della pubblicazione (v. ultra, caso-studio: il complesso industriale “Il Fabbricone” di Prato).

prefazione

Lo studio sul restauro del Moderno trova quindi nell’architettura industriale del ‘900 un campo assai fertile per aprire un laboratorio di ricerca che specialmente a Prato trova un campionario straordinario per ampiezza e varietà di tipi costruttivi nelle testimonianze di strutture in c.a. già a partire dagli anni ’20 e ‘30. Sono centinaia le strutture in conglomerato cementizio armato aventi più di 50 anni di vita, di rilevante interesse storico architettonico, che sono in attesa di cure, di revisioni mirate ai fini della prevenzione e del restauro per una riconversione culturale. Ancora troppo poco è stato fatto in questa direzione sia negli studi e sperimentazioni scientifiche sia nelle opere di manutenzione. Si deve tuttavia osservare quanto sia arduo il compito del restauratore specie nella valutazione periziale post evento per il recupero, lo abbiamo verificato dopo gli eventi sismici di questi ultimi anni e purtroppo si sta confermando questa grande difficoltà dopo i recenti avvenimenti disastrosi che hanno interessato grandi infrastrutture soprattutto realizzate in c.a.

Nell’area pratese l’uso del c.a. diviene imponente soprattutto nel dopoguerra, ancora con manufatti di specifico interesse architettonico e culturale per l’archeologia industriale. D’altronde, in un’analisi non superficiale non sarebbe potuto risultare diversamente di fronte a strutture che identificano quei processi costruttivi che hanno contribuito a fare la storia dell’architettura moderna. La capillare rivisitazione condotta in questi ultimi trent’anni nei confronti di questo patrimonio, che ha portato alla delocalizzazione degli impianti industriali dai luoghi originari, ha prodotto necessariamente lo smantellamento e la progressiva sostituzione degli opifici obsoleti da un punto vista funzionale per far posto alle aree residenziali seguendo le logiche del mercato, senza alcuna gerarchia. Ciò ha determinato anche un strappo irreversibile nell’insediamento cittadino novecentesco con la dispersione, fino alla totale eliminazione, di cospicui tratti identitari della città stessa. Le ruspe hanno indifferentemente spianato tante aree del costruito più vecchio che contenevano tanta parte della moderna industria pratese non adeguatamente compensata dai nuovi inserimenti con grave nocumento culturale e sociale, tanto che la problematica del restauro dei beni industriali si progressivamente trasferita dal piano vanificato della conservazione dell’esistente in una prima fase a quello del recupero tout court e oggi piuttosto a quella dettata da una rigenerazione consapevole dei valori identitari perduti. In ogni caso a distanza di anni dall’inizio di questo processo la situazione è rimasta largamente incompiuta, sospesa vuoi per la crisi economica vuoi per la pedestre rioccupazione dell’esistente da parte della comunità cinese che ha indotto il mercato a dirottarsi verso un mantenimento di puro comodo. Non c’è dubbio tuttavia che la “città fabbrica” che, dal dopoguerra fino al terzo millennio, ha rappresentato la tendenza

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“vocazionale” dell’industria pratese, fosse divenuta dopo il collasso funzionale e ambientale, insostenibile e caotica, subendo un ulteriore stravolgimento per divenire un coacervo di spazi senza storia, un “non luogo” diffuso.

Il riferimento territoriale della ricerca sul restauro del Moderno ha intercettato queste problematiche nel distretto industriale pratese, che per queste sue caratteristiche è certamente da considerare un caso emblematico a livello nazionale nella delicata e perdurante fase di trasformazione dei comparti produttivi in dismissione di questo paese, trovando nella rigenerazione un ambito di sperimentazione di straordinaria rilevanza. Si tratta di una problematica che è prepotentemente tornata alla ribalta interessando la complessa transizione ecosistemica dei territori per la riqualificazione ambientale del costruito esistente, un nuovo punto di incontro tra storia e territorio, tra identità dei luoghi e qualità della vita. Nella transizione economica, energetica ed ecologica, che ci attende potremmo riscoprire le radici fondative del distretto produttivo, il profondo radicamento sociale con le fabbriche del distretto tessile. Anche il paesaggio antropico caratterizzante l’area pratese, dalla vallata alla piana, è frutto delle trasformazioni indotte dai giacimenti storici dell’industria. Questo è avvenuto largamente in uno stretto connubio con le risorse naturali e la geomorfologia del territorio. In particolare, motori dello sviluppo sono state le acque alimentate dal fiume Bisenzio e dalla rete di canali e gore e che hanno segnato lo sviluppo della città indirizzando compiutamente anche la dislocazioni degli opifici segnando i processi che hanno determinato la rivoluzione industriale pratese. Alle soglie del terzo millennio, dopo un decennio caratterizzato dall’avvio di trasferimenti delle industrie dal centro alle aree periurbane, nel 2001 furono censite ben 198 fabbriche in degrado, già all’epoca segnalate come obsolete o in smantellamento, molte delle quali aventi pregevoli strutture in c.a. e un ricco corredo di elementi architettonici di precipuo interesse costruttivo e accessorio, tra queste si contavano anche ben 10 complessi industriali maggiori, per un totale di 450.000 mq, l’equivalente di un circa un terzo del centro antico (Centauro 2001). A questi si sarebbero aggiunti centinaia di opifici minori, stanzoni e capannoni, oggi occupati dalla comunità cinese, ma allora indicati in dismissione, per una volumetria complessiva di 1.700.000 mc. Oggigiorno l’attenzione si è spostata sul “riciclaggio” dei sedimi edificati per contenere l’ormai massivo consumo del territorio perché l’interesse è rivolto ai destini delle vecchie fabbriche fatte oggetto di demolizione e ricostruzione con altre destinazioni, spesso senza dare il giusto peso, come si sarebbe dovuto fare, al loro intrinseco interesse testimoniale e scientifico.

Il dibattito odierno che si viene a proporre attraverso i diversi contributi presentati dai vari autori, affronta in un ambito multidisciplinare alcune delle problematiche più scottanti in questo momento, prendendo spunto dalla una migliorata conoscenza del patrimonio

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industriale pratese per aprirsi in modo consapevole alle questioni di metodo nell’approccio finalizzato attraverso il restauro alla salvaguardia in un’ottica di sostenibilità ambientale e di investimento culturale (Centauro 2018).

I contributi che sono stati presentati dai relatori offrono un campionario quanto mai vario, mettendo a fuoco, pur in estrema sintesi, aspetti di metodo, conoscitivi ed operativi, evidenziando alle diverse scale le problematiche da affrontare, ma anche fornendo indicazioni sulle più congrue procedure d’intervento da seguire attraverso l’illustrazione comparata delle risultanze di recenti esperienze di recupero funzionale e di restauro architettonico. Si tratta di interventi di riabilitazione attenta al mantenimento dei caratteri costruttivi e alla riconversione d’uso degli spazi ex industriali.

L’attenzione progettuale nella conduzione degli interventi sulle architetture moderne ci dimostra altresì come anche gli interventi ristrutturativi leggeri, ad esempio quelli di parziale riconfigurazione formale degli elementi architettonici seriali, dovuti ad esigenze di efficientamento impiantistico e/o di rafforzamento strutturale, ancorché richiesti dalle norme vigenti, siano da considerare largamente compatibili con il restauro, in questa finalizzazione anche interventi di cosiddetto “restyling” che comportano revisione estetica delle cortine esterne o riarticolazione dei corpi di fabbrica, come pure opere interne che approdano ad una parziale revisione distributiva degli spazi, lasciando spazio a funzioni alternative rispetto alle destinazioni preesistenti, sembrano bene adattarsi al recupero dell’identità dei luoghi della produzione, non più sviliti da incongrue sostituzioni edilizie. In una tale prospettiva è stato affrontato un percorso di confronto a più voci sui temi tracciati, aprendo un dialogo e una compenetrazione di ricerca tra il mondo della formazione e quello delle professioni, passando in una condivisa dialettica progettuale, dalla conservazione alla rigenerazione delle funzioni. Seguendo questi indirizzi di messa a punto metodologica e di sperimentazione sono stati condotti gli stages formativi, che sono illustrati in questa pubblicazione, svolti nell’ambito delle attività laboratoriali che hanno visto protagonisti gli studenti del corso di restauro con l’assistenza dagli architetti iscritti all’Ordine professionale, attivi in qualità di tutors dei rilievi condotti sul campo.

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Il Fabbricone, viale principale di accesso prima del rialzamento della palazzina di sinistra, anno 1925. (Fonte: Archivio Privato)

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Ex fabbrica

“Campolmi”, prima e dopo gli articolati interventi di recupero (arch. Marco Mattei, 2000-2009)

Uno sguardo sul patrimonio dell’industria pratese del ‘900

Per capire la portata “rivoluzionaria” per il XX sec. delle architetture in c.a., si parte dagli anni ’20. In città spicca il progetto, avveniristico per il 1925, della copertura del Politeama Banchini, per mano dell’ing. Pierluigi Nervi, che 5 anni più tardi realizzerà lo Stadio Comunale di Firenze.

Visti i risultati eccellenti conseguiti con il teatro, l’impresa “Nervi & Nebbiosi” trovò una diffusa committenza tra gli imprenditori cittadini e fu presto impegnata a realizzare molte armature in c.a. per gli opifici dell’emergente industria tessile pratese. Tra questi cito la nuova filatura con capannoni “a shed” in c.a. (1927) dello stabilimento Mazzini in via Bologna. In città fu un successo senza pari per l’impiego del c.a. iniziato da Nervi per l’ossatura della grande raggiera di travi, a sostegno degli anelli strutturali della copertura della grande sala del Politeama, con quella cupola a due emisferi apribili elettricamente (ing. Carlo Mazza) (Critelli 2006). Grazie all’avveniristico impiego del c.a. condotto dal Nervi, gli imprenditori pratesi si convinsero precocemente che la “modernizzazione” dell’edilizia, non solo quella industriale, sarebbe passata dall’impiego del calcestruzzo armato, utile soprattutto per realizzare grandi luci utilizzabili per i nuovi stabilimenti o l’aggiunta di reparti di produzione. L’uso del c.a. ha massicciamente interessato molti stabilimenti “storici” pratesi che, fin dalla metà degli anni ‘30, andavano ampliando i reparti con spazi più ampi e funzionali. In città anche il Fabbricone, pietra miliare dell’industria tessile, non fece eccezione. Una prima grande occasione di ampliamento fu nel 1934 per il rialzamento del corpo di fabbrica posto lungo il viale centrale del complesso (Guanci 2011).

La committenza esortò la Ditta “Nervi & Bartoli” a trovare una soluzione che consentisse di far coesistere le opere in c.a. con le strutture più tradizionali in laterizio e ghisa. Fu un grande successo che fece molti proseliti fra le aziende che volevano rinnovare, ma non “rottamare”, il vecchio con il nuovo. Il genio imprenditoriale dell’epoca chiedeva soluzioni ingegnose, affidabili e “risparmiose” che il c.a. combinato con strutture metalliche e vetro consentiva di avere. Da quel progetto si proseguì, senza soluzione di continuità, nel dopoguerra a fissare grazie al c.a. un vero e proprio “imprinting” urbano. Ancora una volta l’ing. Nervi e la sua impresa furono protagonisti della scena. In associazione con la Ditta “Poggi & Gaudenzi”, che stava realizzando l’ampliamento del monumentale lanificio “Figli di Michelangelo Calamai” sul viale Galilei, si edificarono altri 8.000 mq. con capannoni ad un sol piano tutti con telaio in c.a.. Questi modelli costruttivi furono molto imitati, cito per tutti il lanificio di Brunetto Calamai in via Galcianese. La tintoria annessa al lanificio Ricceri in via Bologna ospita un padiglione in c.a.

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dalla forma ogivale simile a quello della Campolmi, un analogo impianto esisteva agli Alcali. Proprio l’ex Cimatoria “L. Campolmi & Co.” è un esempio virtuoso a livello nazionale per l’archeologia del c.a., in virtù del restyling della vecchia tintoria elevata a “cattedrale” della cultura, luogo frequentatissimo e fulcro della nuova Biblioteca Lazzerini (Istituto Culturale e di Documentazione del Comune di Prato).

Il complesso attuale, che comprende anche il Museo del Tessuto, è nato dal progressivo restauro delle vecchie fabbriche, portando a termine, su progetto dell’arch. Marco Mattei, un laborioso intervento pubblico di recupero e valorizzazione (dal 2000 al 2009) (Mattei 2004). Ancora una volta, non disgiunto dallo sfruttamento delle risorse naturali del territorio, esiste un luogo emblematico per tracciare la storia dell’industria del c.a. a Prato, una sorta di “genius loci” della marna da cemento e del calcare da calce. Questo è Poggio Castiglioni, estrema propaggine meridionale dei Monti della Calvana, dove, nel 1925, la “Società Marchino & Co.” acquistò terreni per legare l’estrazione della materia prima alla produzione in loco del cemento.

Le leggi minerarie del 1927 e la rapida espansione commerciale della Marchino fecero sì che nel volgere di pochi anni il cementificio si espandesse in modo esponenziale, con 700 ettari in concessione, ma solo in parte sfruttati, e gli oltre 6 km di gallerie d’estrazione scavate nelle viscere rocciose del monte. Un complesso articolato e composito di manufatti caratterizzati dal forte impatto visivo con quei quattro imponenti altiforni in laterizio, emergenti fin nel paesaggio remoto al disopra di una grande scheletro strutturale sorretto, quasi fosse il fronte di un ciclopico tempio, da nove allungatissimi pilastri. A far da corollario all’imponente struttura altri stabilimenti con un’isolata ciminiera e, più in basso, ulteriori forni porticati e impianti di stoccaggio. L’insieme di queste costruzioni compone una cittadella dell’industria

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Ex Cementificio Marchino, icona dell’architettura industriale pratese

Le strutture della “cementizia”, in attesa di restauro

che segna in modo surreale e metafisico un insolito paesaggio artificiale che contrasta con la natura selvaggia dell’intorno.

La fortuna di questi impianti s’interruppe bruscamente con la guerra a causa dei pesanti danneggiamenti subiti per le mine tedesche e della difficile contingenza postbellica che ne aveva impedito una completa riabilitazione funzionale (Guanci, op. cit.).

Negli anni immediatamente precedenti il conflitto bellico, l’ing. Pier Luigi Nervi è stato senza alcun dubbio l’artefice principale, come progettista e costruttore, delle strutture in conglomerato cementizio armato che hanno “infrastrutturato” e fatto crescere l’industria pratese. Si tratta di opere condotte dal Nervi con sapienza, sempre caratterizzate da un rigoroso calcolo strutturale e dal suo genio creativo, ma anche da una meticolosa cura nelle gettate di calcestruzzo per la messa in opera, tale da fare apparire le superfici a faccia

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prefazione • giuseppe alberto centauro 23

L’ardita passerella delle ex Lanificio Sbraci demolita nel 1989, in una foto degli anni’60 (Fonte : AFR, Prato)

Il Lanificio “Walter Banci” al tempo della sua edificazione (Fonte: Archivio Privato)

La fabbrica oggi in stato di abbandono

La composizione dei corpi di fabbrica ben si coniugava con il razionale disimpegno lavorativo degli operai (Fonte: Archivio privato)

La ridistribuzione del verde piantumato intorno al Lanificio Banci dopo il suo completamento (1962) (Fonte: Archivio privato)

vista del cemento come opere d’arte, orgoglio di carpentieri e maestranze (Castelli et alii 2011). Come non ricordare le strutture del Lanificio “Franchi Orlando”, oggi sostituito dal Palazzo delle Poste, con quelle innovative coperture piane in c.a. sorrette da travi a sbalzo, con le ampie terrazze (Guanci, op.cit.). In realtà l’impiego del c.a., specie nell’architettura industriale, ha significato per oltre mezzo secolo progresso e sviluppo, espressione di un ordine formale corrisposto nei nuovi assetti urbani che i grandi complessi venivano a creare. Si citano alcuni complessi industriali scomparsi o fin troppo frettolosamente demoliti, quali il Lanificio Sbraci in via Ferrucci con quella “arditissima” passerella area, completata dalla “Nervi & Nebbiosi” solo nel 1942 e demolita nel 1989 (Guanci, op. cit.). Anche il Lanificio dei Fratelli Querci in via Santa Gonda per l’ampliamento degli stabilimenti si avvalse della consulenza del Nervi. Come l’altro sopra citato non resta più alcuna traccia di quello storico complesso, se non la testimonianza dell’antico mulino dell’Olivo, già detto di Sancte Abunde a contrassegnare il luogo delle origini. La “città vecchia” con le industrie fuori dalla cintura delle mura, poste ancora lungo le gore, lasciò il posto nella ricostruzione post bellica ad un’espansione urbana senza limiti, a formare negli anni del boom economico un grande coacervo ambientale che inglobò, una ad una, tutte le preesistenze e densificò con centinaia e centinaia di magazzini e stanzoni tutte le aree intorno ai grandi complessi industriali prebellici, dilatando “a macchia d’olio” interi quartieri a S-E e S-W del centro antico.

Un’immagine della “città fabbrica” è l’asse di via del Romito con l’ininterrotta sequenza di opifici e case, vecchie e nuove. A Prato la seconda metà del secolo scorso è figlia del gigantismo espansivo del distretto industriale, dall’accrescimento imponente di strutture di piccole, medie e grandi dimensioni reso possibile dall’impiego massiccio del c.a.

Non mancheranno le eccellenze architettoniche alle quali la città, nella sua evoluzione moderna, non poteva certo dirsi estranea. Una di queste è rappresentata dal Lanificio

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 24

“Walter Banci”, realizzato tra il 1951 e il 1953 ma completato solamente negli anni ’60 (Centauro 2011). Si tratta di un complesso che occupava una superfice coperta di oltre 25.000 mq lungo l’Autostrada del Mare, ancor prima che divenisse, nel 1962, la c.d. Declassata (oggi viale Leonardo Da Vinci). Allo stato attuale le fabbriche giacciono in uno stato di desolante degrado, nonostante siano state al centro, dopo la dismissione, di una lunga querelle sul possibile riuso come area espositiva Nel 2007, un expertise del prof. arch. Brian Spencer (American Institute of Architects), puntava i riflettori sull’importanza urbanistica e architettonica dell’ex Lanificio Banci. La dichiarazione di Spencer qualificava il complesso architettonico come uno dei pezzi pregiati dell’archeologia industriale pratese, attribuendone l’ascendenza al genio creativo di Frank Lloyd Wright. La peculiare tipologia dello stabilimento, unica nel suo genere, prevedeva un’industria a ciclo completo, andando controcorrente rispetto alla tendenza consolidatasi nel dopoguerra nel distretto pratese di frammentazione delle lavorazioni. D’altronde inusuale era lo stesso schema costruttivo dei capannoni, certamente assai diversificati per tipologia strutturale rispetto a quelli esistenti. La rivoluzione architettonica non riguardava solamente gli aspetti compositivi, bensì si completava con un orientamento strutturale affatto diverso da quelli in uso corrente nel periodo, realizzandosi con pilastri in cemento armato a sorreggere ampie coperture a due falde con compluvio centrale, costruite “a camera d’aria” con travetti in cemento e tavelle in laterizio. Il calcolo delle opere strutturali, i progetti esecutivi e la direzione dei lavori furono eseguiti dagli ingegneri Arrigo Forasassi e Alieto Taiti ai quali il Banci aveva affidato lo sviluppo del concept progettuale ispirato ai principi

prefazione • giuseppe alberto centauro 25

dell’architettura organica, secondo gli intendimenti e i canoni esecutivi caratterizzanti i progetti di F.L. Wright. Si utilizzarono per le membrature murarie materiali naturali selezionati, provenienti dalle cave della Calvana, principalmente conci di pietra alberese, mentre le malte di allettamento furono confezionate con le sabbie dei Renai a Signa. Per le opere con il vetro, estremamente innovative per il periodo, usate per le grandi pareti frontali sia per le superfici piane che per le parti curvilinee, fu fatto esplicito riferimento alla ditta “Saint Gobain”, che aveva già realizzato un lavoro in California per il grande architetto americano. Completava l’innovativo impianto industriale una lungimirante visione ambientale che si attuò attraverso la piantumazione di un gran numero di alberi e siepi di schermatura intorno all’articolato complesso degli stabilimenti.

In questa sintetica carrellata sul patrimonio industriale per esaminare i lasciti delle architetture in conglomerato cementizio armato, ci siamo fermati a 50 anni fa, un tempo non casuale - come vedremo- per valutare nella giusta prospettiva storica le valenze ambientali e culturali assegnabili a queste strutture moderne.

A distanza di anni dall’inizio di questo processo di “rivisitazione” la situazione è rimasta largamente incompiuta in chiave di restauro di molta parte di quelle strutture.

Se per l’incuria è necessario avere cura delle fabbriche in dismissione, per evitare crolli o collassi strutturali occorre, monitorare e intervenire precocemente in tutte le situazioni a rischio o nell’incipienza delle patologie dei materiali che, per quanto concerne le opere in c.a., presentano i primi sintomi di disgregazione superficiale o di perdita di resistenza nelle armature. Ripristinare i copriferro, passivizzare le armature scoperte, rigenerare il materiale ammalorato e soprattutto avere cura di ogni particolare costruttivo che è partecipe della struttura in c.a. sono le buone regole per prolungare la vita di pilastri, travi e ferri; queste sono solo alcune delle opzioni per la conservazione e per il restauro del Moderno sulle quale ha puntato l’attenzione l’attuale dibattito attraverso l’analisi diretta dei beni industriali in degrado.

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 26

GIORNATA DI STUDIO

Sessione mattutina

coordina e introduce: Giuseppe Alberto Centauro

I bozzetti di progetto per l’allestimento museografico (arch.i Piero Guicciardini e Marco Magni) negli spazi restaurati per il Museo del Tessuto (Mattei 2003)

Abstract

L’articolo contiene una nota di presentazione del programma di ricerca dedicata alle questioni connesse ad un più ampio dibattito disciplinare mosso sul piano culturale e scientifico; il programma è inerente al tema che dà il titolo del convegno: “Il restauro del Moderno: il patrimonio dell’industria pratese del ‘900. Dalla conservazione alla rigenerazione delle funzioni”.

Gli argomenti posti alla base di questo dibattito hanno costituito l’asse portante del presente contributo, in parte ripreso nei temi affrontati dai vari relatori. Inoltre, in premessa, si è precisato il fatto che il particolare angolo visuale riservato alla discussione apertasi in sede di convegno, altro non è che l’atto conclusivo delle lezioni e degli studi che si sono tenuti all’interno del seminario universitario condotto da chi scrive, avente come obiettivo la conoscenza dei metodi e dei criteri per il restauro attraverso le indagini dirette e il rilievo degli apparati costruttivi caratterizzanti gli impianti industriali moderni, senza porre distinzioni tra quelli ancora in uso e quelli in dismissione. Gli ambiti di studio hanno riguardato opifici che necessitano di azioni di manutenzione straordinaria e di risanamento. Gli esempi presi in esame rivolti ad approfondire le condizioni operative per il restauro sono stati relazionati alle più recenti esperienze di recupero edilizio e di riabilitazione funzionale condotte sul patrimonio edilizio esistente a Prato. Si tratta di interventi che hanno affrontato le tematiche del restauro architettonico in senso lato, oggi per lo più declinato in una prospettiva di riuso funzionale. Si descrive l’iniziativa che sta alla base del progetto di ricerca e che nasce da un’idea da tempo condivisa tra il sottoscritto, come docente e responsabile scientifico delle attività didattiche e di ricerca incardinate in seno al Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, e l’Ordine degli Architetti PPC di Prato, interessato a focalizzare l’attenzione della categoria professionale sulle possibili connessioni tra il restauro architettonico che si lega ai processi di “patrimonializzazione” dell’esistente attraverso la valorizzazione culturale del costruito, in un’ottica di rigenerazione urbana. Nel saggio sono messi in evidenza gli obiettivi del progetto di ricerca che si è sviluppato integrando alle attività curriculari del laboratorio didattico precipue indagini sul campo, alternando lezioni teoriche a sopralluoghi, condotti in diretta collaborazione con il Consiglio provinciale degli Architetti pratesi che all’uopo ha delegato suoi iscritti a seguire le attività organizzate con i gruppi di studenti. La sintesi di questa esperienza è stata poi ripresa all’interno del convegno, con lo scopo di riportare al centro dell’attenzione, non solo cittadina, il tema del restauro dell’architettura moderna e di quella contemporanea. Si è trattato di articolare un programma orientato su di una prospettiva di sviluppo sostenibile, analogamente a

il restauro
moderno:
del
status quaestionis

Teatro Fabbricone, la galleria movibile. (Foto di D. Venturini)

Teatro Fabbricone, ingresso attuale (giugno 2022)

quanto attiene allo spirito uniformatore del PNRR nelle sue molteplici applicazioni, che allo stato attuale sono in fase progettuale a livello nazionale. In particolare, si è cercato di fornire agli studenti strumenti critici ed analitici per condurre il progetto di recupero e di valorizzazione dedicato ad alcune delle testimonianze fisiche più significative della storia recente di Prato, rappresentate dai grandi complessi dell’industria che sono stati fatti oggetto di proposte e progetti di trasformazione. Per i colleghi professionisti che hanno partecipato è stata l’occasione di confronto con i cambiamenti in atto, al fine di intervenire al meglio per la preservazione e il mantenimento degli elementi strutturali e materici caratterizzanti quelle architetture ed essere in grado di ritessere in modo armonico le scelte progettuali in un’ottica di riqualificazione ecosistemica a livello infrastrutturale, residenziale e produttivo del territorio, in parte compromesso dalle caotiche trasformazioni legittimatesi negli ultimi decenni1

Alcune considerazioni preliminari

In premessa è necessario, anticipando alcune considerazioni, precisare che il palinsesto degli argomenti trattati in questa relazione di apertura è stato impostato avendo come precipua finalità il coinvolgimento degli studenti del corso di restauro, giunti al termine al termine del percorso di studio che li ha visti impegnati nelle ricerche e protagonisti dei rilievi sul campo con esercitazioni seminariali dedicate all’architettura industriale del ‘900 del distretto pratese. Questi studi hanno interessato -come richiamato in prefazione- l’articolato compendio di edifici che costituiscono entro un’alta recinzione muraria, la parte storica del grande complesso produttivo tessile del Fabbricone. Quel complesso industriale è un’icona per quel che rappresenta in città, quindi l’espressione giusta per lo svolgimento di un programma di ricerca riservato ad un caso studio emblematico. Ed anche un modo efficace per introdurre le problematiche del restauro del Moderno sui metodi di approccio e le modalità di intervento. Il Fabbricone è composto da una ventina di corpi di fabbrica principali, separati e giustapposti tra loro, nettamente suddivisi in due parti realizzate prima e dopo gli anni ’40 del secolo scorso, offrendo un campionario quanto mai esteso di tipi costruttivi propri dell’architettura industriale moderna.

L’interesse per questo complesso industriale proposto come caso studio poteva, dunque, ampiamente motivarsi sotto l’aspetto architettonico e rispondere agli obiettivi prefissati. Inoltre, per una buona metà, gli stabilimenti sono ancora in piena attività e le porzioni rimanenti, uscite dal ciclo produttivo, ma non per questo meno significative, offrono un

1 Il seminario, a carattere interdisciplinare, è stato condotto in piena sinergia tra l’Università e l’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Prato, nell’ambito delle attività didattiche del Laboratorio di Restauro nel CdL in Scienze dell’Architettura, in concorso con il CdL in Pianificazione della Città, del Territorio e del Paesaggio, facenti parte del Dipartimento di Architettura di Firenze. Per sottolineare la centralità degli argomenti affrontati e per le indicazioni che potranno scaturire da questa esperienza, Il programma del convegno ha avuto il patrocinio della S.I.R.A. (Società Italiana per il Restauro dell’Architettura).

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 32

ampio ventaglio di soluzioni adattative nell’ambito del restauro e del recupero. Questa duplice situazione caratterizzante lo stato d’uso attuale poteva rendere, non solo ai fini didattici, questo caso ancor più interessante come terreno di ricerca e di analisi nel confronto d’idee che è in grado di suscitare per la salvaguardia futura. Lo studio per questi stabilimenti ai fini dell’argomento trattato si confermava dunque molteplice. Anche altri fattori hanno giocato a vantaggio di questa opzione, uno urbanistico e uno storico culturale. Infatti, uno dei blocchi del complesso industriale è stato fatto oggetto, quasi cinquant’anni or sono, di un’eclatante operazione di riconversione funzionale che ebbe una vasta eco nazionale. In particolare, quando nel 1974, al tempo della austerity, uno dei capannoni edificati nel primo dopoguerra fu dato in uso al Comune di Prato per la realizzazione di uno spazio teatrale all’avanguardia, assecondando la geniale intuizione di Luca Ronconi che vi allestì una memorabile Orestea, ben si comprese che quella suggestiva “location” non era disgiunta dalla fortuna critica ricevuta da quella pièce teatrale. La messa in scena di uno spettacolo in fabbrica si legava perfettamente alla sincera natura costruttiva di quello spazio. In una chiave retrospettiva si può affermare che la stagione del recupero dell’architettura moderna riciclata o riadattata al servizio della cultura, quale le testimonianze fisiche dell’industria potevano offrire, s’inaugurava proprio con il Teatro Fabbricone.

Lo studio di quella felice esperienza, subito percepita come pienamente compatibile con il restauro della fabbrica, prosegue a tutt’oggi con successo replicandosi spontaneamente in molteplici altri casi, anche in utilizzi transitori, non definitivi di moderne strutture dismesse.

Più recentemente, ad esempio, gli opifici moderni sono divenuti attrattivi anche nell’ambito del marketing aziendale, aprendo la strada ad un’inedita forma di turismo industriale, accogliendo nelle sedi eventi culturali, mostre, ecc. A titolo di esempio, alla ricerca di nuove

il restauro del moderno: status quaestionis • giuseppe alberto centauro 33

Beste Hub (ex Lanificio Affortunati), prima e dopo i recenti interventi di ammodernamento

connessioni con la città, l’ex Lanificio Affortunati, sorto nel secondo dopoguerra, è stato ristrutturato dai nuovi proprietari con intervento conservativo, nel mantenimento del fabbricato così com’era, articolato su due piani, nella valorizzazione dei caratteri architettonici originali, sia a livello di parti strutturali, scale ecc. sia accessorie, quali gli infissi, ecc. semmai attualizzando gli ambienti alle esigenze impiantistiche legate all’efficientamento energetico e rivisitando il design degli interni; infine, cavalcando il cambiamento anche nel rifacimento delle coloriture delle cortine esterne, è stato optato per una tinta segnaletica “all white” in linea col nuovo marchio di fabbrica. L’ex lanificio è ora le sede del “Beste Hub” che oltre alle lavorazioni sartoriali trasferite da altra sede si è trasformato in una sorta di grande “show room”, lasciando l’ampio cortile centrale come spazio a disposizione totale delle iniziative della comunità pratese, comunque predisposto ad ospitare manifestazioni culturali.

Questa nuova tendenza nella riconversione d’uso delle fabbriche che, di certo, può valutarsi caso per caso, dimostra quanto vasta sia la gamma degli interventi che possono, sia pure indirettamente, dirsi ispirati a quella prima esperienza data dal Teatro Fabbricone, mutuati nella metamorfosi d’utilizzo da spazio del lavoro a spazio dello spettacolo. Il Teatro Fabbricone è così divenuto un modello da studiare anche da questo punto di vista, antesignano delle potenzialità offerte dal “riciclo dei contenitori” abbandonati dall’industria, ricordando che a metà degli anni ’70 si parlava ancora sommessamente di “Archeologia Industriale”2

2 «L’archeologia industriale in Italia ha una data di nascita precisa: il 1977, a Milano, in occasione del I Congresso internazionale della disciplina, organizzato da un gruppo di giovani laureati, Sono gli anni da noi del successo di Braudel, dell’interesse per la storia della vita comune, quella non scritta contrapposta alla storia esclusivamente politico-diplomatica. Sono anche gli anni dell’abbandono da parte dei monopoli industriali dei grandi

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D’altronde quella scarna struttura in c.a., restituita in forme architettoniche ibride composta da mattoni ed intonaci, ben rappresentava l’idea dello spazio indifferenziato, asciutto e senza fronzoli della cultura operaia del periodo. Uno spazio ideale per ospitare il Teatro Fabbricone raccolto in un edificio che non aveva ancor compiuto trent’anni di vita e che nella nuova veste vedeva rispettata la sua configurazione plastica, assai “funzionale” all’immagine ricercata, pur non potendo ambire ad essere riconosciuto come un “monumento architettonico“ dell’industria edilizia moderna. Si può semmai considerare, a mo’ di singolare coincidenza, come proprio in quegli anni si cominciasse a trattare il tema dell’archeologia industriale, divenuto precocemente oggetto di studio, finalizzando programmi di catalogazione degli immobili e degli impianti ad essi connessi per la conservazione e il restauro delle manifatture ritenute di interesse culturale attinenti ai complessi dismessi dall’industria, specie se rappresentative delle tecnologie costruttive e dei materiali moderni (Emiliani 1974). La fortuna critica determinato dal campo di indagine che ruotava sul complesso di ricerche relativo all’archeologia industriale stava suscitando un crescente interesse nell’opinione pubblica e, quindi, di sensibilizzazione nei confronti della salvaguarda dei beni architettonici dell’industria sulla spinta di alcune iniziative editoriali a larga diffusione, ad esempio nel 1983 la pubblicazione del Touring Club del 1983,che si accompagnava con il reportage fotografico realizzato da Gianni Berengo Gardin (Negri A., De Seta C. 1983) . Questo nascente interesse ha generato attenzioni nell’immaginario collettivo e trovato molte opzioni legate al riuso ai fini culturali delle testimonianze fisiche dell’archeologia industriale, mettendo in luce le enormi potenzialità e le suggestioni che i luoghi dell’industria potevano offrire a quel tempo nel semplice e diretto riuso degli spazi, oggi per la rigenerazione selettiva delle funzioni.

L’esperienza del Teatro Fabbricone è divenuta a maggior ragione emblematica come caso studio per meglio comprendere le occasioni che si potevano offrire nell’ambito del recupero e della riabilitazione al patrimonio industriale3

Negli studi che sono stati analizzati intorno alle problematiche riguardanti un corretto approccio al restauro del Moderno, il cambio di destinazione è così apparso “non più incompatibile” con le esigenze della conservazione dei beni industriali in dismissione, specialmente laddove è in grado di fornire adeguate risposte alla domanda di servizi per la cultura e rispondere all’assunto di legge che più o meno recita in architettura che non esiste “conservazione

complessi di tipo ancora tardo ottocenteschi, del rifiuto operario e poi del rapido tramonto della catena di montaggio, e della crescente reazione della gente all’ultimo stadio della società tecnologica (meccanica). Questo spiega il rapido successo dell’archeologia industriale nel nostro Paese» (Da un’intervista rilasciata da Eugenio Battisti, in F.M. Battisti 2001).

3 Cfr. ultra, Il Fabbricone come luogo di sperimentazione e ricerca per il restauro.

il restauro del moderno: status quaestionis • giuseppe alberto centauro 35

Museo del Tessuto (ex Cimatoria “L. Campolmi & Co.”), macchina follatrice

Copertina degli Atti del Convegno di Prato, op. cit.

La vecchia officina meccanica e i telai al piano primo nella fabbrica Campolmi (in alto) , (Mattei 2003)

senza valorizzazione”. Sulla scia di quella esperienza altri interventi di riuso sono stati valutati distintamente nel percorso degli studi affrontati nel laboratorio didattico e nell’approfondimento portato in convegno al confronto dialettico con studiosi, docenti di architettura ed urbanistica e in ultimo con i progettisti laddove si porta in evidenza in chiave di restauro e conservazione quali debbano essere i requisiti da ben ponderare negli interventi di riabilitazione per garantire il rispetto del manufatto che si intende tutelare4.

Il presente contributo, svolto come tema introduttivo del convegno, quindi, è anche da considerarsi come propedeutico al dibattito. In particolare, il tema del recupero e della fruizione del bene industriale viene affrontato attraverso il confronto tra i diversi approcci critici nella messa a fuoco delle metodologie d’intervento, passando non astrattamente dalla teoria alla pratica nell’alveo disciplinare del restauro condotto dalla scala territoriale ed urbana a quella architettonica; nel caso del distretto industriale di Prato ripartendo dall’esame delle esperienze condotte in città negli ultimi trent’anni (Avramidou

4 Principi da rispettare negli interventi di recupero e restauro dell’esistente da tutelare (Centauro, 2020a):

- Destinazione d’uso compatibile con la natura costruttiva dell’edificio;

- Ripristino o conservazione del comportamento statico originario nelle opere di consolidamento o di rafforzamento;

- Garantire la compatibilità chimica e fisica dei materiali in opera e la migliore reversibilità possibile degli interventi ;

- Garantire la durabilità e la manutenibilità delle opere.

- Osservare il principio del minimo intervento;

- Osservare la riconoscibilità degli elementi originari.

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 36

2001;

2001;

2001;

2004, ecc.) selezionando, in particolare, le vicende legate agli opifici “storicizzati” e/o ai manufatti ascrivibili tra quelli dell’archeologia industriale. In particolare, si vedano gli Atti del Convegno di Prato, organizzato da CICOP e dall’Ateneo fiorentino, in Faustini L. et alii (a cura di ), 2001. Come antefatto conoscitivo a livello locale è stato riservato un posto preminente all’excursus storico evolutivo dei processi di formazione dei patrimoni dell’industria pratese, dalla nascita all’espansione urbanistica5. In particolare, al fine di sviluppare in modo organico la discussione, una particolare attenzione è stata rivolta alle testimonianze architettoniche più significative costituite dai manufatti dell’industria pratese del ‘900 (Centauro 1997; Gurrieri, 2001a; Guanci 2011), selezionando quelle che sono state oggetto di interventi di recupero, riabilitazione e restauro (Centauro 2011). A questo riguardo, la documentazione e la schedatura degli interventi di trasformazione di tale patrimonio edilizio, già oggetto di accurato censimento, sono state messe a disposizione degli studenti del laboratorio (cfr. lo studio di tesi di Falchi et alii, 2004) come base informativa per dar corso alle analisi correnti. La lettura dei processi che hanno interessato le aree produttive dismesse sono indicizzati, cartografati e monitorati, riprendendo in mano studi pregressi (Centauro 2006) ed osservando i risultati delle esperienze più significative di restauro condotte sugli edifici esistenti ritenuti di interesse urbanistico, fra tutti il recupero dell’ex cimatoria “Campolmi” (Mattei 2012)6. Analogamente, nelle lezioni che hanno preceduto il convegno, sono stati riportati alla ribalta alcuni casi emblematici condotti a livello nazionale (Gregotti 2000; Rubino 2001; Docci 2010, ecc.) e internazionale (omissis). Infine, sono state rivalutate questioni riguardanti i metodi e i criteri degli interventi di restauro derivanti dall’analisi delle ultime tendenze che sono state avanzate sotto il profilo disciplinare, storico critico e tecnico nell’ambito delle

il restauro del moderno: status quaestionis • giuseppe alberto centauro 37
Centauro Gurrieri Mattei 5 Cfr. ultra, la relazione di Giuseppe Guanci. 6 Ringrazio l’arch. Luca Buono che partecipò ai rilievi del vecchio opificio che mi ha fornito un’inedita testimonianza e preziose indicazioni sullo stato della fabbrica prima del restauro.

Quadro sinottico del censimento industria pratese (Falchi et alii, 2003), in foto l’area “Prato Centro-Nord” con legenda

Biblioteca Lazzerini. Istituto culturale e di documentazione, particolare della grande sala d’ingresso ricavata nell’ex tintoria della fabbrica Campolmi.

associazioni di categoria; Marino, 2017 per la SIRA (Società Italiana per il Restauro dell’Architettura); Currà et alii, 2022 per l’AIPAI (Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale), ecc.

Restauro del Moderno, del Contemporaneo o restauro tout court?

La documentazione sull’architettura industriale moderna ha altresì fornito la base conoscitiva essenziale per affrontare in maniera omogenea lo spinoso e, per certi versi, ancor aperto e assai dibattuto capitolo del restauro del Moderno nelle sue molteplici sfaccettature (Gizzi 2012). Un primo elemento di riflessione è dato da quella che appare oggi come un’apparentemente netta contrapposizione esistente tra il restauro dell’architettura moderna e il restauro di quella contemporanea. Non è del tutto estraneo a tale netta distinzione il retaggio storiografico degli storici dell’arte che hanno più in generale retrodatato l’età Moderna con la fine del Medioevo, riconoscendo l’inizio dell’età Contemporanea a partire dai lasciti dell’Illuminismo o, per quanto concerne l’architettura, post Rivoluzione Industriale. Non è così però per gli storici dell’architettura che collocano l’incipit della modernità esattamente dove i primi collocano la sfera d’influenza del Contemporaneo, sia pure condividendone un’evidente sovrapposizione con il Moderno. Ma, al di là delle considerazioni più o meno accademiche, l’edificio contemporaneo attiene soprattutto all’architettura post-industriale (non a caso indicata anche come postmoderna) che più che al tema della conservazione, risponde nell’ambito dell’opzione restaurativa alle categorie della prevenzione e della manutenzione, ordinaria e straordinaria. Inoltre, si deve considerare che per il miglioramento e adeguamento sismico delle strutture esistenti non si pongono particolari distinzioni tra moderno e contemporaneo ovunque si riveli nei beni architettonici un deficit

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 40
• Ex Cimatoria "Leopoldo Campolmi & Co.", la ciminiera alta 48 mt, dopo il restauro

di sicurezza o una condizione di rischio. Al di là dell’etichettatura cronologica interessa però verificare le peculiarità che distinguono l’architettura del passato da quella moderna, osservando i sistemi costruttivi e i materiali messi in opera, ovvero se queste prerogative corrispondono alla tradizione costruttiva (di tipo artigianale) oppure a quella della produzione industriale che troviamo soprattutto nell’edificato novecentesco. Tuttavia, soprattutto se ci riferiamo alla prima metà del secolo scorso, abbiamo a che fare per la maggior parte dei casi con soluzioni ibride, con impiego di materiali misti ed elementi costruttivi moderni nel corpo di edificazioni murarie tradizionali che riscontriamo facilmente negli edifici industriali. Esiste inoltre un’altra differenziazione tra moderno e contemporaneo che si lega agli autori dei progetti che possono nell’arco delle proprie carriere essere stati del tutto trasversali nell’uso delle tecniche costruttive, modificando nel tempo l’impianto di progetto, interagendo senza partizioni temporali ora nella prevalenza dell’uno ora nell’altro campo. Nel caso di un edificio progettato da architetti/ ingegneri non più viventi, in mancanza dell’artefice si potrebbe, nel mettere mano alle opere incorrere in un arbitrio interpretativo, andando a modificare elementi architettonici, né più né meno di quanto può accadere con edifici storici, Ciò risulterebbe eticamente sbagliato in quanto lesivo dell’autenticità per dell’opera originaria da salvaguardare per quanto di recente composizione. Naturalmente questa tematica è resa ancor più evidente nel caso di riparazioni o restauri che attengono alle opere d’arte. L’attenzione rivolta al rispetto dei diritti di autore (riferendosi agli autori dei progetti) quindi interessa molto il contemporaneo interessa che si pone senza apparenti distinzioni rispetto alle diverse categorie tipologiche di appartenenza; ciò a valere anche nei confronti di profili architettonici di carattere urbanistico e/o paesaggistico (Centauro 2020a).

Tuttavia, anche considerando questo particolare risvolto etico più che sul piano normativo, resta il fatto che un capitolo nevralgico da sviscerare nella prassi corrente resta quello che determina, specialmente nell’architettura moderna, il confine tra interventi conservativi di manutenzione, risanamento e restauro e l’azione di rinnovamento o rifacimento o più semplicemente di ristrutturazione.

Queste considerazioni risultano dunque valide al di là dalle attribuzioni di valore culturale riconosciute anche ai capisaldi dell’archeologia industriale, quali icone della modernità, facendo riferimento alle fabbriche sia della prima che della seconda metà del secolo scorso. La dimostrazione ci viene dalle molteplici esperienze osservate, improntate a strategie di riqualificazione molto diverse fra loro, che registrano negli esiti, alti e bassi, attenzioni e disattenzioni nei confronti dei valori testimoniali riconosciuti ai manufatti moderni, spesso caratterizzati dalla riproducibilità degli elementi architettonici seriali che ne determina anche la facilità della rimozione e spesso ne autorizza il rifacimento. Situazioni queste che

il restauro del moderno: status quaestionis • giuseppe alberto centauro 41

hanno portato alla perdita di un gran numero di beni, com’è facilmente riscontrabile nella conta degli interventi che hanno comportato lo smantellamento di interi stabilimenti come nelle manipolazioni estese di corpi di fabbrica o di singole parti caratterizzanti quelle strutture e persino nell’eclettismo di certe realizzazioni degli apparti decorativi e delle superfici.

Hanno giocato un ruolo negativo soprattutto tre fattori: un’inadeguata protezione urbanistica sul piano normativo, spesso legata a presunti difetti compositivi; la scarsa conoscenza delle tecnologie impiegate e dei valori formali posti in gioco rispetto al tipo costruttivo attribuito alle fabbriche oggetto degli interventi e, infine, la convenienza economica degli interventi eseguibili per la riabilitazione del patrimonio esistente a vantaggio delle operazioni di demolizione/ricostruzione laddove le problematiche di riuso legate alla dismissione delle aree produttive non fossero state adeguatamente sorrette da lungimiranti strategie di sviluppo alternative alla sola domanda di mercato, motivata dagli asset commerciali o residenziali del momento. Formulazioni risultate prevalenti negli ultimi trenta/quaranta anni (Rubino 2001).

Quelli però sono anche gli anni che segnano l’avvio del lungo e tortuoso percorso di avvicinamento culturale legato alla salvaguardia e al recupero dei giacimenti immobiliari dell’industria sul territorio. Ma quanti e quali sono questi beni? In effetti sono state condotte negli anni passati vaste operazioni di censimento e monitoraggio, alimentate dalla necessità degli enti territoriali di produrre elenchi di edifici da includere in liste di protezione urbanistica, da ben ponderare ai fini dell’inserimento o meno nelle categorie di intervento del “Restauro (R)” e del “Risanamento conservativo (Rc)”.

Non staremo in questa sede a ripercorrere le molteplici regolamentazioni e norme che autonomamente le Regioni e i Comuni hanno prodotto. Tuttavia è interessante fare alcune riflessioni in merito alle discriminanti di valore assegnate ai fini della tutela. Una prerogativa che appare elemento ricorrente in tutte le distinzioni che sono state fatte è data dalla conoscenza dei beni con azioni promosse da Università ed Enti di ricerca sotto la spinta di comitati locali o delle associazioni di settore, o portate alla ribalta dai media nazionali non disgiunte da studi e pubblicazioni di settore (guide ecc.).

L’elencazione e il monitoraggio delle minacce che incombono su questi patrimoni, laddove venga loro riconosciuto in un’ampia condivisione un valore culturale, è l’altra azione indispensabile per concorrere alla salvaguardia dei beni.

All’inizio del terzo millennio hanno aderito alle sollecitazioni e raccomandazioni mosse in questa direzione dal Consiglio d’Europa una quarantina di paesi nella campagna intitolata “Europa, il nostro comune patrimonio” (Bergeron L. 2001). Queste indicazioni

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sono da intendersi come opportunità e fattori di crescita culturale, promosse non casualmente in sede europea, con l’obiettivo di ricercare comuni matrici storiche legate all’interscambio di materie prime, all’energia e alla rete infrastrutturale, in un percorso storico evolutivo di antica data da condividere tra i vari Stati membri della U.E. per meglio comprendere le ragioni dello sviluppo e i processi di “modernizzazione” seguiti nei territori. Nel mirino delle ricerche legate all’archeologia industriale, nel passaggio tra antichi e nuovi processi, ci sono le evidenze determinate dai procedimenti industrializzati introdotti nel settore delle arti applicate, dagli stessi sistemi di produzione e dall’applicazione diffusa di tecnologie costruttive innovative sostenute dai fenomeni di innovazione tecnologica. Questi obiettivi sono stati perseguiti sviscerando, pur nella consapevolezza di trovarsi di fronte a profonde diversità, le molteplici situazioni sociali e politiche vissute dalle varie nazioni. Le difficoltà non sono certo mancate e ancor oggi non mancano. Basti pensare alle diversità emerse a livello europeo dopo la “caduta del muro” tra i paesi dell’est e quelli dell’ovest. Non dimenticando il ripetersi di conflitti, drammaticamente tornati alla ribalta in questi mesi con l’invasione russa dell’Ucraina che ha portato, come qualche anno fa lo furono per la guerra nei Balcani, alla distruzione di intere compagini architettoniche, nella fattispecie degli impianti produttivi come di interi quartieri ad essi collegati, colpendo mortalmente specialmente il patrimonio architettonico del ‘900.

Per tutte le ragioni sopra espresse è opportuno introdurre con forza la questione del restauro del Moderno in Architettura, che allo stato attuale del dibattito sembra ancora galleggiare in un ambito dialettico rimasto sostanzialmente invariato dalla fine del secolo scorso. Soprattutto si distingue il restauro dell’architettura, distinta nelle sue parti materiche, rispetto ai caratteri costruttivi, senza ben considerare che la conoscenza degli impianti strutturali a telaio come quelli murari tradizionali costituisce una parte essenziale del progetto di restauro architettonico. Tuttavia, riallacciandosi non solo alle esperienze di recupero del patrimonio architettonico industriale, si registrano in maniera più marcata le tendenze che esaltano il valore icastico ed estetico piuttosto che quello tecnologico e strutturale dei beni architettonici moderni. Per questo si potrebbero abbinare a queste valutazioni, nell’impossibilità di intervenire in maniera larga sul patrimonio esistente, le composite ma riduttive argomentazioni, talune ambigue, mosse dalla critica d’arte, alimentate nell’era di internet del terzo millennio, che puntano al valore dell’immagine piuttosto che alla natura strutturale del permanere delle testimonianze fisiche dell’architettura moderna e contemporanea. In questo senso le enunciazioni che fanno capo a questi principi possono considerarsi come la proiezione dialettica della cosiddetta “storia visiva” (Savorra 2006), qui da intendersi piuttosto come strumento analitico di conoscenza e divulgazione al fine di promuovere la conoscenza

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del costruito esistente per varare una possibile azione di tutela, specialmente a valere nei confronti della produzione architettonica dell’industria; laddove la memoria che si conserva nell’immagine copre solo in parte la perdita dell’oggetto, la documentazione prodotta ante quem la trasformazione può semmai colmare il vuoto temporale generato dallo strappo causato dal rinnovamento che si contrappone alla conservazione. Il ricorso all’immagine fotografica per la compilazione di campionari di architettura, già perseguito come principale fonte documentaria per la catalogazione dei beni fin dall’istituzione dell’ICCD, ben si attaglia alla produzione, certamente non così ben scandagliata dai media, dell’architettura moderna. Naturalmente esiste una forte opposizione a questo modo “surrogato” di operare che si basa sull’analisi comparata dei risultati. Dal confronto di questo genere di attenzioni virtuali con gli interventi che hanno posto il restauro al centro dell’interesse culturale per la collettività, si capiscono facilmente le buone ragioni addotte a supporto del restauro e si evidenziano ancor meglio gli esiti producibili se si valutano le problematiche legate alla necessità di preservare le opere d’arte moderne e contemporanee, Queste ultime, non disgiunte dalla conservazione delle stesse immagini documentarie, analogiche e digitali che siano, evidenziano la necessità di una profonda riflessione sulle questioni tecnico-applicative irrisolte che la scienza della conservazione non è al momento in grado di assicurare (Salvo 2016).

Ripercorrendo la storia stessa del restauro in epoca moderna, si deve però sottolineare come siano ancor oggi prevalenti i metodi di ricerca legati ad una narrazione prettamente cronologica dei beni architettonici, certamente alimentata dalla lunga tradizione epistemologica della disciplina generata da una visione storicistica della salvaguardia.

Tuttavia, se fosse solo questa l’accezione che identifica l’architettura moderna si tralascerebbero alcuni principi fondamentali del “fare moderno” che, in un’ottica miope, tornerebbe ad essere soppesato, come spesso si è fatto, con le opere del passato, con un metro di giudizio basato sull’epoca di costruzione, alimentando pregiudizi e storture. Per tali ragioni questa visione non appare del tutto confacente rispetto ai caratteri dell’architettura moderna che non può essere esclusivamente vista come il risultato formale o storico evolutivo attuato attraverso le nuove composizioni materiche messe in atto dopo la rivoluzione industriale, trascurando l’altra metà della rivoluzione, quella che si realizza nel ‘900, tra le due guerre, con il Movimento Moderno che alimenterà negli anni’20 nuovi canoni estetici e funzionali fondati sul funzionalismo e il razionalismo. In questo senso la frattura prodotta dal Movimento Moderno nei confronti della produzione artistica ed architettonica del passato, avrebbe dovuto produrre riflessi anche nel metro del giudizio di valore da applicare nella cernita critica di ciò che, in chiave di restauro, merita di

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essere salvaguardato da ciò che può essere modificato, rinnovato o sostituito proprio in nome della “modernizzazione” (Gizzi 2012). Quindi è proprio il concetto di moderno in architettura che si viene a porre al centro del dibattito internazionale ed italiano anche nell’ambito di salvaguardia. Un esempio ci è dato dalla nascita dell’associazione “DoCoMoMo” (Documentation and Conservation of building, sities and neighbouthoods of the Modern Moviment) verso la fine degli anni ’80/inizi anni ’90, che testimonia come la discussione sul moderno in architettura non sia univoca, ma che piuttosto sia dovuta ad una discriminante determinata dal fattore temporale. Su questo viene indicato ciò che può considerarsi moderno da ciò che attiene al passato né più né meno da quanto formalizzato dal Movimento Moderno negli anni’ 20.

Questa presa d’atto, alla luce di tutte le considerazioni fin qui fatte pare essere pertinente e giusta pur non essendo norma ma solo una indicazione orientativa. Questa nuova accezione di merito evidenzia anche quello che appare essere ancor oggi il maggiore limite ai fini del riconoscimento di valore dei beni architettonici moderni, ovvero l’esiguità dello spazio temporale che intercorre tra la realizzazione dell’opera e l’esigenza di una sua manutenzione (da intendersi come presa in cura di protezione) che separa la produzione architettonica moderna dall’azione programmabile di restauro. Tuttavia, c’è anche chi ritiene che “moderno” viene da “moda” e che la moda passa, e che questo «genera una confusione tra moderno e contemporaneo. Il concetto di moderno rimane indefinito.»7

Nell’ambito del restauro questo può per taluni ritenersi una questione di lana caprina, senza considerare che il problema della conservazione può manifestarsi a prescindere dalla distinzione tra moderno e contemporaneo in ragione dell’instaurarsi di fenomeni patologici intrinseci connessi alle tecniche costruttive moderne, spesso sperimentali, e agli stessi materiali di nuova generazione impiegati, oppure estrinseci dettati dalle condizioni ambientali causate da innumerevoli altri fattori che poco o niente possono avere a che vedere con lo stato di salute del manufatto. Un’altra peculiare caratteristica dei materiali e delle strutture moderne, che interferisce pesantemente con le modalità di intervento proprie del restauro conservativo è dato dalla riproducibilità dei tipi, dovuta quest’ultima alla molteplicità e diffusione degli esemplari che sono stati realizzati a macchina e che possono facilmente riprodursi (sostituendosi agli originali) rendendo la conservazione un’opzione in chiave di riabilitazione, utilizzando copie riprodotte con analoghi procedimenti. La questione si allarga ancor più se consideriamo le necessità ricorrenti di adeguamento funzionale degli edifici che comportano inevitabilmente l’inserimento di nuovi impianti nelle migliorie da farsi

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7 Si veda l’intervista a Gorgio Ciucci in Gizzi, op.cit..

(impianti di riscaldamento o elettrici, bagni, nuovi infissi, ecc.).

La questione disciplinare, per così dire morale del restauro, prima ancora quella di un’ecumenica dottrina dettata dalla teoria, pone grazie al restauro del Moderno nuove domande alle quali dover rispondere, del tipo: come posso intervenire nelle circostanze sopra esposte? Una domanda che appare legittima e alla quale si deve dare risposta partendo dal presupposto che il progetto originale, ammesso che sia ben documentato, potrebbe già avere subito modifiche o alterazioni come puntualmente si riscontra per gli elementi architettonici della prima metà del ‘900, rimaneggiati negli usi o dismessi da pochi anni. Gli adempimenti che dettano le linee di intervento del direttore dei lavori impongono anche ulteriori opere non solo impiantistiche per il contenuto dei consumi energetici ma anche strutturali ai fini sismici, ma, più in generale, “nell’intreccio fra nuovi principi formali e nuove regole costruttive”. Di questi aspetti sarà trattato in maggior dettaglio in una successiva relazione8.

Restaurare l’architettura italiana del XX secolo nella successione temporale che prende le mosse dalla rivoluzione industriale e motiva le proprie ragioni nelle trasformazioni indotte dal Movimento Moderno, trova dunque la sua massima espressione solo nel ‘900 e non prima, anche sul piano metodologico, passando dall’analisi filologica a quella organica fin quasi ad annullare nella pratica i principi che avevano governato le immutabili regole dell’arte del costruire, progressivamente subordinata all’emergente industrializzazione edilizia. Il progetto di restauro dell’architettura sembra avere seguito strade divergenti, da una parte si interviene sui monumenti insigni del passato nei modi sostenuti dai filologi ottocenteschi e nell’esaltazione dei valori storici, seguendo fino alla Carta Italiana del Restauro del 1972 gli universali principi di brandiana memoria, dall’altra si attua un “restauro diffuso” sul patrimonio edilizio dettato dall’utile e del funzionale che si esercita soprattutto nel restauro del Moderno e, nei limiti prima evidenziati, del Contemporaneo. Una prima enunciazione della radicalmente diversa attitudine nell’approccio agli interventi riabilitativi validi anche nell’ambito della conservazione è coincisa, fin dai primi dibattiti degli anni ’60, con l’estensione della tutela ai centri storici che, nel giro di una quindicina di anni, assume i connotati di una vera e propria svolta epocale. Nelle applicazioni del restauro alla scala urbana, infatti, sono andate modificandosi le stesse categorie d’intervento sulla scorta dei principi europei sinteticamente riassunti nella locuzione “conservazione integrata” (v. “Carta di Amsterdam” del 1975). Da quella enunciazione in avanti, nel giro di pochi anni, entrerà a fare parte dei quadri normativi nazionali e 8

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Cfr. ultra, la relazione di Silvio Van Riel

regionali un altro genere di atteggiamento nei confronti della salvaguardia del patrimonio edilizio esistente, prima ancora dei beni architettonici che a livello urbanistico sono distinti sul piano della tutela. Non staremo a ripercorrere quella “frizzante” stagione di cambiamenti in primis istituzionali. Saltando agli anni recenti , una definitiva e netta demarcazione nell’ambito del restauro dell’architettura la troviamo puntualmente nel quadro normativo vigente, riassunto nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004 che pone l’azione del restauro, quale categoria di intervento in subordine rispetto a quella della conservazione (Centauro 2020).

Occorre a questo punto riconsiderare l’origine della contrapposizione tra “antico e moderno” caratterizzante i canoni del Movimento Moderno definiti nella prima metà del ‘900. Sul piano del metodo, facendo ancora una volta un parallelo con quanto generato nel dibattito nazionale, come del resto in quello europeo, non si può non porre l’attenzione nei confronti dell’atteggiamento progressivamente più consapevole dimostrato dalla società contemporanea nei confronti delle testimonianze dell’archeologia industriale, nella sua prima enunciazione disciplinare (Borsi 1978).

Questa apertura ha coinciso con la definitiva messa in crisi del “monumentalismo” a vantaggio della celebrazione del “simbolismo autopresentativo”, che pone sullo stesso piano di interesse l’opera finita e l’autore del progetto, talvolta come riconoscimento “griffato” dell’opera moderna. Si comincia cioè a sottolineare in maniera decisa la rilevanza attribuibile al genio creativo dell’autore del progetto, come fattore culturale imprescindibile. Si tratta di un passaggio decisivo per quanto riguarda le fortune del restauro dell’architettura d’autore. Analogamente si rafforza per le opere moderne la tendenza a dare maggior peso all’icasticità delle forme dell’elemento architettonico piuttosto che trascendere sul loro valore documentale. Questo atteggiamento che, portato alle estreme conseguenze, appare assai discriminatorio non tarderà a produrre effetti nefasti ai fine della conservazione, specie in seno alle testimonianze dell’archeologia industriale. Con questo metro di giudizio si possono dare spiegazioni a certe discutibili scelte d’intervento perseguite nel recente passato. In ogni caso, superati gli anacronistici effetti prodotti nel restauro dalla mera selezione per tipi, la prassi corrente del recupero sembra aver focalizzato l’attenzione verso i valori formali dell’architettura moderna principalmente espressi - come già evidenziato – dalla sua stessa immagine. Cambiando il profilo dell’approccio e l’analisi dei valori anche il restauro dell’architettura, in special modo per quanto concerne la manifattura moderna e gli stessi materiali in uso, ha subito non pochi contraccolpi. Lo dimostra in modo inequivocabile ed emblematico il percorso maturato per il recupero dopo le dismissioni del patrimonio architettonico dell’industria pratese del ‘900 che ha determinato anche la perdita di strutture realizzate da eminenti

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progettisti, tra queste molte opere giovanili dell’ing. Pier Luigi Nervi (Guanci 2008). Questi episodi danno la misura del ritardo culturale accumulato non più tardi di venti anni or sono nell’ambito delle politiche di salvaguardia dell’architettura moderna, azioni che, per certo, riassumono ancor oggi molte delle tematiche al centro della controversia ideologica tra restauro conservativo, ristrutturazione, demolizione e ricostruzione. Tutto ciò sembra spostare l’asse della riabilitazione al di fuori dei canoni più consolidati del restauro, ponendo il restauro del Moderno al di fuori del restauro tout court. Da questo punto di vista prende campo e si sviluppa in maniera più incisiva la tematica del restauro urbano come intervento che fa capo ai principi della “conservazione integrata”, da perseguire attraverso la riabilitazione funzionale dei manufatti, in particolare con il cambio di destinazione. Per questo in una fase di transizione quale quella che stiamo vivendo, la cultura del restauro, fermamente ancorata nei suoi principi generali alla conservazione sul piano esclusivamente materico dei manufatti, non sembra aver ancora trovato una giusta connessione con i temi del restauro strutturale e della rigenerazione delle funzioni che, non a caso, sono al centro degli approfondimenti di studio oggi valutati da un punto di vista metodologico. Del resto la stessa matrice del restauro tout court dell’architettura che, in quanto disciplina storico-critica, nasce e si fissa soprattutto nei canoni ottocenteschi, pone questioni del tutto analoghe a quelle del restauro del Moderno che attendono come le prime giuste declinazioni. Occorre dire in positivo che le riflessioni sulle misure da adottare nel restauro dell’architettura moderna hanno riportato l’asse dell’interesse sulle parti strutturali della fabbrica fino a pochi anni addietro largamente disattese negli interventi di restauro, anche a seguito di eventi sismici o disastri inattesi come l’improvviso crollo, il 18 agosto del 2018, del ponte Morandi sul torrente Polcevera, dal quale avremmo ancora molto da imparare. Una ferita ancora sanguinante per la storia del restauro del Moderno. La vicenda del crollo del ponte Morandi, infatti, ha messo in evidenza quali debbano essere le attenzioni da rivolgere alle strutture in c.a. caratterizzanti l’architettura moderna quali esse siano, sia in fase di monitoraggio di controllo dello stato di conservazione che di prevenzione. Infatti, per il caso del ponte Morandi, ho già avuto modo di sottolineare:

«Per la complessa natura tecnologica delle strutture in c.a. precompresso con quegli stralli incamiciati sarebbe stato comunque non agevole, ancor prima del drammatico cedimento, l’accertamento delle reali condizioni di esercizio e dell’usura dei materiali in opera. Una puntuale azione di monitoraggio avrebbe semmai potuto avvertire per tempo circa la progressione e l’entità “oggettiva” del rischio, specialmente in relazione alle molteplici concause ambientali determinate al contorno negli anni recenti, sia per l’aumento quasi esponenziale dei carichi sopportati dalle strutture rispetto all’epoca di costruzione e ai primi anni di

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esercizio, sia per gli ammaloramenti nascosti che si celano nel c.a. e soprattutto nelle tirantature metalliche precompresse, situazioni non determinabili a vista senza il supporto di un capillare screening di controllo delle superfici. Per il restauro strutturale, come per quello architettonico, l’ausilio dell’analisi autoptica preliminare risulta altresì indispensabile per stabilire i provvedimenti più opportuni da adottare in chiave di prevenzione (per scongiurare potenziali défaillance dovute agli stress funzionali sopportati e alle pregresse carenze di manutenzione), ma anche rispetto alle stesse misure di protezione di tipo passivo eventualmente da mettere in campo. Di natura largamente empirica risulterebbe poi la sarcitura delle superfici, il rammendo di fessurazioni e il ripristino dei copriferro, pur trattandosi di operazioni in ogni caso necessarie ma per certo non risolutive rispetto alle cause intrinseche che caratterizzano l’opera (dai fenomeni all’affaticamento occulto degli stralli incamiciati alla viscosità del calcestruzzo, ecc.)» (Centauro 2018).

Dopo il crollo del ponte sul Polcevera s’impone un’ampia riflessione su quanto è capitato ad una delle opere italiane più celebrate dell’ingegneria in calcestruzzo armato precompresso.

Tutta l’Italia ha capito che occorre svolgere una capillare azione di controllo e prevenzione su tutte le strutture in c.a. aventi più di 50 anni di vita, per la sicurezza e la salvaguardia stessa di questi beni. Questo vale anche per Prato che, dopo aver perduto gran parte delle fabbriche della prima fase dell’industrializzazione, quelle in mattoni, vetro e ghisa, rischia di perdere le strutture in c.a., protagoniste nel ‘900 della stagione del funzionalismo.

«Oggi con le esperienze acquisite possiamo tuttavia migliorare la diagnostica preventiva a cominciare da un’attenta perlustrazione delle superfici e della geometria del sistema portante (travature, piloni, stralli, impalcati e così via dicendo), da ripetersi nel tempo al fine di evidenziare l’incipit di ogni manifestazione di decadimento del c.a., in particolare di corrosione ed espulsione dei materiali cooperanti. L’applicazione per lo studio delle superfici in c.a. a faccia vista della diagnostica per immagini digitalizzate (diagnostics for digitized images) del quadro fessurativo e delle texture potrebbe indirizzare le ricerche sulle patologie nascoste del c.a., sulle cause dovute alla qualità delle gettate, alla distribuzione degli inerti nel calcestruzzo risultanti dalle impronte lasciate dalle casseforme dopo il disarmo, ecc. Dalla diagnostica per immagini (termografica, radiografica, ecc.) e dalle poco costose indagini sclerometriche, utili in un primo livello di valutazione per la resistenza sismica, potremmo inoltre ottenere informazioni orientative per condurre campionature (carotaggi) e esami più accurati (ultrasonici, magnetometrici, ecc.) nelle porzioni risultate “difettose” o non del tutto conformi, consapevoli che difficilmente si potranno eseguire scansioni tomografiche estese. Tutte le informazioni raccolte, tracciabili in un sistema georeferenziato sono trattabili in via informatica, possono entrare in un “database” predisposto ad hoc ai fini della manutenzione programmata e del restauro. Si costituirebbe così un sistema di gestione dei dati, come quello che in informatica è conosciuto con l’acronimo CMS (Content Management System). Nell’ottica della conservazione attiva di un tal genere di patrimonio queste azioni limiterebbero i rischi anche in presenza di difetti congeniti e, se non tutto potrà essere conservato nelle forme originali, optando per la sostituzione parziale o totale degli elementi strutturali difettosi, sarebbe comunque assicurato un futuro alle testimonianze dell’archeologia industriale, icone nella storia dell’ingegneria moderna» (Centauro, 2018a).

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Tuttavia, non sono ancora del tutto superate alcune incongruenze che riferendosi al restauro del Moderno appaiano marcatamente più vistose. L’attenzione mostrata ai caratteri stilistici più che ai caratteri costruttivi ne è solo un esempio. Questo indirizzo appare limitante e del tutto anacronistico specie nei confronti dell’architettura moderna che esprime il proprio punto di forza espressiva soprattutto attraverso l’impianto strutturale. Si tratta di una tendenza radicata che ha attraversato gran parte del secolo scorso, laddove il restauro dell’architettura non è stato perseguito come strumento di prevenzione o riabilitazione dell’esistente se non per la ricostruzione postsismica degli edifici (Gurrieri 1999; Centauro 2014). Del resto la dicotomia tra “città vecchia e città nuova” che si radica negli anni ‘20 è emblematica dei sentimenti che si agitano come retaggi difficilmente risolvibili intorno al tema del restauro, così come in modo analogo si consuma la diatriba tra i sostenitori della conservazione e gli esponenti delle avanguardie. Le criticità e gli anacronismi sono molteplici: in primis quello di considerare il termine di vetustà (prima di 50 anni, oggi ampliato ai 70 anni) come discrimine per il riconoscimento della tutela, andando cioè a rincorrere negli anni che verranno i requisiti necessari per la salvaguardia e condannando alla manipolazione selvaggia, se non addirittura alla demolizione, cioè senza soverchi controlli, persino per quei manufatti che nel tempo sarebbero divenuti “monumenti”, testimoni autentici del loro tempo. In questo modo si sono perduti negli anni trascorsi degli immobili, intere fabbriche che oggi si sarebbero salvate. Al netto di quanto si è fin qui considerato, si potrebbe dedurre che il restauro delle testimonianze architettoniche moderne debba essere considerato a pieno titolo quale una categoria indistinta del restauro tout court, ma a ben guardare, le cose non stanno proprio così. Infatti, alla luce delle considerazioni fin qui avanzate, la questione che al momento maggiormente si dibatte e che probabilmente sarà al centro delle prossime riflessioni, altro non è che lo specchio delle dinamiche che agitano non solo le leggi della tutela o i regimi normativi che riguardano lo sviluppo delle città e dei territori, ma anche il mondo dell’arte, le creazioni dell’ingegno umano, il rispetto delle regole nel gestire in modo congruo il recupero dell’architettura moderna. Il dibattito degli ultimi anni sul restauro del Moderno che viene a sommarsi, ancor più criticamente, a quello del Contemporaneo, si è focalizzato, ancora una volta sui principi e in maniera stereotipata sugli aspetti teorici della questione, tralasciando spesso l’aspetto pragmatico dell’operare che, più di qualsiasi altro fattore, incide sui risultati attesi ai fini della salvaguardia e della stessa manutenzione degli edifici, generalmente insoddisfacenti all’atto pratico se non addirittura del tutto disattesi nei progetti di recupero.

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Vale la pena ricordare che negare le specificità della manifattura architettonica del ‘900 preclude a priori la possibilità di curare come si dovrebbe il mantenimento delle fabbriche, dalle superfici a vista in c.a. agli infissi originali, le nuovi componenti materiche delle strutture metalliche senza considerare le pesanti ristrutturazioni o demolizioni che hanno interessato il patrimonio edilizio dell’industria in presenza di dismissioni funzionali. Da questo processo introspettivo resta escluso il progetto che sorregge l’impalcatura dell’opera da restaurare. Sul tema dell’impianto metodologico più consono per la conduzione dei cantieri di restauro del costruito industriale, al di là delle valenze archeologiche insite in questi organismi, si possono trovare molteplici spunti in tanta parte degli interventi prodotti in questi ultimi anni, oggi portati all’attenzione del pubblico.9

Come è stato giustamente osservato:

«La specificità dell’ambito in questione è, al contrario, incentrata sul disagio storico-critico che interessa l’atto di riconoscimento di valore, inevitabilmente ostacolato dall’assenza di un congruo distacco “storico” e di una storiografia consolidata. In questo senso, l’atteggiamento retrospettivo verso l’architettura contemporanea può essere interpretato come indolente proiezione sul passato della “debolezza”’ della nostra civiltà che, per svariati motivi, tende a riappropriarsi dei simboli del recente passato negando l’incidenza di quel breve ma denso lasso di tempo intercorso fra la creazione di tali opere e la loro ricezione nel presente» (Salvo 2011).

All’opposto l’incontro tra l’archeologia industriale e il restauro dell’architettura moderna, a differenza di quanto a lungo profetizzato nella disciplina, offre per le caratteristiche stesse dei manufatti che costituiscono il principale repertorio dei casi esistenti, l’occasione di riaprire in senso dinamico ed evolutivo il rapporto tra conservazione e restauro per la restituzione della leggibilità dell’autenticità architettonica, ponendo al centro il confronto tra il progetto ereditato dal passato e quello nuovo da intraprendere, trovando in questo la giusta sintesi dell’azione restaurativa da condursi in una chiave di rigenerazione delle funzioni che, insieme alla valorizzazione, rimane l’obiettivo di ogni qualsivoglia azione conservativa.

Al tal proposito si ritiene, ancora in fase di introduzione oggi ai temi dibattuti, che le relazioni presentate in convegno possano offrire nuovi utili contributi per capire le tendenze che stanno spostando le attenzioni del progetto di restauro dalla conservazione alla rigenerazione delle funzioni.

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9 Cfr. ultra, la relazione di Pietro Matracchi et alii e gli altri esempi pratesi illustrati nelle relazioni di Marcello Marchesini, Massimo Fabbri e Lorenzo Vacirca, qui pubblicati.

Prato scomparsa: L’ingegnoso innesto del deposito dell’acqua sul fusto della ciminiera nel Lanificio Risaliti, in un’immagine degli anni ’30 (Fonte: APT, Prato)

Lanificio “Michelangelo Calamai”, serbatoio per l’acqua su torretta in c.a. (1929). (Fonte: Archivio Privato)

nascita dell’industria ed espansione urbanistica a prato

Abstract

Una delle riflessioni, in rapporto al sistema produttivo pratese, è la comprensione dei fenomeni che portarono alla nascita degli episodi industriali prima nella città murata, per poi espandersi all’intero territorio comunale, e come questi talvolta siano divenuti catalizzatori della crescita del tessuto edificato.

I primi episodi produttivi della città, si collocheranno, inizialmente, in corrispondenza del principale sistema energetico, costituito dalla rete idraulica artificiale che ha origine dal Cavalciotto, in contiguità con la principale viabilità, posta fuori dalla Porta al Serraglio. Non a caso questa viabilità costituirà fin dal medioevo il principale “asse della produzione”, al di fuori del centro cittadino. Anche la prima industrializzazione, avvenuta sostanzialmente nella seconda metà dell’Ottocento, si collocò sul primo tratto del sistema delle gore, tra la città e l’imbocco della valle, perché qui il “Gorone” non ha ancora frammentato in cinque gore la sua potenza, e quindi risulti particolarmente adatto a fornire energia ai primi episodi proto-industriali come le gualchiere, cartiere e ramiere. A sua volta saranno proprio su questi primi opifici, già strutturati con una logica pre-industriale che si innesteranno gli episodi produttivi più maturi di fine ‘800, trasformandosi nelle prime vere e proprie fabbriche, modernamente intese.

Verso la metà dell’‘800 la vera industrializzazione della città comincerà a decollare grazie all’introduzione della lavorazione della cosiddetta “lana rigenerata”, con la conseguente necessità di movimentare enormi quantitativi di materie prime, costituite dagli stracci e dal prodotto finito. Diviene quindi sempre più importante il sistema infrastrutturale, la cui innovazione più rilevante fu l’arrivo della strada ferrata Maria Antonia. Con la realizzazione di un nuovo accesso alla stazione, sul lato nord, per il transito delle merci, nel 1883 si spostò la polarità industriale nelle sue immediate vicinanze, consolidando l’importanza di tutto l’asse verso la Val di Bisenzio. Tale fenomeno portò anche ad uno sviluppo della città fuori dalla sua cerchia muraria, soprattutto per la necessità di nuovi insediamenti popolari, nati attorno ad una piazza di nuova formazione.

Tra la fine Ottocento ed inizio ‘900 si assiste all’introduzione delle prime caldaie a vapore e dell’energia elettrica, che permetteranno il parziale affrancamento da quella idraulica, rispondendo al fabbisogno energetico di aziende di sempre più grandi dimensioni; è questo il momento in cui nascono i nuovi grandi opifici.

Quando ormai la zona nord comincia ad essere abbastanza satura, tra la fine dell’‘800ed i primi decenni del ‘900, nel tentativo di trovare nuovi spazi all’accrescimento, l’industria, ormai libera di

Veduta della città industriale compatta (1937).

muoversi sull’immenso territorio inedificato intorno a Prato, cercherà un nuovo asse di espansione. Le possibilità di espansione verso est sono per il momento precluse dalla presenza del Bisenzio, quindi la direttrice si sposta lungo l’asse viario che conduce a Pistoia, continuando tuttavia a preferire la contiguità alle gore, in cui era possibile comunque ancora attingere una piccola quota energetica, oltre a costituire una fonte idrica necessaria nei vari processi di lavorazione.

Contemporaneamente, nell’ultimo decennio dell’‘800, con la costruzione dei nuovi Macelli fuori dalla Porta Santa Trinita, si creano le condizioni di una nuova possibilità di sviluppo industriale in questa direzione.

Ma il completo pretesto per l’affrancamento dalla secolare energia idraulica si avrà nel 1906, con la costruzione, fuori dalla Porta Fiorentina, della sottostazione della Società Elettrica Valdarno. Sarà quindi questa che sposterà nuovamente la polarità di sviluppo industriale lungo la direttrice di via delle Conce Vecchie, poi sostituita dal nuovo asse di via Ferrucci.

Il nuovo ed ultimo impulso, che farà addensare la gran parte delle fabbriche in questa parte della città, sarà l’inaugurazione della nuova stazione ferroviaria, avvenuta nel 1934, consolidato anche dalla presenza, a sud della città, della nuova arteria autostradale, inaugurata appena due anni prima.

Ovviamente se quella descritta fu la prima genesi dello sviluppo industriale, negli anni che seguirono, ci fu un consolidamento di tutti questi poli di espansione, con la quasi completa saturazione dello spazio disponibile attorno alla città, creando quella fisionomia di città fabbrica che dagli anni ‘80 del ‘900, a poco a poco, è andata di nuovo destrutturandosi.

Una città come Prato, che è stata fin dall’antichità a forte vocazione produttiva, nel suo sviluppo urbano, in particolar modo in riferimento alla sua fase di sviluppo industriale, presenta ben riconoscibili i segni di tale vocazione.

In tal senso è interessante osservare come i primi episodi industriali nascano a margine della città murata, per poi espandersi all’intero territorio comunale, e come questi, pur non costituendo in assoluto l’unico motore dello sviluppo urbano, siano di fatto divenuti, in alcuni casi, catalizzatori dell’espansione urbanistica stessa.

Per meglio comprendere le motivazioni di fondo che hanno favorito lo sviluppo produttivo in questo territorio, occorre innanzitutto partire dall’assunto che ogni attività produttiva sia essenzialmente tributaria di tre fondamentali elementi, ovvero la materia prima, l’energia, e la rete infrastrutturale.

Benché in questo territorio, soprattutto in passato, non siano mancate attività legate alla lavorazione del ferro, del rame, della carta e della paglia, saranno poi quelle legate al tessile a prendere il sopravvento, e segnatamente quelle relative alla lavorazione della lana, quantomeno fino alla prima metà del secolo scorso.

In merito alla materia prima di questa ultima attività produttiva occorre, quindi,

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interrogarsi sulla questione di dove gli antichi lanaioli pratesi si approvvigionassero della necessaria lana per produrre i loro tessuti.

Si ipotizza che, almeno in una prima fase, si trattasse di una materia prima completamente autoctona, come del resto affermato dai principali studiosi dell’arte laniera pratese (Bruzzi, 1920, pp. 1-2; Calamai,1927, pp. 14-15;), e analogamente a quanto esposto dal Malanima (1988), il quale afferma che, soprattutto nel Medioevo, quando i collegamenti erano estremamente difficoltosi, la presenza di un’industria laniera fosse sempre accompagnata dall’esistenza di una cospicua pastorizia nelle vicinanze.

A tale proposito merita sottolineare anche come alcuni autori abbiano parlato di antichi pastori della Calvana (Petri, 1977, p. 24), monte che trae il suo nome dal fatto di esser spoglio (Repetti, 1833, p.397), ma che forse in passato poteva essere stato ricoperto da una folta vegetazione (Nicastro, 1916, p. 27), e che quindi la sua configurazione sia in realtà il prodotto dell’opera dell’uomo, che nei secoli ha cercato di strappargli sempre nuovi pascoli, divenendo in tal senso il più evidente manifesto della presenza di una fiorente produzione laniera. Del resto questa ipotesi è confortata dal fatto che da quando i suoi pascoli sono stati gradualmente abbandonati dall’ultimo dopoguerra, il bosco lentamente se ne sta riappropriando.

L’approvvigionamento della lana era poi anche incrementato stagionalmente dalle greggi transumanti dall’alta valle, la cui tosatura dei velli avveniva nel fondovalle, per l’abbondate presenza di acqua dove poteva essere effettuato un primo lavaggio degli stessi.

È inoltre attestato che vi fosse un preciso itinerario, per il trasporto della lana da Nonantola1

a Prato2, passante appunto per la valle del Bisenzio, attraverso il valico di Montepiano, fatto questo che rafforzerebbe la teoria che vede lo sviluppo dell’industria laniera strettamente legato alla penetrazione longobarda nell’Italia centrale (Calamai,1927, pp.14-15; Malanima, 1988,p. 59).

Supporterebbero questa tesi anche alcune parole del linguaggio comune legate alla produzione, come gora e gualchiera, che sono di chiara origine longobarda3 Ma se la materia prima appare fondamentale per la nascita di un sistema produttivo, ancor di più lo è la disponibilità dell’energia.

Benché, almeno fino agli inizi dell’’800, la gran parte dei processi tessili fossero

1 L’ Abbazia di Nonantola fu fondata nel 752 dall’abate Anselmo su un territorio donatogli dal re longobardo Astolfo, suo cognato.

2 A Prato esisteva il monastero benedettino di S. Michele a Trebialto o di Ponzano, anch’esso fondato da nobili longobardi; cfr. Petri, p. 24

3 Soprattutto la parola gualchiera discenderebbe dal germanico valka o walkan che inizialmente significava rotolare o camminare, derivante dall’operazione che anticamente veniva svolta appunto pestando con i piedi il tessuto di lana, poi divenuto in latino valcatura e valcatorium, e quindi come spesso avveniva, con la trasformazione della w o v inziali in gu, in gualcatura.

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essenzialmente manuali, quello fondamentale della gualcatura dei panni lana, a partire dal medioevo, sarà sostanzialmente meccanizzato, e quindi necessitante di energia, che nello specifico era riferibile talvolta a quella animale, ma più frequentemente a quella idraulica.

In tal senso, in questo territorio, si rivela quindi fondamentale la presenza del fiume Bisenzio, che fin dagli inizi del primo millennio è stato visto come una formidabile riserva di energia disponibile. È infatti in questo periodo che ci pone il problema di come poter “catturare” questa straordinaria forza della natura, talvolta addirittura in grado di trascinare via ponti in pietra e fabbricati.

La soluzione, qui come altrove, fu quella di sbarrare, in alcuni punti strategici, il corso del fiume, inizialmente con steccaie in legno e successivamente con più solidi manufatti in muratura, al fine di deviare parzialmente il corso del fiume in canali artificiali detti appunto gore, le quali conducevano, con pendenze più dolci rispetto a quelle del fiume, a dei grandi bacini detti margoni o bottacci che potevano scaricare in una sola volta enormi quantitativi d’acqua su di una ruota idraulica.

Non ci deve quindi stupire se, osservando il corso del Bisenzio, troviamo un sistema continuo di questi “impianti idraulici”, secondo una rigidissima successione che vede la nascita di una pescaia immediatamente a valle della gora di scarico dell’impianto precedente, e così fino all’ultima grandissima pescaia del Cavalciotto a Santa Lucia, da dove parte tutto il sistema di gore della pianura.

Da questo manufatto, più volte ricostruito in varie conformazioni, anche in punti diversi del fiume, diparte un reticolo di gore artificiali dalle quali dipese tutto il sistema difensivo e produttivo della pianura pratese.

L’origine della costruzione del Cavalciotto va ricercata nella particolare orografia della Valle del Bisenzio che dopo la strozzatura, all’altezza dell’antico ponte a Zana, si apriva improvvisamente verso la pianura e l’alveo del Bisenzio non diveniva più nettamente definito, per cui le sue acque si spandevano tra le ghiare e i vetriciai d’estate, ed invadevano tutta l’area circostante d’inverno.

In effetti osservando il tracciato del fiume, si vede come, all’altezza di Santa Lucia, esso curvi bruscamente per seguire il piede del monte in cui è scavato il suo alveo, anziché procedere in linea retta verso sud.

Basti quindi immaginare una delle tante rovinose piene descritte nei diversi documenti storici per capire come l’impeto del fiume tendesse naturalmente a proseguire in linea retta verso la pianura di S. Lucia, senza poi ritrovare completamente la strada verso l’alveo, determinando quindi una zona acquitrinosa.

Questo quindi è il motivo principale per cui si decise di costruire un’imponente

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muraglione, munito di possenti contrafforti, che poteva appunto contrastare l’impeto della corrente, in parte deviata nell’alveo ed in parte convogliata in un’ampia gora artificiale, da un’enorme pescaia in muratura, detto appunto “Gorone”, il cui primo tratto costituiva anche un primo tentativo di drenare lo spargimento delle acque nella pianura circostante, o meglio di convogliarle attraverso un canale, nella direzione che naturalmente tendeva a prendere, quindi una sorta di tracciato alternativo del fiume stesso, che probabilmente proseguiva nella bassa pianura fino ad immettersi nell’Ombrone; potrebbe in sostanza trattarsi di quel famoso gorarium vetus più volte citato in alcuni documenti antichi (Piattoli, 1936, pp 31-37).

Il tracciato del gorone, dalla pescaia del Cavalciotto a Santa Lucia, sostanzialmente scorre parallelo al Bisenzio, sulla sua sponda destra, sdoppiandosi e riunendosi due volte, fino al partitore della Crocchia (tra l’attuale piazza del Mercato Nuovo e via Bologna), ove si scinde in quattro distinte gore, delle quali, quella più ad occidente, detta di San Giusto, è l’unica a bypassare il nucleo dentro la cinta muraria, per inoltrarsi nella pianura dove alimentava 8 mulini e le risaie granducali della Cascine di Poggio a Caiano, per poi immettersi nel fosso della Filimortola e quindi nell’Ombrone. Il secondo ramo, sempre da ovest verso est, è costituito dalla gora di Gello, che invece attraversa il nucleo cittadino, quindi prosegue verso Gello, attraversa le Cascine, ed infine va a confluire nella gora di Grignano. Le rimanenti due gore, che in realtà rimangono distinte solo per un breve tratto, danno luogo, all’altezza della piazzetta della Gualchierina, ad un unico tronco, dove esisteva il mulino dello spedale di Santa Maria Nuova, che nel 1692 fu trasformato in gualchiera. Da qui il canale della gora si scinde nuovamente in due rami nei pressi di via Protche, che finalmente entrano dentro le mura cittadine. Delle due suddette, quella più ad ovest, prende il nome di gora di Grignano, e corre parallela all’attuale via Magnolfi per poi dirigersi verso Santa Chiara e quindi, uscita dalle mura nel sobborgo di Santa Trinita, prosegue verso Grignano e Cafaggio dopodiché, come abbiamo visto, unisce le sue acque alla gora di Gello ed entra nelle Cascine, ed infine va a confluire nell’Ombrone.

Infine l’ultima gora generata dal partitore di via Protche, detta di San Giorgio, entra nelle mura cittadine, tenendosi quasi parallela al Bisenzio alimentando, in passato, numerose tintorie, dalle quali del resto trae il nome l’omonima via dei Tintori, ed esce a nord dell’attuale Piazza San Marco (antica Porta Fiorentina) per poi sdoppiarsi ancora una volta in prossimità dell’angolo tra viale Vittorio Veneto e Via Tacca. Finalmente questi due tronchi si inoltreranno nella pianura pratese, rimanendo distinti fino alla loro immissione nell’Ombrone, assumendo, rispettivamente il nome di gora del Castagno e gora di Mezzana.

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La complessa articolazione che questo enorme sistema idraulico assunse, per certi versi unico nel suo genere, ebbe un fondamentale ruolo sullo sviluppo produttivo della città, come del resto è attestato dal numero di attività meccanizzate che esso ha alimentato nel corso dei secoli.

L’origine di questo sistema, secondo alcuni studiosi risalirebbe a prima dell’anno 1000, mentre avrebbe subito le trasformazioni che lo connotano come noi lo conosciamo, nel basso medioevo. Tuttavia questa tesi deriva dal fatto che a tale periodo risalgono i primi documenti certi, ma va osservato come i tracciati delle gore tendano ad essere paralleli al reticolo della centuriazione imposta dai romani, già corrispondenti, secondo tesi affermatesi in questi ultimi anni, a preesistenti tracciati etruschi (Preti, 2021, pp. 4-5) che per primi, nel creare gli insediamenti in pianura, si posero il problema di bonificare il territorio e quindi di drenare le acque secondo un reticolo, appunto, che seguisse la naturale pendenza del terreno.

Probabilmente, in seguito alla caduta dell’Impero Romano, ci fu un abbandono della pianura ed il fiume lentamente riprese a spandervi le sue acque, creando un nuovo impaludamento.

Va inoltre evidenziato come questo sistema, se di origine più antica, servisse sostanzialmente per regimare le propaggini del Bisenzio e bonificare la pianura, mentre il suo utilizzo a fini energetici non può che coincidere con l’avvento dei mulini ad acqua, a cui sono appunto principalmente legati i documenti scritti.

Il reticolo delle gore pratesi, così come è giunto a noi, con i suoi 53 chilometri, è unico nel suo genere per estensione, e dopo aver prelevato le acque del Bisenzio a Santa Lucia, non le restituirà mai più al fiume, andandole a gettare nell’Ombrone nei pressi di Poggio a Caiano. (Guarducci, Melani, 1993)

Infine, fondamentale per lo sviluppo del tessuto produttivo, come accennato, è il sistema infrastrutturale, che in questa zona, assume un rapporto così stringente da far sì che spesso i due sistemi si modifichino reciprocamente.

Vale infatti la pena ricordare come Prato, o meglio la zona in cui poi svilupperà la città, fosse posta in corrispondenza, o comunque in prossimità, di un’antichissima viabilità quale era la Cassia-Clodia, coagulandosi attorno all’importante nodo stradale, determinato dal suo incrocio con l’asse costituito, a nord dalla transappenninica della Val di Bisenzio, ed in seguito anche a sud con il collegamento allo scalo fluviale sull’Ombrone a Poggio a Caiano (attuale via Roma).

Ed è proprio su questa intersezione, in corrispondenza di un enorme spiazzo in riva al Bisenzio, che fin dal IX sec. cominciarono a tenersi periodici mercati per la vendita dei

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prodotti agricolo-manifatturieri provenienti dai dintorni, e che emblematicamente assunse

il nome di Mercatale, come ancora oggi si chiama l’omonima piazza che andò strutturandovisi nei secoli successivi.

Secondo alcuni, il nome stesso della città deriverebbe da quest’enorme “prato” di proprietà imperiale, poi passato al Comune, attorno al quale si organizzarono una serie di abitazioni, e soprattutto nacquero quei pubblici portici, di cui ancora oggi rimane qualche traccia, ove i mercanti potevano ripararsi in caso di pioggia, e dove trovarono collocazione le numerose botteghe di ramai.

Ma essendo l’antico cuore produttivo, costituito prevalentemente dalla Val di Bisenzio, fin dalle origini questa fu caratterizzata dalla presenza di una fitta rete viaria, che la metteva in comunicazione con la vicina Prato, oltre che con i territori della pianura Padana, mediante il valico appenninico.

L’antica Cassia, proveniente da Firenze, aveva portato a preferire la sponda sinistra del fiume, come attesta la viabilità di mezza costa di origine romana, e secondo alcune teorie, forse anche di origine etrusca. Il motivo di questa scelta va probabilmente individuato nel fatto che si cercasse, per quanto possibile, di evitare l’attraversamento del fiume, ma anche perché le pendici di questa parte della valle erano più dolci, a differenza del tratto quasi impraticabile, sulla sponda opposta, soprattutto in corrispondenza del Monte delle Coste. Quando però, gli abitanti di questo territorio, si posero l’obbiettivo di sfruttare più intensivamente l’energia idraulica a fini produttivi, dopo aver utilizzato piccoli impianti molitori, azionati dalla forza animale o dagli affluenti sulla sinistra del Bisenzio, sentirono la necessità di scendere verso il fondovalle, ove avrebbero avuto a disposizione una maggiore quantità di energia. Ma la crescente importanza, assunta dalla città di Prato nel medioevo, soprattutto in relazione alla sua funzione di mercato di scambio commerciale, portò al consolidarsi anche di un secondo asse viario in riva destra, il quale, uscito dalla Porta al Serraglio, costeggiava tutta la sponda del fiume, per poi inoltrarsi nella Val di Bisenzio, ma rimanendo questa volta un percorso di fondovalle, lungo il quale si attesteranno, da questo momento in poi, gran parte degli edifici produttivi più evoluti, al punto che potremmo quasi definire, questa seconda percorrenza, un vero e proprio “asse della produzione” (Guanci 2021, p. 74).

Non è infatti un caso che tale viabilità, costituita dall’attuale via Bologna, corresse parallela al gorone, dove si attesteranno, fin dall’antichità, i principali impianti produttivi della pianura pratese, probabilmente in virtù del fatto che potevano contare su un maggior quantitativo d’acqua per azionare le loro ruote idrauliche.

Ed anche quando si potrà parlare, a fine Ottocento, di una più matura industrializzazione, sarà sempre lungo questo asse che svilupperanno i maggiori complessi industriali.

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E quando Prato fu raggiunta dall’altra importantissima arteria infrastrutturale, quale era la ferrovia Maria Antonia, essa preferì intersecare, immediatamente a nord del centro cittadino, proprio questa viabilità, costituendo una nuova forte polarità, attorno alla quale si coaguleranno le principali aziende pratesi.

Sarebbe infatti stato più semplice aggirare il centro, verso sud, come più tardi fece la nuova autostrada Firenze-mare, ove esisteva una scarsissima edificazione, senza dover affrontare costose opere, come l’abbattimento di parte delle mura e di un bastione, come invece avvenne. Nel frattempo, nel 1923, si era costituito anche l’Ente per le attività toscane, che per prima cosa propose la costruzione di un’autostrada che collegasse Firenze con il litorale Tirrenico, con due diramazioni: una per la Versilia ed una per Pisa Livorno. (L’idea era nuova tanto che fino a quel momento non esistevano strade dedicate solo alle macchine, da qui il neologismo “autostrada”). Il primo tratto Firenze-Montecatini (passando per Prato) fu inaugurato nel 1932. L’originaria viabilità era tuttavia ad una sola corsia per senso di marcia, che venne raddoppiato nel 1962.

Nello stesso giorno e stesso anno furono anche inaugurate altre opere minori come il viale Vittorio Veneto, il ponte alla Vittoria, l’ampliamento di Piazza san Marco.

Quindi è in corrispondenza di questi forti segni, sia naturali che antropizzati, che andrà sviluppandosi tutta la maglia produttiva della città.

In primo luogo all’interno della stessa cinta muraria che, come abbiamo visto, era penetrata da tre distinte gore su cui si attesteranno le antiche tintorie e le prime gualchiere, e che in alcuni casi si svilupperanno, in tempi più recenti, in vere e proprie fabbriche, come nel caso della Cimatoria Campolmi o la fabbrica Pacchiani lungo la via del Carmine.

La stessa piazza Mercatale, oltre a costituire il più importante nucleo di scambi commerciali, ebbe anche un ruolo nella produzione, in primo luogo nella lavorazione del rame oltre che per la presenza, al centro della stessa, del lungo fabbricato dei tiratoi, dove i lanaioli portavano ad asciugare i loro tessuti, soprattutto durante la cattiva stagione, poi sostituito da un complesso ancora più grande, collocato lungo il lato del Bisenzio, anch’esso infine sostituito, durante il ventennio fascista, dalla Casa del Fascio.

Però per la maggiore potenza energetica data dal “gorone”, il grosso delle produzioni meccanizzate si attestò a nord delle mura cittadine, prima fuori dalla porta al Travaglio sulla più antica cinta muraria, poi sostituita dalla Porta al Serraglio nelle mura trecentesche, lungo quello che ho appunto definito asse della produzione. Già sull’iniziale tratto del gorone incontriamo i primi complessi produttivi, come quello della Strisciola, ove coesistevano un mulino una gualchiera ed una piccola cartiera. Poco più a sud troviamo

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Tiratoi di Piazza Mercatale prima della loro demolizione

un analogo complesso, detto degli Abatoni, sulle cui attività protoindustriali si innesterà uno dei primi esempi di matura attività industriale, giunta fino ai giorni nostri, quando poi è stata completamente dismessa e parzialmente recuperata ad altri usi.

Sempre lungo lo stesso asse incontriamo numerosi altri episodi produttivi, tra cui alcuni hanno conservato una dimensione modesta fino alla loro dismissione, come la gualchiera di Coiano, mentre altre hanno generato veri e propri episodi di matura industria, come il Lanificio Ricceri ed il Lanificio Mazzini, dove si sperimenteranno anche moderne tecnologie costruttive, come quella del cemento armato ad opera della società Nervi & Nebbiosi dell’allora giovane Pier Luigi Nervi (Guanci, 2008).

In altri casi, si prescinde ormai dalla presenza di un apporto energetico, prevalendo unicamente la motivazione del consolidamento di una vera e propria zona industriale ante litteram, come ad esempio per l’importantissimo episodio della enorme fabbrica nata nel 1889, ad opera della compagine austriaca di Kössler, Mayer ed in seguito Klinger che, per la sua mole, fu da subito rinominata il “Fabbricone”.

Su questa polarizzazione dell’industria incise notevolmente anche l’arrivo, a fine ‘800, nelle sue immediate vicinanze, dell’importante asse ferroviario e soprattutto della creazione dello scalo merci.

Sempre per lo stesso motivo, in sua corrispondenza, nacque anche un’altra importante industria, basata su quella che ormai era diventata la principale produzione della rigenerazione

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Fabbrica di Giuseppe Mazzini in costruzione. Struttura in cemento armato realizzato dalla Società Nervi & Nebbiosi

dei tessuti, ovvero il primo nucleo della fabbrica di Michelangelo Calamai, realizzato nel 1878, poi seguita, a poca distanza, nel 1925, da un nuovo stabilimento, posto lungo l’attuale Viale Galilei.

Questa prima fabbrica ebbe anzi una diretta connessione con lo scalo merci ferroviario, da cui dipartiva appunto un’arteria che entrava direttamente al suo interno.

Al consolidamento del polo produttivo fece seguito il primo vero e proprio esempio di pianificazione urbanistica della città fuori dalla cinta muraria, redatto nel 1883 dall’ingegnere comunale Ottaviano Berti. Si trattava di un nuovo quartiere operaio organizzato attorno ad una nuova piazza (Piazza Ciardi) in contiguità, appunto, con lo scalo merci ferroviario.

Quello della residenza operaia, con l’affermarsi delle grandi fabbriche cominciava infatti ad essere un problema a cui dare una soluzione, come del resto in seguito fecero direttamente alcuni imprenditori, nelle vicinanze dei propri stabilimenti, come nel caso di Ettore Magnolfi e Giuseppe Valaperti. Dopo aver ormai quasi saturato l’espansione industriale verso nord, cominciarono a manifestarsi nuovi assi di espansione. Inizialmente continuava a prevalere la logica dell’innesto su preesistenti episodi protoindustriali sui

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vari rami delle gore cittadine, e della contiguità con il centro cittadino, soprattutto in connessione delle sue principali porte da cui dipartivano altrettanti assi viari, verso Pistoia, Poggio a Caiano e Firenze.

Esistevano comunque anche episodi che prescindevano da tali stringenti logiche, nati su antichi piccoli nuclei produttivi, lontani dal centro cittadino che però nel tempo avevano assistito ad un graduale sviluppo, fino a trasformarsi in veri e propri complessi industriali. È il caso della fabbrica di Brunetto Calamai che nel 1884 impiantò la sua prima produzione sull’antico mulino delle Vedove, posto sulla gora di San Giusto, che poi sposterà, nel 1891, sul mulino del Maceratoio, posto immediatamente a monte del primo. È qui che nascerà progressivamente, in aperta campagna, uno dei più importanti complessi industriali pratesi, in cui esistono anche strutture realizzate dalla società di Pier Luigi Nervi.

Sempre in aperta campagna, a sud della città murata, su di un preesistente mulino, si svilupperà a fine ‘800 la fabbrica dei fratelli Belli, poi rilevata ed ingrandita da Giulio Berti assumendo il nome di “Romita”, ad attestare la sua posizione lontana ed isolata dal centro cittadino.

Infine, nella parte est del territorio, sulla gora di Santa Gonda, dove era collocato l’omonimo mulino, nel 1873 nacque il primo nucleo di un opificio tessile ad opera di Cosimo Villoresi, poi divenuto di proprietà dei fratelli Querci, i quali lo ampliarono ulteriormente fino a farlo divenire uno tra i principali del distretto.

Ma al di là di questi episodi sparsi nella campagna quasi ancora incontaminata, l’espansione industriale, e di conseguenza il tessuto abitativo, in un primo momento mantenne la sua contiguità al centro cittadino ed in corrispondenza dei principali assi viari.

Quindi, come è naturale, una delle prime espansioni avverrà nella parte più prossima al nucleo industriale settentrionale, ovvero in direzione ovest, verso Pistoia, nella zona detta Casarsa, dove troverà collocazione una delle principali fabbriche cittadine, ovvero quella della famiglia Forti, che in val di Bisenzio aveva già sviluppato un vero e proprio villaggio industriale.

Assieme ad essa nacquero anche tutta un’altra serie di fabbriche di piccole e medie dimensioni tra cui, per citarne alcune, il carbonizzo Ricci, la fabbrica Risaliti e la ditta Fanti Zanobi che, come numerose altre, per costruire il suo stabilimento si era rivolta alla società di Nervi. Nel frattempo, la necessità di nuovi spazi per l’industria talvolta si sposano con le accresciute esigenze di una città sempre più moderna e popolosa, che deve necessariamente trovare collocazione a nuove o vecchie funzioni ormai incompatibili con la residenza, come nel caso delle nuove officine del gas e soprattutto dei pubblici macelli che, fino alla fine dell’‘800, si trovavano all’interno delle mura cittadine, nei pressi di Piazza San Domenico.

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Veduta aerea del Fabbricone

Veduta aerea della fabbrica

Brunetto Calamai

Veduta aerea della fabbrica

Belli poi Romita

Veduta aerea dello stabilimento

Forti a Casarsa

È proprio la nuova collocazione di quest’ultimi, a fine ‘800, in località la Girandola, nei pressi di Porta Santa Trinita, che darà l’avvio ad una nuova espansione industriale anche in questa zona, a partire dal grande stabilimento di Guido Lucchesi che si attesterà quasi a ridosso della cinta muraria, tra la porta cittadina ed i nuovi Macelli. Lentamente quindi anche questa zona vedrà sorgere nuovi stabilimenti come il lanificio Berretti Romualdo ed il lanificio Umberto Bini, oltre a numerosi altri.

Ma se tutte queste fabbriche, nate sostanzialmente tra la seconda metà dell’‘800 ed i primi del ‘900, erano quasi tutte ancora parzialmente tributarie dell’energia idraulica, è con l’avvento dell’elettricità che esse si potranno definitivamente svincolare dal reticolo delle gore ed occupare liberamente qualunque parte del territorio, purché raggiunto da un elettrodotto.

La svolta epocale si ebbe quindi quando, nel 1906, la Società Mineraria ed Elettrica Valdarno, sul sedime dell’antico cimitero cittadino, posto immediatamente fuori dalla Porta Fiorentina, costruì la sua sottostazione di trasformazione elettrica, tra le prime in Toscana.

Ovviamente uno dei primi stabilimenti in questa zona nacque proprio difronte ad essa: si trattava del grande lanificio Orlando Franchi, anch’esso con interventi di Nervi, ormai da diversi anni sostituito da un moderno complesso commerciale e direzionale. Anche in questo caso è l’episodio della sottostazione elettrica a fare da catalizzatore di uno sviluppo che tenderà ad addensarsi sia attorno a quella parte di cerchia muraria, che lungo il nuovo asse della via Ferrucci, che aveva sostituito l’antica viabilità di via delle Conce Vecchie, oggi via Fra Bartolomeo. Si assiste quindi alla nascita di importanti fabbriche come quella della famiglia Pecci, che avrà addirittura un collegamento sotterraneo, sotto la strada pubblica, per unire i due stabilimenti sorti ai due lati della strada, in maniera analoga alla fabbrica Vasco Sbraci, posta più a sud, che invece avrà un

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collegamento aereo. Sempre nella stessa zona nascerà anche la grande fabbrica Sanesi, mentre più vicino al centro si addenseranno le fabbriche Pacini, Befani e Lenzi Egisto, solo per citarne alcune.

Ovviamente nei pressi del centro cittadino esisteva anche qualche preesistenza, come la fabbrica Cangioli o il saponificio Borsini che però vedranno in questa fase la loro massima strutturazione.

Agli inizi del ‘900, quindi, lo sviluppo industriale ha già pienamente individuato i suoi assi di espansione i quali non faranno altro che consolidarsi negli anni successivi, soprattutto con il boom economico del secondo dopoguerra, creando una città densa e compatta di stabilimenti industriali, misti ad un tessuto residenziale, che parimenti andava espandendosi in funzione della crescita della popolazione.

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materiali contemporanei per il consolidamento delle strutture moderne

Abstract

Questo contributo si inserisce in maniera organica nei temi trattati nel Laboratorio di Restauro tenuto dal Prof. Giuseppe Centauro su una problematica sempre a margine degli argomenti affrontati nel corso istituzionale, per ovvie ragioni di tempo, cioè quello del consolidamento delle strutture che caratterizzano l’architettura moderna. Lo spunto è stato offerto dal seminario sul “Fabbricone” di Prato che ha invitato gli studenti ed i docenti ad affrontare, per la prima volta, una ricognizione puntuale degli edifici che caratterizzano l’importante e storico insediamento produttivo e che, oggi, rappresenta un significativo nodo urbanistico e funzionale della comunità pratese.

All’interno degli edifici sono presenti tipologie strutturali del tutto innovative al momento della costruzione, basti pensare alle strutture in cemento armato che caratterizzano uno dei primi esempi nella storia della città, un sistema di copertura che utilizza shed, realizzati con materiali tradizionali come il legno massiccio abbinati all’acciaio ed alla ghisa e orientati in maniera di fornire agli operatori tessili una luce sempre omogenea.

Dalla sua costruzione l’insediamento ha avuto tutta una serie di addizioni edilizie funzionali, le cui tecniche realizzative documentano l’evolversi e l’ammodernamento dei materiali utilizzati nelle strutture, fino alla realizzazione delle volte il laterizio armato a spinta frenata delle coperture dei teatri Fabbricone e Fabbrichino. Da menzionare, inoltre, l’esistenza nella struttura di copertura di un fabbricato, oggi utilizzato come uffici, di un sistema di cavalletti lignei che testimoniano l’origine austro-ungarica dei committenti, del tutto simile agli esempi riportati nel manuale del Breymann e che rappresenta un episodio unico nel territorio toscano.

Allo stato attuale e alla luce dell’attuale normativa tecnica sono richieste prestazioni strutturali totalmente diverse e molto più gravose, ai fini della sicurezza statica e sismica, di quelle attive al momento della loro realizzazione.

Quindi al fine di una corretta e funzionale conservazione potranno e dovranno essere utilizzati materiali e sistemi di consolidamento che garantiscano quei miglioramenti nelle prestazioni strutturali al fine di una loro corretta valutazione in sicurezza. Deputati a questo sono i materiali di ultima generazione che nel contributo proposto, forniscono una prima ricognizione conoscitiva sicuramente utile per gli studenti del corso ed anche per gli addetti ai lavori.

pagina precedente Prospetto del complesso produttivo al termine dei lavori 1933 - 1938 e un’immagine fotografica del periodo. (Fonte: Archivio Storico del Comune di Predappio)

Le strutture in cemento armato ed in acciaio della copertura. (Fonte: Archivio Storico del Comune di Predappio)

Le strutture del capannoni in sommità con pilastri e capriate in cemento armato. (Fonte: Archivio Storico del Comune di Predappio)

L’uso di strutture miste e tradizionali nel complesso allo stato attuale.

Premessa

L’occasione offerta dal seminario sul “Fabbricone” di Prato permette di ampliare i temi trattati nel Laboratorio di Restauro tenuto dal Prof. Giuseppe Centauro su un argomento sempre a margine dei temi affrontati nel corso istituzionale, per ovvie ragioni di tempo, cioè quello del consolidamento delle strutture che caratterizzano l’architettura moderna. Si fa riferimento, quindi, all’uso del cemento armato e del ferro che distinguono il periodo di costruzione del “Fabbricone” e che, in Italia, assumono declinazioni costruttive estremamente variegate e desunte dalla tradizione costruttiva storica e dalla disponibilità di materiali facilmente disponibili al di fuori di quelli importati.

Singolare è stato il tentativo di utilizzare per capannoni e aviorimesse strutture portanti in tavolette di legno chiodate, tra gli esempi più rilevanti è il ricovero idrovolanti realizzato nel porto militare di Taranto e alcuni piccoli fabbricati nel Valdarno, da tempo demoliti.

Quindi le costruzioni del periodo utilizzavano strutture tradizionali, come murature in laterizi e pietrame per realizzare setti portanti in elevato assieme alla ghisa per montati sottili e cemento armato quando questo era possibile.

Più articolato e complesso risultava il tentativo di realizzare gli impalcati e le strutture di copertura, dove venivano utilizzati l’acciaio, ancora il legno e il cemento armato con elaborazioni costruttive molto complesse e articolate dove la sperimentazione, resa possibile dalle Norme Tecniche del periodo, rende oggi particolarmente complesso e delicato il progetto di riabilitazione strutturale.

L’uso di impiegare tecniche costruttive miste ha caratterizzato anche quasi tutta la ricostruzione post bellica e quella del bum economico degli anni ‘50 e ‘60 del ‘900, fino a quando le Norme antisismiche da metà anni ‘80 hanno vietato queste tipologie costruttive.

Oggi, le attuali Norme Tecniche per le costruzioni (2008 - 2018) prevedono per l’intervento su gli edifici esistenti la definizione del “Percorso conoscitivo” al fine di identificare, in maniera più accurata possibile, le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e le relazioni di interazione fra gli stessi attraverso calcoli di verifica statica e sismica per definire le loro prestazioni.

Inoltre, ed è bene ricordarlo, le norme dell’attuale SismaBonus per la sua corretta applicazione implicano l’intervento su moltissime strutture realizzate nel periodo citato, per cui acquista particolare importanza la conoscenza di queste tematiche.

Si riportano alcune immagini dell’ex Fabbrica Caproni a Predappio, complesso architettonico per la produzione di aerei militari che, per le sue dimensioni e difficoltà costruttive dovute all’orografia del sito, ha rappresentato uno degli episodi più controversi di tutta l’attività edificatoria bellica fascista.

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Come per il “Fabbricone”, seppur con cronologie diverse e attività produttive totalmente estranee fra loro, i due episodi presentano la stessa volontà edificatoria di realizzare dal nulla grandi complessi edilizi dove le strutture hanno una parte di estrema importanza. La conoscenza e conservazione di queste realtà rappresenta un contributo rilevante per la storia delle tecniche e delle costruzioni che solo negli ultimi decenni sono state validate come patrimonio significativo e culturale della nostra società. Ai futuri architetti sarà quindi affidato questo oneroso e, tante volte disconosciuto, impegno.

Consolidamento delle strutture in cemento armato

Il cemento armato, ritenuto per anni inalterabile e di durata illimitata al punto da essere definito una “pietra artificiale”, è in realtà soggetto a significativi fenomeni di degrado che ne alterano sensibilmente le proprietà meccaniche. Per garantire, quindi, la durabilità delle strutture in cemento armato è fondamentale la conoscenza dei meccanismi di degrado e dei fattori che influenzano tale fenomeno.

Il degrado porta ad una diminuzione del carattere protettivo del calcestruzzo dal punto di vista fisico (aumento della permeabilità, formazione di fessure, distacchi di materiale) favorendo così la penetrazione di sostanze aggressive e promuovendo la corrosione del ferro di armatura.

Nel corso degli ultimi anni sono state impiegate notevoli risorse nel campo dell’ingegneria sismica per sostenere la ricerca volta all’applicazione di nuovi materiali e allo studio di nuove tecnologie utili per il miglioramento delle prestazioni strutturali di edifici e strutture esistenti. I recenti eventi sismici, che hanno colpito il territorio italiano, hanno ancora una volta messo in luce l’elevata vulnerabilità del patrimonio costruito esistente; la messa in sicurezza di tale patrimonio è dunque oggi una priorità di interesse nazionale al fine di migliorare la sicurezza delle nostre abitazioni e ridurre le perdite umane ed economiche a seguito di eventi sismici.

Sono questi i presupposti, a partire dai quali, con la Legge di Bilancio 2017 è stato sancito un cambio radicale in materia di prevenzione sismica del patrimonio edilizio esistente, promuovendo una politica di mitigazione basata sulla messa a punto di uno strumento di incentivo economico, nella forma di detrazione fiscale, per interventi di miglioramento sismico delle strutture, il cosiddetto SismaBonus

Questo significativo contributo ha reso ancor più cogente la necessità di fornire strumenti conoscitivi su tecniche di consolidamento delle strutture moderne, finora riservate agli specialisti, anche in fase formativa universitaria.

materiali contemporanei per il consolidamento delle strutture moderne • silvio van riel 71

Per quanto riguarda il rilievo delle principali forme di alterazione delle superfici e di degrado dei materiali che costituiscono le membrature in cemento armato, si evidenzia come in linea di massima queste forme siano connesse con difetti di costruzione o legate a fenomeni di tipo fisico e a reazioni di tipo chimico tra i materiali da costruzione e l’ambiente in cui una determinata opera è situata.

Sebbene le casistiche di degrado siano innumerevoli, tuttavia esse possono essere raggruppate in tre grandi categorie:

• alterazioni delle superfici dei materiali da costruzione;

• alterazioni delle sezioni degli elementi costruttivi;

• fessurazioni, perdita, distacco ed espulsione di materiale dalla sezione in cemento armato.

In linea di massima, le alterazioni delle superfici e delle sezioni sono di facile diagnosi in quanto sono legate principalmente ad errori durante l’esecuzione dell’opera e/o a difetti dei particolari costruttivi, con particolare riferimento a quelli legati allo smaltimento delle acque piovane.

Più difficoltosa risulta la ricerca delle cause di quelle manifestazioni di degrado che si presentano in forma di fessurazioni, distacchi ed espulsione di materiale. Queste alterazioni, infatti, possono essere riconducibili a cause diverse non direttamente individuabili attraverso l’osservazione visiva, tanto da necessitare di un approfondimento di indagine da condursi mediante prove effettuate generalmente in laboratorio su reperti prelevati in sito.

Ad esempio se il sopralluogo evidenzia la presenza di corrosione delle barre di armatura, accompagnata da macchie di ruggine sulla superficie del calcestruzzo, fessurazione e distacco del copriferro sarà necessario individuare, innanzitutto, se vi sono errori nella raccolta e smaltimento delle acque.

Successivamente, si potrà procedere alla valutazione dello spessore di calcestruzzo contaminato dall’anidride carbonica e/o dal cloruro, mediante metodi colorimetrici oppure ricorrendo all’analisi chimica elementare.

Lo spessore di materiale contaminato, unitamente alla conoscenza dell’età della struttura potrà fornire indirettamente utili indicazioni sulle caratteristiche del calcestruzzo utilizzato in termini sia di resistenza che di rigidità.

Queste informazioni, unitamente alla determinazione della riduzione di sezione dell’armatura per effetto della corrosione, potranno indirizzare l’intervento di consolidamento verso un reintegro dell’armatura corrosa oltre che nella scelta dei sistemi di protezione superficiale.

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 72

Lo sviluppo tecnologico offerto dall’industria, negli ultimi vent’anni, con ricerche e studi sui materiali compositi ha permesso di ridurre sensibilmente l’intervento su pilastri e travi che utilizzavano il vecchio metodo dell’integrazione delle armature e rifacimento dei copriferro che finivano per aumentare le sezioni.

Oggi questo intervento è stato, nella quasi totalità, sostituito dall’uso dei rinforzi in materiali compositi, come ad esempio fibre di carbonio, fibre di vetro, fibre di aramide, fibre di basalto, fibre di lino, fibre di canapa, tessuti in fibra di acciaio, da impiegarsi principalmente nei seguenti campi:

1. Miglioramento sismico

2. Adeguamento sismico

3. Messa in sicurezza di edifici terremotati

4. Aumento sovraccarichi

5. Ripristino armature corrose

6. Adeguamento prescrizioni normative

7. Errori progettuali

Per conseguire:

• aumento capacità deformativa della struttura;

• aumento della duttilità e della capacità resistente a pressoflessione e taglio dei pilastri;

• aumento della resistenza a flessione e/o taglio di travi, e/o dei tegoli prefabbricati.

Per il consolidamento di strutture in cemento armato:

• Ripristino delle capacità portanti di elementi strutturali, dovute al degrado o corrosione dei ferri di armatura.

• Rinforzo a flessione e a taglio di travi in c. a. a vista ed a spessore.

• Reintegro della funzione strutturale delle staffe, insufficienti o degradate.

• Cerchiaggio per il rinforzo dei pilastri di tutte le dimensioni e forme.

• Aumento della resistenza a compressione del calcestruzzo nei pilastri.

• Rinforzo di solai in c.a. anche per aumenti di carico imprevisti.

• Collegamenti strutturali dei nodi di trave-pilastro.

• Irrigidimenti di piano su solai in c.a. o in laterizio armato con collegamento alla struttura verticale.

• Ripristino delle capacità portanti di elementi strutturali danneggiati da incendi, urti e infiltrazioni.

• Cambio di destinazione d’uso dell’edificio, ove occorra aumentare la capacità portante di travi, pilastri e solai.

materiali contemporanei per il consolidamento delle strutture moderne • silvio van riel 73

Immagini di interventi con materiali compositi da “CARBOSYSTEM”.

I materiali compositi, costituiti da un rinforzo di fibre ad elevate proprietà meccaniche e da una matrice (epossidica o cementizia) che garantisce l’adesione del tessuto-lamine al supporto e quindi il trasferimento dei carichi, rappresentano un efficace metodo per il rinforzo ed il restauro di opere edili.

L’applicazione dei compositi in edilizia, permessi dall’attuale normativa tecnica, hanno dato una svolta significativa all’impiego delle fibre di carbonio-vetro, ecc.

I rinforzi vengono applicati per laminazione diretta sulla superficie da rinforzare mediante impregnazione con matrici a base di resine di tipo epossidico , e più recentemente con sistemi che prevedono l’utilizzo di malte cementizie o a base di calce.

La conoscenza delle interazioni fibra-matrice, dei fenomeni di adesione all’interfaccia, qualità dei materiali, sperimentazione e verifiche che ne derivano, sono gli unici elementi che possono costituire una buona garanzia di qualità di questi sistemi.

Le principali fibre oggi presenti in commercio:

Fibre di carbonio

Presentano altissime proprietà meccaniche ed una elevata resistenza chimica rispetto a tutti gli agenti chimici ed una garanzia e durata nel tempo significativa; presentano inoltre un altissimo modulo elastico, possono essere del tipo unidirezionale, bidirezionale, quadri assiale, ecc.

Fibre di vetro

Sono più economiche delle fibre di carbonio ma presentano delle proprietà meccaniche nettamente inferiori, con una maggiore deformabilità e resistenza alla compressione.

Fibre di aramide

Queste fibre appartengono alla categoria delle “poliammidi aromatiche”; presentano

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proprietà meccaniche elevate ed una grande capacità di dissipazione di energia vibrazionale. Rispetto alle fibre di vetro e di carbonio hanno densità più bassa ma presentano maggiore assorbimento di acqua, minore resistenza alle variazioni di PH e maggiore sensibilità alle radiazioni, in particolare ai raggi UV; inoltre, sottoposte a carico costante possono presentare sensibili fenomeni di “Creep”.

Fibre di acciaio

Sono formate da microtrefoli di acciaio galvanizzati, ad altissima resistenza fissati su una  microrete in fibra di vetro che ne facilita le fasi d’istallazione, si presentano sul mercato come tessuti unidirezionali e bidirezionali di facile lavorabilità e sagomabilità. I tessuti in fibra di acciaio galvanizzato garantiscono risorse strutturali e meccaniche uniche, assai superiori rispetto ai tradizionali tessuti in fibra di carbonio-vetro-aramide, risultando così particolarmente efficaci nelle diverse applicazioni per rinforzo strutturale e miglioramento o adeguamento sismico, nonché’ nella realizzazione di opportuni sistemi di connessione di placcaggio, in abbinamento a Iniettore&Connettore. Sono tensionabili per la realizzazione di rinforzi strutturali e presidi attivi, mediante particolari sistemi di ancoraggio meccanico, grazie alle particolari caratteristiche del tessuto che non richiedono la preventiva impregnazione dei nastri, e al tempo stesso, permettono l’ancoraggio e afferraggio mediante piastre metalliche senza dover ricorrere a particolari attenzioni come invece risulta necessario con tutte le altre tipologie di fibre e tessuti presenti sul mercato. Sono sagomabili mediante speciale piegatrice che permette di modellare facilmente i tessuti senza alterarne le proprietà meccaniche per realizzare staffe, per la fasciatura di travi e pilastri e altre pieghe necessarie negli interventi di consolidamento strutturale.

Rinforzi poltrusi e laminati

Le lamine pultruse1, generalmente in fibra di carbonio, possono essere prodotte a diversi spessori e larghezze, utilizzando fibre di carbonio ad alta tenacità (HT) o del tipo ad alto modulo elastico (HM). A causa della loro indeformabilità, che non consente alcuna curvatura, trovano impiego solo quando utilizzate in strutture perfettamente rettilinee quali travi e strutture in calcestruzzo.

Lamine ottenute con tecniche di laminazione sotto vuoto , sono prodotte unicamente su richiesta e su specifica del progettista , quando sono necessarie particolari caratteristiche non ottenibili con i procedimenti standard di pultrusione.

1 La pultrusione è un processo automatizzato per la produzione di profili in materiale plastico fibrorinforzato, denominati anche profili pultrusi o in VTR. Nel processo di fabbricazione continuo, un profilo viene prodotto attraverso la combinazione mirata di rinforzi di fibre e sistemi di resina.

materiali contemporanei per il consolidamento delle strutture moderne • silvio van riel 75

Esempi applicativi di profili pultrusi strutturali

Le barre pultruse in fibra di carbonio, fibra di vetro o fibra di aramide , sono prodotte con diametri variabili e lunghezze diverse. Barre continue in rotoli, in fibra di carbonio, possono essere prodotte unicamente con diametri inferiori ad 8 mm. Le barre trovano largo impiego come: connettori, tiranti e collegamenti sia per strutture in calcestruzzo, sia in muratura.

I profili pultrusi strutturali

I profili poltrusi sono invece elementi di materiale composito, ottenuti con la tecnica della  pultrusione. Questi particolari materiali compositi sono costituiti da resine organiche di tipo sintetico, solitamente fibre di vetro.

I profili pultrusi in vetroresina sono composti da fibre lunghe e tessuti e vengono denominati anche Fiber Reinforced Polymers o FRP, Glass Fiber Reinforced Polymer (GRFP) nel caso delle fibre di vetro e Carbon Fiber (CF) nel caso di fibre di carbonio.

I profili pultrusi in fibra vengono preferiti ai tradizionali profili di acciaio e alluminio per diversi motivi, tra i quali si segnalano:

• Leggerezza

• Elevata resistenza alla corrosione

• Resistenza dielettrica

• Isolamento termico

I materiali compositi di resine poliestere, infatti, risultano essere più leggeri dell’acciaio di circa il 70%, sono altresì resistenti alla corrosione dovuta ai vari agenti atmosferici e sono totalmente immuni a disturbi elettromagnetici.

Inoltre tra vantaggi dei profili pultrusi costituiti da resine organiche, troviamo anche:

• Bassa conduttività termica

• Resistenti a sollecitazioni termiche e dilatazione

• Ottima resistenza agli urti

• Ottima resistenza meccanica

Da come si può notare, l’utilizzo dei materiali compositi è consigliato soprattutto nell’industria civile/industriale per tutte le problematiche inerenti la corrosione e al disturbo elettroma-gnetico. Inoltre non sono da sottovalutare i benefici in termini di costi di manutenzione decisamente inferiori. Un altro grande vantaggio dei profili pultrusi strutturali si concretizza in fase di assemblaggio del manufatto con un netto risparmio in termini di tempo.

Possono essere forgiati (e ri-forgiati) in qualsiasi forma usando delle tecniche quali lo stampaggio ad iniezione e l’estrusione. Tramite il calore si ottiene la fusione di questi

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polimeri che, successivamente, a contatto con le pareti dello stampo, solidificano per raffreddamento. Il processo di fusione/solidificazione del materiale può essere ripetuto senza apportare variazioni notevoli alle prestazioni della resina.

Generalmente i polimeri termoplastici non cristallizzano facilmente, a seguito di un raffreddamento, poiché le catene polimeriche sono molto aggrovigliate. Anche quelli che cristallizzano non formano mai dei materiali perfettamente cristallini, bensì semicristallini caratterizzati da zone cristalline e zone amorfe. Le regioni cristalline di questi materiali sono caratterizzate dalla loro temperatura di fusione (Tm, dall’inglese “melting temperature”).

Le resine termoindurenti sono materiali molto rigidi costituiti da polimeri reticolati nei quali il moto delle catene polimeriche è fortemente limitato dall’elevato numero di reticolazioni esistenti.

Durante la fase di trasformazione subiscono una modificazione chimica irreversibile.

Le resine di questo tipo, sotto l’azione del calore nella fase iniziale, fondono (diventano plastiche) e, successivamente, sempre per effetto del calore, solidificano.

Le resine termoindurenti sono intrattabili una volta che siano state formate e degradano invece di fondere a seguito dell’applicazione di calore.

Contrariamente alle resine termoplastiche, quindi, non presentano la possibilità di subire numerosi processi di formatura durante il loro utilizzo.

Nel campo dell’edilizia si è sempre usato l’impiego delle resine termoindurenti per la maggior omogeneità delle catene polimeriche e resistenza dei campi cristallini.

Supporti in materiale inorganico (betoncini) per strutture in c.a.

Sono malte a base di leganti idraulici e calce aeree, inserti selezionati di cava in curva granulometrica pre definita, microfibre di vetro e acciaio, a ritiro compensato e additivi specifici

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che ne migliorano le prestazioni garantendo ottima adesione e lavorabilità, sia con le armature in acciaio tradizionali sia con i materiali compositi più recenti

Il loro utilizzo rispetto alle resine permette un tempo di posa e lavorabilità più lungo e quindi si preferisce per il consolidamento delle strutture in cemento armato dove sia necessario ricostruire i profili sagomati originali o particolari dettagli costruttivi, inoltre la possibilità di avere composti sempre più compatibili a quelli originali.

Attualmente la produzione industriale ha creato una molteplice e qualificata gamma di offerta che deve rispondere a ben definite certificazioni di qualità per la loro applicazione.

A titolo puramente informativo si riporta l’indicazione specifica di una nota azienda produttrice.

Betoncino strutturale ad alta resistenza a compressione a norma EN 1504-3 a base di speciali leganti idraulici solfato-resistenti, specifico per ambienti acidi, per interno ed esterno, da applicare a proiezione meccanica o a mano per la ricostruzione o il ripristino di strutture in cemento armato o calcestruzzo, come consolidamento strutturale di vecchie murature, per il ripristino e risanamento di condotti, canalizzazioni e gallerie fognarie. Non attacca i metalli ma li protegge se li avvolge completamente. Disponibile fibrorinforzato con una speciale composizione di fibre in polipropilene tipo “FR”.

Disponibile di classe R2 o R3 o R4-CC.

Grazie all’aggiunta di speciali componenti inorganici si forma una micro struttura acido resistente che lo rende specifico per applicazioni in ambienti acidi o da nebbie marine. Da abbinare anche con il sistema di rinforzo strutturale MALVIN NET, che utilizza reti, connettori e accessori preformati in GFRP (Glass Fiber Reinforced Polymer) (FIBRE NET), o reti F.R.P (Fiber Reinforced Polymer) costituite da fibra di vetro AR GLASS (alcalino resistenti) e connettori in acciaio inox AISI 304 trafilato a freddo.

Certificato processo produttivo FPC 0925.

CONFEZIONE: Sfuso in silo - Sacchi da 25 kg - pedane da 70 sacchi - 17,50 ql

UTILIZZO: Interno/Esterno

COLORE: Grigio

GRANULOMETRIA: ≤ 1,3 mm

RESA: 17/18 kg/mq

LEGAME DI ADERENZA EN 1542: R17: > 0,8 MPa • R25/R35: > 1,5 MPa • R40: > 2,0 MPa

MODULO ELASTICO EN 13412: Tipo R25/R35: > 15 GPa • Tipo R40: > 20 Gpa

RESISTENZA A COMPRESSIONE A 28 GG EN 12190:

• R17: ≥ 17 MPa • Classe R2

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• R25: ≥ 25 MPa • Classe R3

• R35: ≥ 35 MPa • Classe R3

• R45: ≥ 45 MPa • Classe R4

Passivazione dei ferri ossidati delle armature – procedure applicative

La prima operazione da fare sulle superfici da ripristinare è asportare completamente il calcestruzzo ammalorato mediante scalpello o con altri mezzi idonei quali microsabbiatori, l’idroscarifica e pistole ad ago al fine di rimuovere qualsiasi residuo di vecchie vernici, sporco, disarmante, muschi, materiali friabili in genere, che impedirebbero la perfetta adesione della malta al supporto metallico. Il tutto al fine di ottenere un supporto solido, pulito, privo di parti in distacco e sufficientemente ruvido.

Trattamento protettivo dei ferri di armatura

Il trattamento protettivo dei ferri di armatura a vista consiste nell’applicazione a pennello di malta idraulica mono o bicomponente rialcalinizzante anticorrosiva. In particolare si tratta di paste pronte mono e bicomponenti adesive applicate a pennello, armate con microfibre sintetiche. In generale sono costituite da cemento ad alte prestazioni, sabbie cristalline micronizzate, resine in polvere, pigmenti e inibitori della corrosione. Tra i prodotti del mercato si segnalano la Mapefer della Mapei e la webertec fer della Saint Goben.

È buona norma applicare ad una temperatura maggiore di +5°C e inferiore di +35°C.

Alcune informazioni sul trattamento delle armature con “inibitori di corrosione migranti” da Edoardo Mocco per CONSILEX NO-RUST.

Gli inibitori di corrosione migranti sono sostanze organiche, in forma liquida, a base acquosa, caratterizzate da “migrazione attrattiva e selettiva” che, applicate alle superfici del conglomerato, migrano in profondità, sino a raggiungere selettivamente le superfici metalliche delle armature d’acciaio dalle quali sono attratte, fissandosi e condensando sulle superfici stesse per formare un film monomolecolare di protezione in grado di mantenere o riportare le armature in acciaio significativamente protette.

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Esempio di consolidamento di un pilastro in cemento armato con rimozione del calcestruzzo ammalorato tramite pistola a spillo, trattamento con malta passivante anticorrosione mediante pasta bicomponente data a pennello e ripristino con malta cementizia della sezione originaria.

Il nodo di una capriata in cemento armato gravemente danneggiato da fenomeni da carbonatazione dovuto al ridotto spessore del copriferro e di un’armatura molto fitta che ha impedito al calcestruzzo di penetrare in profondità. Il consolidamento di questa struttura prevede: Il puntellamento della struttura prima di ogni intervento, l’asportazione del calcestruzzo ammalorato, Il trattamento con inibitori di corrosione e Il ripristino delle sezioni con malte il più possibili simili all’originale.

Nella normale pratica di cantiere ci si limita alla sola asportazione del conglomerato adiacente all’armatura esposta, lasciando immutata la situazione a tergo dell’armatura per poi ricostruire, a frattazzo, la limitata porzione di conglomerato asportato. La preparazione descritta comporta i possibili rischi connessi con la situazione degenerativa, fisica ed elettrochimica del conglomerato retrostante le armature.

Soltanto il ricorso all’applicazione dell’inibitore di corrosione a “migrazione attrattiva e selettiva” consilex no-rust può quindi consentire la più completa omogeneizzazione dell’interfaccia ferro/calcestruzzo attraverso la creazione di un film monomolecolare a protezione dell’armatura.

Appunti sul consolidamento delle strutture metalliche

Più articolato e complesso si presenta il problema del consolidamento e della riabilitazione delle costruzioni e parti strutturali metalliche che caratterizza l’architettura del periodo preso in considerazione.

Agli studenti frequentanti il corso è già stata data una prima informazione sui principali materiali metallici utilizzati in architettura, in particolare sul ferro fucinato, la ghisa e l’acciaio per cui, in questa occasione, è importante segnalare che in Italia, soprattutto in periodo autarchico, si è preferito adottare strutture in cemento armato con declinazioni di particolare arditezza e complessità (Pier Luigi Nervi) per coprire luci molto significative. In alternativa vengono realizzate sistemi di capriate in cemento armate estremamente articolati assimilabili alle reticolari in acciaio; basta osservare quelli dell’ex Fabbrica Caproni a Predappio o di simili strutture presenti ancora sul territorio italiano.

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 80

Dopo l’unificazione del Regno d’Italia l’acciaio e la ghisa vengono utilizzati per coprire ampi spazi, in particolari edifici specialistici: le stazioni ferroviarie e le gallerie urbane nelle città più importanti; molte delle quali oggi coperte da tutela del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Basta citare la Stazione di Milano (1931) e la Galleria Vittorio Emanuele II (1878), dove l’acciaio è stato utilizzato per la grande volta dell’arrivo dei binari e per la cupola e per le volte dei bracci della galleria.

Comunque anche nel dopoguerra alle strutture in acciaio è stato preferito, per le costruzioni industriali e per i palazzetti sportivi e per congressi l’uso del cemento armato; con l’affermarsi, a cavallo degli anni ‘50 e ‘60 del ‘900, l’uso delle strutture in cemento armato prefabbricato che con costi molto inferiori monopolizzarono le costruzioni industriali. Solo con la prima grande riclassificazione sismica del 1982 e, in particolare con quella del 2004, in queste zone le costruzioni in acciaio si presentarono competitive sia sotto il profilo delle prestazioni sismiche sia economicamente alle strutture in cemento armato prefabbricato. Comunque, seppur minoritarie le strutture in acciaio sono esistenti nel nostro territorio in particolare in complessi industriali o, in minor numero, nei palazzetti dello sport e, alla luce dell’attuale Normativa tecnica 2008, 2018, qualora dovessero essere oggetto di interventi, anche di straordinaria manutenzione o di cambi di destinazione d’uso anche parziali, è richiesta la verifica sismica di sicurezza che implica, come per tutti i fabbricati esistenti tutelati e non, l’attivazione del “Percorso conoscitivo” fra cui il “dettagliato rilievo strutturale”. Quest’ultimo, data la grande difficoltà, ha sempre limitato gli studi esaustivi sulle grandi strutture, in particolare quelle dell’archeologia industriale e dei grandi complessi del dopoguerra, oggi o sotto utilizzati o del tutto inutilizzati.

Comunque attualmente questo problema è molto facilitato dall’uso, diventato molto più corrente ed economico, del rilievo con il laserscan e i droni che permette di rilevare, in dettagli, elementi strutturali a distanze una volta impossibili da rilevare con i metodi tradizionali. Ecco infatti quello che prevede la normativa per la messa in sicurezza degli edifici con strutture in acciaio.

Una delle novità delle NTC2018 riguardante le costruzioni esistenti è l’introduzione dell’analisi preliminare della sicurezza statica e della vulnerabilità sismica a seguito del rilievo geometrico della struttura.

Tale analisi è propedeutica alla corretta pianificazione del numero e della localizzazione delle indagini in sito e delle prove da eseguire.

Dai risultati ottenuti dall’analisi preliminare si dovrà valutare il livello di impegno statico dei singoli elementi strutturali e decidere per quale tipologia di elemento incrementare il numero di indagini necessarie e dove localizzarle.

materiali contemporanei per il consolidamento delle strutture moderne • silvio van riel 81

Disegno esecutivo di una reticolare in acciaio costruita negli anni ‘70 del ‘900 in zona non sismica. Identificazione delle principali criticità sismiche.

Disegno esecutivo di una traliccio in acciaio a consolidamento sismico di una capriata lignea.

Prima dell’analisi preliminare dovrà essere eseguito il rilievo geometrico strutturale per individuare:

• posizione di travi, pilastri, scale e setti e loro dimensioni;

• identificazione dell’organizzazione strutturale;

• identificazione dei solai e loro tipologia, orditura e sezione;

• identificazione della tipologia e dimensione degli elementi non strutturali;

• forma dei profili in acciaio utilizzati e loro dimensioni geometriche;

• tipologia e morfologia delle unioni.

Particolare importanza riveste nel “Percorso conoscitivo” l’indagine storico - documentale in quanto il reperimento del progetto strutturale facilita molto la fase diagnostica, in particolare la costruzione del modello strutturale e la rispondenza dell’opera realizzata al progetto.

Nel caso in cui non siano disponibili i grafici originali di progetto, le informazioni relative ai dettagli costruttivi, di fondamentale importanza per analizzare il comportamento della struttura sotto sisma, andranno valutate eseguendo un progetto simulato ai sensi della normativa tecnica in vigore all’epoca di costruzione del fabbricato e tenendo conto delle pratiche costruttive del periodo.

La corrispondenza fra i dettagli costruttivi ottenuti dal progetto simulato con la struttura realizzata andranno verificati a campione tramite le indagini in sito.

La Normativa Tecnica pone una distinzione fra indagini e prove.

Le indagini sono finalizzate ad ispezionare la tipologia di giunti (saldati o bullonati) fra le  membrature, i particolari degli appoggi dei solai, le modalità di collegamento degli elementi strutturali alle fondazioni.

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 82

Le prove hanno lo scopo di identificare le proprietà meccaniche dei materiali. Nel caso delle strutture in acciaio, le prove forniranno informazioni sulla resistenza a snervamento, la resistenza a rottura e l’allungamento a rottura dell’acciaio.

Sia le prove che le indagini sono classificate secondo tre livelli crescenti di approfondimento:

• limitate;

• estese;

• esaustive.

Si evidenzia quindi l’importanza della fase di rilievo e delle prove sui materiali poiché anche per le strutture esistenti in acciaio la Normativa Tecnica definisce tre livelli di conoscenza:

• LC1; conoscenza limitata

• LC2; conoscenza adeguata

• LC3. conoscenza accurata

Al crescere del livello di conoscenza (da LC1 a LC3) aumenteranno le informazioni disponibili sulla struttura, relativamente alle proprietà dei materiali e ai dettagli costruttivi.

A ciascun Livello di Conoscenza è associato un Fattore di Confidenza FC che sarà utilizzato per ridurre la resistenza dell’acciaio. Al crescere del livello di conoscenza, diminuirà il valore del Fattore di Confidenza FC per la riduzione dei parametri meccanici del materiale come riportato di seguito:

• LC1 ⇒ FC = 1.35

• LC2 ⇒ FC = 1.20

• LC3 ⇒ FC = 1.00 Rd = R / FC

• Rd = resistenza di progetto da utilizzare nelle verifiche;

• R = resistenza ottenuta da prove in sito o dalle specifiche originali di progetto;

• FC = Fattore di Confidenza.

materiali contemporanei per il consolidamento delle strutture moderne • silvio van riel 83

Ex Zuccherificio di Granaiolo, cortina nord con l’identificazione dei materiali.

Abstract

Lo studio dell’ex zuccherificio di Granaiolo, condotto sulla base di un approccio metodologico analitico, basato su tecniche di rilievo avanzate e su attente osservazioni dirette, ha permesso di giungere a risultati conoscitivi consoni a sviluppare ulteriormente il tema per percorsi di recupero e futuri riutilizzi, da attuare nella consapevolezza delle nuove sfide della sostenibilità enunciate dell’Agenda Onu 2030.

Gli elaborati prodotti, uniti ad una costante ricerca storica basata su fonti scritte e orali, hanno dato la possibilità di documentare lo stato di fatto di un cantiere posto tra tradizione e innovazione, dell’articolato sistema di canalizzazioni per l’adduzione idrica dal vicino corso d’acqua, delle finiture e delle soluzioni strutturali d’avanguardia, tutti elementi che mettono in evidenza l’importanza storica del complesso industriale e la qualità architettonica e strutturale del fabbricato produttivo.

Le indagini evidenziano anche le modalità operative di assemblaggio degli elementi metallici, il modo di coniugare la secolare tradizione costruttiva del passato, espressa in particolare nelle cospicue murature laterizie perimetrali, coniugate ad ardite capriate metalliche Polonceau di circa ventisei metri di luce e altrettanto interessanti tralicci di controventatura; non meno interessanti sono i grandi finestroni e i lucernari realizzati con telai metallici e dotati talvolta di complessi sistemi di apertura. Sorprende anche il buono stato di conservazione dell’edificio nel suo complesso, condizione questa che racconta molto dell’’intrinseca qualità del costruire che connota l’ex zuccherificio di Granaiolo.

Introduzione

L’archeologia industriale è un tema che, fin dagli anni ‘50 del XX secolo comincia a delinearsi all’interno di alcune pubblicazioni finalizzate a dare una definizione del nuovo campo di studio e a definirne l’ambito di applicazione. Col passare degli anni l’interesse verso il nuovo campo di studio diviene sempre più crescente e diversificato. Talvolta si affronta esaltando la dimensione di utilizzo pubblico e l’ardita componente ingegneristica di alcune categorie di costruzioni, come i ponti, canali, porti, ferrovie (Gies 1964; Pannell 1977). Negli anni ‘70 testi di carattere generale - tra i quali si rammentano le opere di Buchanam (1972),

patrimonio industriale. conoscenza per il riutilizzo
Pietro Matracchi, Giorgio Verdiani, Milena Lorusso, Denise Fresu Università degli Studi di Firenze

Bracegirdle (1974), Major (1975) e Hudson (1976) - delineano l’archeologia industriale anche in rapporto ai differenti ambiti produttivi, tracciando talvolta affreschi nazionali e tracciano metodiche e ambiti di indagine. Emerge anche la forte e diffusa dimensione paesaggistica delle costruzioni industriali (Le paysage 1975). Si individuano anche temi specialistici come le costruzioni in ferro e vetro (Hix 1974), e alcuni esempi salienti si introducono nella narrazione della storia moderna (Schild 1971), declinata a volte in studi monografici (Saddy 1977), o come soggetto di studio generale che spazia dal singolo edificio alla scala territoriale, con riferimenti anche ai problemi legati alla conservazione e valorizzazione di tali manufatti (Negri 1977; Borsi 1978); tra gli altri, Kenneth Major (1975, p. 9) non ha mancato di lamentare l’urgenza di documentare l’archeologia industriale, di cui fin da allora, nell’indifferenza, si stavano perdendo preziose testimonianze. Dagli anni ‘70 ad oggi l’interesse per il tema si è talmente esteso da sollevare il problema della delimitazione di campo, per evitare una dimensione patrimoniale incontrollabile nell’alveo della conservazione e valorizzazione; è necessario, inoltre, che le azioni del documentare e del valutare le strategie di tutela vengano strettamente connesse alle peculiarità dei manufatti oggetti di studio, al fine di evitare un approccio al riutilizzo non avvertito delle specificità dei contesti, con i propri significati culturali. Lo studio condotto sull’ex zuccherificio di Granaiolo è finalizzato a fornire alcuni primi strumenti conoscitivi su cui sviluppare gli ulteriori approfondimenti che si renderebbero necessari per giungere a proposte di riutilizzo consapevoli e coerenti con le differenti declinazioni della sostenibilità.

La costruzione dell’impianto dello zuccherificio di Granaiolo si colloca all’interno di un ben più ampio quadro nazionale italiano: sul finire dell’800 gli agricoltori, stimolati anche dalle spinte provenienti dal mercato internazionale, hanno cominciato ad interessarsi alla versatilità della barbabietola da zucchero la cui lavorazione, oltre al prodotto finito destinato al commercio, generava sottoprodotti come foglie e polpe esauste, utili per l’alimentazione del bestiame.

L’industria saccarifera è diventata così uno dei maggiori campi di investimento di imprenditori interessati ad indirizzare i propri capitali verso un settore in rapida crescita: tra questi Erasmo Piaggio che, già inseritosi da anni nel prolifero settore della raffineria, intendeva allargare i propri orizzonti economici e dedicarsi all’intero processo di produzione dello zucchero, privilegiando la materia prima locale piuttosto che il prodotto d’importazione.

Gli stabilimenti saccariferi, così come i mulini nella fase di sviluppo pre-industriale, vedevano, nella vicinanza ai corsi d’acqua, una condizione essenziale per l’avvio del

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processo produttivo; la bassa pianura padana e le aree circostanti divennero, perciò, luogo privilegiato per l’impianto degli zuccherifici, sia per la ricchezza di approvvigionamento idrico, sia per il clima favorevole alla coltivazione della materia prima. Soltanto in Toscana, intorno agli inizi del ‘900, furono costruiti tre zuccherifici: a Cecina, a Montepulciano e a Granaiolo (Tonizzi 2001; Faben 2012).

L’impresa architettonica e imprenditoriale dello zuccherificio di Granaiolo fu resa possibile grazie ai capitali investiti dalla Società Italiana per l’Industria degli Zuccheri e la localizzazione dell’impianto dipese in gran parte da fattori tecnici: il luogo designato alla costruzione coincideva con un lotto molto esteso e particolarmente vantaggioso, poiché da un lato l’area era facilmente raggiungibile, soprattutto attraverso la strada ferrata che la costeggiava, dall’altro vi era una sufficiente disponibilità d’acqua, grazie alla presenza del vicino fiume Elsa (Mori 1957; Secchi 2014).

Per l’intero processo produttivo, infatti, era necessaria un’ingente quantità d’acqua: la materia prima, dopo essere stata pesata e successivamente stoccata in silos, veniva trasportata per galleggiamento, attraverso un sistema di canalizzazioni, fino alla zona di lavaggio all’interno della fabbrica.

Poiché l’acqua era necessaria per tutte le fasi di lavorazione, la distribuzione all’interno delle diverse aree produttive della fabbrica avveniva tramite canali, alcuni di essi conservati ancora oggi e visibili nei punti in cui la pavimentazione si interrompe. Partendo dall’esterno dello zuccherificio, i canali percorrevano longitudinalmente il corpo di fabbrica principale attraversando i reparti di lavaggio, diffusione ed estrusione. Insieme alle tracce lasciate dalla rimozione dei macchinari a seguito dalla chiusura dello stabilimento, il sistema di canali e vasche rappresenta un’importante testimonianza della memoria del passato produttivo dell’edificio, ricostruito, insieme all’architettura che lo ospitava, con un rilievo accurato.

Rilievo con tecniche avanzate e processazione dei dati

Per poter rappresentare lo stato di fatto del manufatto architettonico oggetto di studio, è stato necessario, data l’articolazione e le imponenti dimensioni dello zuccherificio, ricorrere ad una metodologia di rilevamento indiretta, tramite l’utilizzo di un Laser Scanner 3D, integrata da misurazioni dirette, ove necessario.

In due giornate di operazioni sono state realizzate 280 scansioni, effettuate con il Laser Scanner 3D Z+F (Zoller+Fröhlich) IMAGER® 5016; lo strumento ha una portata massima di 180 m, un campo visivo pari a 360° in orizzontale e 320° in verticale, con una velocità di misurazione che può arrivare a oltre 1.000.000 di punti al secondo ed è dotato di un sistema di

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posizionamento integrato GPS, che permette di perfezionare la registrazione automatica in campo, con o senza l’impegno di target di supporto all’allineamento1. Per la particolarità dell’ambiente e per il significativo numero di scansioni da effettuare si è scelto di optare per delle scansioni basate sul rilevamento del solo valore di riflettanza del materiale, capace di restituire i punti secondo una scala cromatica o di grigi, ed evitando la ripresa fotografica che, seppur effettuata con la specifica fotocamera integrata dello strumento, avrebbe all’incirca raddoppiato i tempi complessivi delle operazioni. Le scansioni sono state inoltre, diversificate nella qualità: in ambienti liberi da ingombri, di piccole e medie dimensioni, sono state eseguite poche scansioni con un livello di accuratezza maggiore; per gli ambienti scanditi da pilastri, invece, si è scelto di realizzare un numero molto più elevato di scansioni, ravvicinate tra loro, ad una qualità inferiore; la logica nella pianificazione delle posizioni di scansione si è basata sulla massima riduzione possibile degli spazi di occlusione.

A maggior densità corrisponde un aumento del tempo di acquisizione e della dimensione del file-scansione: le scansioni di densità minore hanno una durata di 5-6 minuti, per quelle di densità maggiore la durata è di 13-14 minuti.

Le scansioni ottenute sono state memorizzate in singole nuvole di punti, con estensione .ZFS, processate e allineate per dar luogo a un modello unitario del fabbricato.

L’allineamento (detto anche messa a registro) delle nuvole di punti, è stata effettuata mediante il software Autodesk Recap, ed è risultata subito ben agevole alle procedure automatiche di restituzione, questo grazie al buon livello di sovrapposizione dei dati tra una scansione e la sua successiva: il risultato ottenuto, un modello tridimensionale molto accurato con completamento composto da milioni di punti con diversi valori RGB, è stato ulteriormente processato per poter avere una rispondenza grafica secondo classici elaborati bidimensionali; il passaggio successivo, infatti, ha previsto l’inserimento della nuvola di punti complessiva all’interno del software Autodesk Autocad: il modello 3D è stato posizionato secondo l’orientamento dell’UCS e lo strumento slice ha permesso di creare piani di sezione orizzontali e verticali con uno spessore variabile tra 1 e 10 cm, in base alla densità di punti dell’area sezionata; ritracciando tale spessore e tutte le aree circostanti in proiezione è stato possibile ricavare gli elaborati grafici di piante, sezioni e prospetti. Se per l’insieme degli interni principali dell’impianto industriale l’ausilio dei dati raccolti dal Laser Scanner 3D si è mostrato ampiamente efficace, per la rappresentazione e lo studio a una scala di maggiore dettaglio delle murature perimetrali è stato necessario integrare il rilievo 3D con la fotogrammetria digitale: il rilievo fotogrammetrico è stato

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1 Z+F IMAGER® 5016, 3D Laser Scanner, su https://www.zf-laser.com/Z-F-IMAGER-R-5016.184.0.html?&L=1

eseguito con una macchina fotografica reflex Canon 550D e con una macchina fotografica reflex Nikon D3200. La campagna fotografica è stata realizzata in più giornate, scelte in base alle condizioni meteorologiche che permettessero di realizzare foto con assenza di zone d’ombra significative.

Oggetto del rilevamento sono stati i fronti esterni della fabbrica e, per ciascuno di essi, sono state realizzate dalle 200 alle 500 foto: per ottenere una mappatura completa e particolareggiata delle superfici, le foto sono state scattate con un margine di sovrapposizione del 50/60% e con una focale variabile 18-55mm, a seconda della distanza dal fronte. Le foto, divise per fronte, sono state inserite nel software Agisoft Metashape in cui, tramite le operazioni di allineamento, è stata costruita una nuvola di punti densa (dense cloud); quindi una superficie poligonale mesh, prodotta sulla base della dense cloud, è successivamente elaborata in Raindrop Geomagic Design X, software di reverse engineering 3D capace di offrire specifiche ed efficaci procedure di trattamento e ottimizzazione delle superfici poligonali. Una volta completato questo processo , la superficie poligonale è stata nuovamente importata nel progetto Metashape, è stata quindi generata la texture associata da esportare in immagini ortografiche, salvate in formato .TIF; questi sono stati poi sottoposti ad un processo di post-produzione su Adobe Photoshop, per il miglioramento dell’aspetto formale e cromatico.

Caratteri, materiali e tecniche costruttive

Il fabbricato produttivo dell’ex zuccherificio presenta una struttura portante perimetrale in laterizi pieni e una struttura interna in acciaio. L’impianto, costruito tra il XIX e il XX secolo, ricalca da un lato il tradizionale cantiere caratterizzato da murature piene e, dall’altro, l’innovazione tecnologica dell’impiego di strutture metalliche, in atto già da più di un secolo in Inghilterra e nelle grandi città del nord Europa. La parte dell’impianto in cui avveniva la produzione è costituita da cinque corpi di fabbrica connessi tra loro; le diverse volumetrie, pur accomunate dalla ripetizione di alcuni caratteri architettonici lungo tutti i fronti esterni, presentano alcune differenze di caratteri e materiche che delineano con sufficiente precisione gli ampliamenti che sono stati apportati dalla prima metà del secolo scorso fino alla chiusura e abbandono dell’impianto.

L’ambiente principale, facente parte dell’impianto originario insieme alla parte di fabbricato dove sono ancora visibili gli antichi forni, si sviluppa per 107 metri e con un’altezza di 25 metri parallelamente alla linea ferroviaria Empoli-Siena.

I due edifici presentano elementi architettonici del tutto analoghi: le facciate sono scandite dalla presenza di paraste che delimitano idealmente la suddivisione interna dei reparti produttivi e da due cornici marcapiano che, a causa delle modifiche interne successive alla

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Ex Zuccherificio di Granaiolo, cortina ovest con l’identificazione dei materiali

chiusura della fabbrica, non sempre trovano una corrispondenza nella suddivisione interna dei solai.

Le aperture, di dimensioni variabili a seconda del fronte, sono coronate da cornici in finta pietra. Parte del fronte nord è tripartito orizzontalmente da tre ordini di aperture di differenti altezze, inframezzate da due cornici marcapiano rispettivamente di 90 e 50 cm. Nel particolare esaminato, il paramento murario è in laterizi pieni, posti di testa e di costa; particolarmente significativa è la finitura del paramento, di cui restano tracce di intonachino di calce e cocciopesto, con giunti stilati a uniformare visivamente la disposizione dei laterizi; il legante dei mattoni è una malta, probabilmente cementizia, confezionata con sabbia caratterizzata da clasti di piccole dimensioni. Ai lati della porzione analizzata sono presenti delle paraste, anch’esse costituite da un corpo laterizio. Nella parte sommitale delle fronti, si impiegarono pianelle per l’ossatura di cornici, poi rifinite con malta. Le finestre sono sormontate da archi a sesto ribassato e falcati.

Gli elementi decorativi, quali paraste, cornici marcapiano e bugnati delle aperture, hanno la finitura in malta.

Il fronte ovest, differisce da quello nord solo per la perdita dell’intonaco di finitura, del quale sopravvivono poche tracce in cui si osservano frammenti di laterizi frantumati, con inerti lapidei di irregolare. È singolare la variazione dimensionale delle aperture del terzo livello, con quelle laterali di minore altezza per il poso spazio lasciato dai displuvi del timpano di coronamento.

Sul fronte opposto alla ferrovia, verso il fiume Elsa, svetta la ciminiera, simbolo riconoscibile anche a lunga distanza dell’impianto industriale: essa è caratterizzata da un basamento su cui è posto l’ingresso per l’ispezione del vano, da un corpo cilindrico rastremato con l’altezza e da un cappello sommitale.

Il basamento è a pianta quadrata di 6,80 metri di lato, con un’altezza di 5,50 metri, ed è sormontato da un elemento di raccordo ottagonale alto 2,65 metri; la canna fumaria, che si eleva per 45 metri, ha alla base un diametro di 5,45 metri e, alla sommità, di 3,40 metri. La ciminiera, nel corso degli anni, è stata sicuramente oggetto di restauri poiché è possibile osservare risarciture delle fratture murarie e cerchiature metalliche poste ad un interasse sempre più ravvicinato con l’aumentare dell’altezza.

Gli altri annessi al fabbricato principale, che si affacciano sul lato dell’Elsa, sono stati aggiunti rispetto all’originale impianto. Il fabbricato maggiore ha finestre all’incirca alte 7,50 metri. L’ultimo edificio, quello più recente, differisce totalmente poiché è l’unico edificio del complesso a presentare ampie finestre quadrate, di impronta razionalista, ed una copertura piana calpestabile.

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All’interno, la quasi totale assenza di partizioni enfatizza gli ampi vani di tutti gli edifici maggiori, offrendo una chiara lettura della distribuzione e della percorribilità tra grandi spazi interrotti, tutt’al più, da pilastri metallici, che non ne compromettono la percezione complessiva e la versatilità di utilizzo.

Il corpo di fabbrica maggiore era originariamente il cuore pulsante della produzione. Con un approccio quasi archeologico, è oggi possibile leggere le tracce del passato produttivo del luogo: i canali per il trasporto delle barbabietole e gli scavi realizzati dopo la chiusura della fabbrica, contestualmente allo smantellamento dei macchinari, permangono come impronte e testimonianze della precedente attività industriale.

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Ex Zuccherificio di Granaiolo; particolari della connessione tra pilastri metallici sfalsati.

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L’ambiente è suddiviso orizzontalmente solo in una piccola area, in cui avvenivano le lavorazioni preliminari di lavaggio, pesa e riduzione in fettucce della materia prima. È proprio all’interno di questo spazio che si percepisce l’affascinante contrasto tra le masse murarie perimetrali riconducibili al cantiere tradizionale e la nuova frontiera del costruire con l’utilizzo di carpenterie metalliche per i pilastri e le coperture di grande luce, estese fino alla larghezza di 26 m.

Qui, la maggior parte dei pilastri presenti è formata da quattro profilati angolari metallici, saldati tra loro tramite traversini di ferro piatti, a formare uno scatolare traforato; essi reggono solai orditi con putrelle e voltine o tavelle in laterizio.

Nonostante l’idea di serialità che un edificio industriale porta con sé, all’interno dell’ex zuccherificio è possibile osservare soluzioni costruttive particolari che rispondono a specifiche esigenze funzionali; è visibile, ad esempio, un pilastro posto non in asse con quello sottostante per permettere, tramite varie orditure sovrapposte, un adattamento dello spazio al processo produttivo.

Nell’ex Reparto Cottura del prodotto raffinato, i pilastri a cassone servono per il sostegno di carichi rilevanti e sono formati da quattro profili angolari, saldati tra loro tramite calastrelli 2; in tale maniera si generano una sorta di profili tubolari a sezione quadrata.

Il nodo esemplificativo pilastro-pilastro mostra il collegamento tra due tratti di pilastri a sezione differente, uniti tra loro tramite piastre imbullonate sui quattro lati. Il giunto pilastro-trave si ottiene con l’ausilio di piastre angolari che fissano, mediante bullonatura, l’anima della trave al pilastro; la rigidità strutturale è implementata dal sostegno di mensole angolari rinforzate, posizionate sotto l’ala inferiore delle travi a doppio T.

Un ulteriore nodo strutturale analizzato si trova nell’ex Reparto Cottura del secondo prodotto: il nodo trave-colonna è realizzato con la sovrapposizione verticale di due colonne in ghisa che lascia passare, tra la base della colonna superiore e il capitello della colonna inferiore, una coppia di travi con sezione a doppio T. La colonna di sezione maggiore presenta un capitello metallico quadrangolare, con nervature di rinforzo ed elementi verticali laterali, sui quali si imbullona la base, anch’essa nervata, della colonna di sezione minore. Il profilo scatolare che si viene a creare è dimensionato sulla larghezza delle travi passanti.

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2 A. Petrignani, Tecnologie dell’architettura, Görlich-Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1987.

Ex Zuccherificio di Granaiolo, rilievo di dettaglio ed esploso di pilastri metallici composti.

Ex Zuccherificio di Granaiolo, particolari del nodo costituita da travi metalliche inserite tra pilastri cilindrici in ghisa sovrapposti.

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Topografica

Laniera

1918 (Fonte: Gurrieri et al. 2001)

il patrimonio della produzione come infrastruttura territoriale. l’ecomuseo del tessile per il territorio di prato

Abstract

Fin dalle sue origini il territorio pratese, individuato come sub-bacino idrografico del Bisenzio, in analogia con molti altri territori, è stato oggetto di un denso processo insediativo che ha incluso a pieno titolo le categorie del produrre all’interno della più generale categoria dell’abitare. Abitare e (ri)produrre le condizioni per una comunità, tendenzialmente stabile, rappresentano dunque due aspetti difficilmente scindibili che nel loro insieme hanno prodotto un’“opera territoriale” (Clementi et al. 1996) di lunga durata, un “sistema vivente ad alta complessità” (Magnaghi 2020) giunti a noi fino alle soglie della modernità. Solo con l’avvento della rivoluzione energetica e meccanica -e del capitalismo sua forma economica omologa- questa unione co-evolutiva si spezza e territorio, lavoro, ambiente (natura) si trovano coinvolti come fattori con ragioni e finalità opposte in un generale processo di “distacco” fra insediamento e “milieu” circostante. Un progressivo disembedding, nei termini polanyiani, tra economia, società ed ambiente, basato sulla pressoché totale mobilizzazione di natura, lavoro umano e capitale (Polanyi 1974), che si è progressivamente sviluppato secondo una specializzazione e divisione globale del lavoro. Un processo che, ha in definitiva interessato anche alcune economie distrettuali “territorializzate” molto specializzate, e tuttavia inserite in quella dinamica di flussi di lunga portata di beni e capitali, ulteriormente accentuata dai più recenti fattori finanziari facenti leva sulla rendita immobiliare (Romagnoli 2020) che hanno finito con l’indebolire gli stessi fattori (ri)generativi dei sistemi produttivi locali.

Seppure posti in un punto della curva dell’arco di sviluppo appena descritto, le cui coordinate non possono esserci pienamente note, abbiamo però importanti segni che iniziano a porsi le condizioni, così come l’ineludibile necessità, di ripensare, recuperare e rigenerare la composita dotazione territoriale costituita dal patrimonio materiale ed immateriale del produrre, come una vera e propria “infrastruttura territoriale” la cui dimensione patrimoniale, in quanto tale, possa esplicarsi come fattore attivo per la (ri)produzione di condizioni dell’abitare che passano attraverso la cura dei luoghi .

Questo contributo intende esplorare -in forma del tutto iniziale e di scenario- proprio la possibilità ed utilità, insieme con i possibili e principali caratteri progettuali, del recupero del sistema e delle opere per la produzione, come opportunità e strumenti per innescare processi di sviluppo locale in riferimento al caso di studio di Prato. Processi dove la “territorialità” stessa divenga elemento distintivo, valore aggiunto per “rivelare” (MacKaye 1928) potenzialità endogene, forme di

• Carta

innovazione produttiva e nuove economie di carattere “patrimoniale”. Prodotti e processi la cui competitività ed innovazione sta proprio nell’essere esito della messa in valore del patrimonio territoriale e delle risorse locali in forme uniche e di elevata complessità. Prato appare appunto un territorio esemplare per svolgere questo “esperimento” rivelativo e progettuale, a partire dalle dotazioni produttive legate in particolare alle acque e alle forme ed opere di regolazione delle relazioni tra questo elemento ed attività umane. Una relazione che si dipana nello spazio –dall’alta valle verso la piana- e nel tempo – dall’età del bronzo al primo novecento- che deposita i segni di un’operosità molecolare, di un “genio economico” che si coniuga, almeno fino alla prima metà del ‘900 con le forme di un “capitalismo societario” (Magatti 2009) che vede nelle strutture della produzione non solo strumenti a servizio dell’utilità, ma anche un banco di prova per l’innovazione e per la celebrazione personale dell’imprenditorialità, attraverso la ricerca di un decoro civile delle forme e degli oggetti che rasenta talvolta la bellezza. Una tensione che si allenta con l’avvento del distretto con il prevalere quantitativo e diffuso dei flussi delle utilità, solo in parte finalizzati a qualità ed innovazione produttiva, e si concretizza nella più recente ed irriflessa miseria delle forme e predazione, non solo immobiliare ma anche ambientale, del territorio. In questo quadro il ragionamento che si intende sviluppare cerca di ritessere le relazioni fra abitare, produrre e riprodurre luoghi, attingendo alla categoria interpretativa/progettuale dell’Ecomuseo (Maggi, 2002). Ciò assumendo tale categoria non tanto come strumento per la riattivazione di una memoria della cultura materiale di ciò che, per quanto importante per l’identità, è comunque stato; quanto, piuttosto come strumento progettuale e gestionale per la costituzione di una “piattaforma territoriale” (Bonomi 2021) adeguata a trasformare gli spazi di una economia individuale e de-territorializzata nei luoghi di un territorio “corale” di una economia per il “buon vivere” (Becattini 2009).

Introduzione

Fin dalle sue origini il territorio pratese, individuato come sub-bacino idrografico del Bisenzio, in analogia con molti altri territori, è stato oggetto di un denso processo insediativo che ha incluso a pieno titolo le categorie del produrre all’interno della più generale categoria dell’abitare. Abitare e (ri)produrre le condizioni per una comunità, tendenzialmente stabile, rappresentano dunque due aspetti difficilmente scindibili che nel loro insieme hanno prodotto un’“opera territoriale” (Clementi et al.  1996) di lunga durata, un “sistema vivente ad alta complessità” (Magnaghi 2020) giunti a noi fino alle soglie della modernità.  Solo con l’avvento della rivoluzione energetica e meccanica -e del capitalismo sua forma economica omologa- questa unione co-evolutiva si spezza e territorio, lavoro, ambiente (natura) si trovano coinvolti come fattori con ragioni e finalità opposte in un generale processo di “distacco” fra insediamento e “milieu” circostante.

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Un progressivo disembedding, nei termini polanyiani, tra economia, società ed ambiente, basato su di un modello di pressoché totale mobilizzazione di natura, lavoro umano e capitale (Polanyi 1974), che si è progressivamente sviluppato secondo una specializzazione e divisione globale del lavoro. Un processo che, ha in definitiva interessato anche alcune economie distrettuali “territorializzate” molto specializzate come quella pratese,  e tuttavia inserite in quella dinamica di flussi  di lunga portata di beni e capitali -ulteriormente accentuata dai più recenti fattori finanziari facenti leva sulla rendita immobiliare (Romagnoli 2020)- che hanno finito con l’indebolire gli stessi fattori (ri)generativi dei sistemi produttivi locali.

Seppure posti in un punto della curva dell’arco di sviluppo appena descritto, le cui coordinate non possono esserci pienamente note, abbiamo però importanti segni che iniziano a porsi le condizioni, così come l’ineludibile necessità, di ripensare, recuperare e rigenerare la composita dotazione territoriale costituita dal patrimonio materiale e immateriale del produrre,  come una vera e propria “infrastruttura territoriale”, dotazione di “fondo”, in termini Roegeniani,  la cui dimensione patrimoniale, in quanto tale, possa esplicarsi come fattore attivo per la (ri)produzione di condizioni dell’abitare che passano attraverso la cura dei luoghi .  Questo contributo intende esplorare -in forma del tutto iniziale e di scenario- proprio la possibilità ed utilità, insieme con i possibili e principali caratteri progettuali, del recupero del sistema e delle opere per la produzione, come opportunità e strumenti per innescare processi di sviluppo locale in riferimento al caso di studio di Prato. Processi dove la “territorialità” stessa divenga elemento distintivo, valore aggiunto per “rivelare” (MacKaye 1928) potenzialità endogene, forme di innovazione produttiva e nuove economie di carattere “patrimoniale”. Prodotti e processi la cui competitività ed innovazione sta proprio nell’essere esito della messa in valore del patrimonio territoriale e delle risorse locali in forme uniche e di elevata complessità.

Prato appare appunto un territorio esemplare per svolgere questo “esperimento” rivelativo e progettuale, a partire dalle dotazioni produttive legate in particolare alle acque e alle forme ed opere di regolazione delle relazioni tra questo elemento ed attività umane. Una relazione che si dipana nello spazio –dall’alta valle verso la piana- e nel tempo – dall’età del bronzo al primo novecento- che deposita i segni di un’operosità molecolare, di un “genio economico” che si coniuga, almeno fino alla prima metà del ‘900 con le forme di un “capitalismo societario” (Magatti 2009) che vede nelle strutture della produzione non solo strumenti a servizio dell’utilità, ma anche un banco di prova per l’innovazione e  per la celebrazione personale e sociale dell’imprenditorialità, attraverso la  ricerca di un decoro civile delle forme e degli oggetti che rasenta talvolta la bellezza. Una tensione che si allenta con l’avvento del distretto con il prevalere quantitativo e diffuso dei flussi delle utilità, solo in parte finalizzati a

il patrimonio della produzione come infrastruttura territoriale • davide fanfani 99

Struttura insediativa della colonizzazione etrusco-romana in area pratese (Fonte: Poli D. 2002, Studio di quadro conoscitivo PTCP di Prato).

qualità ed innovazione produttiva, e si concretizza nella più recente ed irriflessa miseria delle forme e della predazione, non solo immobiliare ma anche ambientale, del territorio.  In questo quadro il ragionamento che si intende sviluppare cerca di ritessere le relazioni fra abitare, produrre e riprodurre luoghi, attingendo alla categoria interpretativa/ progettuale dell’Ecomuseo (Maggi, 2002).  Ciò assumendo tale categoria non tanto come strumento per la riattivazione di una memoria della cultura materiale di ciò che, per quanto importante per l’identità, è comunque stato; quanto, piuttosto come strumento progettuale e gestionale per la costituzione di una “piattaforma territoriale” (Bonomi 2021) adeguata a trasformare gli spazi di una economia individuale e de-territorializzata nei luoghi di un territorio “corale” di una economia per il “buon vivere” (Becattini 2009).

Un territorio storicamente “al lavoro”

La strutturazione di lunga durata e le forme territoriali della co-evoluzione

Fin dalle origini l’insediamento umano nell’area di quella che denominiamo area pratese, si costituisce come una progressiva opera di modificazione, “reificazione” direbbe Raffestin (Raffestin 1984), dell’ambiente originario e costruzione di una “seconda natura” a servizio di un “progetto economico” in senso etimologico pieno che oggi definiremmo di carattere sovraregionale.

In un lungo e complesso divenire, agli originari insediamenti dell’età de bronzo “di promontorio” e “controcrinale” (Caniggia e Maffei 1979) delle genti liguri, posti sulle pendici settentrionali che circondavano un’area di piana per lo più palustre, si sostituisce la successiva colonizzazione etrusca che avvia una più intensa e raffinata attività di colonizzazione anche della pianura. Dal VI secolo a.C. in poi, infatti, gli etruschi sviluppano un insediamento che all’incrocio tra le reti commerciali dall’Etruria meridionale verso l’area padana insieme a l’utilizzazione delle risorse minerarie locali (Monteferrato) avvia una raffinata opera di organizzazione idraulica e viaria del territorio finalizzata sia alle esigenze di trasporto e, diremmo oggi, logistiche, che di adeguato sostentamento derivante dall’agricoltura. Un’opera che, attraverso le recenti e straordinarie scoperte della città etrusca di Camars (presso Gonfienti) ha rivelato il suo ruolo ordinatore e generativo del territorio, rivoluzionando anche la acquisita cronologia della genesi insediativa del sub-bacino dell’Arno ed Ombrone pistoiese.

L’impronta insediativa “genetica” etrusca così come il correlato carattere economico

trans-scalare dell’insediamento si confermano e si espandono nell’età romana dove, in particolare, la colonizzazione della piana e della Val di Bisenzio sviluppano la antropizzazione del territorio e le forme durevoli delle sua struttura insediativa che saranno di

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 100

fatto la base per le successive stratificazioni ed accrescimento della “massa territoriale” sia nel medioevo che nella lunga fase mediceo-lorenese, dal XV al XIX secolo.  È in questo ampio periodo che si completa in particolare l’opera territoriale di costruzione idraulica della complessa “gronda” Val di Bisenzio-piana-Ombrone pistoiese, con la creazione di un importante rete di regimazione/bonifica che costituisce il supporto indispensabile per fondamentali attività produttive. Molini, ramiere, poi i primi opifici tessili in Val di Bisenzio, molini e gualchiere nella piana pratese si sviluppano proprio grazie a questo ben congegnato sistema che distribuisce la forza e la risorsa idraulica in maniera capillare sul territorio e che formerà la base non solo materiale ma anche cognitiva per lo sviluppo tessile del XX secolo. Un processo territoriale e produttivo “ordinatore” che genera anche innovazione tecnologica e produttiva che si coniuga con la qualità delle stesse opere e del paesaggio e che trova nella Fattoria Laurenziana di Cascine di Tavola e nel suo valore produttivo ed “ordinatore”, probabilmente il punto di maggior rilevanza e, in una certa misura, il suo compimento (Centauro, Fanfani 2022).

il patrimonio della produzione come infrastruttura territoriale • davide fanfani 101

Idrografia e sistema delle gore nel territorio pratese sec.

XIV. (Fonte: Guarducci, Melani 1993)

Tra produrre ed abitare: forme ibride dello spazio urbano nella città (foto di G.A. Centauro, 2002)

La strutturazione tipica “molecolare” nell’ambiente costruito: le forme ibride ed uniche   dello spazio urbano

È questo genere di co-evoluzione che produce – almeno fino alla seconda metà del XX secolo- una densa ma porosa struttura “molecolare” dell’insediamento, incentrata sulla presenza di alcuni nodi produttivi come “Fabbriche pioniere” (Magnaghi et. al 2004, Guanci 2009). Manufatti espressione di un capitalismo fortemente radicato nel territorio, che si celebra talvolta anche attraverso i valori estetici dei manufatti. Forma materiale di una cultura contestuale e comunitaria, non solo pragmatica che la rende “dotazione patrimoniale”.

Una struttura produttiva, fortemente influenzata dal regime mezzadrile della organizzazione economica agricola, dove dominio urbano e rurale interagiscono secondo forme e modi che permettono ancora un “metabolismo” di uso e rigenerazione delle risorse ma

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che costituiranno il trampolino di lancio per la “rivoluzione quantitativa” del distretto tessile nel secondo dopoguerra.

Proprio in questa seconda fase, seppure con la consistente coesistenza di modi produttivi artigianali, finalizzati alla cosiddetta “specializzazione flessibile” (Piore & Sabel 1984), la “fabbrica urbana” si sviluppa secondo una dinamica duale volta da un lato al “riuso” dell’infrastruttura territoriale e dall’altro di ulteriore espansione spaziale resa necessaria dalla crescita della domanda produttiva. L’ambiente costruito si sviluppa secondo un progressivo processo di erosione delle condizioni della co-evoluzione indicate in precedenza e di cancellazione delle sue tracce più rilevanti determinato dalle accresciute esigenze produttive.

Ciò in particolare in riferimento al complesso sistema idraulico gorile trasformato progressivamente, per lo più, in fognatura.

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Mostra/evento presso l’ex Lanificio Lucchesi. (Fonte: foto M. Chiocchetti, http://www. pratoalfuturo.it/ temi/patrimonioda-rigenerare/#jpcarousel-816)

La Biblioteca comunale Lazzerini nel recupero dell’ex fabbrica Campolmi. (Fonte: http://www. pratoalfuturo.it/ temi/patrimonioda-rigenerare/#jpcarousel-1043)

Una crescita priva di un “disegno” territoriale ed insediativo che fa leva su di una razionalità minimale basata sul riuso del preesistente. Tuttavia ciò si concretizza anche con forme spaziali originali in riferimento alle tipologie distributive e con la ricerca di innovazione nelle tecniche costruttive degli opifici (Guanci 2008). Una ricerca di innovazione che ovviamente si manifesta, prevalentemente in forma incrementale, anche dal punto di vista delle tecniche produttive, del processo e del prodotto. La convergenza, infine, di forme spaziali della durata e di crescita urbana senza disegno si concretizza anche nello sviluppo di spazialità ibride uniche, soprattutto nella relazione spazio pubblico-spazio privato (Secchi 1996).

L’erosione della dotazione patrimoniale dell’insediamento

Come abbiamo visto la più recente evoluzione del sistema distrettuale manifatturiero, basata come altrove sull’amplificazione energetica e, conseguentemente, dei mercati  nei cosiddetti “gloriosi trenta” (1950-1980),  ha nel suo insieme prodotto un disconnessione territoriale significativa tra sistema economico e territorio, ove quest’ultimo è messo al lavoro solo come fattore di produzione con i vari tipi di capitale che può fornire (materiale, ambientale, sociale) ma rispetto al quale il sistema economico genera solo un parziale ritorno. In particolare le stesse forme spaziali, gli esiti del già ricordato “capitalismo societario” e di una condivisa cultura contestuale costruitasi nei secoli – così come il sistema ambientale stesso- vengono sottoposti alle regole costruttive/urbane minimali della utilità, che non tengono conto delle negative esternalità ambientali e della multidimensionalità del benessere che i soli indici di fatturato o reddito non sono in grado di rispecchiare. In termini più concreti il territorio e l’ambiente di Prato vengono sottoposti al quasi esclusivo criterio del produrre merci e alla crescente pressione di “consumo” anche di beni pubblici e “comuni”. Ciò, in termini di effetti pratici, pone in secondo piano la qualità dell’abitare non solo in termini ecologici ma anche culturali, civici e percettivi. Lo stesso modo di affrontare lo sviluppo e rigenerazione della fabbrica urbana e territoriale -la città fabbrica-  anche quando ispirato a profondi studi e migliori principi come nel caso del Piano Secchi a metà degli anni ’90, si scontra con il mandato utilitario e, in particolare, con le leggi della rendita immobiliare che -cosa nota fin dai “classici” dell’economia- pregiudicano la stessa evoluzione ed innovazione del sistema produttivo e, nel caso di Prato, distretto manifatturiero (Romagnoli 2020).

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Riattivare l’eredità del moderno per un nuovo processi di patrimonalizzazione e sviluppo locale

Una domanda di svolta qualitativa per le nostre economie, a valle del processo descritto, appare non solo opportuna, ma forse l’unica via di uscita rispetto a modelli di economia settoriali e quantitativi non più percorribili.  Di questa nuova e necessaria rotta fa parte l’avvio di un processo di recupero e rigenerazione delle forme spaziali del “moderno” -siano esse urbane o architettoniche- . Un processo che anche a Prato si è concretizzato già in alcune significative iniziative. Queste vanno dal recupero di alcune importanti strutture “pioniere” per funzioni pubbliche o aperte al pubblico ad eventi di “artializzazione” di questi spazi per esaltarne il valore simbolico, relazionale e culturale.

Inoltre, sovente, dietro a queste iniziative stanno anche soggetti promotori di studi e ricerche che consolidano non solo la conoscenza sul repertorio ma anche le differenti caratteristiche e stato d’uso dei beni diffondendo una rilevante cultura dell’archeologia industriale.

Tuttavia l’azione “puntuale” e “memoriale”, così come il gesto estetico “effimero” per quanto necessari alla crescita di una coscienza “patrimoniale” condivisa più ampia, non può essere sufficiente per una azione di carattere sistemico. Essa deve costituire il presupposto per una progettualità alla scala territoriale ed urbana, per avviare una rigenerazione e risignificazione del patrimonio costruito   del moderno non solo come veicolo ostensivo e narrativo della biografia di un territorio ma anche per un nuovo processo di messa in valore del patrimonio che leghi insieme, fruizione, produzione e consumo come cifra di una territorialità attiva (Dematteis 2001) e di nuovi percorsi di sviluppo durevole.

Riconnettere valori territoriali e sviluppo locale: l’Ecomuseo del Tessile come strumento sistemico per la messa in valore del Moderno

razione di un sistema economico/produttivo locale incontra la sfida della sua qualificazione

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È ormai evidente che, nelle economie manufatturiere mature, la ricomposizione e rigene-

come fattore di sviluppo integrale del territorio, in una prospettiva che definisce lo sviluppo come basato sulla biodiversità, sia essa ecosistemica, sociale e produttiva (Jacobs, 1985, 2001). È in questo passaggio che si segna la transizione, come ben evidenziato da Becattini, dalla forma del Distretto Industriale allo sviluppo locale concepito come esito di un processo ed attivazione “corale” del territorio e delle sue eccellenze concepito come bene comune (Becattini, 2000, 2015). In questo senso assumiamo la metafora di Bonomi (Bonomi 2021) di una produzione che si proietta “oltre l’impresa” sul territorio, inteso questo come dotazione e come “piattaforma” integrata ove le forme di un nuovo “capitalismo molecolare” si intrecciano, e si alimentano, con il recupero di nuove economie – turistiche, agro-alimentari, culturali – legate a dotazioni patrimoniali generatesi nella lunga durata.

In questo senso appare interessante esplorare la possibilità di attivare, con uno sforzo innovativo anche rispetto ad altri casi nazionali ed esteri, lo strumento dell’Ecomuseo come strumento idoneo a:

• definire una strategia ed una visione d’insieme “connettiva” dei diversi elementi patrimoniali e delle relazioni spaziali ed ambientali con il territorio;

• valorizzare i nodi e la rete di questa struttura come fattori induttivi non solo del senso materiale e funzionale di questi elementi ma anche come fattori generativi di consapevolezza culturale e del territorio;

• agganciare alla dimensione materiale/spaziale e a quella culturale/identitaria iniziative e processi di sviluppo locale, per economie di prossimità ed endogene.

I caratteri principali dello strumento Ecomuseo come strumento di Policy

L’Ecomuseo come strumento integratore di politiche nasce all’inizio degli anni ‘70 in Francia per la salvaguardia attiva dei patrimoni culturali legati in particolare alla cultura materiale e contestuale dei luoghi (Maggi 2002). La sua possibilità applicativa nel contesto pratese si pone in quanto dispositivo adatto a valorizzare, attraverso l’esperienza fruitiva, patrimoni materiali ed immateriali esito -ma anche luogo attuale- di attività e processi che hanno segnato lo spazio fisico, cultura e senso di appartenenza degli abitanti di un territorio. Si tratta dunque di uno strumento applicato ad una cultura ancora viva, seppure in trasformazione ed ai suoi documenti, che permette una “transizione” verso il nuovo in forma evolutiva e non di rottura, che genera anche economie “presenziali” non solo turistiche ma anche di progetto e retro-innovazione, sostenibili, che si sviluppa ed articola non nel chiuso di un ambiente ma nel territorio e nelle pratiche ancora attive o riattivabili della ordinarietà.

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Dal punto di vista operativo l’Ecomuseo è peraltro uno strumento supportato anche dalla normativa regionale Toscana (art.16 L.21/2010) mentre adotta un approccio di carattere interscalare ed interdisciplinare, che sviluppa un disegno unitario e coerente. Un approccio che va dunque dalla vision strategica al progetto urbano e alla rigenerazione ecologica basato, su una governance pattizia tra i vari attori pubblici e privati e su una struttura partenariale pubblico/privato.

Una prima mappa di articolazione dello scenario progettuale per l’Ecomuseo del Tessile  La applicazione dell’Ecomuseo nel territorio pratese si coniuga naturalmente nella figura dell’Ecomuseo del Tessile. Esso, in riferimento all’intero ambito provinciale, è finalizzato ad integrare le forme e strutture del “moderno” anche con iniziative di recupero ed innovazione che evolvono la tradizione e che presentano non solo un valore testimoniale ma anche e soprattutto forme attive di re-interpretazione della dotazione produttiva. Ciò primariamente tramite il recupero delle connessioni longitudinali collina/piana e trasversali che si espandono sul territorio come fattore di risignificazione e “presenzialità” sistemica del territorio.  Questo tipo di approccio permette di individuare alcuni “transetti” di questo ideale percorso “di bacino” che possiamo pensare articolato secondo i seguenti “blocchi” geografico/tematici:

La Val di Bisenzio: tra economie ambientali, turismo e i “caposaldi” dell’industria tessile

In questa prima sezione gli itinerari delle antiche produzioni della montagna e dei suoi opifici – legno, castanicoltura, cannicciaie e molini per la farina di castagne- si intreccia con la stratificazione dei diversi manufatti industriali che nel tempo si sono succeduti nel fondovalle – molini, ramiere, opifici tessili- e  con le opere idrauliche necessarie per tali attività.  I “presìdi” delle fabbriche pioniere in Val di Bisenzio ed il fiume rappresentano la testimonianza di una tradizione ancora viva e vitale che si esprime anche attraverso la messa in valore della “territorialità” di quelle produzioni non solo come merce ma come “capitale sociale”. Qui imprenditori “restanti” ed innovativi, legano la qualità del produrre a quella dei valori del territorio creando non solo posti di lavoro ma anche una cultura condivisa del produrre. Una progettualità che si concretizza per esempio nel progetto della “Cittadella del Tessile” a Carmignanello, da visitare e fruire come caposaldo e “porta” verso l’alta valle, che lega, non solo fisicamente, industria, natura e cultura. Il percorso ciclabile di fondovalle da Vernio fino a Prato e il sistema di una ricca e curata sentieristica -anche “a tema”- innervano questo progetto sul territorio e ne permettono il dispiegarsi attraverso un rafforzato sistema dell’ospitalità sia ambientale che culturale.

il patrimonio della produzione come infrastruttura territoriale • davide fanfani 107

Museo del Tessile nella sede del Gruppo

Tessile Colle (foto A. Regoli)

Nuovo stabilimento

Azienda Beste (foto A. Regoli)

(in alto e a destra)

Ipotesi di master plan per il recupero del gorone da S.Lucia a Piazza del mercato Nuovo: veduta generale e dettaglio (fonte. Frassini, Giallorenzo, Romeo, Rossi, 2015, CdL Magistrale in PianificazioneUniv. di Firenze, laboratorio di Progettazione del Territorio, docenti M. Agnoletti, D. Fanfani, A. Falorni e D'Ambrosi 2023, Tesi di Laurea Magistrale in Pianificazione del Territorio)

(in basso a sinistra) Il gorone nella zona di S.Lucia.

Dal Cavalciotto al centro antico per una nuova struttura ambientale e fruitiva del paesaggio urbano

Dopo la “stretta” della Madonna della Tosse, la val di Bisenzio si apre alla piana pratese e, a S.Lucia, alla presa del Cavalciotto, dal Bisenzio si diparte il “Gorone” che ha storicamente strutturato la parte “maestra” della minuta opera di regimazione idraulica a fini produttivi costituita dalla gore di Prato. Questa principale opera idraulica è fortuitamente sfuggita, almeno in parte, alla cancellazione subita da altri tratti della rete gorile e, attraverso interventi di “daylighitng” (scoperchiamento) e  “liberazione”  di ambiti spondali e connessioni trasversali per migliorarne fruizione e qualità ambientali, appare in grado di costituire una fondamentale struttura ambientale e di accesso da Nord al centro urbano, integrativa della rete meccanizzata e ordinatrice dello stesso  tessuto urbano e degli spazi pubblici.

In questo senso il percorso ambientale del Cavalciotto, anche attraverso la pista ciclabile che lo affianca in gran parte, riesce a rilegare la memoria dei resti di molini ed opifici appena leggibili con quelli ancora ben visibili e recuperabili costituiti in particolare dallo stesso manufatto del Cavalciotto e dalla Gualchiera di Coiano. Una traccia, dunque, memoriale, ambientale, fruitiva ed urbana che riesce così anche a dare una forza e senso ulteriore, nel suo tratto terminale, al recente progetto promosso dalla Amministrazione Comunale di recupero dell’area del Fabbricone ed alla previsione di un grande parco urbano nella sua prossimità1. Ma può anche costituire la sollecitazione, nell’ipotesi piena del su daylighting, per un ripensamento progettuale del fin troppo funzionalistico, e

1 Vedi, ultra, la relazione di Valerio Barberis

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cionondimeno confuso, assetto delle enormi “quadre” pavimentate del mercato nuovo, infelice “porta” nord della città.

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Il centro antico ed urbano, fulcro dell’Ecomuseo del tessile

Pur celando la trama delle acque che ha costituito il motore primo dell’arte tessile , il centro antico rappresenta il punto focale, con il Museo del Tessuto, e il recupero dell’ex tintoria Campolmi, dell’operazione di risignificazione territoriale delle tracce materiali della storia tessile pratese. Un punto focale che, grazie alla creazione dell’asse della cultura da via Cambioni verso l’area conventuale di S. Niccolò e S, Caterina, superando il recuperato nodo di piazza degli Spedalinghi, va ad incrociare la nuova porta ovest della città di Porta Leone e Bastione di S. Giusto. Qui il recupero di questa interfaccia urbana, liberata da funzioni inappropriate, può restituire  non solo adeguata dignità al significato memoriale del cimitero della Misericordia, ma costituisce anche la piena realizzazione dello snodo ciclabile e pedonale, per la fruizione lenta verso sud, nel progressivo aprirsi di spazi agricoli periurbani e rurali.   Naturalmente la fruizione può estendersi alle molte realtà di archeologia industriale che popolano il tessuto urbano più centrale, ciò in particolare in direzione del Macrolotto 0 dove i più recenti interventi di valorizzazione culturale -come il media center- insieme alle peculiarità spaziali e tipologiche del tessuto ed opifici produttivi rappresentano anch’essi significative dotazioni patrimoniali.

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Schema generale per la creazione di un’area parco antistante tra il Fabbricone e la ex Fabbrica Calamai su vale Galilei (fonte: D’Ambrosi, 2023. Tesi di Laurea Magistrale In Pianificazione e Progettazione della Città e del territorio, Relatore D.Fanfani, AA. 2022/23) I sedimi storici delle gore nel centro antico di Prato. (Fonte: A. D’Ambrosi, 2023)
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Museo del Tessuto. Particolare della Sala dei tessuti antichi, Mostra Due secoli di fashion e textile design, (foto Mario Ciampi)

Il sistema degli interventi previsti per la rigenerazione dell’area

Marcolotto ZeroVia Galcianese.

(Fonte: Comune di Prato)

Oltre il centro urbano, verso Cascine di Tavola

Oltre il centro urbano, nel settore ovest, si apre, dicevamo, un importante tracciato fruitivo che può restituire comunque, malgrado l’erosione pressoché totale di manufatti come i mulini e gualchiere ed il parziale intubamento del reticolo delle gore, alcuni punti ed ambiti salienti di rilettura della evoluzione manifatturiera e dei suoi legami con l’ambiente naturale e costruito. In particolare è possibile individuare un “transetto” che dalla menzionata Porta Leone o Bastione di S. Giusto, conduce, attraverso la mobilità ciclabile, verso l’apertura del grande “golfo agricolo” di S. Giusto e Cafaggio dove è possibile ancora individuare un edifico sede di un antico molino, adeguato a illustrare la stretta e storica interazione fra attività mezzadrile e attività tessili e, più in generale, manifatturiere.

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Rigenerazione del Macrolotto Zero: Vista del progetto per la Media Library. (Fonte: Comune di Prato 2019)

Più a sud, infine oltre la via Cava, il percorso si compie nell’attraversamento del Macrolotto 1 rivisitato come ambito del tessile moda, caratterizzato dalla presenza pervasiva ed unica della nuova imprenditoria cinese, ma anche ringenerato come possibile APEA (Area Produttiva Ecologicamente Attrezzata). Ciò non solo tramite l’uso sostenibile e circolare delle risorse e  con il ridisegno di via de’ Fossi e via Toscana ma anche  grazie alla riapertura della gora su via del Molinuzzo. Integrale a questo disegno è la creazione -in continuità con l’area di S.Giusto-Cafaggio- del collegamento ciclabile con il Parco di Cascine di Tavola e, di conseguenza, con la più vasta area del compendio mediceo che arriva poi fino a Bonistallo e Poggio a Caiano.

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Rigenerazione del macrolotto 0: Vista del progetto per la Media Library (Fonte: Comune di Prato 2019)

Rigenerazione della centralità agro-ambientale tra Cafaggio e S.Giusto. (Fonte: Agostini, Bott, D’Ambrosi 2020, Laboratorio di Pianificazione Bioregionale, doc. prof. D.Fanfani)

Rigenerazione della centralità agro-ambientale tra Cafaggio e S. Giusto: dettaglio dell’area dell’ex Molino. (Font:. Neri, Qin, Ruggiero, Tommasino, 2020, Laboratorio di Progettazione del Territori , Docenti: Proff. D.Fanfani, G. Chirici, M. Bellandi. A.A. 2019/2020)

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Rigenerazione della centralità agro-ambientale tra Cafaggio e S.Giusto: dettaglio dell’area dell’ex Molino. (Fonte. Neri, Qin, Ruggiero, Tommasino, 2020, Laboratorio di Progettazione del Territori , Docenti: Proff. D.Fanfani, G. Chirici, M. Bellandi. A.A. 2019/2020)

Breve nota conclusiva: la “messa a terra” di un’idea ed il ruolo delle politiche L’idea che è stata sinteticamente presentata in questo contributo rappresenta ovviamente un primo abbozzo di un disegno generale, che data la complessità del territorio e delle risorse che interessa, necessita di essere ampiamente specificato, arricchito ed approfondito attraverso una adeguata indagine delle risorse ed idee in campo mobilitabili. Ciò, tuttavia, non rende meno rilevante l’obiettivo principale del progetto che è quello di riconnettere valori cognitivi e materiali del dominio della produzione alla loro “territorialità”, rafforzando principi e meccanismi dello sviluppo endogeno. Ciò appare tanto più rilevante in un momento in cui la necessità di recuperare forme e modelli di resilienza insediativa a fronte delle instabilità -non solo climatiche- globali passa con evidenza attraverso forme di sviluppo locale ispirate a principi di co-operazione, circolarità e co-evoluzione tra dimensione antropica ed ecosistemica. Un principio che “mette al lavoro” il territorio non come bruto “supporto” o “stock” di risorse ma, in riferimento al principio bioeconomico- roegeniano, come “fondo”

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Studio per la riqualificazione idraulica, paesaggistica e fruitiva del sistema

Macrolotto1-

Cascine di tavolaBonistallo. (Fonte: Agostini, Botti, D’Ambrosi, Scuola di Architettura

CdL Magistrale in Pianificazione e progettazione della città e del territorio

Laboratorio di progettazione del territorio. Docenti: Proff. D. Fanfani, G. Chirici, M. Bellandi . A.A. 2019/2020)

(Georgescu Roegen 1982), cioè come insieme di dotazioni materiali, ecosistemiche ed intelligenza collettiva che può riprodurre ed alimentare il processo economico/produttivo solo attraverso l’interazione complessa e rigenerativa tra dominio antropico ed ecologico.

Un progetto strategico dunque, come già detto, non “ostensivo”, ma discorsivo ed esplicativo di un processo vivente di sviluppo locale che però richiede la convergenza e cooperazione non solo tra attori pubblici e privati ma anche tra i diversi ambiti delle

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politiche pubbliche. Forse la maggior difficoltà risiede infatti in questo caso non tanto nella carenza di risorse per la costruzione di questo progetto, quanto nella messa a punto di meccanismi di coordinamento, collaborazione e sinergia tra attori, risorse, programmi, piani e progetti già in campo che attraverso una paziente opera di coordinamento possono tessere la trama territoriale del progetto, del suo montaggio e messa in opera. Si tratta certamente di una sfida non facile da raccogliere e superare ma, d’altra parte, i dilemmi che la nostra epoca ci pone, non sembrano forieri in generale di compiti semplici, e non solo per chi deve assolvere uffici che implicano il governo della cosa pubblica e dei beni comuni.

il patrimonio della produzione come infrastruttura territoriale • davide fanfani 117

Mnemòsine (Fonte: Museo Nazionale Archeologico di Tarragona, Spagna. Mosaico romano, II secolo a.C.)

patrimonio e patrimonializzazione dei luoghi del lavoro per la rigenerazione del territorio pratese

Abstract

Il saggio che segue affronta il tema della conservazione del patrimonio urbano e territoriale inteso quale frutto dalla relazione fra natura e cultura e dunque fra elementi materiali e immateriali. Il testo prende le mosse dall’illustrazione del mito di Mnemosine, raffigurazione divina della memoria, e del suo contraltare ad essa intimamente connesso di Lete, la dea della dimenticanza sua sorella gemella. Attraverso la dialettica fra le due gemelle, memoria e oblio, si potrebbero narrare le molte fasi della civilizzazione umana, in cui prevale ora l’una ora l’altro. Il saggio descrive la nascita del patrimonio come prodotto della rottura storica particolarmente violenta e radicale avvenuta nella fase della modernizzazione, che ha prodotti uno sviluppo cieco ai caratteri locali, obliando volutamente la relazione col passato. Proprio questa percezione ha fatto nascere nella società il desiderio di dare nuovi significati al passato. Si sofferma poi sul rapporto fra gli elementi patrimoniali e l’acquisizione sociale della rilevanza che essi assumono per il futuro della collettività, approfondendo il concetto di patrimonializzazione e mettendo in luce azioni e strumenti che sostengono questo rilevante passaggio. Durante i vari passaggi argomentativi, il territorio pratese è usato al tempo stesso come esempio e come metafora.

Premessa

La forza e la velocità delle loro trasformazioni hanno progressivamente cancellato i connotati identitari di luoghi e individui. La pervasività dell’interazione coinvolge tutti in prima persona e mette in crisi i termini conosciuti di distanza, e quindi di relazione, fra soggetti, eventi e luoghi. È oggi più facile comunicare con chi sta dall’altra parte del mondo che con chi abita sotto casa. Sottrarsi all’interazione non sembra possibile: anche in luoghi dimenticati della Terra si trovano tracce. esogene e incoerenti, del mondo industrializzato.

Da un lato la globalizzazione incentiva la distruzione delle diversità ereditate dalla storia, sfruttando le potenzialità economiche del patrimonio territoriale in vista della nuova riorganizzazione mondiale del capitale. Dall’altro la dimensione locale vede nel luogo una “posta in gioco” su cui ricostruire socialità e solidarietà.

È innegabile che nella contemporaneità qualcosa si sia rotto in quel meccanismo che teneva assieme società e contesti fisici, che generava un insieme coeso e dotato di senso per chi

Baldassare Peruzzi (1481-1536), Apollo danza con le muse. (Fonte: Museo di Palazzo Pitti, Firenze)

lo viveva e per chi lo osservava. Questa rottura trasforma i territori in qualcosa di irriconoscibile a prima vista, tende a produrre contesti uguali ovunque nel mondo e nasconde, o peggio ancora cancella con violenza feroce, i tratti della loro specificità. La rottura fra la società (intesa a sua volta come insieme coeso e definito) e territorio (che le fornisce il supporto materiale e simbolico) sancisce la definitiva perdita di appartenenza al luogo, che tradizionalmente aveva un ruolo centrale nel percorso di formazione dell’identità –tanto degli individui, quanto dei gruppi sociali. Come vedremo, proprio questa rottura ha giocato un ruolo decisivo nell’invenzione del patrimonio.

Memoria individuale, memoria collettiva

In questa deriva la memoria, individuale e collettiva, appare come un meccanismo di importanza fondativa nel riallacciare relazioni con i contesti di vita. Per apprezzare il connubio memoria-luogo può essere utile una discesa nel mito. Non “vi è esistenza sulla terra che sia priva del contatto sincrono con ‘il divino che ci circonda’ – termini in cui possiamo indicare, nel senso della mitologia, il mondo di natura che abbraccia l’uomo –o che sia priva del contatto genealogico nell’interno del genere umano. […] Il contatto sincrono, come pure quello genealogico, comportano una fusione (Verwobenheit) molteplice. Tale ‘fusione’ è il presupposto della mitologia” (Kerény 1979, 296). Ancora oggi, come i “meditabondi pellegrini” di Kéreny, possiamo avvertire il potere fusionale del mito, la sua forza nell’indicarci la rotta per un futuro capace di restituire l’anima al mondo che ci circonda.

Mnemosine, nella cultura greca, era la personificazione mitica e divinizzata della memoria. Figlia della coppia divina primigenia, formata da Urano e Gea (il cielo stellato e la Terra), formò assieme agli altri Titani e Titanidi i principali e più antichi elementi cosmici del mito greco. Mnemosine era considerata una delle divinità più potenti della costellazione cosmogonica. Secondo il mito fu la prima a nominare le cose create e a scoprire il potere del ricordo e della memoria. La dea aveva anche il potere di far ricordare il passato a chi lo avesse dimenticato.

Nella rappresentazione mitologica degli antichi greci, la memoria è dunque una virtù talmente importante da meritare di entrare a far parte dei miti fondativi cosmogonici, celebrando in un modo così potente la funzione fondamentale del ricordare per difendere, tutelare e trattenere viva la conoscenza collettiva e individuale. Un aspetto importante del mito della memoria è quello della sua dialettica con l’oblio: Mnemosine aveva appunto una sorella gemella, Lete, dea dell’oblio. Il mito narra che coloro che si recavano a consultare l’oracolo Trofonio a Livadia, nell’antica regione della Beozia, prima di

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raggiungere Mnemosine dovevamo bere l’acqua del fiume Lete (il fiume della dimenticanza) perché dovevano lasciare ogni pensiero estraneo per poter conservare il ricordo di quello che avrebbero visto e udito in quel luogo. Questa dialettica è oggi più che mai fondamentale: Lete è importante quanto Mnemosine perché non tutto si può conservare e trasferire, anzi il ricordare è un processo di selezione volto a individuare ciò che è necessario tramandare al futuro.

Il mito legato al ricordo è molto ricco e non si limita alla tutela selettiva, la memoria è anche innovazione. Secondo il mito, dopo aver giaciuto nove giorni con Zeus Mnemosine partorì le nove muse: Clio (musa della storia), Euterpe (della lirica), Talia (della commedia), Melpomene (della tragedia), Tersicore (della danza), Erato (della mimica), Polimnia (degli inni), Urania (dell’astronomia), Calliope (della poesia epica). Le nove muse hanno acquistato nel tempo uno spazio culturale molto più ampio di quello della madre Mnemosine. Esse presiedono alle diverse forme di arte e dilatano le prerogative della memoria, espandendo il sapere per declinare l’intelligenza e l’immaginazione in ogni sua forma. Attraverso le muse il portato della memoria si proietta così nel futuro, la capacità di ricordare e far ricordare genera l’arte. Le muse sono il simbolo e la rappresentazione della memoria culturale e attiva, rivolta al futuro. Tramite l’integrazione delle varie forme della conoscenza, esse declinano intelligenza, immaginazione e arte in ogni sua forma in un tempo senza fratture, che crea collante sociale.

Il mito, dunque, ci consegna la rilevanza della funzione della memoria collettiva, una memoria che si rinnova nel tempo, lasciando all’oblio ciò che si ritiene non abbia valore per il

patrimonio e patrimonializzazione dei luoghi del lavoro per la rigenarazione del territorio pratese • daniela poli 121

Pianta della città di Prato, Odoardo Warren, 1749. (Fonte: Comune di Prato, segnidelterritorio. comune.prato.it.)

In alto, a destra nella pianta, proprio sotto il fiume Bisenzio, si nota il grande slargo, morbido e sinuoso, della Piazza Mercatale.

presente. Anche il ricordo comune, come quello familiare, amicale, sociale, quando istituisce ritualità diventa elemento di coesione, alimentando il senso di appartenente e generando ancora nuova memoria collettiva. In questo quadro appaiono fondamentali funzioni come quella del rammemorare, attraverso rituali, feste, sagre, che si ripetono con continuità. Per alcuni la memoria collettiva è molto potente, ancor più di quella individuale:

«Halbwachs s’est efforcé de démontrer que la mémoire collective, loin de se composer d’un ensemble de mémoires individuelles, est bien plutôt au fondement de la mémoire et de la conscience personnelles. Cette analyse, comme Ricœur le souligne, revient à réduire la conscience personnelle à une source collective, aux cadres sociaux dont elle relèverait : notre milieu social agirait en nous, que nous soyons ou non conscients de son influence, et en ce sens, nos pensées et souvenirs les plus intimes recèlent un réseau de significations venant de la collectivité hors de nous» (Barash 2006, 187).

La memoria collettiva, ancor più di quella individuale, si nutre del contesto locale, si appoggia alla fisicità delle sue forme. Non casualmente è consuetudine dire che “un evento ha avuto luogo”. La memoria collettiva è dunque legata a eventi vissuti o mitizzati che sedimentano ricordi più o meno reali da parte di una collettività vivente in cui è forte il sentimento del passato (Nora 1978).

La “memoria collettiva è fatta di scambi sociali, è labile, mobile perché si adatta soprattutto alla situazione della sua trasmissione. Il patrimonio è istituito per costituire un riferimento, è più stabile, funziona in un’altra temporalità. L’una e l’altro non sono antitetici, ma piuttosto si completano, si riscoprono vicendevolmente e talvolta si succedono addirittura” (Rautenberg 2003, p.19).

La dimensione fisica dei luoghi alimenta e sostiene la memoria collettiva, tanto che la possiamo interpretare come un racconto identitario fissato in strutture materiali e, per questo, facilmente identificabile e riconoscibile attraverso procedure di analisi patrimoniale del territorio.

Territorio, modernizzazione, post-modernità

Il territorio e le città sono trasformazioni umane, prodotti collettivi, frutto del lavoro, della cooperazione, della solidarietà e della co-evoluzione fra natura e cultura. A Prato questa sedimentazione è particolarmente significativa e profonda, legata a stretto filo con l’acqua. Molti segni del territorio pratese raccontano questo ininterrotto dialogo. La dialettica fra la conoide, collocata allo sbocco della valle, e il reticolo della centuriazione, che si distende nella pianura, mostra ad esempio un’organizzazione delicata ed efficace del territorio, capace di mettere in valore leggeri dislivelli e piccole portate d’acqua.

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Molti filamenti insediativi collocati sulle linee della centuriazione partono proprio dal bordo della conoide da dove riemergono le risorgive. Si pensi ad esempio al toponimo di via delle Fontanelle, che si attesta sugli insediamenti lineari della via Roma nella pianura. E che dire della piazza Mercatale che, con la sua forma arrotondata, seguiva un antico paleoalveo del Bisenzio? E delle gore, del Gorone, dei mulini, i tanti opifici andanti ad acqua, che hanno caratterizzato nel tempo il territorio operoso del lavoro? Risorse, morfologie, peculiarità sociali che, nel loro intrecciarsi, hanno definito un carattere locale anche grazie alla scelta localizzativa e alla delicatezza del posizionamento.

Comune di Prato, segnidelterritorio.comune.prato.it. In alto, a destra nella pianta, proprio sotto il fiume Bisenzio, si nota il grande slargo, morbido e sinuoso, della Piazza Mercatale.  Con la modernizzazione si recidono i rapporti con i luoghi, che diventano dei semplici suoli da edificare, senza più relazione profonda con le morfologie, i limiti ambientali, le specificità locali. Dalla metà del Novecento l’urbanizzazione della piana di Prato, in particolare nella valle del Bisenzio, è stata molto intensa, così come l’impulso all’industrializzazione legata al comparto del tessile in tutta l’area. L’area golenale della valle fluviale ha visto una progressiva occupazione. Nella valle storicamente i tanti opifici (mulini per i cereali, segherie, gualchiere, lanifici, ecc.) erano distribuiti e distanziati lungo il fiume, mentre gli edifici

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Daniela Poli, Studio per il PTC di Prato, rapporto fra conoide, centuriazione, risorgive e insediamenti.

L’Unité d’habitation di Firminy Le Vert, disegnata da Le Corbusier

residenziali lungo-strada erano collocati giudiziosamente al di fuori dall’area golenale, garantendo mobilità e deflusso minimo vitale al fiume.

Una fase certamente aggressiva dal punto di vista del rapporto col territorio, ma che lasciava ampio spazio alla memoria e alla narrazione collettiva, con una controcultura operaia, fatta di riti, stili di vita comuni, momenti di rammenorazione collettiva e di impegno comune. Già dagli anni Settanta del Novecento si profila un periodo diverso di cesura con la continuità storica e culturale.

Nel 1979

Jean-François Lyotard dava alle stampe un celebre libro da titolo La condizione postmoderna, con cui l’autore restituiva in poche pagine il senso di instabilità intellettuale e politica della seconda metà del secolo scorso. La cosiddetta condizione postmoderna è la rappresentazione della fase della perdita delle certezze. La società perde i propri punti di riferimento, vive in un costante “spaesamento”, senza radicamento nel proprio contesto di vita. La condizione postmoderna è associata al momento in cui la filosofia rinuncia alla possibilità di legittimazione del conoscere, inaugurando così col “pensiero debole” la forma più propria del sapere contemporaneo, in punto di passaggio che

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segna la crisi delle “grandi narrazioni” che hanno caratterizzato la fase della modernità. La postmodernità è anche rottura delle relazioni comunitarie, esaltazione dell’individualismo, della standardizzazione dei modelli urbani e dei modi di produzione. I soggetti smettono di abitare i luoghi (Heidegger 1976; Magnaghi 1998; Schultz 1992) per diventare dei semplici residenti, utilizzatori indifferenti degli spazi urbani, senza alcuna sapienza sul funzionamento complesso della fabbrica urbana e territoriale. Il processo tipico della condizione postmoderna è quello dell’anomia e della solitudine metropolitana. Siamo una società che ha perso la memoria, una società che nel tempo recente ha reciso i legami col passato: “Che genere di vita (se di vita si può parlare), di mondo, di sé, rimane in una persona che ha perduto la maggior parte della memoria e con essa il suo passato e i suoi ormeggi nel tempo?” (Sacks 1986, 65).

Però, come accade per gli individui che hanno subito dei danni cerebrali, il cervello impara a trovare nuove vie per organizzarsi, per non perdersi; così anche la memoria collettiva resiste, si insinua nella nostra vita e come fuoco sotto la cenere, piano piano, riacquista vigore.

È fondamentale domandarsi, allora, come si possa restituire la memoria collettiva a una società che l’ha persa.

La rottura patrimoniale

Nella condizione postmoderna non c’è più continuità, quella che naturalmente reimmetteva il passato nel presente, che aiutava a progettare il futuro salendo come nani sulle spalle di giganti: si è prodotta una rottura psicologica e sociale. Nella postmodernità, in molti casi, la politica culturale si è affidata più a Lete che a Mnemosine, cancellando invece che ricordare, come intendeva fare Le Corbusier a Parigi con il “Plan Voisin”.

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La carta del patrimonio territoriale e paesaggistico della piana

Firenze-PratoPistoia nelle schede d’Ambito del Piano Paesaggistico

Regionale della Toscana (resp. Schede d’Ambito, Daniela Poli)

A differenza di quanto è accaduto nella Ruhr, nel grande Bassin Minier di Lille, ad esempio, molti edifici industriali sono stati abbattuti, distruggendo un grande patrimonio minerario. È stata quasi una damnatio memoriæ di un passato difficile e doloroso. Il riconoscimento del patrimonio Unesco, che  a “macchia di leopardo” attraversa tutto il Bassin, riesce con difficoltà a raccontare l’epopea del lavoro nelle miniere del nord della Francia, celebrata anche da Emile Zola. La tante e importanti forme di valorizzazione della memoria collettiva che si susseguono scontano la mancanza della componente materiale del territorio, dei grandi edifici, dei cunicoli nel sotterraneo che sono stati purtroppo chiusi per questioni di messa in sicurezza.

La rottura nella continuità che c’è stata ha portato però alla «scoperta» del patrimonio (Rautenberg 2003). L’anomia postmoderna ha indirizzato infatti alcuni a rivolgersi al passato, a incuriosirsi e interessarsi dei piccoli e grandi oggetti patrimoniali. Proprio il moderno, dunque, che voleva cancellare il passato, come in un contrappasso dantesco “inventa il patrimonio”. Del resto anche le prime leggi di tutela, in Italia e in Europa, nascono in conseguenza della nascente industrializzazione. Oggi la scoperta del patrimonio recupera anche il frutto del movimento moderno, recupera anche ciò a cui fino a poco tempo fa nessuno dava valore, come nel caso dell’unico piano urbanistico di Le Corbusier in Europa a Firminy le Vert, oggi iscritto nel patrimonio Unesco dopo un

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periodo di discussione animata in cui era stata prospettata la possibilità di abbattere la chiesa incompiuta, completata dopo la morte del grande architetto, e la sua Unité d’habitation.

Il passato assume così un nuovo ruolo: sarà una rappresentazione sociale, una costruzione collettiva fondata proprio sulla percezione della rottura rispetto a ciò che l’oggetto è stato e a ciò che è ora, alla sua significazione contemporanea.

In Italia il termine “patrimonio territoriale”, dopo essere comparso anche come voce nei dizionari (Encicopedia Treccani 2013), è oggi approdato anche alla legislazione urbanistica nella recente Legge Regionale toscana n. 65/2014. Nella Legge il patrimonio territoriale è definito come bene comune costitutivo dell’identità collettiva regionale. Giova ricordare che nelle precedenti leggi di governo del Territorio della Regione Toscana (L.R. 5/95 e L.R. 1/2005), così come nei piani, si usava la parola risorse territoriali, mentre la Legge oggi in vigore introduce il termine patrimonio territoriale distinguendolo dalle risorse territoriali. La definizione che viene data nella legge (art. 3) chiarisce il motivo: per “patrimonio territoriale si intende l’insieme delle strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione fra ambiente naturale e insediamenti umani, di cui è riconosciuto il valore per le generazioni presenti e future. Il riconoscimento di tale valore richiede la garanzia di esistenza del patrimonio territoriale quale risorsa per la produzione di ricchezza per la comunità”. Il patrimonio è quindi “anche” una risorsa, ma la sua essenza non si esaurisce nell’essere un fattore da utilizzare nelle dinamiche socio-economiche, le quali peraltro “non devono essere ridotte in maniera irreversibile”. Il patrimonio territoriale è formato da quattro strutture: idrogeomorfologica, ecosistemica, insediativa e agroforestale. Le invarianti strutturali, altro elemento cardine della Legge, sono la “struttura nascosta” che tiene assieme il patrimonio attraverso i “caratteri specifici, i principi generativi e le regole che assicurano la tutela e la riproduzione delle componenti identitarie e qualificative del patrimonio territoriale” (art. 5). La Legge, per quanto riguarda le invarianti così definite, e cioè strettamente correlate al patrimonio territoriale, è quindi molto orientata e richiede un apparato conoscitivo di elevato dettaglio, già contenuto in parte dal Piano Paesaggistico Regionale redatto durante l’iter di approvazione legislativa, che sperimenta l’interpretazione dei patrimoni territoriali a partire dell’individuazione delle quattro invarianti strutturali (Poli 2012; Marson 2016). Al successivo articolo viene introdotto lo “Statuto del territorio”, presente a ogni livello della pianificazione, che comprende il patrimonio territoriale e le relative invarianti strutturali come cuore del meccanismo di formazione delle scelte del governo del territorio attuate “mediante la partecipazione delle comunità interessate”

(art.6). Con la Legge 65, la Regione Toscana fonda così tutte le sue azioni strategiche di governo proprio sulla conoscenza del patrimonio territoriale, il cui riconoscimento si attua anche con modalità ordinarie di partecipazione negli statuti del territorio.

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«Il patrimonio territoriale è dunque un “costrutto storico coevolutivo, frutto di attività antropiche reificanti e strutturanti che hanno trasformato la natura in territorio» (Magnaghi 2020) in cui convergono sedimenti materiali, socio-economici, culturali e identitari. Il patrimonio è oggetto di trasmissione intergenerazionale e attiene al bene comune. Il patrimonio è uno stock di opportunità (Barel 1981), frutto del processo sociale e al tempo stesso base attuale di una potenziale valorizzazione territoriale.

La tutela del patrimonio in quanto tale non è però semplice protezione della memoria, poiché il concetto di patrimonio nasce proprio dalla “rottura patrimoniale” che ha reciso la continuità del fluire del tempo. La memoria collettiva va allora ricostruita, se necessario anche inventata (Hobsbawm 1983). La memoria non è infatti la storia. La memoria è quel meccanismo complesso che sa dare senso alla storia riattualizzandola nel presente.

La storia, se non è attivata dalla memoria, resta una testimonianza muta che ha valore solo come un documento d’archivio.

Mi affido ad una bella e lunga citazione di Pierre Nora per definire la differenza fra storia e memoria.

«Memoria, Storia: lungi dall’essere sinonimi, dobbiamo essere consapevoli che tutto le oppone. La memoria è la vita, portata sempre da gruppi viventi e per questo stesso motivo in evoluzione permanente, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia, inconsapevole delle sue deformazioni successive, vulnerabile a tutte le utilizzazioni e manipolazioni, suscettibile di prolungate latenze e improvvise rivitalizzazioni. La storia è la ricostruzione sempre problematica e incompleta di ciò che non è più. La memoria è un fenomeno sempre attuale, un legame vissuto nell’eterno presente; la storia, una rappresentazione del passato. Poiché è magica e affettiva, la memoria si adatta ai dettagli che la confortano; si nutre di ricordi sfumati, globali o fluttuanti, particolari o simbolici, sensibili a tutti i transfert, schermi, censure o proiezioni. La storia, come operazione intellettuale e laicizzante, si appella all’analisi e al discorso critico. La memoria insedia il discorso nel sacro, la storia lo snida e rende tutto prosaico. La memoria sgorga da un gruppo che congiunge, ciò che conduce a dire – come fa Halbwachs – che esistono tante memorie quanti gruppi sociali; e che la memoria è per natura multipla e decelerata, collettiva, plurima e individualizzata. La storia al contrario appartiene a tutti e a nessuno, ciò che le dona una vocazione all’universale. La memoria si radica nel concreto, nello spazio, nel gesto, nell’immagine e nell’oggetto. La storia si lega alle continuità temporali, alle evoluzioni e ai rapporti tra le cose [...]. L’esigenza di generalizzazione della critica porterà a conservare i musei, le medaglie e i monumenti, cioè l’arsenale necessario al suo lavoro; ma svuotandolo di quanto ne fa ai nostri occhi i luoghi della memoria» (Nora in Clementi 1990, 14-5).

Il patrimonio percorre archivi, biblioteche, musei, ma anche documenti materiali, paesaggi, alimentazione, linguaggi; è quindi solo una parte del cammino che porta alla progettazione dell’identità locale.

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La Convenzione di Faro, promulgata del Consiglio d’Europa nel 2005 e sottoscritta dall’Italia nel 2013, va proprio in questa direzione. La Convenzione definisce la conoscenza e l’uso del patrimonio culturale come diritti dei cittadini. Il patrimonio culturale è definito come un «insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in “continua evoluzione”, che comprende «tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi». La Convenzione fissa anche il concetto di “comunità di patrimonio”, costituita da «un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future».

Patrimonio / patrimonializzazione

Le leggi di tutela da sole non “mantengono” il patrimonio, ne salvano talvolta l’involucro (aspetto fondante e rilevante), ma non rinnovano la memoria di cui esso è parte. La tutela è il primo passaggio imprescindibile, ma è necessario attivare un processo di riconoscimento e valorizzazione sociale del patrimonio, il “processo di patrimonializzazione”, che sana le rotture col passato e alimenta la memoria collettiva in forme sempre nuove. Quando un oggetto patrimoniale è stato rivelato socialmente, e inizia un processo di affezione e conoscenza, si ravviva la memoria collettiva e l’oggetto acquisisce valore patrimoniale per la comunità che se ne occupa.

Il patrimonio esiste socialmente solo dove viene visto, scorto, riconosciuto e vissuto dalla comunità che lo popola. Mentre nel tempo dei ritmi lenti si stabiliva come mediatore di conoscenza operato inconsapevolmente, oggi il patrimonio si afferma nel quadro della condizione contemporanea come mediatore consapevolmente ricercato di conoscenza e dunque come esito del progetto. Il processo di patrimonializzazione dialoga dialetticamente con la storia e si inserisce nelle dinamiche culturali della società attuale (Davallon 2006).

Nell’ottica della patrimonializzazione, il patrimonio è allora ciò che

«si presume meriti di essere trasmesso dal passato per trovare un valore nel presente. Il territorio è in effetti esito costante di valutazioni su ciò che è da patrimonializzare e ciò che ne deve essere escluso. Il patrimonio è un insieme di attributi, di rappresentazioni e di pratiche fissate su un oggetto non contemporaneo di cui è stata decretata collettivamente l’importanza presente intrinseca (ciò per cui questo oggetto è rappresentativo di una storia legittima degli oggetti della società) ed estrinseca (ciò per cui questo oggetto cela dei valori supportanti una memoria collettiva), che esige che venga conservato e trasmesso. […] Il patrimonio non è un dato, ma un costrutto. L’identificazione di un luogo come patrimoniale, la sua ‘messa in patrimonio’ (patrimonializzazione), procede sia da un’operazione intellettuale, sia mentale, sia sociale, che implica delle selezioni, delle scelte e quindi delle dimenticanze» (Lazzarotti 2003, 692–693).

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Particolare della mappa di comunità di San Vito dei Normanni; Ecomusei della Puglia, documento del Piano Paesaggistico della Regione Puglia

Sempre più politiche pubbliche mettono in campo strumenti e azioni per il rafforzamento del processo sociale di patrimonializzazione, volte a trovare forme di socializzazione che passano dalla materialità del territorio per superare la frammentazione sociale, come accade in Italia con gli Osservatori locali del paesaggio o col supporto pubblico ai processi partecipativi. Il patrimonio si alimenta di memoria e al tempo stesso produce memoria, pronta a essere utilizzata nei processi di progettazione sociale. Se nella modernità i committenti immaginari di Le Corbusier erano gli abitanti della città-macchina, ora, nella contemporaneità, i committenti sono coloro che si prendono cura dei tanti elementi che alimentano nel luogo le aspirazioni ad abitarlo. I committenti di una progettazione volta a ricostruire valore simbolico e rappresentativo nel territorio sono, quindi, quelli che potremmo definire caregivers territoriali, cioè i soggetti, residenti o meno, che agiscono secondo una logica localizzata. Si tratta di coloro che riconoscono i molteplici valori di un luogo, per questo lo amano (sono disposti a creare con il luogo stesso una relazione densa di significato), e di conseguenza se ne prendono cura, attivando processi di patrimonializzazione pro-attiva (Poli 2015).

In Francia, ad esempio, nel campo delle scienze sociali si registra un forte investimento culturale sulla “patrimonializzazione” piuttosto che sul “patrimonio”, insistendo molto

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sul ruolo delle associazioni (Glévarec, Saez 2002), sulla diversità degli attori, sul valore delle emozioni o sulle tensioni tra istituzioni pubbliche e attori sociali (Rautenberg 2003). Vi è dunque la volontà di puntare l’accento non tanto sulla dimensione tipologica degli elementi patrimoniali o sulla selezione di oggetti materiali, fatta secondo standard amministrativi e accademici, quanto sull’impegno sociale che ha reso il patrimonio il risultato di mobilitazioni collettive e di richieste culturali.

Da questo veloce excursus emerge come il patrimonio territoriale possa divenire la base e al tempo stesso il volano per il rafforzamento identitario ed economico di un contesto locale.

La consistenza patrimoniale di un territorio è oggi più ricca laddove c’è stata meno distruzione portata dalla modernizzazione e dallo sviluppo globalizzato, come accade spesso nelle cosiddette aree interne. Lo stock di ricchezza durevole accumulata nel patrimonio, disponibile per una messa in valore, diventa la base potenziale per un nuovo patto co-evolutivo fra società e territorio. Molti progetti a base patrimoniale trovano vantaggio in uno sviluppo complessivo del territorio che, talvolta, può anche scaturire da un’iniziale valorizzazione turistica. La presenza di un turismo diffuso integrato con la residenza, ad esempio, in molti territori interni della Toscana ha rafforzato l’economia locale e consentito agli abitanti di apprezzare maggiormente il proprio patrimonio, di  imparare a conoscerlo e a riconoscerlo, evidenziando le tracce del passato, gli elementi strutturali e le pratiche in relazione con le reti locali e in vista di azioni condivise. Talvolta è proprio una categoria particolare di outsider (Cosgrove 1990) che riconosce il paesaggio, se ne innamora, attiva o riattiva economie di prossimità embedded (Polany 1974) nel valore di esistenza del patrimonio. Dall’osservazione empirica delle azioni di sviluppo locale emerge con chiarezza una forte mobilitazione degli oggetti patrimoniali nei progetti di territorio, alimentata spesso dall’emergere di modelli produttivi innovativi.  Questa constatazione è evidente nei contesti francesi, dove esistono strutture create proprio a questo scopo come i Parchi Naturali Regionali, o nelle reti dei Parchi regionali italiani, come quelli della Val di Cornia nella Toscana meridionale; ma sono evidenti anche nelle azioni delle altre strutture intercomunali, come i Pays, o nei piani territoriali come gli scot (Schémas de cohérence territoriale), in cui il ricorso al patrimonio è crescente (Landel, Senil 2009). La stessa riflessione è esportabile ai programmi d’iniziativa comunitaria come i leader (Landel, Teillet 2003) o nei tanti progetti di carattere contrattuale come i Contratti di fiume, di foce, di costa, di montagna, i parchi agricoli, i progetto agrourbani, o nella forte mobilitazione dal basso che produce progetti territoriali sulla base dell’empowerment delle società locali. Nell’Osservatorio delle buone pratiche di autosviluppo locale della Società dei territorialisti/e è raccolto un primo elenco di progetti che gettano le basi di un’economia che valorizza i patrimoni locali.

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Manifesto per un’assemblea pubblica per la costruzione dell’Ecomuseo del Casilino a Roma, gennaio 2016

Ilpatrimonio passa quindi da strumento di conservazione (Choay 1995; Poulot 2006) a fattore determinante per lo sviluppo dei territori (Landel, Senil 2009). Il tramite di questo processo è la territorialità attiva, i soggetti che agiscono in un contesto secondo una logica territorializzata e mettono in valore le risorse (Dematteis, Governa 2005).

«Di fatto, il patrimonio non è una semplice risorsa per lo sviluppo, esso è anche per definizione un modo di interrogare la natura stessa delle risorse e i loro processi di rivelazione attraverso la patrimonializzazione. Questo nuovo statuto si iscrive in una lunga maturazione: dopo l’invenzione della nozione, lo slittamento verso la risorsa si è così fatto gradualmente» (François, Hirczak, Senil 2006, 30). Non è tanto dunque la competizione economica, ma le diverse economie, le tipologie di lavoro, l’autonomia di gestione del proprio tempo che, integrate nella sfera sociale, aumentano la qualità della vita, creano benessere e inducono a una riflessione sul tema generale del lavoro salariato (Gorz 2007).

Anche in Italia fioriscono iniziative e strumenti istituzionali spinti dal basso (Osservatori del paesaggio, Contratti di fiume, Ecomusei) che tutelano, recuperano e rimettono in gioco il patrimonio con processi di patrimonializzazione allargata, che coinvolgono diversi soggetti economici e sociali. Le esperienze sono diverse e coinvolgono molteplici attori: esse vanno dalla ricoperta dei prodotti locali, alle forme di recupero degli spazi urbani, al recupero dei paesaggi, alla messa in dialogo di tanti saperi esperti e contestuali.

L’azione della valorizzazione del patrimonio a base locale e comunitaria è dunque il vettore che ricostruisce legame fra soggetti di diversa estrazione sociale, culturale ed economica, con la finalità di rigenerare la complessità dell’abitare, di riconquistare i tempi e gli spazi di vita. Il patrimonio nell’ottica della patrimonializzazione acquista il valore di un “bene appropriato collettivamente” (Linck 2012, 55). Per l’efficacia delle iniziative gioca però un ruolo non secondario – e rinnovato – l’attività di coinvolgimento sociale che l’azione pubblica può svolgere (Brunori, Marangon, Reho 2007; Meloni, Farinella 2013) per favorire il riconoscimento e l’attivazione patrimoniale, per continuare collettivamente la narrazione corale (Becattini 2012) che anima e rende vivi i territori.

A Prato, ad esempio, si stanno sperimentando percorsi turistici industriali (Tipo) con attività di conoscenza nelle fabbriche dismesse e in quelle ancora in attività, per scoprire

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nel territorio del lavoro una nuova possibilità di contaminazione col quotidiano, che si arricchisce di nuovi significati tramite spettacoli musicali, di teatro, di danza e una miriade di attività laboratoriali.

Conclusioni

In un’ottica bioregionale, che si approccia al territorio come essere vivente con una sua propria identità e una sua propria biografia, appare fondamentale:

• riconoscere e selezionare gli elementi patrimoniali che hanno valore per la collettività nel tramandare la memoria nel futuro;

• ricollocare gli elementi patrimoniali all’interno della complessità della struttura urbana (la grande mappa del lavoro di Prato con gore, gorone, sifoni, mulini, gualchiere, ecc.) e territoriale (la sua prosecuzione nella valle del Bisenzio);

• attivare processi che mettano in gioco la componente emozionale legata al patrimonio (Tardy, Rautenberg 2013), come nel progetto Tipo a Prato;

• costruire una struttura conoscitiva densa e articolata che connetta in maniera chiara ed evidente i diversi elementi patrimoniali collegando passato e presente: elementi museali, oggetti patrimoniali, percorsi fisici, percorsi narrativi, eventi culturali;

• attivare un processo integrato di tutela e valorizzazione culturale, simbolica, cognitiva, economica, capace di mettere in gioco i saperi contestuali e riattivare la memoria vivente collettiva;

• utilizzare strumenti pattizi e contrattuali che coinvolgano le diverse componenti della società locale;

• creare valore aggiunto territoriale, che non si esaurisce nell’utilizzo e nella valorizzazione economica della risorsa territoriale, ma che sedimenta costantemente nuove opportunità per la società locale.

«Ogni patrimonializzazione è, in fin dei conti, sociale e politica. Poco importa la natura dell’oggetto patrimonializzato, ciò che conta è la capacità degli attori di mobilitare le procedure, far riconoscere le loro scelte e, in ultima analisi, far legittimare i loro modelli culturali e la loro storia. Alla fine, qualsiasi patrimonializzazione, e non solo la politica della memoria, costruisce una relazione tra un territorio, un gruppo sociale e il suo passato messo a distanza, una relazione spesso mitica che è tuttavia creatrice di legame sociale, che impregna le atmosfere urbane» (Rautenberg 2003).

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Schema preliminare per la creazione di un’area parco antistante tra il Fabbricone e la ex Fabbrica Calamai su viale Galilei. (elab. Comune di Prato, 2022)

le politiche urbane di prato: pianificazione, urbanistica e progetto. il caso

di prato

della “porta nord”

Assessore all’Urbanistica e all’Ambiente del Comune di Prato

Abstract

La relazione descrive le politiche urbane adottate dal Comune di Prato a partire dal 2014, proseguite con l’adozione nel 2018 del Piano Operativo Comunale (POC) e, nel 2021, dopo la definitiva istituzione dell’Urban Center, con un’articolata presentazione alla “17ma Biennale di Venezia” con un allestimento multimediale nell’ambito della mostra “Comunità Resilienti” delle strategie messe in atto con i progetti avviati con le serie di Agende Urbane. In particolare, l’oggetto della comunicazione riguarda l’attivazione della proposta di rigenerazione urbana dedicata all’area, individuata come la “Porta Nord” della città per la sua posizione a ridosso della Stazione di Prato - Porta al Serraglio, Si tratta di una zona caratterizzata dalla presenza di importanti testimonianze del patrimonio industriale della città, quali la fabbrica Calamai e parte del complesso del Fabbricone con la “Spina dei teatri”, da porre in stretta connessione con gli spazi pubblici e di servizio culturale già presenti nell’area , quali la Piazza del Mercato Nuovo e la sede del Polo Universitario della città di Prato, a significare un’azione concreta di restauro urbano della Prato del ‘900.

Le politiche urbane del Comune di Prato

Le politiche urbane della città di Prato a partire dal 2014 sono state delineate da una serie di Agende Urbane: Agenda Urbana per Prato1 (2015), Agenda Urbana Prato 20502 (2020) e Next Generation Prato3 (2021).

Si tratta di documenti programmatici che definiscono una vision complessiva della città ed il suo posizionamento strategico nell’ambito della competizione globale tra aree urbane. Una vision che si muove all’interno dei modelli di sviluppo sostenibile e dei valori promossi a livello internazionale dall’Agenda ONU 20304, che ingloba i Sustainable Development

Goals - SDGs5 e, a livello continentale, dal programma Agenda Urbana EU6 ed i successi-

1 http://allegatiurbanistica.comune.prato.it/dl/20151118124227452/atto_di_indirizzo_PS_PO_1.pdf

2 https://pubblicazioneatti.comune.prato.it/doc/prato/CC_2020_0000080_2.pdf

3 https://www.pratocircularcity.it/it/next-generation-prato/pagina1942.html

4 https://unric.org/it/agenda-2030/

5 https://sdgs.un.org/goals

6 https://futurium.ec.europa.eu/en/urban-agenda

Valerio Barberis

vi Next Generation EU7 ed European Geen Deal8, con l’iniziativa connessa New European Bauhaus9.

Le Agende Urbane di Prato, quindi, si collocano in un contesto in cui la definizione delle politiche pubbliche per lo sviluppo sostenibile della città stanno all’interno di un quadro globale e continentale e, allo stesso tempo, forniscono il contributo del territorio pratese alle strategie della Regione Toscana e dell’area vasta Firenze-Prato-Pistoia.

Le Agende Urbane per Prato partono dagli asset strategici esistenti sociali, economici e culturali della città e li inseriscono in un’articolazione organica di azioni e progetti che definiscono le strategie di sviluppo locale sostenibile attraverso il coordinamento della programmazione dell’Amministrazione Comunale e degli stakeholders.

Prato è promossa come città della contemporaneità della Toscana.

Le Agende Urbane costruiscono una strategia generale che si basa su una serie di azioni immateriali a sostegno degli asset sociali, culturali ed economici esistenti, a cui affiancare interventi di rigenerazione urbana e sociale nelle cosiddette Aree Urbane Strategiche, ovvero comparti urbani funzionali ad accelerare e sostenere gli asset della città.

La scelta di definire dei documenti generali sulle politiche urbane e le relative strategie per conseguirli, è stata dettata dalla precisa volontà di promuovere l’integrazione delle policy pubbliche e delineare uno scenario generale al medio lungo periodo da condividere con la città in tutte le sue componenti. In questo senso la definizione della vision complessiva è stata affiancata da un’azione costante di condivisione con la città, promossa attraverso una programmazione generale di percorsi partecipativi e di coprogettazione, nei quali la città in tutte le sue componenti è stata coinvolta, sia per condividere la vision generale proposta dall’Amministrazione del Comune, che per aprirla al dibattito pubblico.

In questo quadro generale ci sono stati diversi eventi di grande rilievo in cui le politiche urbane della città di Prato sono state poste al centro dell’attenzione e che sono divenuti l’occasione per sviluppare un pensiero critico su quanto fatto a partire dal 2014. Nel 2018 è avvenuta l’adozione del Piano Operativo Comunale di Prato , lo strumento di pianificazione urbanistica generale che ha riassunto in un unico progetto di città la vision dell’Agenda Urbana Prato. L’adozione del POC è stata affiancata dalla mostra Verde Prato. Sperimentazioni urbane tra ecologia e riuso10, curata da Elisa Cristiana Cattaneo

7 https://ec.europa.eu/info/strategy/recovery-plan-europe_en

8 https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/european-green-deal_it

9 https://new-european-bauhaus.europa.eu/index_en

10 https://centropecci.it/it/mostre/verde-prato-sperimentazioni-urbane-tra-ecologia-e-riuso

https://www.domusweb.it/it/architettura/gallery/2019/03/22/nuovi-scenari-tecno-naturali-per-la-citt-di-prato. html

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, curata da Valerio Barberis ed

Cristiana Cattaneo, in cui è stata analizzata l’innovazione portata dalle politiche urbane di Prato che hanno introdotto una strategia basata sulla strettissima interdipendenza tra la pianificazione urbanistica, quella ambientale ed il microcosmo di progetti che ha spaziato dalla scala della rigenerazione urbana a quella del tactical urbanism, dalla scala del quartiere a quella del singolo intervento architettonico. Il 2021 è stato l’anno della partecipazione della città alla 17° Biennale di Architettura di Venezia, all’interno del Padiglione Italia, nell’ambito della mostra Comunità Resilienti12, curata da Alessandro Melis. Il Comune di Prato ha partecipato con un allestimento multimediale curato da Studio ARX - Paolo di Nardo e Compagnia TPO dal titolo Città natura – Cittàfabbrica – Città paesi13 in cui si è posto l’accento sulle dinamiche lente di Prato: il distretto tessile improntato da sempre all’economia circolare, le azioni di rigenerazione urbana e sociale e quelle relative ad un approccio che ha messo la natura al centro, che hanno caratterizzato le strategie poste in essere dal 2014, sono state collocate nell’ambito della rilettura complessiva di un territorio complessivamente resiliente. Un territorio capace di resistere all’urbanizzazione feroce del secolo breve e che ha mantenuto al suo interno dinamiche sociali, culturali, socioeconomiche e soprattutto una presenza latente, nascosta ma pervasiva della natura: tutti aspetti profondi e lenti del territorio su cui impostare le strategie di resilienza urbana, sociale e ambientale della città14.

Il 2021 è stato anche l’anno dell’istituzione dell’Urban Center15 al Centro Pecci, su progetto del collettivo Fosbury Architecture, che è rientrato nella logica di condivisione con la città delle scelte strategiche più generali e di allargarle al dibattito internazionale che il centro promuove. La mostra di apertura, Osservatorio Prato 205016, anch’essa curata da Fosbury Architecture, è stata l’occasione per sistematizzare e concettualizzare l’insieme delle politiche, azioni, progetti e network su cui la città sta costruendo il suo futuro in una serie di missioni generali: la transizione ecologica, il metabolismo urbano circolare, la transizione digitale e l’inclusione sociale.

11 A cura di V. Barberis, Elisa C. Cattaneo, Prato Fabbrica Natura, Skira, Milano 2019

12 https://www.cittadiprato.it/it/Web/699/Prato-citta-del-futuro-e-modello-di-resilienza-alla-Biennale-di-Venezia/

13 https://www.tpo.it/htm/archive/biennale_architettura.htm

14 V. Barberis, Gli abitanti di Prato, in AND n° 39: Media Cities > Resilience, Firenze 2021

https://www.and-architettura.it/index.php/and/article/view/329/323

15 https://centropecci.it/it/visita/urban-center

16 https://www.abitare.it/it/architettura/progetti/2022/02/08/fosbury-architectureurban-centre-di-prato/

le politiche urbane di prato: pianificazione, urbanistica e progetto • valerio barberis 137

La “Porta Nord”: pianificazione urbanistica e progetti

Le politiche urbane di Prato, in estrema sintesi, hanno promosso, a partire dalla vision di medio lungo periodo contenuta nelle Agende Urbane, la connessione tra gli strumenti di pianificazione generale – Documento Unico di Programmazione (DUP), Piano Operativo Comunale (POC), Piano Smart City, Piano Urbano per la Mobilità Sostenibile (PUMS), Piano di Azione per l’Energia Sostenibile (PAES) – ed i progetti e le azioni del Comune – Piano Triennale delle Opere Pubbliche, Piano Esecutivo di Gestione (PEG).

L’Agenda Urbana per Prato (2015), curata dall’Assessore Valerio Barberis, nasce come strumento di guida per la redazione del Piano Operativo Comunale con il titolo: Atto di indirizzo - Indirizzi programmatici per la formazione della variante al Piano Strutturale e del nuovo Piano Operativo del Comune di Prato17. Promuove una vision chiara per la città per il medio lungo periodo, il coordinamento delle politiche interne all’Amministrazione comunale, una strategia complessiva di coinvolgimento dei cittadini e la necessità di sviluppare progetti nel breve periodo, come esemplificazione immediata delle politiche di lungo periodo.

L’Agenda Urbana Prato (2015) ha introdotto il concetto della territorilializzazione delle politiche di sostegno agli asset sociali, culturali ed economici della città, promuovendo una sinergia tra azioni immateriali di governance e aree urbane strategiche nelle quali sviluppare progetti funzionali al conseguimento degli obiettivi.

I Grandi Progetti e le Aree Strategiche sono: La Declassata; il Centro Antico; il “Progetto Mura”; l’area del Vecchio Ospedale Misericordia e Dolce ed il “compound” urbano: una nuova porta del Centro Storico a sud; dal Fabbricone alla stazione del Serraglio: l’espansione del centro storico verso Nord e la connessione con il Parco Fluviale del Bisenzio; il Macrolotto Zero: un distretto creativo di area vasta; il Parco Fluviale del Bisenzio: un asse ambientale, che tesse nuove relazioni urbane e collega la città all’area vasta; le Cascine di Tavola.

L’Agenda Urbana per Prato (2015) introduce quindi una strategia complessiva che investe il Centro Storico, le mura ed i comparti urbani immediatamente a ridosso: a sud, il Quartiere del Soccorso, a Ovest il Macrolotto Zero e, a nord, il fuso urbano che si estende tra il tracciato della ferrovia, lungo le mura trecentesche il fiume Bisenzio ed il complesso del Fabbricone.

Il documento nella sezione Dal Fabbricone alla stazione del Serraglio: l’espansione del centro storico verso nord e la connessione con il Parco Fluviale del Bisenzio, delinea una

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17
https://allegatiurbanistica.comune.prato.it/dl/20151118124227452/atto_di_indirizzo_PS_PO_1.pdf

strategia urbana di rigenerazione e valorizzazione delle presenze naturali e di archeologia industriale complessiva, dando gli indirizzi per la pianificazione urbanistica e per la definizione di un network di singoli progetti.

«L’area posta tra la stazione del Serraglio, Via Bologna ed il Complesso del Fabbricone, rappresenta, anche storicamente e per le modalità con le quali si è formata, una naturale espansione del Centro Storico a nord. Un comparto urbano, direttamente collegato ad est al Parco Fluviale del Bisenzio, che risulta caratterizzato da un tessuto edilizio eterogeneo che comprende grandi ed importanti complessi di archeologia industriale – il Fabbricone e Calamai - , edilizia industriale novecentesca , edilizia residenziale - sia di impianto, che complessi di appartamenti di sostituzione costruiti a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo -, oltre ad importanti funzioni e spazi per la collettività a livello cittadino e di area vasta – la stazione ferroviaria del Serraglio, la sede universitaria del PIN, a Piazza del Mercato Nuovo, i teatri Fabbricone e Fabbrichino. [...] Il ridisegno dell’area dovrà perseguire primariamente un nuovo assetto organico degli spazi pubblici, che dovrà generare un continuum di percorsi pedonali, ciclabili e aree pubbliche pavimentate ed a parco dal Centro Storico all’area del Fabbricone, collegati a quelli naturali del parco Fluviale del Bisenzio. Un insieme di spazi che, partendo dal PIN e da Piazza Ciardi [...], generi percorsi efficacemente progettati verso Piazza del Mercato Nuovo, nella logica di esplicitare il ruolo di questo grande spazio come vero e proprio parcheggio a servizio del Centro Storico. A nord di questo una serie di spazi pavimentati ed a verde dovranno estendersi fino all’area del Fabbricone, nella logica di stabilire una forte connessione pedonale ed un vero e proprio nuovo percorso di accesso all’area teatrale che comprende il Fabbricone ed il Fabbrichino. Nel disegno degli spazi pubblici particolare attenzione dovrà essere posta alla valorizzazione della potenziale presenza strutturante dello spazio pubblico e del disegno urbano dell’ultimo tratto del Gorone, che risulta in alcune porzioni all’aperto, che dovrà essere oggetto di interventi di riqualificazione e rigenerazione ambientale. La presenza dei teatri Fabbricone e Fabbrichino, accanto a quella del Polo Universitario del PIN, dovrà essere uno dei cardini di sviluppo strategico dell’area, che potrà prevedere funzioni legate alla ricerca, lo sviluppo tecnologico, la produzione e l’innovazione nell’ambito delle arti dello spettacolo. I complessi industriali del Fabbricone e della Calamai dovranno essere oggetto di interventi di restauro tesi a garantire la lettura delle diverse fasi di costruzione degli stessi, che potranno prevedere anche l’inserimento di calibrati segni contemporanei, nella logica di enfatizzare il ruolo di questi importanti testimoni del passato produttivo pratese. Potranno prevedere l’inserimento di una molteplicità di funzioni – a servizio, commerciali, piccole quantità residenziali, ecc., oltre che il mantenimento di settori con destinazione artigianale – finalizzate a fare di questi dei luoghi a servizio del

le politiche urbane di prato: pianificazione, urbanistica e progetto • valerio barberis 139

•Interventi per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate DPCM

15-10-2015 (Servizio Governo del Territorio, Comune di Prato)

“Riversibility. Parco Fluviale del Bisenzio nella città di Prato” (area Prato CentroNord), masterplan

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comparto urbano in cui si inseriscono e strettamente interconnessi con il Centro Storico. La porzione Est del comparto si dovrà interconnettere al Parco Fluviale del Bisenzio attraverso collegamenti pedonali puntuali lungo Viale Galilei e con un nuovo tratto della pista ciclabile, che dovrà collegarsi alla Piazza dell’Università tramite un nuovo percorso posto al di sopra del Bastione delle Vedove (già dei Giudei)».18

La strategia urbana nell’insieme configura un nuovo asse N – S, tra Piazza Duomo ed il Fabbricone che si articola attraverso spazi e funzioni pubbliche da riqualificare e che propone la creazione di un nuovo ingresso al complesso teatrale Fabbricone e Fabbrichino da sud.

Questa strategia vede una sua prima definizione progettuale nella proposta presentata dal Comune di Prato nel 2015 al bando Piano Aree Degradate PAD, curato dal Servizio Governo del Territorio, che avvia la definizione di un masterplan complessivo dell’area e che propone la riqualificazione di Piazza Ciardi, i Giardini della Passerella e la realizzazione di un nuovo edificio a destinazione pubblica nella Piazza dell’Università.

Nel 2016 la candidatura del Comune di Prato al Piano Periferie P.R.I.U.S19, curato sempre dal Servizio Governo del Territorio, conferma questa strategia urbana complessiva e sviluppa un progetto che coordina interventi nel Centro Storico nel quadrante Nord – Est – il completamento del restauro del Bastione delle Forche ed il restauro del complesso di Palazzo Pacchiani – con interventi che coinvolgono il comparto urbano a nord del Centro Storico, fino al Fabbricone - la rigenerazione delle sponde del Fiume Bisenzio con interventi di attivazione sociale, il progetto “Riversibility”20, la riqualificazione di Piazza Ciardi e della copertura del Parcheggio del Serraglio.

Questa strategia complessiva è accolta all’interno del Piano Operativo Comunale21, curato dal Servizio Urbanistica del Comune di Prato, adottato a Settembre 2018 ed approvato in via definitiva a Novembre 2019, nell’Ambito Porta Nord, che traduce il masterplan in un progetto urbano organico che coordina i programmi pubblici e le Aree di Trasformazione private.

«A nord del centro storico, come prolungamento del tracciato storico che collega piazza Duomo con la stazione del Serraglio attraverso via Magnolfi, si sviluppa l’ambito di Porta Nord lungo un asse ideale sul quale gravitano tre importanti polarità in cui il Piano Operativo opera con locali interventi di trasformazione ed interventi di ricucitura delle potenzialità dell’esistente.

18 Ibidem, p. 24

19 https://www.cittadiprato.it/IT/Sezioni/334/PROGETTO-PRIUS-/

20 https://www.cittadiprato.it/IT/Sezioni/518/Riversibility---Parco-Fluviale/

21 https://www.comune.prato.it/it/lavoro/urbanistica/piano-operativo/pagina1057.html

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Il primo polo è costituito da Piazza Ciardi, oggetto di recente riqualificazione, intorno alla quale gravitano la stazione del Serraglio ed il Polo universitario collocato negli edifici dell’Ex istituto T. Buzzi. L’asse prosegue sulla Piazza del Mercato per la quale il Piano Operativo conferma il ruolo di centralità urbana come elemento ordinatore dello spazio pubblico e del sistema connettivo. Agli interventi sul patrimonio esistente è chiesto di interagire con gli spazi pubblici esistenti per potenziarne il sistema connettivo. Nella AT4a_01, per la quale si prevede la rifunzionalizzazione del fabbricato produttivo situato tra viale Galilei e Piazza del Mercato Nuovo, trovandosi in una posizione baricentrica rispetto all’asse ideale, è prevista la realizzazione di un percorso pedonale di uso pubblico per rendere accessibile l’immobile anche dall’esterno, e le cessioni per l’ampliamento del marciapiede su viale Galilei e ai parcheggi prospicienti la piazza. Il “capolinea” di questo asse ideale è rappresentato dal complesso del Fabbricone per il quale viene confermato il ruolo di caposaldo della cultura teatrale pratese del teatro Fabbricone e del teatro Fabbrichino, e ne viene rafforzato il loro rapporto con la città attraverso la riconfigurazione di nuovi spazi pubblici che li mettano fisicamente in contatto con la Piazza del Mercato Nuovo e dunque con il centro storico».22

A partire da questi programmi il Comune di Prato ha sviluppato una sequenza organica di progetti di recupero e riqualificazione degli spazi pubblici che stanno costruendo quella strategia urbana complessiva: il restauro dei Giardini della Passerella23 e della Passerella pedociclabile, la riqualificazione della Piazza Ciardi24, Via Protche e di Piazza del Mercato Nuovo

– curati dal Servizio Mobilità del Comune -, la realizzazione del Playground “Yoghi Giuntoni”25 e la riqualificazione delle sponde del Bisenzio del progetto “Riversibility” (curati dal Servizio Governo del Territorio del Comune), la realizzazione della nuova sede della polizia Municipale nella Piazza dell’Università (curata dal Servizio Opere Pubbliche del Comune).

Nel 2021 il Comune di Prato ha presentato Next Generation Prato26, il documento che definisce il posizionamento strategico della città all’interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza PNRR, che è stato coordinato dagli assessori Benedetta Squittieri e Valerio Barberis e sviluppato nella forma di una coprogettazione con gli stakeholders, le istituzioni e i centri di ricerca della città. Il documento fa proprie le strategie generali dell’Agenda Urbana per

22 Norme Tecniche di Attuazione - Aree di Trasformazione: disciplina urbanistica, pag. IV https://www.comune.prato. it/sito-comunale/lavoro-e-impresa/urbanistica-territorio/piano-operativo/documenti-po/piano-approvato/media5974. php

23 https://www.cittadiprato.it/IT/Sezioni/108/La-passerella/

24 https://www.cittadiprato.it/IT/Sezioni/57/Piazza-Giovanni-Ciardi-/ 25https://www.facebook.com/profile.php?id=100063597729138&paipv=0&eav=AfZD7w1C3GOJtYezdL2vH7luv7kqVPunfcH3TA1acN_f5sFa2PXDlGgMG4TJQVuHaHU&_rdr

26 file:///C:/Users/a024/Downloads/Next%20Gen%20Prato%20(1).pdf

le politiche urbane di prato: pianificazione, urbanistica e progetto • valerio barberis 143

Areali di studio per le connessioni urbane, progetto Porta Nord

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 144 •

Prato (2015) e dell’Agenda Urbana Prato 2050 (2020) ed ha tra gli obiettivi, quello di delineare i progetti ritenuti prioritari da candidare ai futuri programmi di finanziamento dei POR FESR regionali, del PNRR nazionale e del Green Deal europeo.

Il documento contiene 24 Schede Progetto che si inseriscono nelle 6 missioni del PNRR27 nazionale e la scheda 6 è dedicata a Fabbricone - Polo teatrale della drammaturgia: “il progetto persegue l’obiettivo di salvaguardare, attraverso l’acquisizione e il recupero funzionale, la parte degli edifici appartenenti alla prima fase di realizzazione (fine ottocento) del complesso manifatturiero noto come fabbricone, lasciando inalterati i principali cambiamenti d’uso avvenuti nel corso degli anni (attività commerciali e teatrali). L’acquisizione e la ristrutturazione degli spazi consentirà di attuare, da un lato, un intervento di riqualificazione urbana che si colloca in una parte densamente popolata della città, e dall’altro di sostenere la strutturazione di un polo culturale con una solida capacità di gestione delle attività culturali grazie alla presenza della Fondazione Teatro Metastasio”28.

In questo quadro complessivo si inserisce il recente progetto candidato dal Comune di Prato nel 2022 al Programma regionale FESR 2021-2027, che rappresenta un fondamentale passo in avanti per la costruzione della strategia generale sul network degli spazi pubblici della “Porta Nord” e per il consolidamento della rete dei poli teatrali e delle istituzioni dedicate all’audiovisivo della città di Prato, enfatizzandone la rilevanza da un punto di vista culturale e la capacità di divenire veri e propri strumenti di rigenerazione urbana e animazione sociale.

Il progetto promuove una strategia complessiva di sviluppo locale sostenibile su una molteplicità di aspetti che, a dimostrazione della complessità dell’elaborazione, è stata curata da un gruppo di lavoro intersettoriale del Comune di Prato - Assessorato all’Urbanistica, Ambiente ed Economia Circolare, Assessorato Cultura e Cittadinanza, Servizio Progettazioni ed Economia Circolare, Servizio Statistica, Servizio Edilizia Monumentale e Storica, Servizio Edilizia scolastica e sportiva, Servizio Mobilità e Infrastrutture, Servizio Gare, Provveditorato e Contratti, MET - Teatro Metastasio di Prato.

Di seguito si riportano estratti della relazione di progetto.

Introduzione al contesto di progetto

L’area della proposta di intervento è situata a nord della città, immediatamente fuori la cerchia muraria, e posta lungo la riva destra del fiume Bisenzio; contigua al mercato generale

27 Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo; Rivoluzione verde e transizione ecologica; Infrastrutture per una mobilità sostenibile; Istruzione e ricerca; Inclusione e coesione; Salute.

28 Next Generation Prato, p. 90 file:///C:/Users/a024/Downloads/Next%20Gen%20Prato%20(1).pdf

le politiche urbane di prato: pianificazione, urbanistica e progetto • valerio barberis 145

Piazzale intercluso: a sinistra, area tergale alla fabbrica Calamai; a destra, porzione prospiciente al complesso del Fabbricone (lato S-E). (Foto di G.A. Centauro)

Il Lanificio “Figli di Michelangelo Calamai” con le cortine prospicienti il trafficatissimo viale Galilei, come si presentano allo stato attuale: a sinistra, i capannoni a shed con murales e, a destra, la monumentale facciata ricostruita nel 1925 dopo il rovinoso incendio del 1893. (Foto di G.A. Centauro)

comunale all’aperto, si estende fino al complesso industriale Il Fabbricone. È attraversata da via E. Abati e costeggia il fronte tergale degli stabilimenti industriali del Lanificio Calamai; tutta l’area è disposta parallela all’asse di penetrazione di viale Galilei. La zona interessata dal progetto comprende porzioni di una più ampia area industriale (caratterizzata da importanti complessi di archeologia industriale tra cui il Fabbricone e la fabbrica Calamai tutelati dallo strumento urbanistico), un vasto spazio asfaltato e una grande area a verde che progressivamente declinano da nord verso il centro cittadino, sfociando naturalmente nell’area destinata a mercato comunale settimanale.

Le funzioni di respiro collettivo e culturale già presenti sono rappresentate dal Teatro Fabbricone, che prende il nome dall’omonimo centro industriale Il Fabbricone, uno dei primi stabilimenti industriali pratesi nato alla fine dell’800 e fin da subito diventato la più grande fabbrica di tessuti, dove al suo interno si realizzavano tutte le fasi di lavorazione. Da una porzione del complesso industriale nasce il Teatro Fabbricone (nel 1974, la prima rappresentazione dell’Orestea, a cura di Luca Ronconi), un’esperienza teatrale alternativa al tradizionale teatro all’italiana, una realtà che è riuscita ad affermarsi nel panorama nazionale come luogo di sperimentazione e ricerca. Attività e luoghi che, a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, hanno formato un palinsesto in continuo divenire che, nel tempo, ha costruito le basi per una nuova identità, quella di Prato come città della contemporaneità. Tra i tanti luoghi ed eventi che appartengono a questo panorama eterogeneo, si possono citare la fondazione e la programmazione culturale del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, il Laboratorio Prato di Luca Ronconi e le produzioni del teatro Metastasio, la costituzione e l’attività svolta al Fabbricone ed al Fabbrichino (TPO), la rete delle compagnie teatrali, di danza e gli eventi delle arti

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performative, la fondazione e le attività connesse a Officina Giovani agli ex Macelli, il ruolo di centro propulsore di attività culturali alla scala sovralocale del Polo Culturale “Campolmi” con la Biblioteca Lazzerini ed il Museo del Tessuto, la compagnia KLM/ Kinkaleri in Via Santa Chiara, che ha trasformato l’idea di residenza artistica in una proposta culturale articolata sul piano dei contenuti e della relazione con il territorio.

Questa area del territorio non ha mai costituito un vero e proprio accesso alla città, inteso come avvicinamento progressivo, lento, di ampio respiro non necessariamente caratterizzato da un attraversamento carrabile di tipo strumentale o di servizio da Nord a Sud. L’area e i poli urbani connessi (Piazza del Mercato Nuovo, Piazza Ciardi, PIN - Polo Universitario Città di Prato, di seguito PIN, Stazione di Porta al Serraglio), costituiscono invece una naturale espansione del Centro Storico a Nord, un comparto urbano, direttamente collegato ad est al Parco Fluviale del Bisenzio, rappresentano importanti funzioni e spazi per la collettività a livello urbano e di area vasta e allo stesso tempo nuclei di devianza, criminalità, degrado diffuso che da anni il Comune sta affrontando con politiche ed investimenti a vari livelli.

Obiettivi e risultati attesi

Il ridisegno dell’area persegue l’obiettivo a lungo termine di generare un nuovo assetto organico degli spazi pubblici, anche attraverso una rete di percorsi pedonali, ciclabili e aree pubbliche pavimentate e a parco dal centro storico all’area del Fabbricone, collegati a quelli naturali del parco fluviale del Bisenzio. La presenza dei teatri Fabbricone e Fabbrichino, accanto a quella del PIN, rappresenta uno dei cardini di sviluppo strategico dell’area, come previsto dal progetto presentato dal Comune di Prato sulla Manifestazione di Interesse per la Definizione di un Parco Progettuale in Materia di Rigenerazione Urbana e dell’Abitare

le politiche urbane di prato: pianificazione, urbanistica e progetto • valerio barberis 147

della Regione Toscana: “Area del Fabbricone – Il Polo Teatrale e la Nuova Porta di Accesso alla Città”. Il cardine della strategia è il parcheggio di Piazza del Mercato Nuovo, inteso come parcheggio a servizio del Centro Storico: in questa visione si è mossa la riqualificazione già realizzata della Piazza e del tracciato verso il centro, comprendente la riqualificazione complessiva di Piazza Ciardi e del piazzale soprastante il parcheggio del Serraglio, trasformato in un nuovo spazio polifunzionale a servizio della città, il Playground “Yoghi Giuntoni”. In questo quadro una programmazione specifica si sta sviluppando rispetto al ruolo del PIN, che dovrà rinnovare e potenziare la sua funzione di polo di servizi alla scala metropolitana e divenire il cardine di una permeabilità urbana e centro propulsore di nuove attività che, in via preliminare, dovrà passare dal potenziamento dei servizi universitari e la loro relazione con la città.

In queste strategie urbane si inseriscono anche i temi dei servizi al cittadino e della sicurezza urbana; infatti, verrà realizzata la nuova palazzina dell’URP della Polizia Municipale nella piazza dell’Università, in corrispondenza della Stazione del Serraglio e di fronte al PIN.

Il presente progetto è quindi propedeutico all’obiettivo generale di lungo periodo, in quanto costituisce un primo nucleo del polo culturale attraverso interventi sugli spazi pubblici e sugli immobili che ospitano i teatri. L’area oggetto della strategia di rigenerazione urbana proposta è il comparto nord del futuro sistema urbano, una serie di spazi pavimentati ed a verde che dovranno estendersi fino all’area del Fabbricone, nella logica di stabilire una forte connessione pedonale. La strategia della proposta intende pertanto non solo valorizzare e potenziare l’offerta culturale del polo teatrale del Fabbricone, ma anche migliorare la qualità dell’abitare e realizzare residenze a canone calmierato per studenti fuori sede e volontari del Servizio Volontario Europeo data anche la vicinanza al polo universitario.

Il rinnovato polo teatrale, un ambito urbano totalmente riqualificato, sarà connesso alla stazione ferroviaria del Serraglio, al centro storico ed al parco fluviale attraverso un sistema integrato di nuove aree verdi e piazze, percorsi pedonali e ciclabili, nuove connessioni tra spazi pubblici e servizi.

L’intervento di recupero del complesso del Fabbricone si inserisce in una strategia che ha l’obiettivo più generale di delineare un sistema urbano basato sui poli teatrali della città (pubblici e privati) e i poli dell’audiovisivo, costruendo una vera e propria “Spina dei teatri”. Questo quadro complessivo si pone alla scala dell’intero centro storico e delle aree limitrofe e identifica due assi principali che hanno come cardine, chiaramente, il Teatro Metastasio: l’asse N-S che collega l’area del Teatro Fabbricone e Teatro

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Fabbrichino a nord, con il complesso di Santa Caterina, il futuro Parco Centrale a sud, dedicati a Manifatture Digitali Cinema e Officina Giovani agli ex Macelli (di cui sarà completato il recupero grazie a finanziamenti PNRR); l’Asse E-W che collega il Teatro Politeama Pratese e l’ex Arena Garibaldi (oggetto di un intervento di recupero da parte di un operatore privato) con il complesso del Teatro Magnolfi (oggetto di un importante intervento di restauro grazie a finanziamenti CIPE). Una strategia complessiva che identifica le funzioni teatrali e dedicate all’audio visivo come un vero e proprio sistema territoriale, integrato con le altre istituzioni culturali del centro storico, a partire dal Museo di Palazzo Pretorio e il Polo Culturale “Campolmi”, che ha l’obiettivo di generare strategie di sviluppo locale sostenibile che partano dalla diffusione della cultura, sia in relazione ai cittadini che al settore turistico. Un sistema, inoltre, che promuove una forte collaborazione pubblico-privato, in linea con la Convenzione di Faro sul valore del patrimonio culturale per la società e con il Quadro d’azione europeo per il patrimonio culturale, che invita a promuovere approcci integrati e partecipativi al fine di generare benefici nei quattro pilastri dello sviluppo sostenibile: economia, diversità culturale, società e ambiente.

Azioni progettuali

La cessione di una grande area a verde a seguito della costruzione di un edificio residenziale crea l’occasione di un ripensamento dell’intera area consolidando la vocazione fino ad oggi maturata e che inizia quindi dal recupero del teatro, passando poi al recupero del grande lotto asfaltato e dell’area a verde recentemente ceduta.

L’amministrazione intende così ottenere una nuova porta di accesso alla città da nord, e attraverso questa, creare una cerniera che connetta direttamente il centro urbano a questo luogo culturalmente importante e vitale.

L’intervento complessivo di tutta l’area è di fatto il masterplan già inviato con la precedente manifestazione di interesse indetta da Regione Toscana per la definizione di un parco progettuale in materia di rigenerazione urbana e dell’abitare; in tale occasione veniva delineato uno scenario importante per la definizione dell’assetto dell’intero comparto coerentemente con le strategie urbanistiche della città, dell’Agenda Urbana Prato e del Piano Operativo (Porta Nord). L’intervento proposto in questa occasione, nella sua complessità si divide in due macro-temi: la rigenerazione del polo teatrale e la realizzazione di nuove connessioni con la città storica.

le politiche urbane di prato: pianificazione, urbanistica e progetto • valerio barberis 149

La rigenerazione del Polo Teatrale

I singoli interventi, quindi, prevedono il restauro e l’adeguamento del Teatro Fabbricone, la destinazione del Fabbrichino a depositi e laboratori scenici. Sul fronte del Fabbrichino, lato via Targetti, troverà posto lo studentato.

Le nuove connessioni: tra il mercato generale comunale all’aperto e il complesso teatrale è prevista una grande area verde dove si alternano percorsi e spazi di relazione. Più nello specifico viene demineralizzata parte dell’area attraverso l’eliminazione delle superfici asfaltate, viene realizzato un nuovo parcheggio a ovest (lato residenze); il parco sarà costituito da settori verdi delimitati da percorsi pedonali incrocianti che tagliano e connettono l’intera area, e da uno spazio pavimentato in corrispondenza dell’ingresso alla piazza posta tra il Teatro Fabbricone e il Fabbrichino, con la duplice valenza di spazio di relazione e di spettacoli all’aperto.

Coerenza

L’Agenda Urbana per Prato ha individuato negli strumenti urbanistici e nei piani delle opere pubbliche i “Grandi Progetti” le Aree Urbane Strategiche su cui, a partire dal 2014, sono stati sviluppati programmi di rigenerazione urbana a sostegno della visione generale della città (cfr. c.1). Sono stati sviluppati programmi urbani, progetti e promosse ricerche universitarie, corsi e workshop, che hanno affiancato e stimolato la pianificazione urbanistica e la programmazione delle opere pubbliche. Nell’insieme si è generata una vera e propria strategia urbana che ha portato al centro il tema del progetto urbano, architettonico, ambientale e di paesaggio, strategia che non può che prendere spunto dalle numerose identità del territorio pratese e delle sue peculiarità sia sotto il profilo del patrimonio edilizio e naturale esistente, sia sotto il profilo della valorizzazione delle identità culturali e materiali, legate a luoghi ed eventi, che si sono sviluppate negli ultimi decenni.”29

29 Estratto dalla relazione di progetto presentata dal Comune di Prato al Programma Regionale FESR 2021-2027

Obiettivo Specifico OS 5.1 - Richiesta di Manifestazione di interesse per l’individuazione delle aree urbane e delle strategie territoriali (DGR n. 204 del 28 febbraio 2022)

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 150

GIORNATA DI STUDIO

Sessione pomeridiana

coordina: Lulghennet Teklè

introduce: Giada Buti

Particolare di porzione all’interno del complesso del Fabbricone

l’ordine degli architetti e il progetto del restauro del moderno

Abstract

Il progetto del Restauro del Moderno nasce quasi quattro anni fa dalla riflessione scaturita all’interno dell’Ordine degli Architetti sulla conservazione e sul restauro del patrimonio edilizio esistente nel territorio pratese e, in maniera più specifica, sull’architettura industriale ed artigianale, che rappresenta una larga fetta dell’edificato della città e che riveste, di per sé, indubbio valore culturale ed interesse collettivo.

La città di Prato, infatti, a partire dal XX secolo diventa fulcro di innumerevoli attività manifatturiere dislocate all’interno del tessuto cittadino e capaci di plasmare una realtà peculiare da anni al centro di studi e ricerche: la città-fabbrica.

Prato oggi è una realtà vibrante e contemporanea, poliedrica e multietnica, in continua trasformazione: si tratta di una città piena di forti contrasti, di netti chiaroscuri e capace di affascinare chi la vede da fuori per la prima volta.

Il tessuto urbano, già a partire da alcune porzioni del centro storico, è un insieme di tasselli in cui si incastrano abitazioni e piccoli fondi artigianali che sono intervallati da imponenti esempi di archeologia industriale dal fascino antico, un mosaico di testimonianze così diverse ma eterogenee e complementari tra loro e capaci di raccontare in maniera sinergica l’animo composito di questa città.

Oggi questo patrimonio va vissuto, amato, curato, in parte tutelato ed in parte trasformato in quello di cui la città ha bisogno.

Il Progetto del Restauro del Moderno

L’Ordine degli Architetti di Prato, da sempre, considera il tema del restauro e del recupero degli edifici un argomento fondamentale non solo nella formazione dei futuri architetti ma anche, e soprattutto, nell’ambito della pratica professionale.

Oggigiorno il campo del restauro architettonico che è riferito, in generale, alle tematiche proprie del restauro del moderno e, in particolare, a quelle dell’archeologia industriale, che risultano testimoniate in modo rilevante nel distretto pratese, vive delle dinamiche di trasformazione sia strutturale che funzionale che non sempre si dimostrano attente alla conservazione dei valori architettonici degli edifici.

Particolare di porzione all’interno del complesso del Fabbricone

Dalla volontà di promuovere la qualità dell’opera di architettura e del progetto in sé e dall’esigenza di approcciarsi nella maniera più adeguata al variegato patrimonio artigianale e industriale pratese è scaturita la condivisione del progetto del Restauro del Moderno con il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. Lo scambio ed il confronto con il Dida hanno dato vita ad una collaborazione veramente fattiva guidata dalla volontà condivisa di riportare al centro del dibattito sull’architettura il tema del restauro concepito nella prospettiva di recupero, di sviluppo sostenibile e di valorizzazione dei manufatti che fanno parte del patrimonio dell’industria pratese del ‘900.

L’attività seminariale congiunta che è stata sviluppata nell’ambito del Laboratorio di Restauro tenuto dal professor Giuseppe Centauro (che è iscritto presso l’Ordine di Prato) ha rappresentato la perfetta sintesi di questa collaborazione, che si è concretizzata attraverso il supporto fornito agli studenti dai colleghi architetti nell’analisi degli aspetti che conducono dai principi teorici alla pratica operativa all’interno di un contesto contemporaneo che riconosce nell’architettura moderna un patrimonio da tutelare e salvaguardare al pari di quella antica.

L’affiancamento nelle attività del Laboratorio di Restauro ha rappresentato un’esperienza molto stimolante sia sotto l’aspetto conoscitivo che dal punto di vista dell’accrescimento professionale, poiché ha rappresentato un’opportunità per aggiornare le nozioni relative agli interventi di recupero e di trasformazione del patrimonio edilizio esistente. Il supporto da parte dei colleghi è stato suddiviso tra le lezioni seminariali tenute presso il PIN/Polo Universitario Città di Prato e le operazioni di rilievo sul campo ed ha permesso di approfondire le conoscenze e le modalità nella gestione del recupero dei manufatti moderni a partire dall’analisi delle tipologie costruttive, architettoniche/decorative e dei materiali, dalla lettura delle patologie e dei fenomeni di degrado e/o alterazione di superfici e strutture fino ad arrivare alla definizione delle categorie strategiche di intervento con le varie fasi della lavorazione - in particolare per ciò che concerne le opere di consolidamento e/o rafforzamento delle strutture in cemento armato e miste.

Le attività di rilievo hanno consentito di sperimentare un approccio pratico al progetto di restauro attraverso l’analisi concreta del caso-studio preso in esame, il quale rappresenta una tra le più note architetture industriali pratesi: il complesso del Fabbricone.

La giornata di approfondimento interdisciplinare, collocata all’interno delle attività del seminario di ricerca del Laboratorio di Restauro, ha costituito pertanto l’ideale conclusione del percorso di approccio e conoscenza del progetto di restauro improntato sulle fasi di diagnostica, conservazione, riuso e trasformazione dell’oggetto edilizio ed ha fatto

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l’ordine degli architetti e il progetto del restauro del moderno • giada buti 157

Gli studenti del corso di restauro durante il sopralluogo al Blocco 12 del Fabbricone

emergere, ancora una volta, la consapevolezza del valore fondamentale che il processo di recupero degli edifici riveste.

La giornata di studio è stata pensata sia per gli studenti di architettura che per i colleghi architetti, i quali, rappresentando le figure professionali principali che operano nel campo della progettazione e della conservazione del patrimonio edilizio esistente, hanno potuto avvicinarsi all’approccio più corretto agli interventi di recupero delle architetture individuate nell’area oggetto di studio, estesa dal complesso del Fabbricone a tutta la zona nord della città e caratterizzata da numerosi aspetti sia di interesse architettonico che ambientale ed urbanistico.

Il concetto del Restauro del Moderno declinato come corretto recupero dei manufatti dell’industria è strettamente legato alla qualità dell’ambiente intesa anche come sostenibilità degli interventi di recupero che, per la loro grande complessità ed indiscutibile rilevanza, si connettono direttamente alla rigenerazione dell’esistente oltre che alla sua conservazione.

Lo sviluppo di questo progetto ha perseguito tre finalità di intervento: la prima finalità è, evidentemente, di tipo formativo ed ha lo scopo di far acquisire conoscenze e modalità

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 158 •

operative corrette nella gestione della conservazione e della valorizzazione di quei manufatti che, pur non avendo nessuna tutela o vincolo, possiedono valore di “testimonianza”. La seconda finalità è di natura divulgativa, indispensabile per evidenziare alcuni esempi di interventi rispettosi del significato di ”autenticità” racchiuso in quegli edifici moderni che meritano di essere trattati attraverso l’approccio ad idonei canoni metodologici di recupero e fruizione.

La terza ed ultima finalità è quella della costituzione di una raccolta composta dagli approfondimenti sugli edifici che ricadono all’interno dell’area oggetto di studio che permetta di sintetizzare il percorso del progetto del Restauro del Moderno.

Per raggiungere questi obiettivi è stato fondamentale riuscire ad illustrare alcuni esempi concreti di recupero e rifunzionalizzazione di edifici e spazi appartenenti al patrimonio industriale della città di Prato e a farli raccontare direttamente dalla voce dei professionisti che li hanno prima ideati, poi progettati e infine realizzati.

Questa scelta ha permesso di formare i partecipanti alla giornata di approfondimento interdisciplinare attraverso il racconto di casi-studio ben riusciti di recupero e trasformazione di architetture moderne che rappresentano buone pratiche di progettazione e realizzazione di

l’ordine degli architetti e il progetto del restauro del moderno • giada buti 159

La riqualificazione di uno spazio urbano per il Playground (v. ultra, la relazione di M. Fabbri)

interventi sul patrimonio esistente dell’industria pratese e il cui risultato è la conclusione di un processo di valorizzazione.

Sono stati presentati alcuni esempi ritenuti rappresentativi del corretto approccio nel processo del Restauro del Moderno.

Il primo esempio ha riguardato un edificio industriale che pur mantenendo inalterata la propria struttura architettonica riesce a proiettarla nel XXI secolo attraverso una nuova immagine che, da una parte, evoca e, dall’altra, reinterpreta l’identità stessa del distretto tessile pratese.

Come secondo esempio è stato individuato un edificio esistente che è stato recuperato ed impostato, sia all’esterno che all’interno, sul mantenimento della propria identità e della propria impronta industriale e sulla percezione degli elementi formali che le definiscono, a questo è stata affiancata la definizione dello spazio aperto che circonda il fabbricato, il quale è concepito come spazio di relazione che si interfaccia e dialoga direttamente con l’edificio stesso.1

Il terzo esempio illustrato è quello di un fabbricato industriale divenuto un mercato coperto pensato come luogo metropolitano di relazione in cui il fulcro dello spazio è rappresentato dall’impiego di specie arboree per generare benefici in termini di regolazione del microclima ambientale, mitigazione della temperatura, qualità dell’aria, isolamento termico ed acustico e regimentazione delle acque piovane.

L’ultimo esempio ha interessato uno spazio all’aperto caratterizzato dalla presenza di un deposito dismesso ai margini di un complesso industriale abbandonato che è stato trasformato in un’area a verde, per lo sport ed il tempo libero a disposizione non soltanto del quartiere in cui si colloca ma dell’intera città.

1 <https://www.cittadiprato.it/IT/SezioniBlog/569/13/Il-Playground/> (05/2022)

<https://www.cittadiprato.it/IT/Sezioni/581/Macrolotto-Creative-District/> (05/2022)

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 160

Il progetto del Restauro del Moderno è stato ispirato dalla volontà di far conoscere il valore racchiuso nel patrimonio edilizio moderno, sia esso composto da piccoli manufatti o da grandi fabbricati, e dal desiderio di contribuire a dar vita ad un atteggiamento di tutela e protezione verso le architetture del ‘900 che hanno plasmato e profondamente trasformato il territorio della città di Prato.

Il valore di testimonianza e di autenticità che ancora oggi il complesso del Fabbricone riveste quale emblema del patrimonio dell’industria pratese del ‘900 ci offrono la possibilità di mantenere viva la storia e la riconoscibilità di questa città e di mettere in rete la conoscenza del nostro territorio, esportando l’identità del tessuto cittadino e stimolando spunti di riflessione sulle potenzialità di cambiamento che la città di Prato offre.

l’ordine degli architetti e il progetto del restauro del moderno • giada buti 161

Macrolotto

Zero. Vista dal foyer (foto di A. Morganti)

il restauro del moderno: la sfida dei professionisti di oggi

Abstract

Da anni oramai la tematica del restauro del moderno con tutte le sfide che esso comporta, è divenuta sempre più tema di dibattito nel mondo degli addetti ai lavori, siano essi professionisti che imprese.

La grande varietà di edificato che il nostro Paese vanta dal periodo intercorrente le due guerre fino ed oltre l’inevitabile densificazione costruttiva del boom economico ha fatto sì che una percentuale preponderante del nostro patrimonio immobiliare nazionale possa ricondursi ad un’epoca in cui il rapporto tra spazio, struttura ed involucro ha una svolta epocale. Lo sviluppo tecnologico dei nuovi materiali, vetro, ferro e calcestruzzo armato in primis, interrompe in modo dirompente la lunga tradizione della continuità muraria e offre spunti nuovi, a volte dissacranti, nell’uso architettonico dei vuoti e dei pieni, del portante e del portato.

La sfida ora risulta ambiziosa: garantire elementi di continuità metodologica nell’approcciarsi al restauro di questi oggetti architettonici, inserendo al contempo quegli elementi di innovazione, al più tecnologica, che l’epoca contemporanea ha di fatto portato con sé e garantendo in tutto ciò il rispetto del dedalo normativo che fa da sfondo oggi ad ogni intervento edile.

Spesso lo stretto legame tra architetto, committente e artigiano ha prodotto in epoca moderna capolavori silenziosi, capaci di tessere la nuova immagine della città industriale attraverso la precisione del dettaglio e la sperimentazione dei materiali.

Oggi quel legame, tanto anelato dal professionista, viene spesso a mancare e quella sperimentazione costruttiva moderna fondata sul lavoro di sapienti artigiani mostra la sua fragilità costringendo a una riflessione specifica attorno ai diversi modi d’intervento sui suoi materiali.

In un’epoca in cui l’industrializzazione del settore dei materiali edili ha proporzionalmente ridotto la possibilità di intervento su edifici frutto di una componente artigiana, resta inevitabilmente al progettista l’onere di intervenire con una sensibilità tecnica che garantisca di dare nuova vita all’architettura, consolidando, rigenerando, a volte realizzando anche soluzioni azzardate, accomunate però da una scelta precisa: riconoscere il valore dell’immagine dell’opera originaria.

Il problema della conservazione si sposta allora sul piano della comprensione dell’opera moderna, della decifrazione dei valori di cui questa è portavoce e della comprensione del ruolo dell’architettura nella società industriale. Fortemente sentita è allora la volontà di riappacificazione con l’architettura: quella voglia di ritrovare la fiducia nelle capacità espressive dell’architetto contemporaneo, troppo spesso restio ad indagare il recente passato, liquidato dai più come un “brutto momento” da dimenticare, fatto di speculazioni e mercificazione dell’architettura, tradita nelle

aspirazioni e dilaniata da realizzazioni troppo spesso di dubbio valore architettonico. Il restauro va inteso quindi come un atto non meramente tecnico ma culturalmente orientato, indagando il dialogo che la moderna società ha istituito con la storia, le sue forme e i suoi materiali.

Spesso pare si tratti di un incontro tra immagini e impronte di civiltà diverse seppur sullo stesso suolo natale perché l’accelerarsi dello sviluppo tecnico e tecnologico, il progresso delle scienze, l’evoluzione della cultura, le trasformazioni sociali, hanno dilatato in poche decine di anni le distanze tra quella che era la funzione insediata e ciò che è o che può essere ospitato nella nuova opera restaurata. Capita spesso infatti, nell’approcciarsi al restauro di opere moderne, che l’architettura sia nata come contenitore di una funzione che non esiste più: è snaturata, affievolita, decontestualizzata ed ha bisogno di un soggetto professionale che ne affronti il restauro con una visione il più ampia possibile, che abbracci gli aspetti prettamente tecnici di verifica strutturale, consolidamento, restauro materico, efficientamento energetico e quelli, culturalmente ed eticamente più fondanti, di rivitalizzazione funzionale e di inserimento nel contesto urbanistico di nuove o variate funzioni, affrontando, alla luce delle normative nazionali e locali vigenti, quali che sono gli effetti su scala locale

Il caso Prato e la sfida della rigenerazione urbana

Emblema delle metamorfosi delle città moderne e contemporanee, Prato ha cambiato volto nel tempo, trasformando la sua vocazione tessile manufatturiera in una poliedricità di intenti, quasi a voler far rivivere in un intreccio di trama ed ordito i suoi mille volti: città d’arte contemporanea diffusa, centro d’eccellenza del riciclo e del riuso nonché alfiere della rigenerazione urbana, capitale del green empowerment col rilancio dell’”urban jungle”.

Mille volti e mille tracce nella città che cambia. Piccoli capannoni artigianali che diventano contenitori di nuovi sogni e grandi esempi di archeologia industriale che rilanciano nuove attività convivono in un paesaggio urbano segnato da innumerevoli ciminiere, segno di una città laniera che fu e testimonianza della città che sarà.

Il cambio di passo nell’economia pratese ha imposto oramai da alcuni decenni di definire nuovi tessuti urbani. La Prato produttiva non è più disseminata nei piccoli fondi artigianali dei terzisti, dove residenza e luogo di lavoro spesso si sovrapponevano. Non si sviluppa nemmeno più lungo il percorso idrografico delle gore, che un tempo disegnava sopra la città una maglia regolare, quasi una centuriazione produttiva che ha lasciato nel tempo traccia sul tessuto urbano esistente.

Il comparto produttivo si sposta nei macrolotti, dove gli spazi lavorativi si amplificano e sono ora sconnessi dai luoghi dell’abitare; dove l’architettura si standardizza, si ripete, identica a se stessa, a volte diversa solo per la propria geolocalizzazione.

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 164
Macrolotto Zero, Nuovo mercato coperto

I “capisaldi della produzione” e le “aree della mixitè”, inserite già di diritto nel piano strutturale Secchi (1997-2013), costituiscono il vulnus di questa Prato che vuole cambiare. Sono esempi di archeologia industriale (pochi) e sono (tanti) piccoli elementi di edilizia industriale e artigianale isolata o aggregata generalmente ubicata lungo le strade di penetrazione e di collegamento, in un avvicendarsi di case residenziali, fondi artigianali, corti, lotti interclusi.

La rigenerazione urbana di questo specifico segmento cittadino di epoca moderna si attua oggi su due binari.

Da un lato la spinta pubblica che mira a riqualificare ampie zone e renderle fruibili alla cittadinanza: si pensi al progetto del grande parco centrale a seguito dell’abbattimento dell’ex ospedale, in prossimità delle mura antiche del centro storico o alla riqualificazione del Macrolotto Zero, vecchio cuore del distretto produttivo pratese, oggi centro pulsante di una delle più numerose ed eterogenee comunità cinesi in Italia, che aspira a divenire nuovo distretto creativo cittadino con la recente realizzazione del playground, del primo mercato coperto della città e di una medialibrary con annesso coworking.

Dall’altro lato si attiva invece il contributo dei privati, che spesso si traduce in un intervento chirurgico di ricucitura di piccoli spazi sconnessi, modificando il vuoto lasciato da attività artigianali dismesse.

il restauro del moderno: la sfida dei professionisti di oggi • cecilia arianna gelli 165

Lotto Zero – ante restauro

Laddove lo strumento urbanistico vigente non consenta di fatto di sostituire nella sua interezza il corpo architettonico o qualora la committenza dimostri il proprio interesse a mantenere l’essenza di queste architetture, affidando ai tecnici un vero e proprio restauro del moderno, si svolge la sfida progettuale più impegnativa.

Non si tratta quindi di doversi confrontare solo con le grandi archeologie industriali del passato, dove un restauro quasi filologico è a volte pressochè inconscio nell’approccio progettuale, seppure coniugato e declinato con le nuove destinazioni d’uso da insediare.

La sfida reale più di frequente è invece ancora quella di sapere individuare l’iconicità di alcuni elementi architettonici nei piccoli manufatti di epoca moderna o in tutti quei fabbricati che, seppur dimensionalmente di rilievo, non presentano peculiarità tali da poterne fare un esempio archeologico e storico pregiato.

Lotto Zero, metafora della trasformazione

Situato a Nord Ovest del centro storico di Prato, il quartiere di Chiesanuova incarna perfettamente quello spirito di mixite tipicamente pratese: la foto aerea tradisce una stretta commistione tra spazi artigianali riconducibili in prevalenza alla seconda metà del Novecento ed edificato residenziale, in buona parte edifici terratetto ed in seconda istanza fabbricati in linea degli anni ‘60 e ‘70.

L’edificio che ospita a partire dall’ottobre 2016 la realtà di Lottozero nasce in via Arno in un agglomerato tipico del tessuto urbano di mixité pratese della fine degli anni ‘50: sulla strada si colloca l’edificio residenziale, palazzina in linea su tre piani fuori terra ed abitazione dei gestori dell’attività economica dislocata un tempo nell’edificio in seconda schiera, un capannone artigianale di circa 500 mq con accesso carrabile su strada ed intercluso nell’isolato edificato, tra corti interne, resedi e giardini dei circostanti fabbricati su strada.

Un tempo sede di un’attività di grossista alimentare, con i locali di stoccaggio e deposito collocati tra gli ambienti al piano terra dell’edificio residenziale, fronte strada, ed il capannone artigianale retrostante, alla fine del secolo scorso il complesso edificato risultava dismesso in tutte quelle porzioni un tempo destinate alle attività lavorative, permanendo la vocazione abitativa dei piani soprastanti.

Il cambio generazionale e la spinta trasformativa del mondo del tessile nella città pratese, ha indotto la terza generazione degli allora proprietari, le due giovani sorelle Tessa ed

Arianna Moroder, economista la prima, designer ed artista di talento la seconda, a voler investire nel cambiamento di questo spazio, destinandolo a nuovo hub/laboratorio tessile dove incoraggiare lo sviluppo dei talenti emergenti attraverso residenze creative e

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Foto aerea di Prato –Chiesanuova

collaborazioni con realtà consolidate, rivitalizzando uno dei distretti tessili leader in Europa, Prato.

Il progetto di restauro è stato finalizzato a ricreare all’interno degli spazi esistenti un laboratorio a cielo aperto di produzione, sperimentazione e ricerca tessile, uno spazio studio/ coworking condiviso, un’area espositiva e uno spazio refettorio per eventi, il tutto garantendo un’ottimale connessione con gli ambienti al piano terra fronte strada: a tale scopo è stata creata infatti un’ampia vetrata nella parete confinante con la corte interna del fabbricato, in modo tale da mettere in connessione i locali della palazzina su via Arno con il capannone in seconda schiera.

La richiesta della committenza di attualizzare il fabbricato in termini di efficienza e funzionalità senza snaturarne la natura storica e conservando alcuni elementi tipici dell’antica attività insediata ha trovato piena rispondenza nella fase progettuale.

Intervenire su questa tipologia di fabbricato di epoca moderna, che seppur nella sua modesta connotazione dimensionale e tipologica portava con sé un forte bagaglio emotivo per le committenti, ha significato cercare il giusto connubio tra tradizione ed innovazione, inserendo da un lato componenti tecnologiche contemporanee e coinvolgendo dall’altro artigiani locali per il restauro di elementi di arredo fortemente connotanti a cui si è scelto di non rinunciare.

L’idea cardine dell’intervento è stata quella di operare sul capannone le scelte progettuali più innovative, al fine di massimizzarne la funzionalità anche alla luce della nuova destinazione da insediarvi, mentre si è voluto garantire ai locali di ingresso al piano terra del fabbricato residenziale (nuovo foyer, ufficio, ex cella frigorifera) un restauro più conservativo e rispettoso delle preesistenze e degli arredi.

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Dettaglio foyer di ingresso ante restauro: la vecchia cella frigorifera e l’ufficio del titolare (foto di D. Burberi)

• Interno capannone, cantiere in corso Interno capannone –posa pavimento radiante e pavimento in cls

La struttura portante dei fabbricati risulta in cls portante; il capannone ha pareti perimetrali in muratura di laterizi pieni e copertura a volta. Il pavimento, in semplice getto di cls, risultava fondante su semplice piano in terra battuta..

L’intervento sul capannone si è articolato nella verifica delle strutture portanti con interventi puntuali di consolidamento, nella realizzazione della nuova grande apertura di 13 mq di collegamento con la corte interna del fabbricato residenziale, nella realizzazione di un nuovo solaio areato controterra, nell’introduzione di nuovi ed avanzati sistemi di climatizzazione ed illuminazione, nel risanamento delle murature e delle finiture con risoluzione dei problemi di umidità di risalita esistenti.

Il massivo intervento sul solaio controterra si è perfezionato con la posa di pavimento radiante e soprastante pavimentazione monolitica in calcestruzzo a basso modulo di ritiro, di spessore 12 cm, armata con rete elettrosaldata.

La componente impiantistica, nella scelta consapevole di adottare soluzioni tecnologicamente all’avanguardia, ha guidato il restauro verso la scelta più funzionale: l’impianto idronico a pavimento radiante alimentato da pompa di calore ad espansione diretta a refrigerante variabile di tipo inverter offre una corretta climatizzazione sia invernale che estiva ed il sistema domotico installato consente un perfetto controllo da remoto delle prestazioni dell’impianto stesso.

Gli infissi del capannone sono stati interamente sostituiti da nuovi infissi in acciaio MOGS con apertura motorizzata, una scelta stilistica dettata dall’esigenza di mantenere un chiaro richiamo alle specchiature industriali preesistenti, pur garantendo delle performance qualitative e di trasmittanza in linea con le vigenti normative in materia. L’impianto di illuminazione è realizzato interamente con elementi lineari a led EWO, un chiaro richiamo ai neon industriali preesistenti.

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Il restauro degli ambienti di ingresso di Lottozero si è svolto invece con una attenzione ancor più crescente ai dettagli esistenti.

La scelta stilistica è stata infatti quella di non intervenire in maniera distruttiva sull’esistente ma garantirne un recupero minuzioso: il pavimento in calcestruzzo non è stato sostituito ma è stato evidenziato nelle sue irregolarità mediante la posa di resine che potessero cristallizzarlo allo stato attuale, mantenendo inalterate le crepe del tempo. La stanza anticamente adibita a cella frigorifera è stata recuperata come camera oscura per laboratori fotografici: la suggestiva porta lignea esistente è stata sapientemente restaurata da artigiani locali, così come la struttura in legno e vetro delimitante l’originario ufficio del titolare che è stata restaurata ed il locale destinato ora a piccola biblioteca specializzata nei settori della moda, dell’arte tessile e del design, aperta alla cittadinanza su appuntamento ed inserita di fatto nei circuiti provinciali dei sistemi bibliotecari pratesi.

Anche gli elementi di illuminazione sono stati recuperati, restaurati e ricollocati nei locali esistenti, a segnare una preesistenza con forte connotazioni stilistiche.

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titolare
di
Vista del locale biblioteca un tempo ospitante l’ufficio del
(foto
A. Morganti)

La scelta di non intervenire sul solaio controterra ha imposto nei locali foyer, biblioteca e refettorio di studiare soluzioni alternative per la climatizzazione estiva ed invernale, che andasse ad integrare il sistema a pavimento scelto per il capannone.

Si è quindi optato per un sistema ad aria, scegliendo di fare dell’elemento impiantistico a vista un elemento caratterizzante degli spazi e ben integrato agli stessi.

Antico e moderno in simbiosi: un connubio a servizio della città

Il restauro di questi ambienti ha quindi fatto rivivere un manufatto oramai dismesso da decenni, divenendo nuovo polo attrattivo per l’intero quartiere.

La missione che Lotto Zero si è prefissa è quella di creare un ambiente fertile per la ricerca tessile e la sperimentazione nel design e nell’arte e una base internazionale per il networking nel settore tessile, incoraggiando e sostenendo lo sviluppo dei talenti emergenti dell’arte tessile e del disegno industriale.

Il progetto culturale delle due committenti si è completato con la possibilità per gli artisti interessati a partecipare alle attività di Lottozero, di soggiornare in uno degli appartamenti soprastanti il fabbricato, creando di fatto delle residenza artistiche permanenti.

In questo caso, il progetto architettonico di restauro è stato solo uno dei preliminari tasselli di un progetto di più ampio respiro e ben più ambizioso: portare a Prato giovani artisti europei talentuosi, avviando uno scambio tra aziende di produzione tessile locali e creativi di tutto il mondo, in uno spazio aperto e accessibile a tutti.

La missione progettuale portata a compimento ha preso quindi avvio dal riconoscimento dell’identità del luogo, identità di cui ne è stata fatto tesoro nell’iter progettuale di superamento delle eventuali fragilità costruttive e di inefficienze impiantistiche.

Il confronto costante con la committenza e con la loro tramandata memoria storica dei luoghi ha fatto il resto, garantendo una fruttuosa collaborazione che ha reso alla città un pezzetto della propria storia, proiettandola verso un nuovo futuro.

Questa può essere forse la strada più proficua per affrontare la sfida dei progettisti al restauro del moderno: creare una proficua simbiosi tra forma e funzione, tecnica e stile, in un approccio al progetto che ne valorizzi l’anima culturale perfezionandone gli aspetti tecnologici.

Crediti:

Progetto architettonico: Arch. Cecilia Arianna Gelli

Progetto strutturale: Ing. Alberto Magistrali

Progetto impianti meccanici: Ing. Silvia D’Agostino

Progetto impianti elettrici: Ing. Giannetto Fanelli

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Dettagli foyer e locale refettorio (foto di A. Morganti)

pagine successive ll laboratorio, aspetti diversi (foto di A. Morganti)

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la forma dell’esistente. il restauro della nuova

sede della camera di commercio di prato

Abstract

L’obiettivo di recuperare qualcosa, qualunque essa sia, è quello di riacquistare ciò che era stato perduto. Nel caso dell’architettura si tratta di restituire un edificio abbandonato o una porzione di città degradata, alle persone che la città la vivono quotidianamente. L’obiettivo del concorso per la realizzazione della nuova sede della Camera di Commercio di Prato era quello di recuperare un edificio produttivo, cambiandone però la funzione. Nella memoria collettiva l’edificio esistente è sempre stato una fabbrica e questo, da sempre, è stato il suo utilizzo storico. Ecco allora che il progetto di architettura si carica di una nuova responsabilità che supera l’idea del recupero e abbraccia la logica della trasformazione. Ed è proprio il cambio di destinazione d’uso che innesca quel meccanismo virtuoso di recupero reale dell’architettura, inteso non come riproposizione anonima dell’esistente, ma come ripensamento, come nuovo progetto dell’esistente. Un esistente degradato che, con il passare degli anni, è invecchiato, si è ammalato, ha perso la sua vitalità. In questi casi, all’accanimento terapeutico, è stato preferito il trapianto, che implica la trasformazione. Questo è stato richiesto, questo è stato fatto attraverso un’interpretazione critica dell’esistente. Ma come?

La richiesta del bando era molto precisa: il progetto doveva proporre un’immagine contemporanea senza compromettere quella storica consolidata. Un presupposto questo, molto vincolante che però ha stimolato una riflessione partita dalla consapevolezza di non doversi confrontare con un edificio di archeologia industriale come ce ne sono tanti nel territorio pratese. Era pertanto necessario restituire una nuova identità all’esistente partendo dalla sua storia che però è anche quella contemporanea e non solo quella che appartiene al suo passato. Fondere passato, presente e futuro in un unico gesto è stata la sfida che noi, studio MDU architetti, abbiamo raccolto.

La lettura dell’esistente ci ha fatto capire che la vera qualità dell’edificio era la sua dimensione, la sua particolarità di essere un volume grande, compatto, rimasto pressoché intatto e identico in tutti questi anni. Una presenza ingombrante che non passa inosservata. Come valorizzare questa memoria? Alcuni suggerimenti sono arrivati osservando il risultato di lavori di artisti come il non-finito della Pietà Rondanini di Michelangelo, gli impacchettamenti di Christo, i ritratti sfocati di Gerhard Ricther, i building-cuts di Gordon Matta Clark: artisti che interagiscono con l’esistente in modo tale che riconoscibilità e memoria vengano mantenute, ma senza rinunciare alla contemporaneità. Senza rinunciare all’interpretazione critica che svela potenzialità latenti non

Sede della Camera di Commercio. Vista dell’ingresso principale con uno dei tre squarci in facciata

Vista zenitale dell’area prima dell’intervento di restauro

dette e consente, secondo una logica di vedo-non vedo, di lasciare spazio alla libera interpretazione dell’osservatore che solo attraverso lo sguardo trasforma e definisce l’opera. La velatura, il non-finito, la sfocatura dell’immagine di partenza consente di restituire una nuova identità all’architettura senza negare la sua memoria, senza annullare l’immagine del suo passato. La soluzione di trattare in modo uniforme l’intero volume esistente con un rivestimento in alluminio anodizzato color bronzo ha l’obiettivo di offrire un’immagine contemporanea senza cancellare completamente la preesistenza che, in modo sfocato, si continua ancora a percepire. Passato, presente e futuro, coesistono insieme.

La nuova pelle metallica avvolge interamente l’edificio enfatizzando la sua dimensione, il suo essere “un fuori scala” ma, allo stesso tempo, grazie all’effetto trasparenza consente di intravedere ciò che sta dietro, ciò che sta in profondità. La nuova immagine che la Camera di Commercio di Prato offre alla città è una sfocatura dell’edificio industriale del quale si continuano a vedere gli elementi principali: la serialità delle aperture, le cornici marcapiano, gli elementi decorativi rappresentativi, le finestre.

Un vedo-non vedo che moltiplica e rilancia senza sosta le infinite possibilità di percezione del nuovo edificio contemporaneo.

Passato, presente e futuro per un progetto di restauro

Vista della grande fabbrica prima del restauro e (sotto) della Nuova sede della Camera di Commercio

-Anno 1960, in un bel giorno di primavera non ben precisato. Camminando lungo la via del Romito e la via Pelagatti era ancora possibile vedere, in lontananza, le mura trecentesche in pietra: la città non era ancora arrivata fino a lì, ma il rumore dei telai, la polvere e le numerose ciminiere che si alzavano dritte verso il cielo raccontavano e disegnavano quella che era la forma e la memoria della città di allora.

La grande fabbrica, voluta dall’imprenditore Adolfo Maggi e progettata dall’Ing. Mario Primi, si presentava come un autentico monumento: imperiale per la sua massa e volumetria, suggestivo per la sua dimensione e forma così esatta, così precisa. Cattedrale vera nel deserto la grande fabbrica era circondata solo da strade strerrate e prati: le case, quelle dove stavano le persone, erano lontane. Lì, nella fabbrica, si lavorava e basta. Lì, in periferia, dove il campanile del Duomo si vedeva piccino, Prato era ancora lontana.

-Anno 1980, un giorno caldo d’estate. I fusi e le rocche cadute dai furgoni aperti intralciano il traffico delle auto che circolano copiose intorno alla grande fabbrica che ora non è più isolata, ma circondata da case, botteghe e negozi. Intorno ronzano come api, dalle 5 del mattino alla mezzanotte, anche gli autobus della CAP perché proprio davanti all’ingresso principale di via del Romito si trova l’officina e il deposito della cooperativa che gestisce il trasporto pubblico a Prato e dintorni: lo conosco bene perché anche mio padre ci lavorava e spesso, da ragazzino, mi portava con lui anche se poi mi addormentavo

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 180

sempre sdraiato sul grande cruscotto accanto alla pulsantiera che apriva le porte per far salire e scendere le persone o nel posto per me più comodo, quello dietro all’autista.

-Anno 1990. Attraversando il grande ingresso su via del Romito si poteva accedere agli spazi interni della fabbrica per scoprire l’impensabile. Niente più telai, niente più rumore assordante, niente più tessuti arrotolati, niente più polvere che ti soffoca i polmoni. Solo grandi teli, strutture e pannelli in legno, sedie, luci, gelatine e scenografie intere o smontate. La grande fabbrica non esiste più. Non esiste più il movimento frenetico della produzione, bensì il silenzio ininterrotto dei magazzini. La grande fabbrica è diventata un grande deposito.

-Anno 2013, 27 maggio, giorno dell’apertura al pubblico di quella che era stata la grande fabbrica. Da quel momento la nuova sede della Camera di Commercio di Prato diventa casa delle imprese e spazio a disposizione della città per mostre, manifestazioni ed eventi. Un luogo di incontro e di lavoro che nasce dal recupero della grande, vecchia fabbrica pratese destinata, prima di diventare Camera di Commercio, ad essere deposito di materiali e attrezzature, quelle del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino.

Siamo davanti ad un edificio che, nel corso della sua vita, si è trasformato e modificato. Ma come è potuto succedere tutto questo? Cosa ha comportato questo suo cambiamento e quale è stato il prezzo che ha dovuto pagare?

Prima di rispondere a queste ed altre domande e prima di interrogarsi sulle diverse modalità di strategie di trasformazione dell’esistente, è necessario interrogarsi su cosa si intende per recupero e perché le sue implicazioni non sono solo estetiche ma sono soprattutto culturali.

Ancora prima occorre però fare chiarezza su un’altra cosa: restauro e rigenerazione non sono la stessa cosa!

Senza ricorrere al convenzionale e didascalico significato etimologico, ciò che è importante è capire cosa questi due diversi metodi di intervento sull’esistente, concedono all’esistente stesso.

Mi spiego meglio.

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Ogni operazione di recupero implica una scelta, quella di capire, interpretare e comprendere il messaggio originario per il quale l’esistente era stato concepito: il contesto in architettura, nonostante tutto, mantiene sempre il suo fascino ed importanza. Senza tradire quest’ultimo però, poiché recuperare è progettare, qualcosa dell’esistente dovrà essere sacrificato o, quanto meno, reinterpretato in chiave contemporanea.

È questa l’operazione che Brunelleschi compie quando progetta la sua meravigliosa cupola sullo scheletro seminudo di Santa Maria del Fiore. In questo caso il modello è quello del Pantheon il cui esempio tipologico viene recuperato e reinterpretato alla maniera rinascimentale.

Recupero = progetto.

Recupero pertanto riferito non solo ad un manufatto esistente ma anche ad un concetto o un modello e alla sua riproposizione critica. Non solo, recupero inteso anche come riscatto dell’esistente che abbraccia tutto, dall’edificio al territorio, dal monumento al paesaggio.

Nel recupero pertanto troviamo sia il restauro che la rigenerazione. Parliamo prima di restauro.

Tutto non può che partire dalla definizione del Carbonara:

“Atto di cultura e al tempo stesso altamente specialistico. Il restauro guarda al futuro e non al passato, neppure è riservato al godimento di pochi eletti cultori dell’antico. Esso ha funzioni educative e di memoria, per le future generazioni, per i giovani; riguarda, in fondo, non il compiacimento per gli studi in sé ma la formazione d’ogni cittadino e la sua qualità di vita, intesa nel senso spirituale e materiale più esteso”1

Una interpretazione questa che è molto di più di una semplice definizione: è una vera e propria dichiarazione di intenti che ha un respiro talmente ampio da abbracciare ogni campo tecnico ed artistico, creativo e specialistico. Un concetto trasversale che supera ogni disciplina per diventare un messaggio culturalmente universale e trasmissibile.

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, all’art. 29, comma 4, definisce in questi termini il restauro:

“Per restauro si intende l’intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all’integrità materiale ed al recupero del bene medesimo, alla protezione e trasmissione dei suoi valori culturali. Nel caso di beni immobili situati nelle zone dichiarate a rischio sismico in base alla normativa vigente, il restauro comprende l’intervento di miglioramento strutturale.”

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1 G. Carbonara, La reintegrazione dell’immagine, Roma, 1976, p. 27 e segg. Cfr. Il restauro del complesso di Petriolo: la tutela della memoria storica e la sua trasmissione al futuro, Giuseppina Clausi (in Bagni di Petriolo. Restauro e valorizzazione, a cura di Adriano Paolella, Edifir Edizioni Firenze, 2018, pp. 74)

Il testo

di “un

e raffinato percorso di definizione teorica del restauro”, che tiene insieme tre concetti essenziali: il problema della conservazione della materia originale, il problema della conservazione e trasmissione dei valori culturali, la conservazione, nella maggior misura possibile, del sistema costruttivo e del concetto strutturale originale, degli schemi statici originali, delle originarie modalità di scarico delle tensioni. “Al restauro non è delegata solo la funzione di conservare l’immagine, l’aspetto visivo, ma anche di conservare e trasmettere le informazioni tecniche e culturali codificate nel bene culturale oggetto di intervento”2.

È chiaro che da questa definizione la cosa importante da conservare dell’esistente, è la sua memoria, la sua ricchezza culturale affinché il suo messaggio originale non possa essere dimenticato ma trasmesso alle generazioni future.

La memoria (e quindi il progetto di restauro) è fatta di conservazione della materia, conservazione della forma e conservazione della struttura. Tre capisaldi capaci di trasformare l’esistente non congelandolo, bensì valorizzando la sua identità primaria. Una sorta di immersione nell’intimità profonda dell’esistente e funzionale alla sua rinascita. Niente a che vedere con l’atto di accondiscendere il fascino romantico della decadenza dei monumenti ma, a ben vedere, con la proposizione di un suo superamento attraverso un movimento, attraverso il progetto che è scelta critica e responsabilità di azione.

Restauro è quindi conservare la memoria senza rinunciare all’azione.

Così, nel 1963, Cesare Brandi:

“Il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro. Si restaura solo la materia dell’opera d’arte. Il restauro deve mirare al ristabilimento della unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo”.3

È quanto viene proposto da Anne Lacaton e Pierre Vassal con il restauro del Palais de Tokyo

a Parigi condotto tra il 2010 e il 2012 dove, gli spazi per un totale di 22000 mq nati in occasione dell’Esposizione Universale del 1937, vengono destinati a spazi per la creazione di arte contemporanea. La stessa cosa vale per la cupola del Reichstag a Berlino, opera di Norman Foster.

2 Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42. Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge

6 luglio 2002, n. 137 (G.U. n. 45 del 24 febbraio 2004, s.o. n. 28).

3 C. Brandi, Teoria del restauro, Lezioni raccolte da L. Vlad Borrelli, J. Raspi Serra, G. Urbani, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1963, pp. 34-36

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legislativo è il frutto
lungo

Tutto questo per chiarire che il restauro non rinuncia al progetto contemporaneo, non vuole essere una limitazione agli interventi sull’esistente proponendo soluzioni legate ad un linguaggio storicista o comunque del passato. Il restauro mira principalmente ad un rilancio progressista della cultura dell’esistente.

Parliamo ora di rigenerazione.

Si parte male perché una definizione condivisa del termine rigenerazione ancora oggi non esiste.

Nel marzo 2019, è stato discusso alle camere un ddl specifico “Misure per la rigenerazione urbana” che la definisce come il “complesso sistematico di trasformazioni urbanistiche ed edilizie in ambiti urbani su aree e complessi edilizi caratterizzati da degrado urbanistico edilizio, ambientale o socio-economico”.

Faccio notare che non si parla né di paesaggio, né di architettura. Questo ddl auspica un “Piano nazionale per la rigenerazione urbana” che si pone molteplici obiettivi riguardo la salvaguardia del patrimonio edilizio e la riduzione del consumo di suolo.

La rigenerazione è inoltre caratterizzata da una componente sociale e relazionale molto stretta dove il rapporto con l’esistente gioca un ruolo molto importante in termini di tutela dell’ambiente. Si potrebbe pertanto dire che la rigenerazione ha come obiettivo primario quello di soddisfare le esigenze delle persone.

Inoltre è importante che in questo tipo di interventi non vengano realizzati edifici o strutture che danneggiano il patrimonio naturale o storico del territorio, e che vengano impiegati materiali eco-sostenibili per tutte le costruzioni.

Di fatto l’applicazione di questa modalità di recupero dell’esistente si basa sul suo efficientamento e l’individuazione delle nuove potenzialità future.

Uno dei passaggi fondamentali della rigenerazione è il riuso. Il cambio di destinazione d’uso e la rifunzionalizzazione sono l’occasione per dare nuova vita all’esistente trasformando la funzione per la quale l’edificio, lo spazio aperto, l’area degradata o altro erano stati pensati. Un altro aspetto molto importante che i processi di rigenerazione innescano in modo molto naturale, sono quelli legati alla partecipazione. Tutti temi questi, molto contemporanei ma solo apparentemente democratici.

Non è difficile notare lo scarto culturale che è possibile misurare tra il restauro e la rigenerazione.

Mentre il restauro affonda le sue radici nel passato e pone le basi per stimolare un dialogo propositivo se pur difficile e complesso con l’esistente, la rigenerazione sembra avanzare per slogan, per buoni propositi che mascherano una mancanza di profondità nel

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ragionamento, nell’approccio concettuale e progettuale. Mentre il restauro si propone come un metodo, la rigenerazione si propone come uno strumento. Il restauro è visionario e contemporaneo, la rigenerazione è pratica e orienta all’omologazione.

Ironia della sorte, tra gli esempi di rigenerazione urbana più interessanti che il panorama contemporaneo ci offre, sono gli interventi fatti a Medelin, in Colombia. Qui, i sindaci Luis Perez prima e Sergio Fajardo dopo, attraverso delle pratiche di agopuntura urbana, hanno promosso e sostenuto tutta una serie puntuale di interventi che hanno innescato processi di rigenerazione dove è però venuta meno la premessa iniziale che si pone come obiettivo principale quello di non consumare nuovo suolo per l’edificazione. In questo caso niente di tutto questo dal momento che alcune parti di città sono state demolite e molte altre intensamente costruite.

La Camera di Commercio di Prato non si sottrae alle logiche del recupero. L’obiettivo di recuperare qualcosa, qualunque essa sia, è quella di riacquistare ciò che era stato perduto. Nel caso dell’architettura si tratta di restituire un edificio abbandonato o una porzione di città degradata, alle persone che la città la vivono quotidianamente. L’orientamento del concorso per la realizzazione della nuova sede della Camera di Commercio di Prato era quello di recuperare un edificio produttivo, cambiandone la funzione. Nella memoria collettiva l’edificio esistente è sempre stata una fabbrica e questo, da sempre, è stato il suo utilizzo storico. Ecco allora che il progetto di architettura si carica di una nuova responsabilità che abbraccia l’idea del recupero e accetta la logica della trasformazione. Ed è proprio il cambio di destinazione d’uso che innesca quel meccanismo virtuoso di recupero reale dell’architettura, inteso non come riproposizione anonima dell’esistente, ma come ripensamento, come nuovo progetto dell’esistente. Un esistente degradato che, con il passare degli anni, è invecchiato, si è ammalato, ha perso la sua vitalità. In questo caso, all’accanimento terapeutico, è stato preferito il trapianto, che implica la trasformazione. Questo è stato richiesto, questo è stato fatto attraverso un’interpretazione critica dell’esistente. Ma come?

La richiesta del bando era molto precisa: il progetto doveva proporre un’immagine contemporanea senza compromettere quella storica consolidata. L’idea del restauro che tutela la memoria storica e ne garantisce al tempo stesso la trasmissione futura è il concetto base che ha guidato il progetto: l’immagine del passato non si cancella ma si trasforma. Un presupposto questo, molto vincolante che però ha stimolato una riflessione partita dalla consapevolezza di non doversi confrontare con un edificio di archeologia industriale come ce ne sono tanti nel territorio pratese. Era pertanto necessario restituire una nuova identità all’esistente partendo dalla sua storia che però è anche quella contemporanea e non solo

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quella che appartiene al suo passato. Fondere passato, presente e futuro in un unico gesto è stata la sfida che noi, studio MDU architetti, abbiamo raccolto.

La lettura dell’esistente ci ha fatto capire che la vera qualità dell’edificio era la sua dimensione, la sua particolarità di essere un volume grande, compatto, rimasto pressoché intatto e identico in tutti questi anni. La grande fabbrica degli anni ‘60, il monumento imperiale per massa e dimensione era sempre lì, immobile e statico in attesa che succedesse qualcosa. Una presenza ingombrante che non passa inosservata.

Come valorizzare questa memoria?

Alcuni suggerimenti sono arrivati osservando il risultato di lavori di artisti come il non-finito della Pietà Rondanini di Michelagelo, gli impacchettamenti di Christo, i ritratti sfocati di Gherhard Ricther, i building-cuts di Gordon Matta-Clark: artisti che interagiscono con l’esistente in modo tale che riconoscibilità e memoria vengano mantenute, ma senza rinunciare alla contemporaneità. Senza rinunciare all’interpretazione critica che svela potenzialità latenti non dette e consente, secondo una logica di vedo-non vedo,

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di lasciare spazio alla libera interpretazione dell’osservatore che solo attraverso lo sguardo trasforma e definisce l’opera. La velatura, il non-finito, la sfocatura dell’immagine di partenza consente di restituire una nuova identità all’architettura senza negare la sua memoria, senza annullare l’immagine del suo passato. La soluzione di trattare in modo uniforme l’intero volume esistente con un rivestimento in alluminio anodizzato color bronzo ha l’obiettivo di offrire un’immagine contemporanea senza cancellare completamente la preesistenza che, in modo sfocato, si continua ancora a percepire. Passato, presente e futuro, coesistono insieme.

Il progetto nasce con il duplice obiettivo di realizzare un edificio dall’immagine contemporanea che sia espressione della memoria e dell’identità della città di Prato nella logica di enfatizzare, attraverso l’architettura, il ruolo pubblico che riveste l’istituzione della Camera di Commercio.

Il restauro segue due strategie parallele: da una parte accetta, enfatizza e reinterpreta la stereometria e la regolarità dell’edificio esistente, dall’altra apre il volume alla città, in modo da donare alla collettività una nuova piazza-giardino accessibile durante gli orari di apertura. L’edificio industriale viene mantenuto pressoché intatto nelle sue caratteristiche architettoniche e strutturali: l’unica vera eccezione (oltre ai tagli di ingresso) è la grande apertura che proietta la sala del consiglio verso la città. La sala si apre verso il centro storico e si relaziona visivamente con il campanile del Duomo, con la cupola della chiesa di S. Maria delle Carceri e con la ciminiera dell’antica Cimatoria Campolmi, landmark urbano di identificazione collettiva da oltre un secolo e ulteriore simbolo di rinnovamento del distretto per la nuova

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funzione di Museo del Tessuto. Allo stesso tempo la grande finestra rende esplicita la funzione pubblica nel senso della trasparenza e apertura dell’ente nei confronti della città. Accanto a questa operazione architettonica di sovrapposizione di materiali e memoria, il progetto apre fisicamente l’edificio alla città, enfatizzando il ruolo pubblico della Camera di Commercio: l’attuale corte interna, grazie a dei profondi tagli nel corpo compatto dell’edificio caratterizzati dal trattamento cromatico e di texture della pannellatura in cor-ten, si trasforma in una nuova centralità urbana, una piazza-giardino accessibile durante gli orari di apertura degli uffici dall’ingresso esistente su Via del Romito. Il progetto definisce una nuova connessione urbana tra la nuova sede camerale e la città. Gli squarci nel corpo compatto dell’edificio esistente sono enfatizzati dalle forme geometriche spezzate che si contrappongono al disegno razionale dell’edificio esistente e rendono evidenti gli ingressi alla piazza-giardino e agli uffici camerali.

La parete del corpo di fabbrica destinato all’auditorium di 400 posti viene caratterizzata dallo stesso trattamento cromatico e materico in cor-ten dei tagli di ingresso. La pavimentazione della piazza-giardino rende esplicito il collegamento alla città grazie ad un disegno ed un trattamento che si espande verso l’esterno.

Il progetto insegue un dialogo serrato tra la scala urbana e quella architettonica. La struttura architettonica preesistente e il sistema all’interno del quale è inserita hanno suggerito un intervento di restauro sensibile capace di stabilire nuove relazioni la città e la

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Viste di dettaglio della Camera di Commercio Vista interna della corte e scorcio del ponte di collegamento interno alla corte.
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nuova architettura. L’edificio, con un volume di oltre 35 mila metri cubi e realizzato in classe energetica A, trasforma il suo cuore pulsante interno in uno spazio pubblico al quale si può accedere attraverso tre profonde fenditure che squarciano la massa monolitica aprendola e rendendola disponibile all’attraversamento. In alcuni punti il monolite si apre all’esterno, ora attraverso i potenti squarci verticali che collegano la corte interna alla città, ora tramite la generosa apertura della sala del consiglio con vista sui principali monumenti della città.

Nella corte interna l’identità pratese è segnalata dal restauro filologico delle pareti che dialogano con le forme e i materiali nuovi del ponte di collegamento delle due ali lunghe dell’edificio e della parete sullo sfondo: lamiera in cor-ten per i rivestimenti e vetro u-glass per il ponte aereo.

La nuova sede camerale, con la sua certificazione energetica in classe A+, utilizza materiali, tecnologie e impianti che perseguono l’obiettivo di ridurre al minimo il consumo di energia. Dall’asfalto rigenerato alla ventilazione naturale, dall’uso di materiali riciclati, ad un sistema di isolamento per le pareti in lana rigenerata, fino all’uso delle lamiere in alluminio anodizzato completamente riciclabili. Fotovoltaico, solare termico e geotermia completano il quadro di una dotazione impiantistica che rendono l’edificio energeticamente indipendente. Con queste e altre scelte, il progetto intende ricostruire un brano di città dove la forma compatta dell’isolato urbano viene confermata dal rivestimento in lamiera stirata ma allo stesso tempo è caratterizzata da delle cesure verticali che rivelano una permeabilità inattesa. L’area della nuova sede della Camera di Commercio, circa 5 mila metri quadrati originariamente di proprietà privata, diventa pubblica. A questa si aggiungono i nuovi percorsi pedociclabili, il disegno del verde pubblico e gli arredi che riconnettono il vecchio lotto al cuore della città.

La nuova pelle metallica avvolge interamente l’edificio enfatizzando la sua dimensione, il suo essere “un fuori scala” ma, allo stesso tempo, grazie all’effetto trasparenza, consente di intravedere ciò che sta dietro, ciò che sta in profondità. La nuova immagine che la Camera di Commercio di Prato offre alla città è una sfocatura dell’edificio industriale del quale si continuano a vedere gli elementi principali: la serialità delle aperture, le cornici marcapiano, gli elementi decorativi rappresentativi, le finestre. Un vedo-non vedo che moltiplica e rilancia senza sosta le infinite possibilità di percezione del nuovo edificio contemporaneo. La sfida è stata quella di pensare ad una nuova immagine dell’edificio esistente conservandone al tempo stesso la sua memoria. Un progetto di restauro che mantiene viva la memoria del passato senza rinunciare alla contemporaneità che ne esalta il significato garantendo la diffusione futura.

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• Vista della scala nel foyer di accesso all’auditorium
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possibili forme di rigenerazione urbana attraverso il recupero del patrimonio industriale dismesso.

il progetto di innovazione urbana p.i.u. prato al “macrolotto zero”

Abstract

Analizzando e riflettendo sul tema del recupero e del riuso l’attenzione e l’interesse cadono sovente sul patrimonio industriale e produttivo dismesso o sottoutilizzato che rappresenta una parte considerevole del patrimonio immobiliare censito.

Nel contesto specifico della giornata di studi merita porre attenzione sulla genesi e sulle dinamiche di evoluzione del sistema produttivo Pratese, sul fenomeno del parziale ridimensionamento e dismissione del patrimonio industriale e sulle possibili forme di rigenerazione e riconversione afferenti sia alla scala di intervento architettonico che alla scala urbana, considerando ed analizzando le varie problematiche operative rispetto alle normative vigenti e proponendo spunti di riflessione su possibili modalità strategiche ed operative.

In generale lo sviluppo delle città e le dinamiche urbane e sociali derivanti dai processi di industrializzazione ed inurbamento del 1900 hanno lasciato in eredità una impronta indelebile sulla struttura urbana delle città contemporanee e sulle strutture sociali che ne sono scaturite.

Realizzando comparti e brani di città spesso monofunzionali, con originari assetti aderenti unicamente alle specifiche necessità produttive dell’epoca di impianto e realizzazione ma che risultavano spesso sin dal principio estranei alle realtà urbane adiacenti, disconnesse da queste ed assolutamente carenti dal punto di vista delle dotazioni collettive.

Ed i mutati scenari derivanti dal susseguirsi delle recenti crisi economiche e delle modifiche degli assetti produttivi hanno prodotto problematiche rilevanti e non ancora compiutamente affrontate e risolte sui temi dell’abbandono di parte del patrimonio immobiliare, del suo possibile recupero e riuso funzionale e della nuova socialità da attivare per un compiuto recupero in termini urbanistici, architettonici e soprattutto di vita sociale di questi importanti brani urbani. Rilevanti nell’affrontare possibili forme di recupero e rigenerazione risultano le problematiche relative agli assetti patrimoniali (talvolta con complessi immobiliari di vasta estensione afferenti ad una moltitudine di soggetti spesso con obiettivi, strategie e possibilità economiche diversificate), agli scenari di pianificazione urbanistica (connessi a tipologie di intervento ed a destinazioni d’uso) ed alla rispondenza degli interventi rispetto alle normative di vario ordine e rango.

Considerazioni generali

La sfida del recupero e della riqualificazione urbana assume in questa fase storica un ruolo primario nella definizione degli ambiti di vita comune, ed il tema della qualità urbana passa

P.I.U. Prato. Lo spazio coworking

necessariamente dal recupero del patrimonio dismesso, a prescindere dalla destinazione d’uso e dell’ambito urbano di riferimento.

Recuperare, riutilizzare e rifunzionalizzare il patrimonio immobiliare esistente attraverso destinazioni diversificate e premianti accompagnandolo con la realizzazione o la maggior qualificazione della città pubblica, migliorando la qualità urbana collettiva e recuperando spazi di socialità significa fornire a tutti, indipendentemente dalle proprie condizioni personali, spazi di città apprezzabili e godibili; e questa sfida è ottenibile intervenendo sui temi generali del riuso, della rigenerazione urbana e della qualificazione dello spazio pubblico.

Che sono temi da trattare in una visione unitaria per superare la semplice qualificazione di un’area per intervenire invece sul tema dello spazio e del sistema urbano fatto di edifici e di vuoti, di destinazioni private e collettive che si valorizzano a vicenda innalzando la qualità del vivere.

Quanto rappresentato ci porta a riflettere su quali strategie si rendono necessarie ed indispensabili per affrontare compiutamente una fattiva riqualificazione e rifunzionalizzazione dell’esistente ed a definire un concetto di riuso rispettoso delle forme e degli assetti consolidati ma al contempo proiettato nella contemporaneità e nel futuro.

Da un lato occorrerà continuare a procedere con una attenta analisi e classificazione del patrimonio industriale esistente, identificando i complessi di archeologia industriale intrinsecamente preziosi e/o comunque le aggregazioni funzionali degne di conservazione in quanto costituenti contesti peculiari che giocano un ruolo urbano negli ambiti urbani di riferimento; in aggiunta a questi identificare il patrimonio immobiliare privo di caratteristiche peculiari non necessariamente rilevanti ai fini di una conservazione.

Una volta delineati gli elementi di “invarianza urbana” e le porzioni da poter “trasformare” la sfida si sposta quindi sulla chiara identificazione di strategie di attuazione e nell’individuazione di regole urbanistiche ed edilizie improntate ad una fattiva attuazione degli interventi e sottese ad una visione generale di ridisegno della città e degli spazi, unendo alla consapevolezza culturale quella tecnica legata alle complessità che l’attuazione di un progetto richiede.

In questa ottica generale la sfida del “Riuso” e della riconversione risulta determinante ed il termine “Riuso” non può limitarsi ad una concezione puramente conservativa del costruito; riusare un complesso dismesso può significare demolirne alcune porzioni per la realizzazione di nuovi edifici di architettura contemporanea e di nuovi spazi pubblici. Riusare non può rappresentare un elemento unicamente di vincolo ma deve invece liberare spazi di creatività e di qualità urbana, nella consapevolezza però di dover

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necessariamente ritrovare quegli equilibri economici e sociali alla base di ogni ipotizzabile trasformazione.

Ritrovare un difficile e delicato equilibrio tra interesse pubblico e privato, garantire un prezioso disegno della città pubblica per restituire qualità urbana ma garantendo la concreta fattibilità economica delle trasformazioni pianificate per non farle restare disegno su carta; perché parlare di rigenerazione urbana ha senso se ci dotiamo di regole chiare ed attuabili, se esiste davvero l’equilibrio tra l’operatore privato ed il bene pubblico.

Perché parlare di RIUSO ha senso se si accompagna la strategia di recupero ad un quadro normativo che consenta di agire davvero verso il recupero, se la qualità dell’intervento progettato può superare una norma stringente dettata in ordine generale e non sullo specifico complesso. Perché a volte l’adeguamento normativo è difficile, inattuabile o attuabile solo attraverso lo stravolgimento dei caratteri del manufatto da tutelare. Perché a volte l’enunciato di tutela è chiaro e apparentemente indiscutibile, ma talvolta produce effetti contrari alla tutela e porta all’immobilismo ed ad ulteriore abbandono con conseguenze irrecuperabili per il patrimonio architettonico.

Conservare un edificio e con questo la memoria della storia industriale della città, rigenerarlo conferendogli una nuova vita, trasformare quindi un luogo monofunzionale in qualcos’altro rappresenta una occasione ma risulta dispendioso dal punto di vista economico e gestionale e tale sforzo può essere sostenuto da scelte strategiche e da una visione forte da parte delle amministrazioni pubbliche per l’attuazione di interventi a carattere collettivo e con specifiche destinazioni d’uso; pensare di poter trasferire questo tipo di esperienza direttamente al contesto privato è invece sicuramente più complicato in termini di rapporto costi/ benefici e in termini di future destinazioni d’uso insediabili e di quadratura economica degli interventi e per questo richiede valutazioni approfondite e specifiche calate sullo specifico caso, sulle peculiari condizioni conservative/statiche del complesso, sul totale dei costi necessari per ogni tipo di adeguamento ed onere e sui risultati attesi dal punto di vista urbanistico ed architettonico. Solo dopo aver analizzato nel dettaglio il quadro conoscitivo ed avere verificato la fattibilità tecnica ed economica si può procedere verso una pianificazione conformativa che vada a normare compiutamente la trasformazione attesa con la certezza che la stessa possa risultare attuabile anche concordando eventuali deroghe specifiche ai regolamenti vigenti, che operano nella generalità dei casi ma talvolta risultano difficile da rispettare nella peculiare casistica del recupero.

Ovviamente diverso è il caso dei progetti di recupero attuati tramite intervento pubblico dove diversa è la natura dell’operatore e di conseguenza diverse sono le strategie e le scelte di natura economica che vanno a premiare una visione ed un interesse generale consentendo scelte ed operatività diverse da quelle attuabili da un soggetto privato.

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In questo senso il Pubblico, potendo intervenire direttamente attraverso strumenti gestionali derivanti da una scelta amministrativa e con obiettivi di più ampia portata decisionale ed economica, può realizzare interventi pionieri ed esplorare modalità attuative con il preciso scopo di costituire le basi di una qualificazione complessiva realizzando interventi di riqualificazione urbana e funzionale che facciano però da traino ad interventi privati, per l’attuazione dei quali occorre gettare amministrativamente le basi e costruire un ambiente ricettivo ai cambiamenti ed alle trasformazioni per incentivare e stimolare gli interventi degli operatori economici.

Occorre quindi definire un percorso che coinvolga gli interventi pubblici pianificati ed attuati e possibili interventi al contorno che possano reciprocamente integrarsi, avvantaggiandosi l’uno della presenza dell’altro, attuando una trasformazione urbana complessiva e non per comparti.

Di pari passo agli interventi di riuso e di riqualificazione urbana, ed a questi intrinsecamente connessi, i nuovi spazi pubblici dovranno assumere un ruolo determinante nel riuso diventando elementi strutturali nella definizione urbana con un preciso ruolo centrale in termini spaziali e fruitivi/relazionali.

Partendo quindi dai temi determinanti del recupero e della qualificazione urbana si rende necessario individuare dal principio quegli ambiti strategici che opportunamente sviluppati e rivisti funzionino da volano per il miglioramento dell’immagine e del funzionamento della città, restituendo ordine a situazioni compromesse e ritrovando/ costruendo nuova qualità dei luoghi urbani.

La realtà Pratese ed il Progetto P.I.U. Prato

Le problematiche generali sopra evidenziate, le dinamiche di deindustrializzazione, comuni a molte città post-industriali in cui gli assetti produttivi sono andati persi o si sono trasformati sia funzionalmente che dal punto di vista localizzativo, e le problematiche attuative dei processi di rigenerazione urbana sono state a più riprese studiate dalla città di Prato, che rappresenta l’esempio per eccellenza della “Città Fabbrica” con peculiari quartieri ed aree urbane in cui il mix funzionale tra casa ed edifici produttivi nasceva per ritrovare le condizioni ideali per vivere e lavorare in simbiosi.

Erano gli anni del frenetico sviluppo industriale, dell’espansione del comparto produttivo laniero e manifatturiero e della conseguente forte immigrazione in città; e lo sviluppo caotico di porzioni della “Città Fabbrica”, con altissimi indici di edificabilità ed una densità urbana che non lasciava spazio ad aree scoperte e spazi di vita collettiva, era tollerato sulla scia delle ricadute economiche, occupazionali e sociali derivanti da tale assetto

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produttivo. Successivamente scelte di politica urbanistica hanno portato alla pianificazione dei Macrolotti Industriali per garantire una maggiore funzionalità al sistema industriale e manifatturiero, con il trasferimento di parte delle aziende cittadine in aree specificamente dedicate ed adeguatamente infrastrutturale e con il contestuale pianificato recupero degli originari edifici industriali collocati all’interno del tessuto urbano cittadino o con la loro sostituzione edilizia verso destinazioni d’uso maggiormente compatibili. Il pianificato meccanismo di trasferimento e trasformazione, che nelle intenzioni avrebbe dovuto qualificare contestualmente la struttura dell’industria tessile pratese e le aree urbane da riconvertire tramite un meccanismo di reciproco supporto economico e finanziario, è diventato operativo a ridosso del manifestarsi di due distinti fenomeni che di fatto hanno rallentato o addirittura interrotto le strategie di pianificazione: la crisi del comparto industriale tradizionale, con le conseguenti problematiche economiche delle imprese pratesi, e la crescita del nuovo comparto produttivo gestito dalla comunità cinese con il conseguente consolidarsi del fenomeno migratorio dalla Cina.

I due fattori, da un lato l’alto costo delle operazioni di trasferimento e trasformazione spesso non sorrette da un adeguato equilibrio economico e dall’altro la rinnovata redditività dei complessi immobiliari esistenti per le esigenze del comparto produttivo a gestione cinese, hanno portato negli anni il quartiere del Macrolotto Zero (di fatto la prima area produttiva cittadina aggregata) a confrontarsi ed affrontare sia fenomeni di abbandono dei complessi industriali sia dinamiche “problematiche” di riuso del sistema casa-lavoro che hanno consolidato la struttura urbana densa e poco qualificata aggravando le problematiche di natura sociale già in essere.

Nel corso degli anni il quartiere ha iniziato a stimolare l’interesse di una ampia e variegata comunità di soggetti (locali e non) interessati ad analizzare e studiare il quartiere e la sua comunità e ad avanzare proposte di sviluppo ed iniziative volte a valorizzare la peculiarità del luogo verso nuove forme di urbanità e di socialità. Molte sono state le iniziative culturali sviluppatesi “dal basso” affiancate da altrettanto numerose iniziative di ricerca specialistica condotte anche in seno a varie Università italiane che hanno analizzato dall’esterno il quartiere e le sue dinamiche.

Dal punto di vista urbanistico ed architettonico numerosi sono stati gli studi ed i progetti che hanno avanzato proposte e suggestioni per superare la connotazione dell’area e proiettarla nello scenario contemporaneo, con soluzioni diversificate e magari contraddittorie che hanno avuto il merito di suscitare l’attenzione e l’interesse sul quartiere, alimentando anche accese polemiche che hanno consentito di mantenere il quartiere al centro della discussione cittadina.

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La principale occasione per poter avanzare un fattivo e concreto progetto di trasformazione urbana del quartiere ed intercettare i finanziamenti disponibili è stato il bando relativo al POR FESR 2014-2020 asse 6 urbano, emesso dalla Comunità Europea e attuato dalla Regione Toscana; attraverso il Progetto di Innovazione Urbana PIU PRATO redatto dall’Ufficio Pianificazione dello Spazio Pubblico il Comune di Prato ha ottenuto il cofinanziamento per la realizzazione degli interventi previsti nella riqualificazione urbana dell’ampio comparto urbanistico del “Macrolotto Zero”.

Il progetto ha previsto la riqualificazione urbanistica e sociale del cuore del comparto produttivo attorno alla via Pistoiese, con un intervento a varia scala di azione rispettoso dei caratteri peculiari della struttura urbana e dell’edificato esistente ma al contempo teso alla ricerca di una nuova identità urbana contemporanea che, in continuità con l’immagine della Città-Fabbrica, consenta di costruire una identità collettiva ed un senso di appartenenza agli utenti stanziali ed un luogo centrale di incontri per l’intera collettività grazie all’insediamento di destinazioni collettive e ad un innalzamento quantitativo e qualitativo dello standard urbano.

Il peculiare contesto di riferimento, lo stato di abbandono di parte del tessuto produttivo del quartiere e l’attuazione di un intervento pubblico con finanziamenti dedicati con la possibilità di acquisire porzione del patrimonio immobiliare dismesso ha fatto emergere l’opportunità strategica e la concreta possibilità di proporre un intervento a scala urbana che ha declinato ed affrontato il tema del “riuso” intervenendo sul quartiere e superando

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Planimetria Generale P.I.U. Prato

quindi il prevalente intervento sul singolo edificio o complesso per realizzare invece una visione di sistema che investisse il “Macrolotto Zero” per strutturare un intervento sulla città pubblica con spazi di servizi, socialità e relazione storicamente strutturalmente mancanti nel quartiere. Il bando di finanziamento, impostato su linee di azione relative ad interventi di natura sociale in ambiti urbanisticamente ed ambientalmente degradati, ha creato le condizioni economiche ed operative per intervenire su un ampio comparto urbano, superando il consueto e prevalente intervento di “riuso” attuato sui singoli edifici e sul loro stretto recupero e rifunzionalizzazione, condizione che porta solitamente a recuperare e ripensare edifici o complessi immobiliari spesso già intrinsecamente di valore riconosciuto e riconoscibile in ambiti urbani centrali o comunque prevalentemente qualificati con interventi che si attestano al perimetro murato od alla pertinenza stretta del manufatto per ricostruire un perimetro perfetto da godere e frequentare, senza poter ampliare l’ambito di intervento e coinvolgere il sistema urbano di riferimento.

Tali edifici e complessi rappresentano la minoranza del patrimonio immobiliare ed ovviamente poter intervenire sul restauro dei complessi di valore rappresenta un tema affascinante e professionalmente gratificante ed una sfida stimolante del progetto, del suo approccio e del suo inserimento in rapporto ad un elemento di pregio esistente.

Diversa è stata invece l’esperienza di intervenire, come nel nostro caso, nel definire un progetto di recupero in assenza di elementi di pregio o di valore riconosciuto su tipologie di edifici che rappresentano invece la stragrande maggioranza del patrimonio immobiliare esistente.

Disporre di edifici ed aree non qualificati ed abbandonati all’interno di aree e contesti difficili e “periferici” dove si rende necessario superare la stretta rifunzionalizzazione puntuale per ricercare invece la definizione di un nuovo sistema urbano e collettivo a scala più vasta di quartiere.

Una sfida diversa ma non meno affascinante che porta il progettista a coinvolgere edifici ed aree non sempre (o quasi mai) caratterizzati da valori architettonici propri e riconosciuti ma che giocano o possono giocare in futuro un “ruolo” urbano determinante per posizione o aggregazione rispetto al contesto attuale ed allo scenario urbano da riprogettare. Ed utilizzarli riprogettandone la caratterizzazione architettonica e la funzione non esclusivamente come elemento centrale puntuale del progetto ma come somma di elementi ordinatori del disegno urbano da far coesistere e mettere a sistema nella ricerca di un nuovo articolato sistema fatto di destinazioni diversificate e nuovi spazi pubblici.

All’interno del più ampio scenario del Macrolotto Zero il progetto ha identificato tre aree principali, coincidenti con complessi industriali dismessi ed abbandonati da anni e con

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l’unica area scoperta dismessa e storicamente destinata a stoccaggio dell’adiacente complesso industriale, oltre agli assi viari di via Pistoiese e via Umberto Giordano; le aree ed i complessi individuati sono stati riutilizzati per la realizzazione di:

• un Playground nella porzione sud del comparto urbano ottenuto recuperando una ex area di deposito un tempo a servizio dell’industria tessile ma ormai abbandonata da anni, della quale è stata mantenuta l’impostazione planimetrica esistente consolidata ma con una nuova impronta architettonica contemporanea e con elementi iconografici ed artistici in grado di identificare l’area come marcatore urbano, come luogo centrale che potesse sviluppare nella comunità un senso di appartenenza e di identità per rompere l’anonimo pregresso isolamento dell’area e del quartiere portandolo invece al centro della vita sociale e delle relazioni con il nuovo sistema generale di spazi pubblici;

• un Mercato Coperto, ricavato all’interno di un complesso di archeologia industriale destinato ad accogliere la vendita di prodotti alimentari a Km zero e della filiera corta oltre a manifestazioni ed eventi pubblici direttamente connesso, attraverso l’ampio fronte di accesso all’edificio, con il nuovo sistema di spazi pubblici ed aree scoperte

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• Vista
P.I.U.
complessiva
Prato

che investe il quartiere;

• una Medialibrary ed un Coworking realizzati nella porzione nord attraverso il recupero e la rifunzionalizzazione di un ex edificio industriale dismesso a cui è stata associata la realizzazione di nuovi spazi scoperti pavimentati, inerbiti ed alberati che fungono da nuovo luogo centrale e da nuova connessione urbana tra le varie porzioni del quartiere e con gli ambiti di riferimento a scala locale e cittadina. L’area scoperta ottenuta dalla consistente demolizione di parte del complesso produttivo riveste un duplice ruolo: a scala urbana la nuova piazza consente di porre in diretta connessione via Filzi e via Pistoiese, alleggerendo l’alta densità edilizia e permettendo una permeabilità lenta che investe l’isolato realizzando una connessione fisica, mentre a scala locale rappresenta l’interfaccia agli edifici conservati e rifunzionalizzati che trovano sulla piazza un ideale prolungamento aperto al sistema delle nuove funzioni e delle relazioni insediate;

• una strategia complessiva di mobilità sostenibile per l’area di intervento con la ridefinizione delle sezioni stradali esistenti con realizzazione di zone 30 destinate al traffico veicolare ed il consistente aumento delle porzioni destinate alla mobilità lenta che si caratterizzano come spazi di relazione lineare alberati ed arredati per costituire un sistema connettivo che investe l’intera area di intervento collegando le varie emergenze architettoniche e funzionali per definire un sistema compiuto che porti dalla “città fabbrica” alla “città compiuta” dotata di servizi, infrastrutture e spazi pubblici per elevare complessivamente la qualità del vivere e del lavorare.

Il progetto interviene alla scala di quartiere e propone la definizione di una impronta architettonica contemporanea che si integra con il paesaggio urbano consueto e consolidato costituito dall’alternanza di edifici residenziali ed industriali che senza soluzione di continuità caratterizzano i fronti stradali tutti edificati, ma che cerca di introdurre elementi architettonici contemporanei come marcatori urbani ed elementi in grado di strutturare una identificazione spaziale ed una riconoscibilità per sviluppare un senso di appartenenza collettiva che superi il vecchio senso di inadeguatezza del quartiere e la disaffezione dei suoi abitanti verso una nuova definizione contemporanea di spazio e società.

Considerato che le aree individuate non presentavano complessi o edifici di particolare pregio o scenari architettonicamente significanti la sfida progettuale è stata quella di definire una nuova immagine architettonica rispettosa dei caratteri originari del quartiere che reinterpretasse le forme consuete dei complessi industriali in chiave contemporanea sia nella caratterizzazione degli impaginati di facciata e nel rapporto con il contesto esterno sia nella definizione degli spazi interni ricercando in alti standard qualitativi e prestazionali in funzione delle nuove destinazioni da insediare.

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La scelta progettuale proposta per gli edifici conservati ha contemplato sia il recupero di contenitori consueti per forme e memoria quali i capannoni a volta, sia la ridefinizione del tema della copertura a “shed” ottenuta con la realizzazione di una parziale integrazione all’esistente con una struttura in acciaio avente copertura asimmetrica.

In ogni caso la caratterizzazione architettonica ha ricercato, sia per gli esterni che per gli interni, un marcato richiamo alla memoria produttiva del quartiere con uso di materiali associati al linguaggio industriale e la marcata presenza delle strutture e degli impianti a vista.

Considerata la specificità dei luoghi, l’alta densità e la necessità di individuare spazi per la città pubblica la strategia identificata ha portato ad una interpretazione ampia del concetto di riuso, superando la stretta riqualificazione strutturale e funzionale dei complessi industriali per includere anche la demolizione di intere porzioni necessarie per la realizzazione di un nuovo sistema di spazi pubblici ampio e capillare che investe l’intera area di progetto connettendola al suo interno e verso gli ambiti urbani adiacenti.

In questa ottica di intervento il progetto P.I.U. Prato ha gettato le basi per la definizione di un nuovo paesaggio urbano che, nel rispetto della memoria produttiva del quartiere, valorizzi le preesistenze consolidate confermando loro un importante ruolo nella trasformazione urbana in corso ma andando a creare un nuovo sistema di spazi pubblici, giardini, e piazze che investe l’intero quartiere ed al quale è stato progettualmente attribuito

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La Medialibrary, in fase di realizzazione Il Mercato coperto

il ruolo centrale di nuovo elemento di qualificazione urbana per definire una diversa caratterizzazione degli spazi ed un nuovo modo di vivere il quartiere. Consapevole del ruolo determinante e qualificante che l’Architettura svolge nel paesaggio urbano e nella qualificazione sociale delle città, emotivamente e professionalmente coinvolto nella realizzazione di ogni singolo edificio, della sua specifica e puntuale identità e dello scenario che tale Architettura rappresenta per l’ambito urbano, in questo specifico racconto mi preme però sottolineare, al di là della singola architettura, il senso complessivo della riqualificazione e degli obiettivi generali che questa può generare. Cioè lavorare rifunzionalizzando e caratterizzando architettonicamente i singoli edifici e le singole aree coinvolte non soltanto come intervento puntuale ma con l’obiettivo di fornire elementi di riconoscibilità urbana e di uso collettivo attorno a cui aggregare le diverse forme e le diverse anime del quartiere; lavorare sul recupero e sull’Architettura per creare urbanità e quindi collettività. Un tema ed un approccio che si propone di riutilizzare l’ampio patrimonio industriale dismesso insistente nei centri urbani per coinvolgerlo in una rigenerazione urbana, architettonica e sociale attraverso il riuso di ciò che c’è, bello o brutto, di valore o insignificante, per ritrovare un pregio ed un valore collettivo significante nella nuova idea di città che può

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Il Playground, vista a volo d’uccello

in alto:

Medialibrary le grandi vetrate; in basso: Lo spazio coworking

scaturirne.

Per affiancare all’indispensabile recupero puntuale dei complessi di valore questa diversa forma di “riuso” urbano dei numericamente prevalenti edifici ordinari potrà portare ad una differente ma più estesa riqualificazione urbana; e cercare di riqualificare attraverso l’ordinario rappresenta una sfida contemporanea alla quale non possiamo sottrarci.

Crediti :

Arch. Massimo Fabbri

Arch. Michela Brachi

Ing. Alessandro Pazzagli

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forme di rigenerazione urbana attraverso il recupero del patrimonio industriale dismesso • massimo fabbri 205

La città pubblica ed il sistema degli spazi di relazione

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L’ex fabbrica Lucchesi in piazza dei Macelli, prima della messa in sicurezza del deposito delle acque posto in fregio alle mura medioevali. Nella foto, in alto a sinistra, si noti un tratto della facciata della fabbrica prima del crollo del piano primo avvenuto nel 2018 e, sullo sfondo, l’ingombrante sagoma dell’ex Ospedale prima della sua completa demolizione. (Foto di G.A. Centauro, 2003).

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La recente sistemazione degli spazi dei Cantieri Culturali di Officina Giovani, sullo sfondo si noti il deposito delle acque in c.a., testimone del preesistente impianto (1929). (Foto di G.A. Centauro)

usi temporanei degli edifici industriali dismessi. sperimentazione di nuove funzioni, l’accompagnamento della valorizzazione e l’attivazione della loro rigenerazione

Abstract

In questo articolo si analizza il fenomeno del meanwhile use (‘uso nel tempo di attesa’) per interrogare la relazione tra utilizzo di spazi e pratiche di restauro. In particolare, ci si sofferma su come le pratiche della società civile possano mediare o addirittura determinare, il ruolo dell’edificio all’interno di una visione futura per la città. La storia di Officina Giovani – polo culturale di Prato, ricavato dal recupero degli ex macelli pubblici a partire dal 2000 – è identificata come caso studio “ante-litteram” per indagare questo fenomeno. La ricerca che informa questo articolo evidenzia come un susseguirsi di usi, prima spontanei e poi più programmatici, si è intersecato con progetti di recupero, non per ultimo quello derivante dai fondi PNRR, che delineano i tratti futuri e futuribili in una città in continuo mutamento.

Valore del meanwhile use/temporary urbanism come propellente per la creazione, mantenimento e rivalutazione di ‘comunità’ in un periodo post-pandemico

L’uso temporaneo (meanwhile use) rappresenta una delle azioni che spesso accompagnano il processo di rinascita e ri-abitazione degli edifici, specie dei complessi industriali dismessi. Letteralmente traducibile in “usi nel tempo dell’attesa” è un’espressione che si riferisce ad usi programmati o meno, prima che l’edificio sia “cantierizzato” o che accompagnano tutta la fase di riconversione. In questa sede ci si riferisce al meanwhile use come strumento per testare possibili utilizzi finali e sperimentare nuove funzioni.

L’uso temporaneo può essere mezzo d’indagine non solo per chi ha un ruolo politico o di investitore, ma per il progettista stesso. Questo vale soprattutto per il progetto di restauro di edifici industriali, il cui valore è riconosciuto per il loro ruolo storico-testimoniale.

Non è sostenibile preservare i caratteri architettonici di un edificio ormai storicizzato senza prescindere dalla funzione, né imbalsamare gli edifici per farne contenitori vuoti e inutilizzabili. In questo senso l’attività del restauro del moderno non può non esimersi da una

Andrea Del Bono, Rita Duina, Marco Berni Codesign Toscana

Il complesso degli ex-macelli. Volo d’uccello sul complesso degli ex-macelli, con le 4 stecche disposte a pettine rispetto all’ingresso e sullo sfondo le celle frigo. Ripresa con drone di Cosimo Lunetti (Dronency).

riflessione sulle funzioni che verranno. Quanto l’uso temporaneo di un edificio in restauro può essere veramente determinante nel direzionare il ruolo futuro dell’edificio all’interno della città o del quartiere? Quanto l’efficacia di questa pratica dipende da una sua predeterminazione come fase di un processo progettato oppure da un’informale spinta “dal basso”?

Prato è una città che offre indubbiamente numerosi esempi. Si possono ricordare anche alcune esperienze di meanwhile use “ante litteram”, che hanno riguardato edifici produttivi, anche di un certo pregio architettonico, dismessi della funzione originaria già nei decenni passati.

Queste esperienze, tutte per definizione spontanee e “dal basso”, nate inizialmente come utilizzo temporaneo degli spazi, ne hanno finito per plasmare la funzione definitiva. È il caso emblematico del Teatro Fabbricone, una fabbrica diventata teatro ed oggi istituzionalizzata a tal punto da essere acquisita come proprietà comunale. Chi, come gli studenti hanno fatto durante il seminario, si accosta ad una analisi dei caratteri costruttivi delle porzioni del Fabbricone destinate alla produzione teatrale e del loro stato di conservazione, si accorge che ne è stata preservata l’identità e garantita la sopravvivenza. Il progettista architettonico che si approccia al restauro dell’edificio, dovrà fare i conti con la vecchia e la nuova storia. Ma un esempio di come la stratificazione degli usi, temporanei e poi definitivi, poi ancora temporanei e così via, si interseca con la stratificazione degli interventi architettonici e ne determina la direzione, è ancor più evidente nella storia degli ex Macelli Pubblici, dagli anni 2000 sede di un centro culturale successivamente chiamato “Officina Giovani-Cantieri Culturali”. Il complesso sarà coinvolto in un ulteriore progetto di rigenerazione grazie ai fondi del PNRR ma la sua vocazione come luogo deputato allo sviluppo delle politiche giovanili e culturali cittadine non è stata sempre premeditata, bensì frutto di una tensione tra Comune e spinte dal basso che rivendicavano spazi.

L’architetto Vacirca, del gruppo di lavoro istituito dall’Ordine degli Architetti di Prato per coadiuvare i lavori del seminario citato in premessa, insieme all’associazione “Codesign Toscana” (cfr. in calce alla relazione, i crediti dell’associazione), attualmente in residenza ad Officina Giovani, hanno deciso di ripercorre la storia architettonico-sociale degli ex macelli, tramite una ricostruzione cronologica dei vari interventi architettonici eseguiti a Officina Giovani e una ricerca per interviste dei vari soggetti che dai primi anni ad oggi sono stati protagonisti in ruoli diversi: utenti e organizzatori culturali della prima ora, addetti comunali, i tecnici e progettisti, gli attuali utenti come i coworkers e le associazioni in residenza.

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Metodologia e caso studio

Le informazioni relative a nascita e sviluppo socio-culturale e infrastrutturale del complesso di edifici degli ex Macelli Pubblici non sono state sistematizzate in modo organico e la storia degli ultimi 24 anni di attività dello spazio non sono state ancora “storiograficizzate”. Eppure, Officina Giovani sembra rappresentare un caso “ante-litteram”1 di meanwhile use, di fatto assorbito in una riconversione ‘creativa’ che ha informato tutte le azioni di riconversione dello spazio dagli anni 2000 ad oggi, e che si innesta in una visione strategica per il futuro della città, caratterizzata dalla sponsorizzazione di funzioni strategiche. La metodologia di ricerca identificata, con l’obiettivo di indagare il caso studio di Officina Giovani come progetto di riattivazione, è stata principalmente qualitativa, con analisi di dati secondari e raccolta di primari. Per la ricerca si è partiti infatti dal lavoro di schedatura del complesso, effettuato dagli uffici comunali a partire da un’analisi storica d’archivio e disponibile alla consultazione negli elaborati del Piano Operativo Comunale; inoltre è stata realizzata una traccia di intervista semi-strutturata da somministrare ad un campione qualitativo, dunque rappresentativo, delle principali categorie di “testimoni privilegiati2” della storia socio-culturale dell’area degli ex Macelli dal 1998 ad oggi.

1 ‘La rigenerazione prima della rigenerazione’, come afferma un assessore del Comune di Prato intervistato per questo progetto.

2 Il campione di intervistati/e ha incluso: assessori, tecnici, dirigenti e coordinatori degli uffici tecnici e cultura del Comune di Prato, direttori artistici degli spazi in questione, fruitori e/o organizzatori in residenza di attività culturali in periodi diversi della storia di Officina Giovani.

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Murales in fregio al blocco centrale. (Foto di G.A. Centauro)

Le interviste che abbiamo programmato con l’obiettivo di identificare la storia socio-culturale della riqualificazione degli ex Macelli sono state strutturate seguendo una tripartizione temporale che ci ha aiutato ad investigare il ruolo dei partecipanti nel passato di Officina Giovani. La traccia di intervista si è poi focalizzata sul presente per poi indagarne il futuro. La ricostruzione della cronistoria attraverso la ricerca, è preceduta da alcune informazioni relative alla genesi del complesso di edifici. Tali dati sono desunti dallo strumento urbanistico che a sua volta ne dà una sintesi efficace. Infatti, il nuovo Piano Operativo Comunale descrive l’immobile all’art. 136 (All_20):

“Officina Giovani ha sede nel complesso degli Ex Macelli Pubblici, ubicato a Prato in Piazza dei Macelli. Storicamente collocati tra piazza San Domenico e via del Gelsomino, i macelli pubblici, con lo spostamento dal centro storico, furono oggetto di dibattito cittadino per quasi tutta la seconda metà dell’Ottocento. Dopo varie ipotesi e tentativi, venne istituita un’apposita commissione che nel 1893 individuò la nuova collocazione fuori porta Santa Trinita, in una zona al tempo ancora inedificata. Il progetto dell’ingegnere comunale Vincenzo Livi venne portato a compimento entro gli anni Venti del Novecento, con una serie di capannoni isolati disposti a pettine rispetto a via Cavour ed un ingresso monumentale. A partire dal 1998, i locali degli ex macelli sono stati riqualificati come Officina Giovani, ossia spazi polivalenti per attività culturali, quali mostre e spettacoli. Il complesso è parzialmente tutelato tra i beni culturali art. 10 comma 1 del Dlgs42/2004, come rappresentato con apposita campitura nelle tavole 11.1, 11.2 e 11.3

“Beni culturali e paesaggistici –Rischio archeologico – Viabilità storica” e che suddivide gli edifici in tre livelli di valore: alto (la palazzina d’ingresso, le 4 stecche a pettine e cisterna in cemento armato realizzata nel 1926 dalla ditta Poggi & Gaudenzi, dalla valenza simbolico-testimoniale), medio (le ex-celle frigo e la palazzina su Via dell’Abbaco) e basso.

Cronistoria di Officina Giovani: a cavallo degli anni 2000 [informalità e prime ristrutturazioni]

La spinta propulsiva per la realizzazione dello spazio di Officina Giovani ha luogo durante l’assessorato di Luconi, a seguito delle richieste di utilizzo degli spazi da parte di giovani artisti locali (assessore, intervista, 09/2022), la cui delega alle politiche giovanili passò successivamente Vannucchi (delega alla cultura 1999 - 2002, Giunta Mattei).

In questa versione embrionale l’azione del Comune fu quella di ripulitura degli spazi e in seguito il rifacimento del tetto della prima stecca, quella che sarebbe poi diventata la sala eventi (che inizialmente conteneva anche gli uffici), uno degli edifici più

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caratterizzati dal punto di vista architettonico, con colonne in ghisa e i binari a soffitto per lo stoccaggio delle carni: le iniziative nella sala eventi non avevano ancora una programmazione coerente e costante.

Nel 2004, a cura del Laboratorio per Affresco di Vainella, si provvide al rifacimento pittorico in bicromia del fronte principale, andando a cambiare anche l’iscrizione d’ingresso degli ex Macelli con la nuova dizione di Officina Giovani- Cantieri Culturali.

Gli altri spazi erano ancora colmi di macchinari dall’attività di macello pubblico oppure usati come deposito di mezzi sequestrati dalla polizia municipale (dipendente comunale ufficio cultura, intervista 09/2022).

L’utilizzo degli spazi in questa prima versione della struttura è stata definita dagli intervistati ‘estremamente fluida’3: lo spazio era stato concesso a un gruppo di artisti locali che lo utilizzavano come laboratorio per la costruzione dei loro progetti, prevalentemente afferenti le arti figurative.

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3 Chi aveva un collettivo e voleva realizzare la mostra faceva richiesta.

Portale d’ingresso di “Officina Giovani – Cantieri Culturali” (ex Macelli). (Foto di G.A. Centauro)

Officina Giovani, particolare di murales. (Foto di G.A. Centauro)

Ex stalle. Le stalle sono l’ultimo edificio la cui ristrutturazione rimane da completare. Negli anni oggetto comunque di attenzioni da parte degli artisti chiamati ad esprimersi all’interno di Officina Giovani. Non ultimo l’intervento di ConvivialeVegetale, ad opera di Codesign Toscana e IPER-collettivo. Ripresa con drone di Cosimo Lunetti (Dronency).

Tuttavia, all’epoca Officina Giovani non aveva ancora una destinazione ben specifica; era stato in qualche modo riacquisito dal comune con la cessazione di quella che era la funzione originale di macello, ma all’interno c’erano ancora delle aree che venivano utilizzate4.

L’area dell’ingresso, dove oggi sono gli uffici, era la casa del custode e, dall’altra parte c’erano ancora gli uffici dell’ASL. Solo alcuni locali, iniziarono poi ad essere allestiti per delle mostre ma erano fruibili dall’esterno, una sorta di quinta scenica dove il post-industriale dialogava con gli interventi degli artisti locali. Alcune zone invece erano state liberate, e iniziavano ad essere utilizzate come botteghe.

Le ristrutturazioni successive del 2007/2008 e la gestione diretta del Comune di Prato Le attività che via via presero forma all’interno degli Ex-Macelli, furono la leva che spinse l’amministrazione comunale a partecipare a bandi regionali ed europei, al fine di implementare l’utilizzo delle strutture e dunque delle attività possibili al loro interno.

Risalgono a questo biennio gli interventi di ristrutturazione e risanamento più importanti, che hanno riguardato i due corpi di fabbrica centrali, l’ex-appartamento del custode e le stalle.

Furono creati nuovi orizzontamenti, ricavandone, nel secondo edificio, sale espositive e sale prova (ricalcando l’uso che già ne veniva fatto) e terzo edificio (a destra del corridoio

4 C’era ancora l’anagrafe canina, c’erano i laboratori, degli uffici dove c’erano i veterinari dell’asl, ma erano rimaste poche appendici di quello che era l’uso storico del macello.

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centrale) una sala teatro e aule corsi. La palazzina che si affaccia sulla piazza andò invece ad ospitare sia gli uffici amministrativi (a sinistra dell’ingresso) che quelli del Punto Giovani Europa (a destra entrando), che venne trasferito da Piazza delle Carceri, dove era in affitto. L’edificio delle ex-stalle, quello più a nord, doveva invece ospitare, secondo il progetto originario, le attività di bar/ristorazione a servizio di tutto il complesso, andando così a completare un assetto complessivo di centro culturale.

Tuttavia, quest’ultimo intervento rimase incompleto e delle stalle fu solo sostituita la copertura. Di questo intervento sono ben visibili le tracce e se ne possono scorgere le intenzioni progettuali. Entrando nelle stalle, infatti, e alzando lo sguardo verso il tetto, si possono notare le finestre lucernario che suggeriscono la previsione, anche in questo edificio, di creare un nuovo orizzontamento e quindi nuovi spazi. In questa fase, con la costituzione di un vero e proprio gruppo di lavoro stabile all’interno degli spazi, si passò da un’utilizzazione diretta delle associazioni ad un utilizzo più sistematico e strutturato.5 Alcuni spazi presero la funzione di sale prova; altre di aule per corsi e altre iniziative; l’edificio che si affaccia sul parcheggio diventava sede degli uffici, mentre di fronte venne spostato il Punto Giovani Europa. Si assisteva quindi non solo ad un sostanziale recupero strutturale, ma anche ad una serie di politiche che miravano a concentrare negli Ex Macelli i servizi legati alle politiche culturali e giovanili, facendone un polo cittadino. Con la ristrutturazione venne fatta una gara di appalto per la gestione della struttura. Fu costituito

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5 Prima al gruppo veniva data una chiave e il permesso di venire a provare per un mese, tutto in maniera molto informale’.

Particolari degli interventi di ristrutturazione stratificatisi negli anni e che non sempre sono riusciti a trovare un dialogo con le strutture preesistenti.

Celle frigo. Ripresa delle celle frigo e della particolare copertura realizzata in travi di c.a. estradossate. Si intravedono i seminterrati, attualmente usati come deposito comunale ma oggetto di riqualificazione secondo le previsioni progettuali del PNRR. Ripresa con drone di Cosimo Lunetti (Dronency).

consorzio (incaricato anche della programmazione) sul quale il Comune con l’assessorato avevano semplicemente un ruolo di supervisione e di supporto economico per la programmazione, senza nessun tipo di agenzia diretta.

Dal 2010-2011 la gestione di OG è ritornata sotto la direzione delle attività da parte del Comune, elaborando un assetto organizzativo che sostanzialmente perdura ad oggi. L’equipe che si occupa di OG è composta sia da dipendenti pubblici, facenti capo all’assessorato alla cultura (che storicamente si occupa anche di politiche giovanili) che da operatori esterni (selezionati tramite bandi e gare d’appalto pubblico) che ricoprono ruoli tecnici, relativi ad esempio alla direzione artistica o alla gestione del Punto Giovani Europa. Utenti intervistati che hanno conosciuto lo spazio per eventi come il Festival FreeShout!?6 - attivatore di progetti espositivi, concerti, performance ed interventi urbani - nel 2008 e 2009, ricordano una profonda differenza tra quegli anni e ciò che ha seguito:

l’informalità che contraddistingueva gli spazi e la modalità del loro utilizzo è andata perdendosi con l’inserimento degli uffici comunali nell’area degli Ex Macelli e la ripresa del controllo delle attività dal Comune.

2012/2022: dalle celle frigo al PNRR

A partire dal 2012 si è cercato di intervenire sui vari padiglioni che costituiscono il complesso di Officina Giovani in modo organico, cercando di eliminare via via quelle superfetazioni che nei decenni si erano accumulate, impedendo talvolta la lettura dell’impianto

6 http://1995-2015.undo.net/it/mostra/92693

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originario del primo novecento (dipendente comunale uffici tecnici, intervista 09/2022). Gli interventi, eseguiti durante i primi anni di esistenza di attività culturali all’interno degli ex Macelli, erano per lo più puntuali, quasi come fossero lo specchio di ciò che stava accadendo da un punto di vista dell’occupazione degli spazi. Via via che negli anni si delineava una progettualità delle azioni, anche gli interventi architettonici acquisirono una visione più a lungo raggio. Il tentativo di liberare da volumi posticci quello che era il disegno architettonico originale si può dire fosse quasi coerente con i tentativi di svelare progressivamente alla città l’ormai costituito centro culturale e rendere più permeabile una struttura che ancora faticava ad essere compresa e capita nell’essenza dalla cittadinanza (dipendente comunale uffici tecnici, intervista 09/2022).

Intorno al 2015 invece si è proceduto con il primo intervento massiccio7, sull’edificio delle ex-celle frigo, corpo di fabbrica assolutamente dissimile rispetto al resto dei padiglioni. Trattasi infatti di un edificio che si sviluppa su un piano fuori terra (più un locale seminterrato), edificato nella seconda metà del ‘900, in cemento armato con travi estradossate gettate in opera.

L’intervento di ristrutturazione aveva come obiettivo la trasformazione delle celle frigo in uno spazio versatile che potesse servire alle molteplici attività culturali che si andavano consolidando all’interno di Officina Giovani: concerti, spettacoli teatrali, mostre. L’intento progettuale era quello di preservarne il più possibile il carattere, secondo i tecnici intervistati “doveva sembrare che il posto fosse stato appena dismesso” (dipendente comunale ufficio tecnico, intervista 09/2022).

Furono conservati i tombini per lo scolo dei liquami di macellazione, gli infissi originali, le piastrelle in klinker, i binari a soffitto e i ganci di metallo dove si appendevano le carni (messi in sicurezza con dei carter di plexiglass); il soffitto fu trattato con materiale intumescente e furono messe in collegamento le due celle più piccole; furono ricavati dei servizi igienici accessibili dall’esterno, in luogo di quelli esistenti e di alcuni locali deposito. Le normative sulla sicurezza imposero di ricavare 3 nuove uscite di sicurezza: le 3 nuove aperture si aggiunsero quindi ai due portelloni scorrevoli della struttura originale, rimasti tali.

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7 In cui sono stati coinvolti alcuni tecnici comunali intervistati.

Nuovo accesso a Officina Giovani da piazza dei Macelli. (Foto di G.A. Centauro)

Nel 2016 un nuovo intervento interessò l’area nord-est del complesso: si eliminò un volume posticcio a ridosso della palazzina centrale degli uffici, si demolì il muro di cinta aprendo gli spazi direttamente sulla piazza e vennero ricavati dei locali ad uso bar-ristorazione nella parte terminale del padiglione più a est.

La facciata prospiciente la piazza fu volutamente lasciata bianca per permettere in un secondo momento la possibilità che essa venisse dipinta con un murale, da parte dell’artista Etnik.

Si apriva nuovamente il tema della mancanza di un’area bar/ristorazione, rimasto in sospeso dal 2007 con l’interruzione del cantiere per le ex stalle.

La presenza di un bar ha molteplici ragioni, soprattutto se ancora manca un’area comune dedicata alla socializzazione e al networking anche tra gli utenti stessi del centro culturale.

Dal 2018, con il bando biennale Residenze Creative, il Comune di Prato ha messo a bando, attraverso patto di collaborazione basato sui principi sanciti dal “Regolamento per la gestione condivisa dei beni comuni urbani”, l’uso degli edifici centrali (seconda e terza stecca) ad associazioni culturali Le associazioni in residenza, insieme ai professionisti che occupano gli spazi coworking (ricavati nell’edificio adiacente alle ex-celle frigo),

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 218

sono l’utenza che frequenta più assiduamente lo spazio, da molti utilizzato come spazio di lavoro quotidiano.

Gli altri servizi che fanno capo a Officina Giovani e che ne completano il quadro delle attività per come sono ad oggi sono i Cantieri Culturali, Officina Teen e il Punto Giovani Europa. Uno dei più giovani “residenti”, riporta come sia stato importante avere uno spazio a disposizione negli ultimi due anni, ma contemporaneamente riscontra che le modalità di accoglienza delle associazioni non sono sufficienti per supportare il complesso ecosistema della produzione artistico-culturale non istituzionalizzata che gravita attorno a Officina Giovani. Nonostante ci siano dunque dei tentativi riconoscibili attraverso Officina Giovani ed i suoi spazi di creare un centro culturale, gli sforzi del Comune sembrano insufficienti: la capacità di attrazione dell’utenza è limitata ad eventi non continuativi e attività circoscritte nel tempo (es. flea market, festival musicali, mostre temporanee etc.).

Nel 2022 il Comune di Prato si aggiudica 20 milioni di euro del PNRR per la rigenerazione urbana e parte di essi vengono allocati specificatamente per Officina Giovani.

Gli interventi interesseranno nuovamente le celle frigo, con la creazione di un foyer d’ingresso mediante la chiusura dell’attuale loggia; verrà annessa al centro culturale anche la palazzina su via dell’Abbaco, nella quale verranno realizzati a piano terra dei laboratori per artista e al piano primo degli alloggi a servizio delle residenze artistiche; il piccolo magazzino in testa alla palazzina verrà invece destinato a coworking e zona comune. Si completeranno anche i lavori delle ex stalle, definite da progetto come spazio polifunzionale. Purtroppo (dipendente comunale ufficio tecnico, intervista 09/2022) non ci sono i tempi tecnici per poter attivare, per i locali delle stalle, degli esperimenti d’uso, istituzionalizzando un modus operandi ormai consolidato all’interno di Officina Giovani. Infatti, l’inizio dei lavori è previsto entro pochi mesi ma un’attività del genere si potrebbe rivelare di grande aiuto anche per i progettisti. L’altro tema del progetto per il PNRR è stato quello della “riforestazione” e “demineralizzazione” degli spazi esterni del complesso di OG, in coerenza con gli obiettivi di Piano (dipendente comunale ufficio tecnico, intervista 09/2022). Gli spazi esterni, le varie corti intercluse tra gli edifici, si configurano fin dall’inizio dell’insediamento delle attività di OG, essi stessi come spazi culturali, la cui vocazione è quella di teatri, aree concerto e mercatini all’aperto. Per questo la progettazione degli spazi esterni ha finora riguardato gli aspetti normativi, come la prevenzione incendi e la sicurezza. A partire dall’estate 2020 sono stati fatti degli esperimenti di inserimento temporaneo di elementi vegetali, denominati “Officina Jungle”8, nell’ottica di interventi sistematici di ri-

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8 http://portalegiovani.prato.it/officinajungle

forestazione, in programma con i fondi PNRR. Tali interventi mireranno a consolidare la vocazione degli spazi aperti come spazi di relazione e come prosecuzione in esterno delle attività svolte all’interno degli edifici. La sfida più interessante sarà quella di utilizzare, in un’ottica di “riuso”, il sistema di condotti fognari interni al complesso - un reticolo creato per la raccolta dei liquami della macellazione e delle acque di lavaggio degli ambienti - come infrastruttura per la raccolta delle acque piovane e il loro riutilizzo per l’irrigazione delle piante che verranno messe a dimora.

Conclusioni

La ricostruzione proposta degli usi temporanei di OG prende avvio da una forte spinta dal basso di stampo artistico-culturale, accolta dalla giunta politica locale. Negli anni successivi, gli interventi strutturali proposti dalla pubblica amministrazione hanno concorso - insieme, ovviamente, a cambiamenti socio-antropologici più ampi che hanno riguardato il mutare delle abitudini culturali delle generazioni del territorio - a modificare parzialmente utenza e utilizzi degli spazi degli ex-macelli, ma non hanno mai smesso di tentare di posizionare OG come polo culturale urbano. La pratica e l’uso spontaneo sono stati istituzionalizzati ed hanno permesso a un complesso ex-produttivo, una volta che è stato dismesso, di non restare chiuso per decenni e di rimanere in capo alla pubblica amministrazione anziché diventare oggetto di speculazione immobiliare, come capitato in numerosi altri casi sul territorio. L’alternativa avrebbe potuto essere l’abbandono e conseguentemente la perdita del valore non solo economico ma anche storico-testimoniale intrinseco del complesso.

La ricerca ha permesso di dare una connotazione socio-culturale ai progetti di restauro che negli anni si sono succeduti. E se dai primi usi, realmente spontanei, si è passati a forme programmatiche di utilizzo, queste si rivelano ancora “usi nell’attesa”, esperimenti per “specializzare” ancora la progettazione che verrà. Il PNRR sarà l’occasione per aprire nuove strade ai processi attivati in questi anni, facendo tesoro delle buone pratiche ma anche degli errori di progettazione (programmatica ancorché più specificatamente architettonica). L’altra evidenza è che l’evoluzione delle pratiche culturali e la cronistoria degli interventi alle strutture sono legati a doppio filo e si sono di volta in volta influenzati, portando la struttura dal suo stadio attuale alle future tensioni programmatiche in capo al PNRR. “Una relazione simbiotica tra agenti. Coloro che sono coinvolti nell’uso temporaneo e coloro che decidono lo sviluppo dovrebbero stabilire un’interdipendenza.

Gli architetti che utilizzano l’edificio oggi, stanno allo stesso tempo producendo il progetto

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dello sviluppo futuro. Questo crea dipendenze tra l’adesso e il futuro, tra l’informale e il formale. In questo modo, le preoccupazioni quotidiane degli utenti possono raggiungere l’orecchio dei partiti e dei responsabili politici. Queste nuove interdipendenze potrebbero dar luogo a una “relazione simbiotica” tra il formale e l’informale come auspicato da Mehrotra (2011), o una “informalizzazione” delle istituzioni formali come presentata da Boudreau (2017). Le tensioni odierne tra uso temporaneo e uso permanente, tra formale e informale, devono essere rappresentate anche nei futuri piani di riqualificazione. Per questo, dovrebbero essere consentite incongruenze; i paradossi dovrebbero essere parte, anche stimolati, nel futuro immaginato” (Leyssen, 2018, p. 127). È evidente che laddove, gli utenti intervistati manifestano ancora insoddisfazione per l’uso degli spazi e la programmazione delle attività, questo processo di simbiosi tra “formale” e “informale” e questa interdipendenza tra “chi usa” e “chi decide” devono ancora giungere a maturità e compimento, e che il processo di istituzionalizzazione di certi processi, se da una parte ha dato la possibilità di rendere programmatiche certe pratiche, ha forse perso per strada la capacità di mantenere la tensione spontanea degli inizi, come strumento di propulsione del cambiamento. La riconversione a carattere culturale di un edificio ex-produttivo ed industriale dà la possibilità di intervenire sulle architetture con maggior rispetto degli elementi caratterizzati e meno alienante rispetto, ad esempio, ad una riconversione in centro commerciale. Questo è evidente sia nel caso studio del seminario, citato all’inizio di questo articolo, ovvero il Fabbricone, sia per il caso studio di Officina. Senza soffermarsi troppo sulle opportune distinzioni tra riuso, recupero e più propriamente restauro del moderno, parlando di riattivazione funzionale di un edificio dismesso si deve comunque fare i conti con la precarietà contemporanea e la scarsità di risorse. Le “strutture effimere, materiali economici ed estetiche contrastanti”

(Leyssen, 2018, p. 120) sono caratteristiche proprie del meanwhile-use, con le quali il restauro deve fare i conti. Pena l’impossibilità di sperimentare gli usi ma anche la morte degli edifici stessi.

Crediti:

“Codesign Toscana” è un’associazione culturale nata nel 2017, popolata da professionisti multidisciplinari e ricercatori che promuovono l’innovazione sociale attraverso le metodologie del design. Le nostre attività si sviluppano attorno a sfide progettuali principalmente mirate a immaginare futuri sostenibili, resilienti e inclusivi. Codesign Toscana sviluppa e aiuta a sviluppare percorsi di progettazione collaborativa connettendo cittadini, organizzazioni pubbliche e private. Lorenzo Vacirca, Andrea Del Bono. Rita Duina e Marco Berni sono co-fondatori e membri dell’associazione.

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SEMINARIO DIDATTICO

SUL FABBRICONE DI PRATO

• 223

Il cartiglio dello stabilimento

Kössler, Klinger & Mayer di Prato “Il Fabbricone” (1913-1925).

(Fonte: Archivio Privato)

Giuseppe Alberto Centauro con contributi di Giuseppe Guanci (GG); Antonio Silvestri (AS); Lorenzo Vacirca (LV) e la collaborazione di Giada Buti

Percorso di conoscenza: la storia della fabbrica (GG)

Lanificio il Fabbricone

[…] Quando verso la fine dell’800 a Prato cominciarono a sorgere i primi stabilimenti industriali, degni di tale nome, devono certamente aver suscitato non poca meraviglia, soprattutto per le loro inconsuete dimensioni, ma nessuno di questi fu in grado di emulare lo stupore creato dalla nascita, a nord di Prato, di un nuovo enorme stabilimento, sorto in aperta campagna nel 1889, la cui vera denominazione, legata ai nomi dei proprietari austriaci, complice forse anche la scarsa pronunciabilità, fu da subito sostituita con l’appellativo de “Il Fabbricone” 1

I soci Hermann Kössler e Julius Mayer, maturarono probabilmente la decisione di realizzare questo stabilimento in seguito all’avvento della tariffa protezionistica, relativa al settore laniero, varata in Italia nel 1887. Questa infatti introduceva elevati livelli daziari soprattutto per gli articoli di qualità e, nello specifico sul pettinato (Lungonelli, 1988, p. 33), privilegio che quindi lasciò sostanzialmente indifferenti i produttori pratesi (avvezzi piuttosto al cardato), ma che invece attrasse la compagnia austriaca che si specializzò in questo tipo di produzione.

L’aura mitologica nata subito attorno allo stabilimento fu dovuta a diversi fattori: prima fra tutte, come accennato, la dimensione sia fisica che di organico, il quale all’epoca era già composto da circa 900 operai, di cui la maggioranza donne; in secondo luogo dalla non appartenenza dei proprietari, e di gran parte dei quadri dirigenti, alla realtà cittadina, ed infine al velo di mistero che le alte mura, racchiudenti tutta fabbrica, di fatto creavano negandosi all’esterno, salvo il breve varco del cancello principale posto sulla via Bologna.

A titolo di curiosità è interessante sottolineare come tra la folta schiera di tecnici tedeschi si trovasse anche un certo Erwin Suckert, esperto tintore, arrivato nel 1892, da Zittau in Sassonia, a Prato al Fabbricone. Dal suo matrimonio con Edda Perelli nacquero sette figli, tra cui Kurt, terzogenito, nato il 9 giugno 1898, poi divenuto famoso con lo pseudonimo di Curzio

1 […]Testo liberamente estratto da: Guanci 2011, pp. 89-97; ivi cfr. G. Guanci, Quando le fabbriche creavano stupore, nella rubrica “I segni dell’industria”, Metropoli edizione di Prato, 15 ottobre 2010.

centauro, guanci, silvestri, vacirca, buti

didattica, ricerca, gestione dati e progetto •

Stabilimento Kössler & Mayer: foto di gruppo delle maestranze (anno 1913 ca.). (Fonte: Archivio Privato)

Stabilimento Kössler , Mayer & Ing. Klinger (Il Fabbricone): particolare del grande viale d’accesso (1920 ca.). (Fonte: Archivio Privato)

Malaparte2.

venivano effettuate tutte le fasi della lavorazione del tessuto, eccettuata quella della filatura, che dopo circa un decennio dalla fondazione, la società pensò però di realizzare su di un terreno attiguo, desistendo poi dal proposito in seguito all’acquisto di un altro stabilimento a Terni, ove impiantò tale reparto. Anche la dotazione di macchinari era assolutamente superiore a qualunque altro stabilimento della città con i suoi 640 telai meccanici alimentati da motori vapore che complessivamente sviluppavano una potenza di 320 cavalli, di cui 200 appunto per la tessitura, 100 per la tintoria e 20 per l’illuminazione e l’officina meccanica (Lungonelli, op. cit.). Nel 1888, la filatura fu rilevata dal “Lanificio Italiano S.p.A”, che la gestì, con una manodopera ridotta, fin verso la fine del secolo e quindi, messa in liquidazione, nel 1899 fu acquistata dalla “Kossler, Klinger & Mayer” di Prato, che l’adibì alla produzione di filati di lana e pettinata (Guanci 2008, p.171). L’azienda conobbe così un nuovo periodo di sviluppo: nel 1909-1913 la manodopera, in prevalenza femminile, raggiunse nuovamente le 300 unità. Tuttavia agli inizi degli anni ‘20 si ebbe una nuova crisi, poi superata con l’incremento dell’attività e di conseguenza del numero degli occupati che così ascesero a 1000. Il Fabbricone, grazie alla sua enorme concentrazione di operai, si connota quindi anche come fucina della lotta di classe, infatti occorre ricordare che

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 226
All’interno dello stabilimento
2 L. Bertini, F. Franchi Acuti, A. Mauro, S. Santi Montini, Il “balio” di Malaparte. Notizie sulla famiglia Baldi di Prato, Prato 2011, p. 120.

proprio da qui era uscito, prima di andare in America, l’anarchico Gaetano Bresci, che nel 1900 uccise Umberto I. Intanto nel 1911 l’attività dello stabilimento risulta notevolmente aumentato con i suoi 1500 operai impegnati a lavorare ai 1200 telai meccanici, oltre che nel reparto tintoria, ormai completamente azionati dall’energia elettrica fornita dalla Società Valdarno3. In ogni caso la massiccia presenza di tedeschi e austriaci del Fabbricone era dovuta anche ai quadri tecnici e dirigenti che i proprietari avevano fatto giungere dalla loro patria, al punto che agli inizi del ‘900 fu addirittura fondato a Prato un Club tedesco, in Palazzo Magnolfi, la cui partecipazione alle serate di gala era piuttosto ambita da parte degli stessi industriali pratesi, in quanto indice di prestigio.4 C’è da osservare che il Fabbricone si distingueva da altri opifici pratesi per i peculiari caratteri costruttivi e stilistici degli stabilimenti che risentivano fortemente delle maestranze nordiche che vi operavano.

Lo sviluppo dell’attività, in ogni caso, proseguì incessantemente fino all’inizio della prima guerra mondiale, periodo durante il quale si assisté anche ad una modificazione nell’assetto societario, con l’ingresso nella compagine del barone Robert Klinger e la conseguente trasformazione della società in “Kössler, Mayer & Klinger” e poi solamente in “Klinger & Kössler”. La fabbrica pur essendo ormai completamente alimentata dall’energia elettrica,

3 Camera di Commercio e Industria di Firenze, Statistica industriale. Notizie sulle condizioni della Provincia di Firenze, Anno 1911, Tip. Carnesecchi e figli, Firenze, 1911, pag. 366

4 D. Fiorelli, Notiziario di vita pratese dalla crisi d’Africa del ’96 all’Armistizio del 1918, in “Archivio Storico Pratese” –anno XXXVII – fasc. I-IV, 1961, pp. 54-55

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Il Fabbricone, alcuni reparti interni (1925): a, b) tessitura meccanica; c) rammendatura; d) macchine a vapore; e) tintoria; f) follatura. (Fonte: Archivio Privato)

acquistata dalla Società Valdarno, che gli erogava 500 HP, probabilmente in vista di restrizioni conservava anche gli originari motori a vapore, che costituivano un utile impianto di riserva.

Con i 1050 telai attivi venivano prodotti principalmente stoffe per signora e per usi civili, ma con l’entrata in guerra iniziano anche le commesse militari, come il primo ordinativo di 500.000 metri di flanella per camicie e cravatte, arrivato dalla Direzione dei servizi logistici e amministrativi dell’Esercito. Ma vista la potenzialità offerta dai numerosi telai, di produrre stoffa grigio-verde, si pensa di farlo diventare stabilimento ausiliario.

Anche se l’episodio bellico aveva causato l’allontanamento dei proprietari austriaci, nel 1922 il barone Klinger fece ritorno riassumendo la direzione della fabbrica che tuttavia, cinque anni dopo, cedette definitivamente a capitali italiani, divenendo quindi la Società

Anonima “Il Fabbricone” Lanificio Italiano. Prima della cessione, nel 1925, la proprietà fa realizzare una pubblicazione a stampa, che si può considerare anche come una sorta di inventario (una copia di questa è conservata presso la Biblioteca Lazzerini di Prato) :

«

/…/ Lo stabilimento comprende: tessitura, tintoria e rifinizione di tessuti di lana pettinata e cardata, scialle ria e officina meccanica. La tessitura ha 1030 telai meccanici e relativa preparazione con incannatoi, aspi, orditoi per seta e lana, macchine incollatrici. Un reparto speciale è destinato alla produzione dei cartoni Jacquard ed a quella dei pettini e delle licciate. La tintoria ha 30 vasche per la tintura in pezza dei tessuti di lana, 20 cassette per la mezza lana, vasche per il candeggio e per la tintura dei filati in matasse, 30 tini piccoli per campioni, ed accessori, come lavaggi e idroestrattori. L’avanapparecchio, od apparecchio umido, dispone di brucia-peli sia a gaz che a piastra rovente, di macchine di fissaggio e vaporissaggio, di lavaggi, di idroestrattori, folloni di vario tipo adatti anche per panni militari, carbonissaggio in pezza, e macchine sussidiarie. Per la rifinizione servono 4 grandi “rameose”, 3 calandre a feltro, macchine da ingommare, da asciugare, misuratrici, addoppiatrici, idroestrattori, decatissaggio, presse continue, presse idrauliche a riscaldamento a vapore ed elettrico, macchine da avvolgere, garzi, cimatoria /…/».

Nel 1934 fu deciso un primo ampliamento della fabbrica, consistente nel rialzamento della parte terminale del corpo posto lungo il viale centrale del complesso, per la cui esecuzione la direzione si rivolse alla società Nervi & Bartoli (Guanci 2008). Tuttavia, forse anche a causa di precise indicazioni della committenza, Nervi impiega, in questo intervento, una tecnologia mista consistente in un solaio con travi in cemento armato sorretto da più classiche colonnine in ghisa. La dimensione della nuova costruzione, che avrebbe coperto una superficie di quasi 8000 metri quadrati, portò la direzione della fabbrica a contattare più imprese del settore, alle quali fu chiesto un progetto di capannoni ad un solo livello fuori terra ed una parte interrata, da realizzarsi con una struttura in cemento armato. La Società di Nervi, avendo già operato con la direzione dello stabilimento,

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ovviamente non si lasciò sfuggire la ghiotta occasione presentando un proprio progetto, probabilmente in associazione con la Società Poggi & Gaudenzi. Nell’archivio della Nervi & Bartoli, esistono a questo proposito vari grafici: la soluzione proposta, consisteva in un seminterrato con “solaio a fungo” ed una struttura a piano terra con copertura a shed, ripetendo la stessa tipologia della trave reticolare già adottata nella vicina fabbrica Mazzini e in quella

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a b
e f
c d

Il Fabbricone, veduta dell’ingresso dopo il rialzamento della palazzina degli uffici (1950 ca). (Fonte: Archivio Privato)

Il Fabbricone, interno dei magazzini con copertura a shed su colonnine di ghisa. (Foto di L. Vacirca)

Cangioli di Vaiano. La proposta progettuale è particolarmente interessante anche se non del tutto nuova. Il concetto del “solaio a fungo” rappresenta infatti il tentativo di affrancamento dal sistema trave-pilastro, introducendo il concetto della piastra con armatura bidirezionale sorretta direttamente dal pilastro, quindi la possibilità di ottenere solai senza travi in vista. Per questo incarico particolarmente allettante Nervi produce alcune belle prospettive interne dello stabilimento, nonostante tutto, però, come spesso succedeva, ad aggiudicarsi l’appalto non fu il sodalizio delle ditte Nervi-Poggi ma la milanese “Impresa di costruzioni Ing. Magistretti”. Nel 1938 viene rialzata un’altra parte dello stabilimento, lungo il viale interno, in prosecuzione di quello già realizzato nel 1934. Nel 1947, infine, verso il Bisenzio, fu costruito uno degli ultimi ampliamenti della fabbrica5, oggi in parte occupato da un supermercato, in quello stesso anno (appena oltre il recinto murario) si era andato ampliando anche il comparto di destra con l’edificazione del capannone oggi occupato dal teatro; in quegli anni si ampliarono anche gli uffici. Nel 1960 la gestione dello stabilimento passò prima all’iri e dieci anni dopo all’eni, fino

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5 ACP, Permessi per murare, anno 1947, richiesta di costruzione di nuovo capannone in muratura e cemento armato, da S.A. il Fabbricone, 4 gennaio 1977.

a metà degli anni Settanta, quando le sole mura divennero di proprietà della famiglia Balli, noti imprenditori pratesi, che ne sono tutt’ora proprietari. In quegli anni si attuarono anche interventi di rafforzamento ed incamiciatura in c.a, delle esili strutture in ghisa. Oggi tutto il fabbricato relativo alla filatura e i successivi ampliamenti sono prevalentemente occupati da attività commerciali o di servizio oppure residualmente inoccupate, mentre nel rimanente complesso si svolgono ancora varie attività produttive.

Il Fabbricone: luogo di ricerca e sperimentazione per il restauro alla scala urbana (GAC)

Al percorso della conoscenza dei valori architettonici propri dell’archeologia industriale è stato assegnato un ruolo precipuo per lo sviluppo economico e sociale, ma soprattutto culturale, di Prato. Come già indicato in Prefazione (v.), il Laboratorio di Restauro del corso di laurea triennale 2022, condotto da chi scrive e svolto in collaborazione con gli architetti pratesi, prendendo in esame l’intero complesso industriale del Fabbricone, ha inteso affrontare il tema del restauro dell’architettura moderna, declinandolo in una prospettiva di sviluppo sostenibile e di valorizzazione culturale delle testimonianze fisiche del patrimonio esistente, anche in riferimento all’ambito produttivo da rilanciare in una visione di riconosciuto

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interesse della collettività per il bene industriale; in particolare, sono portate all’attenzione due specifiche tematiche, di metodo e di progetto:

1. la prima: su come affrontare il percorso della conoscenza (dalla ricerca storica all’analisi urbanistica recente, dallo studio dei caratteri costruttivi ai modi della conservazione e valorizzazione degli edifici industriali) e, segnatamente, su come approcciare alla salvaguardia di queste presenze, attraverso l’innovazione tecnologica e aggiornati canoni metodologici, attuando un programma condiviso tra il mondo della formazione e quello professionale;

2. la seconda: traccia l’obiettivo della riqualificazione urbana, attualizzata alle nuove tendenze che la stessa disciplina del restauro dell’architettura e del paesaggio sta evidenziando, trasferendo la centralità della problematica per la tutela attiva del patrimonio: dalla conservazione alla rigenerazione delle funzioni.

L’area di studio che prende spunto dal complesso industriale del Fabbricone, si estende a tutta la zona nord della città di Prato, già indicata dall’assessore all’Urbanistica, arch. Valerio Barberis, come ambito di progetto di riqualificazione ambientale prioritario per la città di Prato.

Nelle intenzioni del laboratorio didattico si è dunque inteso legare la progettazione alla salvaguardia dei valori testimoniali delle architetture moderne di matrice industriale al fine di riunire in un’unica trama di “sviluppo sostenibile” gli aspetti oggi al centro dell’interesse ambientale e urbanistico.

Su questo obiettivo programmatico ha preso le mosse e si è svolto il seminario di studio che ha avuto come tema di esercitazione: «Lo studio del complesso industriale del Fabbricone nella definizione degli elementi aventi valore di testimonianza nel duplice profilo di “integrità” e “autenticità” per la messa a punto di idonee metodologie di intervento, recupero e fruizione del bene industriale», cfr. in Prefazione, cit.

Gli studi affidati agli studenti, suddivisi in gruppi, sono stati articolati in due fasi:

1. la schedatura ed il rilievo diretto dei corpi di fabbrica del complesso industriale (classificati come “Blocchi”);

2. l’elaborazione del progetto conservativo e di restauro dei corpi di fabbrica costitutivi il complesso, accompagnato dall’elaborazione di un masterplan delle funzioni da associare alle porzioni in dismissione produttiva o già alienabili per usi diversi. In particolare, come tema comune di approfondimento assegnato a tutti i gruppi di studio, è stato preso in esame il c.d. “Blocco 12”. Si tratta di un corpo di fabbrica già destinato a demolizione e ricostruzione, poi assoggettato in conservazione strutturale a modifiche d’uso per attività di servizio sociale, successivamente anch’esse abortite nel tempo ed oggi

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disponibile per nuove eventuali funzioni (di tipo commerciale ecc.). Quale riferimento indiretto e di confronto per le possibili soluzioni da adottare nelle proposte di studio. In via preliminare, alla luce delle complesse dinamiche di recupero che si sono evidenziate negli ultimi anni sia alla scala architettonica che a quella urbanistica, sono stati esaminati in rapida successione gli ultimi interventi con le più recenti proposte di piano di recupero di iniziativa privata che hanno interessato, non solo il “Blocco 122”, bensì l’intero comparto del Fabbricone, comprese le attuali iniziative comunali rivolte al polo dei teatri. Per far luce sulla complessità del tema affrontato è perciò utile ricordare che negli anni recenti la proprietà intestataria del bene (“Lanificio Ruggero Balli S.p.A”), ha più volte presentato, fin dal 2005, alcune proposte di PdR. In particolare, facendo seguito alla proposta di piano depositata nel 2013 in Variante al R.U, a nome di Luigi Balli, fu presentato nel luglio 2015 un più complessivo “Piano di Recupero e Valorizzazione - Area ex Fabbricone” che si conformava alla nuova normativa regionale in materia urbanistica. Questo piano, a firma degli architetti Giovanni e Marco Valentini (Edistem srl), investiva l’intera estensione dell’ex Fabbricone. Per la particolare rilevanza ambientale il piano fu oggetto di “Conferenza di Copianificazione, ai sensi dell’art. 26 della L.R. nr. 65/2014”, con avvio del procedimento nel giugno 2016. Per maggior dettaglio, nel piano di recupero si proponeva l’insediamento di una grande struttura di vendita da ricavarsi rimodellando i fabbricati del “Blocco 12” e di tutti i limitrofi stanzoni in parti già occupati da un centro commerciale. Oltre a questo erano previsti sostanziali “mutamenti” morfologici delle volumetrie storiche, ancorché in parte determinati da interventi di riutilizzo del patrimonio edilizio esistente. Ciò comportava un’integrazione di analisi per una serie di eccezioni mosse da parte dell’”Ufficio di Piano e di Coordinamento degli atti di governo del territorio” del Comune di Prato, proprio per addivenire ad un’esauriente valutazione d’impatto ambientale (vas), come previsto dalla normativa sopra citata.

In una chiave di lettura che investe le problematiche attuali, di riconversione e recupero del grande complesso industriale, è oggi interessante rileggere, a distanza di oltre un lustro, i criteri allora adottati per le verifiche di fattibilità e sostenibilità in ordine ai dettami normativi, anche allo scopo anche di indicare eventuali interventi compensativi o correttivi in chiave di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture preesistenti (ex art. 25 c.5). Si potrebbe eccepire per le previsioni che allora si fecero che parte delle strutture di pregio, non vincolate come archeologia industriale, venivano demolite per far posto a parcheggi a raso. Tuttavia, fu preso atto dagli uffici che «nel corso degli anni dopo diverse vicissitudini e cambi di proprietà, oggi una parte dello stabilimento è sede dal 1981 del Lanificio Fratelli Balli S.p.A. , mentre l’altra è stata riconvertita ad uffici, uso commerciale e

didattica, ricerca, gestione dati e progetto • centauro, guanci, silvestri, vacirca, buti 233

Viste tridimensionali del modello plastico digitale del “Piano di Recupero e Valorizzazione area ex Fabbricone” (architetti G. e M, ValentiniEdisistem srl , 2016). (Fonte: Comune di Prato).

spazi pubblici. /…/ Ragion per cui il piano di recupero propone la riconversione complessiva dell’area con la demolizione degli edifici di scarso valore storico architettonico (sic!), con esclusione dei due spazi teatrali Fabbrichino e Fabbricone, il “recupero” della parte più antica dell’insediamento, con l’inserimento di una grande struttura di vendita, una serie di esercizi di vicinato, una zona a terziario, una dedicata alla ristorazione, diversi parcheggi a raso e uno multipiano, con una parte degli immobili conservati con funzioni produttive» (estratto dalla relazione degli istruttori tecnici e dirigenziali del Servizio Urbanistica: G. D’Alessandro, P. Bracciotti, F. Caporaso). In questa relazione, pur evidenziando le molteplici ricadute positive specie da un punto divista economico, si indicavano nel dettaglio i correttivi ai quali doversi attenere come previsto nell’iter di formazione ed approvazione delle Varianti al Piano Strutturale. Nei mesi successivi furono presentate nuove documentazioni, con dovizia di rilievi e nuovi particolari costruttivi, tuttavia non modificando di molto l’approccio precedente. Al termine dell’iter, nel maggio del 2018, la proposta di piano non fu accolta. Di fatto, con la demolizione di alcune parti strutturali antecedenti al 1934 e la sostituzione generalizzata dei volumi da destinare a funzioni commerciali si andava a modificare radicalmente l’assetto esistente. Senza entrare nel merito degli elaborati progettuali, a noi preme sottolineare tra le varie problematiche che furono allora sollevate nell’ambito della valutazione d’impatto ambientale,

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quelle rapportabili alle riflessioni e criticità non risolte che ancora si riscontrano nel dibattito attuale (mobilità e connessioni urbane) e, più in generale, al restauro del Moderno, con attenzione particolare al tema della rigenerazione delle funzioni in chiave di rispetto della compagine architettonica e paesaggistica storicamente caratterizzante l’intero compendio ambientale ed urbanistico del ex Fabbricone, comprendendovi anche i corpi di fabbrica di più recente edificazione, già esclusi dai vincoli urbanistici legati alle tematiche dell’archeologia industriale.

Una volta di più da questa esperienza appare evidente che le ragioni del restauro urbano latitano specialmente nei confronti delle architetture contemporanee o di più recente costruzione, non incluse negli “stereotipi” dell’archeologia industriale (ciminiere, coperture a shed, elementi strutturali in ghisa, ecc.), risultando del tutto marginali nell’ambito dei processi di riqualificazione urbana.

Rigenerazione del polo teatrale del fabbricone e nuove connessioni urbane (AS)

Nell’ambito del seminario dedicato come caso-studio al comparto urbano occupato dal Fabbricone e in riferimento al dibattito in corso circa l’occupazione e le modalità di riutilizzo dei corpi di fabbrica già da tempo esclusi dal ciclo produttivo aziendale, si viene a porre

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Ipotesi di progetto “Prato

all’attenzione degli studenti del Laboratorio di Restauro dell’Università di Firenze, quelle che sono le attività di progetto riguardanti la parte pubblica che possono interconnettersi in sinergia con le proposte di riabilitazione funzionale perseguibili dalla parte privata dopo il mancato accoglimento nel 2018 del “PdRV ex Fabbricone”.

Il “Servizio edilizia storico monumentale e immobili comunali”, al quale afferisco come tecnico progettista, così come già anticipato e ampiamente descritto nelle sue linee programmatiche dalla relazione dell’assessore Barberis, vuole realizzare una nuova porta di accesso alla città da nord, e attraverso questa, creare una cerniera che connetta direttamente il centro urbano a questo luogo culturalmente così importante e vitale. L’intervento proposto, nella sua complessità, si divide in due macro temi: la rigenerazione del polo teatrale (ex Fabbricone) e la realizzazione di nuove connessioni con la città storica.

La rigenerazione del polo teatrale: i singoli interventi quindi prevedono il restauro e l’adeguamento del polo teatrale “Il Fabbricone”, una volta acquisito al demanio pubblico, nonché la destinazione del Fabbrichino a depositi e laboratori scenici. Ed inoltre, sul fronte del Fabbrichino, lato via Targetti, stabilire, come destinazione d’uso, l’insediamento di uno studentato.

Le nuove connessioni: tra il mercato generale comunale all’aperto e il complesso teatrale è prevista una grande area verde dove si alternano percorsi e spazi di relazione. Più nello specifico viene “demineralizzata” parte dell’area attraverso l’eliminazione delle superfici asfaltate, viene realizzato un nuovo parcheggio a ovest (lato residenze); si delineano settori verdi attraverso l’incrocio di percorsi incrocianti che tagliano e connettono l’intera area a verde, si prevede uno spazio pavimentato in corrispondenza dell’ingresso alla piazza posta tra il teatro Il Fabbricone e il Fabbrichino, con la duplice valenza di spazio di relazione e di spettacoli all’aperto. La strada limitrofa, via E. Abati, resta invariata nel percorso e nella forma, ma sarà ripensata secondo i seguenti elementi progettuali: elementi che per la loro presenza forzano il rallentamento e/o comportamenti prudenti; assetti dello spazio stradale che inducono velocità tendenzialmente più basse; regole di circolazione.

Per queste ragioni la via E. Abati sarà definita come strada urbana a due carreggiate, inserita nel contesto del parco, con limite di velocità non superiore a 30 km/h. Tutto il sistema si connetterà alla piazza del mercato comunale costituendo di fatto l’asse di penetrazione ricercato che da nord farà accesso nella città storica.

Lo studentato: negli ultimi anni l’Italia ha registrato un incremento degli interventi di costruzione o adattamento di residenze per universitari. É sempre più importante e urgente dare quindi una risposta al tema della residenza per studenti universitari, un’abitazione

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 236
- Porta Nord” (arch. A. Silvestri - Comune di Prato, 2022)
didattica, ricerca, gestione dati e progetto • centauro, guanci, silvestri, vacirca, buti 237

Foto aerea consegnata agli studenti del seminario: L’area, definita anche Prato “Porta Nord” da alcune recenti suggestioni progettuali portate avanti dall’amministrazione cittadina, è stata suddivisa, per facilitarne la lettura ai partecipanti del seminario, in 5 aree tematiche contraddistinte dalle lettere A, B, C, D e E

sociale. Anche Prato ha visto l’aumento della presenza sul territorio locale di nuovi centri universitari, primo fra tutti il pin “Polo universitario città di Prato”, che registra più di 2000 studenti iscritti, dove sono attivi corsi di studio facenti capo alle facoltà di Economia, Lettere e filosofia, Ingegneria, Medicina e chirurgia e Scienze politiche dell’ateneo fiorentino e alla Scuola di Architettura con il CdL in Pianificazione del territorio. La proposta di intervento prevede, oltre alla rigenerazione del polo teatrale e la realizzazione di nuove connessioni con la città storica, l’inserimento di alloggi residenziali per studenti universitari che gravitano sul territorio aderendo alle numerose offerte formative.

Il carattere sociale di questa tipologia di abitazione, che costituisce un servizio per la collettività, si esprime attraverso la locazione a canone calmierato, di quella parte di utenza spesso economicamente più svantaggiata come gli studenti universitari.

L’idea di progetto è quindi di identificare un edificio, o parte di esso, destinato alle funzioni di residenza per studenti universitari e relativi servizi, realizzando tipologie di residenza sociale e di residenza temporanea.

Metodologia della raccolta e gestione dei dati (LV)

Il lavoro condotto durante il seminario è stato impostato nell’ottica di un possibile sviluppo di un database georeferenziato, nel quale far convergere tutti i risultati di ricerca portati avanti dagli studenti. La preparazione del materiale di studio, così come le indicazioni per la raccolta e la classificazione degli output dell’indagine conoscitiva e del progetto, sono stati predisposti secondo la logica per una successiva traduzione in un sistema GIS.

La georeferenziabilità dei dati raccolti ha riguardato informazioni su scala urbanistica, ma anche dati ad una scala architettonica. Il risultato finale sarà un database di informazioni di vario genere (foto, documenti storici, eidotipi e rilievi sul campo, schizzi e appunti) riferibile ad edifici e porzioni di edificio ben precisi. Opportunamente intabellati, i singoli dati potranno, se analizzati, far emergere varie informazioni riguardo allo stato di conservazione degli edifici, alla loro disponibilità in termini di utilizzo, alle loro caratteristiche architettoniche, indicizzate tramite categorie decise a priori. Una prima cartografia tematica consegnata agli studenti del seminario si è concentrata su una porzione di tessuto urbano compresa tra Via Bologna a Ovest, la ferrovia a sud, il Fiume Bisenzio a est e Via Mozza sul Gorone a nord.

Successivamente l’approfondimento ha riguardato un focus sul complesso dell’Ex Fabbricone. Trattasi di un edificio, costruito a partire dal 1904, che appare ancor oggi fuori scala rispetto al resto del tessuto urbano circostante, con dimensioni dell’ordine di

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 238

Legenda

A: Area del Fabbricone, comprendente tutti gli edifici dell’impianto originario e con caratteristiche di maggior valore architettonico e storicotestimoniale. L’area è quella sulla quale successivamente si sono concentrate le ricognizioni degli studenti divisi in gruppi.

B: Area comprendente altre parti dell’ex Fabbricone, più recenti e in gran parte non più produttive, e una vasta area aperta, oggetto di studio da parte degli uffici tecnici comunali per un masterplan per un nuovo parco culturale che ricolleghi il complesso con il centro cittadino più a sud.

C: La Calamai 2, importante esempio di polo produttivo.

D: l’area del mercato nuovo.

E: Il Polo Universitario di Prato (PIN).

didattica, ricerca, gestione dati e progetto • centauro, guanci, silvestri, vacirca, buti 239

grandezza di un piccolo quartiere. I gruppi di lavoro definiti nel corso del seminario hanno ricalcato 12 diverse porzioni dell’area, sulle quali si è concentrato il lavoro di ricognizione degli studenti, in termini di caratteri costruttivi, stato di conservazione e utilizzo attuale delle singole aree assegnate.

Il quadro risultante è tra i più variegati, a partire proprio dagli assetti proprietari e dalle destinazioni d’uso. In un contesto quasi esclusivamente privato, nei decenni si è sviluppata una delle attività culturali più importanti della città, ovvero il Teatro Fabbricone.

Al di là della catalogazione dei vari elementi costruttivi, dello stato di conservazione di strutture e cortine edilizie ai fini del restauro, è stato chiesto a ciascun gruppo di concentrarsi su una proposta progettuale di rigenerazione nell’area B), ovvero della porzione “Blocco 12” del fabbricato.

L’area si è prestata a numerose manifestazioni temporanee quali fiere e mercatini, fino alla porzione denominata ex Fabbricone, un “club, bistrot, coworking e incubatore di idee”6 che aveva allestito gli spazi con container di riuso. Attualmente in disuso, l’ex Fabbricone rimane dotato di tutti i requisiti necessari per un’attività culturale aperta al pubblico.

La sfida proposta agli studenti a margine dell’indagine conoscitiva del complesso industriale è stata proprio quella di pensare ad un progetto di riattivazione dello spazio individuato nel “Blocco 12” partendo dall’allestimento esistente e delle vocazioni dell’area previste a livello comunale. Ne sono derivate numerose suggestioni e molteplici proposte, molte delle quali hanno tenuto conto della vicinanza del teatro, del polo universitario e di altre attività (come la scuola di danza): un archivio, un bar, una biblioteca, aule studio, una palestra; sale prova individuali e per orchestra, spogliatoi per gli attori, sala danza; un coworking, una sala biliardo e un bowling; una sala ricreativa per anziani, un pub, un laboratorio didattico per bambini; un palco per esibizioni, una sala conferenza, una sala espositiva. 6

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https://www.youtube.com/channel/UCpVTUrfXNEgDviObPvLSXdw

Il Fabbricone: elementi costruttivi diacronici testimoni delle diverse fasi costruttive. (Foto di L. Vacirca, 2022).

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didattica, ricerca, gestione dati e progetto • centauro, guanci, silvestri, vacirca, buti 243

Legenda

Edifici precedenti al 1904

Edifici dal 1904 al 1934

Edifici dal 1934 al 1954

Edifici dal 1954 al 1984

Edifici successivi al 1984

Rialzamento secondo piano del 1934

Rialzamento secondo piano del 1938

Rialzamento secondo piano del 1938 e terzo piano del 1984

Complesso del Fabbricone, cronologia delle fasi costruttive (PdR 2016) (Fonte: Comune di Prato)

Complesso del Fabbricone, foto aerea zenitale (Fonte: Google Earth, 2021)

nuovi studi sul complesso industriale “il fabbricone”

Il trattamento grafico delle informazioni

Raccolta dati catalografici e loro rappresentazione cartografica in forma di poster

I dati che sono illustrati in questo capitolo sono estratti dalla compilazione condotta da parte degli studenti, suddivisi in 11 gruppi di studio, attraverso un modello di scheda “A-OA” predisposta ad hoc al fine di procedere alla catalogazione degli elementi costitutivi (OA) dei corpi di fabbrica (A) facenti parte di ciascun blocco assegnato e loro rappresentazione grafica in poster (dim. 90 x 180 cm).

Rilievi e analisi architettonica

L’indagine documentata nei posters predisposti dagli studenti (v. ultra) si sviluppa con elaborazioni fotografiche, rilievi e restituzioni grafiche principalmente relative a: documentazione fotografica d’insieme (localizzazione area di studio) e di dettaglio dell’area assegnata (corredata da foto-indice); disegni al tratto di particolari costruttivi (dal sistema delle coperture agli elementi strutturali) e con restituzione grafica in sezioni prospettiche; rappresentazione dei prospetti dei corpi di fabbrica assegnati, illustrati con disegni al tratto e fotopiani, elaborazioni accompagnate da mappature tematiche relative a lettura dei materiali e dei cromatismi; analisi dello stato di conservazione; descrizione con matrici di collegamento dei fenomeni di degrado osservati sulle superfici indagate.

Elaborazioni di progetto

In questa parte dei posters, ciascun gruppo di studio illustra, come tema seminariale, la propria proposta progettuale riferita per tutti al solo “Blocco 12” oggi in disuso. La descrizione degli interventi è corredata da masterplan delle funzioni, dalla restituzione grafica degli allestimenti proposti in pianta e tramite schizzi esemplificativi, render e foto inserimenti.

Complesso industriale del Fabbricone, aree del ciclo produttivo e aree dismesse esaminate nell’ambito del seminario didattico: L’edificato è distinto in blocchi, numerati in base all’assegnazione data ai vari gruppi di studio

Complesso del Fabbricone, destinazioni d’uso degli ambienti interni (per gentile concessione della proprietà F.lli Balli, agg. 2021): in rosso e celeste, le aree produttive; in grigio scuro e grigio chiaro: aree in concessione esterna con destinazioni varie; in beige, verde e viola: altre destinazioni.

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 246 •
247 nuovi studi sul complesso industriale “il fabbricone” • giuseppe alberto centauro

“A-OA”

IL MODELLO DI
SCHEDA
Modello di scheda A-OA (pagine da 1 a 4)
Modello di scheda A-OA (pagine da 5 a 8)
conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 252

ESERCITAZIONI

Elaborati degli studenti del Laboratorio di Restauro

Estratti esemplificativi dei rilievi e delle analisi di studio prodotte sulle aree assegnate

CdL in Scienze dell’Architettura , A.A. 2021-2022

docente: prof. Giuseppe A. Centauro, con la collaborazione del prof. Silvio Van Riel

Elenco degli studenti (in ordine alfabetico):

Agostini E., Alinari S., Amaducci G, Arena l., Baggiani C., Barlone S., Bardelli N., Bartoli G., Beconcini A., Benocci A., Bertocchini M., Bussani A., Campolmi F, Cantini T., Cappelli M., Casarosa T.,

Ceccotti S., Chiuppi A., Collotti C., Corsinovi V., Cosci C., Daini F., Di Foggia E., Fallanca R., Ferrandini A., Ferrante L., Finucci E., Frassineti S., Gualtieri E., Gueli A., Gradante G.

nuovistudisulcomplessoindustriale“ilfabbricone”•centauro,guanci,silvestri,vacirca,buti 253

BLOCCO 1 elaborazione di A. Benocci, A. Bussani

Indice fotografico dei locali ispezionati all’interno del “blocco” assegnato

Figg: 1,2 - Ambiente imballaggi e stoccaggio lana; figg. 3,4 - Locali in uso a “Accademia Danza Studio 44”; figg. 5,6. Locali in uso al “Giardino delle Fate”, negozio specializzato per decorazioni floreali per cerimonie e matrimoni.

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 254

Tematismi di rilievo della palazzina: Eidotipo, fotopiano, mappatura dei materiali con misure cromatiche, mappatura dello stato di conservazione della palazzina degli uffici;

255 esercitazioni
Matrice di collegamento per gli interventi di restauro

BLOCCO 2

elaborazione di M. Bertocchini, R. Fallanca, A. Ferrandini

Estratto relativo alla conservazione e al restauro di elementi costruttivi (OA) e superfici architettoniche (A)

Particolari strutturali della campata C: assonometria e esploso stratigrafico della copertura

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 256

Estratto relativo all’analisi cromatica delle superfici, al degrado finalizzato alla conservazione e al restauro di elementi costruttivi (OA) e superfici architettoniche (A) e matrice di collegamento per la descrizione degli interventi.

257 esercitazioni
Tematismi di rilievo ed analisi della palazzina in studio.

BLOCCO 3

elaborazione di E. Agostini, A. Chiuppi, A. Gueli

Particolari costruttivi ed analisi delle patologie riguardanti gli ambienti interni

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 258

Tematismi di rilievo ed analisi con particolari di studio delle superfici con matrice di collegamento e descrizione degli interventi

259 esercitazioni

BLOCCO 4

elaborazione di S. Alinari, G. Amaducci, V. Corsinovi

Tematismi di rilievo ed analisi con particolari di studio delle superfici con lettura dei materiali e dello stato di conservazione

Matrice di collegamento con descrizione degli interventi di prevenzione e manutenzione

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 260

BLOCCO 5

elaborazione di C. Baggiani, C. Collotti, E. Gualtieri

Particolari costruttivi con sezione tecnologica copertura a shed

Tematismi di rilievo: Eidotipo e fotopiano della cortina esterna e particolare di sezione interna

261 esercitazioni

BLOCCO 6

elaborazione di L. Arena, S. Ceccotti, F. Daini

Inquadramento della composita area di studio, la parte più antica è quella con copertura in laterizio

Vista del sottotetto con particolari costruttivi delle incavallature lignee

Sezione degli stanzoni giustapposti : stanzone con incavallature lignee e stanzone con telaio metalliche; viste assonometrie

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 262

Ricostruzione degli impalcati e articolati cavalletti lignei della copertura

Render dello spazio del magazzino giustapposto al Blocco 6

Fotopiano cortina esterna con mappa del degrado delle superfici e matrice di collegamento con descrizione degli interventi di restauro delle superfici

263 esercitazioni

BLOCCO 7A

elaborazione di T. Casarosa, E. Finucci, S. Frassineti

Studi sulle diverse tipologie delle strutture di copertura

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 264
Schizzi di rilievo

BLOCCO 7B

Disegno al tratto dei prospetti nord ed est

Fotopiano con lettura dei codici colore (in alto) e mappatura delle patologie dell’intonaco (in basso)

265 esercitazioni

BLOCCO 8

elaborazione di G. Bartoli, C. Cosci, E. Di Foggia

Particolare costruttivo e soffittatura Soffitto con cassettonato ligneo

Mappatura del degrado degli intonaci e matrice di collegamento con descrizione degli interventi d manutenzione e restauro

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 266

BLOCCO 9 elaborazione di A. Beconcini, F. Campolmi, L. Ferrante

Viste degli ambienti interni

Modelli di studio relativi alle diverse tipologie di copertura rilevati : in legno, in metallo e voltata in laterizio armato

267 esercitazioni
Fronte esterno con ingresso carrabile

BLOCCO 10

elaborazione di N. Bardelli, S. Barlone, G. Gradante

Viste degli ambienti interni

Studi sui sistemi di copertura dei capannoni: tipologia metallica e copertura a shed vetro e metallo

Copertura con struttura a volta in laterizio armato a spinta contenuta e cappello metallico

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 268

BLOCCO 11 elaborazione di M. Cappelli, T. Cantini

Planimetria del “Blocco 11”, con foto-indice orientativo

Inquadramento dell’area del “Blocco 11”, con i due teatri, Fabbricone e Fabbrichino, e il resede

Documentazione fotografica del “Blocco 11” con riferimento ad immagini tratte dal foto-indice.

Teatro Fabbricone: foyer (2), galleria (5); Teatro Fabbrichino: sala (9)

269 esercitazioni

BLOCCO 12

Estratti delle proposte progettuali a per la rigenerazione delle funzioni GRUPPO

1

Piano delle funzioni e rendering allestimento interno

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GRUPPO 2

Rendering di progetto degli ambienti interni con descrizione delle nuove destinazioni d’uso indicate come “Polo dei Servizi”

271 esercitazioni

GRUPPO 3

Piano delle funzioni e rendering di progetto degli allestimenti interni

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 272

GRUPPO 4

Proposta di recupero funzionale e rendering di progetto degli allestimenti interni

273 esercitazioni

GRUPPO 5

Masterplan generale dell’area con individuazione dei lotti interessati dal progetto

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 274

GRUPPO 6

Proposta di recupero funzionale con viste degli spazi interni da allestire

275 esercitazioni

GRUPPO 7

Piano delle funzioni con foto inserimenti degli allestimenti di progetto

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 276

GRUPPO 8

Masterplan generale dell’area con individuazione delle zone interessate dal progetto

277 esercitazioni

GRUPPO 9

Piano delle funzioni e rendering di progetto degli ambienti interni

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 278

GRUPPO 10

Piano delle funzioni e rendering di progetto degli ambienti interni

279 esercitazioni

GRUPPO 11

Masterplan generale dell’area con le destinazioni d’uso in connessione tra il polo dei teatri e le nuovi funzioni

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 280

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291 esercitazioni

Gli autori ed i curatori dell'opera ringraziano:

- la Fondazione Cassa di Risparmio di Prato per il contributo finanziario che ha reso possibile la presente pubblicazione;

- il Consiglio dell'Ordine degli Architetti di Prato 2017-2021 ed in particolar modo l'architetto Marzia De Marzi;

- il Consiglio dell'Ordine degli Architetti di Prato 2021-2025 ed in particolar modo i consiglieri architetti Irene Battiston, Luca Erbaggio, Federica Fiaschi e Paola Tiradritti.

- Ed ancora, per la collaborazione prestata in fase organizzativa e nell’ambito dell’attività didattica a supporto del seminario didattico si ringraziano: arch. Paola Falaschi, Francesco Procopio (Comune di Prato); si ringrazia, inoltre, per la testimonianza sui rilievi della Fabbrica Campolmi l’arch. Luca Buono.

Si ringrazia, in modo particolare, per l’ accoglienza e la grande disponibilità riservata al personale docente e agli studenti del laboratorio di restauro per lo svolgimento delle attività seminariali all’interno del complesso del Fabbricone

- la famiglia Balli, nelle persone del signor Romeo e dell’arch. Laura.

- Ed inoltre, ringraziamo per l’attenzione: la dottoressa Daniela Toccafondi, Presidente del PIN; le strutture e il personale tecnico amministrativo del Dipartimento di Architettura (Università degli Studi di Firenze); la prof.ssa Barbara Aterini, Presidente Corso di Laurea in Scienze dell'Architettura; infine, un ringraziamento particolare va al dott. Tommaso Borghini, Tecnologo per i corsi di Laurea in Pianificazione della Città, del Territorio e del Paesaggio, di Pianificazione della Città e del Territorio per la preziosa assistenza prestata per lo svolgimento del laboratorio di restauro nella sede Dida attiva presso Il Polo Universitario della città di Prato.

Si ringrazia per il patrocinio alla Giornata di Studio e alla presente pubblicazione: la “Società Italiana per il Restauro dell’Architettura (S.I.R.A.)”

Si ringrazia Arianna Sarti del Museo del Tessuto per la collaborazione.

ringraziamenti

Lulghennet Teklè

Presidente dell'Ordine Architetti PPC di Prato e Provincia e Coordinatrice della FAT (Federazione Architetti Toscani). È architetto specializzata in Universal Design e in progettazione inclusiva di Musei. Da molti anni collabora come consulente del CRA —Centro Regionale per l'Accessibilità della Regione Toscana.

Giuseppe Alberto Centauro

Architetto. Iscritto all’Ordine degli Architetti dal 1977; dal 2004 al 2022 è Professore associato di Restauro con docenza nei Laboratori di Restauro in tutti i corsi di studio del Dipartimento di Architettura e presso la Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio dell’Università degli Studi di Firenze. Negli anni ’80 e’90 è responsabile di ricerca per le indagini storiche per il “Progetto Piero della Francesca”; svolge assidua attività di progettazione nel settore dei beni culturali e dei musei. Dal 1994 al 2009 è Direttore del Laboratorio di Affresco, “E e L. Tintori” a Prato. Ad oggi è autore di innumerevoli monografie, saggi e studi collettanei dedicati alle tematiche della conservazione e valorizzazione del patrimonio alla scala architettonica ed urbana, in particolare sulle tematiche dell’archeologia e del restauro del colore in Architettura, collaborando con Enti Locali ed istituzioni nazionali, tra queste con l’Ufficio UNESCO “Centro Storico di Firenze”. E’ responsabile scientifico nei progetti convenzionati illustrati nel presente volume.

Giuseppe Guanci

Architetto, esperto di archeologia industriale. Già presidente dell’Associazione ASVAIP, membro della Giunta esecutiva nazionale dell’AIPAI e membro del Comitato Pratese per la Promozione dei Valori Risorgimentali. Dal 2003 è autore di numerose monografie e pubblicazioni sul patrimonio dell’industria pratese. In qualità di cultore della materia e docente ha collaborato con le attività seminariali svolte in seno al laboratorio di restauro per gli studi relativi al complesso del Fabbricone e agli opifici storici del distretto industriale pratese.

brevi note curriculari degli autori
(in ordine di presentazione)

Già professore di “Restauro architettonico” e “Consolidamento degli edifici storici” presso la Scuola di Architettura dell’Università di Firenze dove si è laureato nel 1975 e dove ha svolto attività didattica e di ricerca, come cultore della materia, professore incaricato a contratto ed infine come professore di ruolo. Attualmente collabora ai laboratori di Restauro architettonico presso la Scuola di Architettura di Firenze. I suoi interessi di ricerca comprendono l’indagine e le metodologie applicative per la tutela architettonica e strutturale degli edifici esistenti, con particolare attenzione ai problemi legati all’applicazione dell’attuale normativa tecnica. In tale settore scientifico sono sviluppate ricerche e studi al fine della messa in sicurezza statica e sismica dell’architettura storica e contemporanea. Ha curato mostre e organizzato convegni internazionali.

Pietro Matracchi

Architetto. Professore associato presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. È docente di Restauro Architettonico dal 2002 presso la Scuola di Architettura di Firenze, ha insegnato la stessa disciplina anche presso gli Atenei di Pisa e Perugia. Insegna nella Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio. È autore di saggi e monografie che hanno interessato l’architettura nella sua concreta finitezza; tra i temi trattati si rammentano le cupole, il palazzo del Museo Nazionale del Bargello a Firenze, le cattedrali di Firenze, Siena, Pisa e Perugia, il sistema di torri di San Gimignano.

Denise Fresu

Architetto. Nel 2021 si laurea presso la facoltà di Architettura di Firenze con la tesi “Ex Zuccherificio di Granaiolo. Analisi dei caratteri storico-architettonici per la conservazione ed il riuso di una cattedrale dell’industria in Toscana”. Interessata ai temi della salvaguardia e valorizzazione del patrimonio architettonico, collabora con studi professionali dell’area fiorentina operanti su beni paesaggistici e architettonici vincolati. Nel 2022 partecipa ai “Secondi Stati Generali del Patrimonio Industriale”, curato da AIPAI, Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale.

Milena Lorusso

Architetto. Si forma presso la Scuola di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze dove si laurea nel 2021 con una tesi sull’archeologia industriale. Nel 2018, presso l’Università di Coimbra, partecipa al progetto per il recupero della Fabrica Triunfo, uno stabilimento industriale dismesso; nel 2022 partecipa ai Secondi Stati Generali del

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 296

Patrimonio Industriale, promossi da AIPAI. Dal 2021 collabora con studi professionali sui temi del restauro e del recupero del patrimonio architettonico.

Architetto. Professore associato presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. Ricercatore e docente di Rilievo e Rappresentazione dell’Architettura e dell’Ambiente dal 2003. I suoi campi di ricerca riguardano il rilievo digitale (3D laser scanner, Fotogrammetria), la computer grafica applicata ai Beni Culturali, all’Architettura, al Paesaggio. E’ autore di monografie e di una ricca saggistica. Al 2021 Direttore Scientifico del Laboratorio informatico Architettura (LIA), Coordinatore del sistema DIDALabs e Direttore Scientifico del Laboratorio Fotografico (LFA).

Professoressa ordinaria in Tecnica e pianificazione urbanistica e presidente del Corso di Studio Magistrale in Pianificazione e Progettazione della Città e del Territorio all’università di Firenze, dirige la collana editoriale Territori della Firenze University Press ed è la referente scientifica del Laboratorio di Progettazione ecologica degli insediamenti (LAPEI) della rete dei DIDA-LABS. Fa parte del Comitato scientifico e del direttivo della Società dei Territorialisti/e di cui è socia fondatrice. Si interessa di rappresentazione, progetto del territorio e del paesaggio, sviluppo locale in ottica autosostenibile, politiche del cibo, pianificazione bioregionale, processi di patrimonializzazione, servizi ecosistemici. Ha svolto su questi temi ricerche teoriche e applicative, con comunità, gruppi di azione locale ed enti pubblici.

David Fanfani

Architetto. PhD, Professore Associato di Tecnica e Pianificazione Urbanistica presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze. Svolge attività didattica e di ricerca riferita in particolare alla pianificazione e progettazione integrata del territorio rurale e delle aree agricole periurbane con particolare riferimento all’approccio Bioregionale. E’ autore di numerose monografie e saggi sul paesaggio agrario, la progettazione e le politiche territoriali.

Valerio Barberis

Architetto. Nel 1995, si laurea cum laude in Progettazione Architettonica ed Urbana. Nel 2004 consegue il PhD in Progettazione Architettonica e in quella stessa materia, nel 2005, è docente a contratto presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. È fondatore dell’studio “MDU architetti”, pubblicando su riviste e webzine nazionali e

297 esercitazioni

internazionali. Dal 2014 è Assessore all’Urbanistica e ai Lavori Pubblici e, dal 2019, Assessore all’Urbanistica, all’Ambiente , all’Economia Circolare del Comune di Prato. L’esperienza dell’Agenda Urbana per Prato e il Piano Operativo Comunale sono condensati nella pubblicazione “Prato Fabbrica Natura”, a cura di E. C. Cattaneo e V. Barberis, Skira, Milano 2019.

Giada Buti

Architetto, libero professionista e socio fondatore dello studio Buti Archistudio. Dal 2017 è consigliere dell’Ordine degli Architetti di Prato, referente del Gruppo Professione e Politiche Giovanili dal 2017 al 2021, attualmente è referente del Gruppo Giovani Architetti, Tutor per la gestione dei Tirocini formativi professionalizzanti, membro designato dall’Ordine per il Progetto Spazio Orientamento per l’Architettura di Federazione APPC Toscani, coordinatrice di redazione per la rivista dell’Ordine “MY/A”. Cultrice della Materia (Settore Scientifico Disciplinare ICAR 19 – Restauro) ha svolto, presso il DIDA di Firenze, attività di collaborazione nell’ambito del Laboratorio di Restauro del Corso di Laurea in Scienze della Conservazione. Coordinatrice per l’Ordine degli Architetti di Prato del progetto sul Restauro del Moderno.

Cecilia Gelli

Architetto, laureata nel 2007 alla Facoltà di Architettura di Firenze con una tesi in Progettazione Bioclimatica, svolge la libera professione tra il 2009 ed il 2018 specializzandosi in riqualificazioni e diagnosi energetiche, sostenibilità ambientale e rigenerazione urbana. Fondatrice dell’associazione Giovani Architetti Prato per la promozione del ruolo dell’architetto sul territorio, associazione di cui è Presidente dal 2009 al 2013, è consigliere dell’Ordine Provinciale di Prato dal 2013 al 2018. Dal 2018 è Funzionario Tecnico presso pubbliche amministrazione e attualmente in ruolo presso il Settore Lavori Pubblici del Comune di Prato.

Marcello Marchesini

Architetto e socio fondatore dello studio MDU architetti vincitore di numerosi concorsi tra cui si segnalano quello per il Teatro di Montalto di Castro, il Teatro-Pinacoteca di Acri e quello per la Nuova sede della Camera di Commercio di Prato. Ph.D in Progettazione Architettonica all’Università Mediterranea di Reggio Calabria con la Prof. ssa Laura Thermes. Attualmente, oltre a svolgere l’attività professionale, è impegnato come Professore a Contratto presso l’Università di Architettura a Ferrara dove insegna progettazione

conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna • giuseppe alberto centauro 298

architettonica dal 2013. Dal 2010 al 2014 lavora nella redazione della rivista ordinistica

“Opere” dove ha curato la sezione “Altre Architetture”. Scrive regolarmente articoli e saggi su riviste e libri di settore ed è invitato a partecipare come tutor a workshop e master, a presentare il lavoro dello studio in convegni e conferenze e come membro di giuria in concorsi di progettazione e premi di architettura. Dal 2021 è consigliere all’OAPCC di Prato e direttore della rivista omonima “MY/A”.

Massimo Fabbri

Architetto. Si laurea dottore magistrale in Architettura nel 2004, da sempre interessato ai temi della Rigenerazione Urbana, del Riuso e dello Spazio Pubblico, ha sviluppato la propria attività professionale nello studio e nella definizione di strategie di intervento sulla città contemporanea tradotte in progetti di riqualificazione urbana e sociale realizzati ed in corso di realizzazione. Capogruppo del Progetto di Innovazione Urbana al Macrolotto Zero di Prato.

Antonio Silvestri

Architetto. Dopo aver svolto esperienze nel settore privato, nel 1999, prende servizio presso il Comune di Prato, occupandosi attivamente di progettazione di opere pubbliche. Tra i lavori svolti nell’ambito del Servizio Lavori Pubblici, con attinenza ai temi presentemente trattati si segnalano: la progettazione delle ex celle frigo nel complesso di Officina Giovani, nonché il recupero in corso dell’ex stalle e della palazzina uffici; la progettazione preliminare per tre progetti, quali l’ex falegnameria Puggelli, l’ex MPS via Siena e nuovo Archivio Comunale, inseriti nell’ambito del Programma Innovativo Nazionale per la Qualità dell’Abitare – PINQuA (PNRR).

Lorenzo Vacirca

Architetto. Membro fondatore della Associazione Codesign Toscana, insieme a Andrea del Buono, Rita Duina e Marco Berni. Vive e lavora come libero professionista a Prato. Si è laureato a Firenze con una laurea magistrale quinquennale e una tesi di restauro del paesaggio dei Monti della Calvana. Nel 2021, dopo un Erasmus EYE a Porto, consegue un Master in Rigenerazione Urbana e Innovazione Sociale allo IUAV di Venezia ed entra a far parte dell’associazione. Dal 2019 è impegnato con IPER-collettivo nella ricerca attiva di nuove pratiche di design sostenibile, indagando la relazione tra il territorio e le sue comunità, con l'obiettivo di esprimere le visioni attraverso progetti socialmente coinvolgenti.

299 esercitazioni

«Il Patrimonio dell’Industria pratese del ‘900» è l’argomento della pubblicazione. Capillarmente diffuso nel distretto produttivo della città, rappresenta un unicum ambientale che da almeno due decenni, in attuazione di politiche di delocalizzazione degli anni ’80 e ‘90 del secolo scorso, sta vivendo una radicale trasformazione. Le molteplici valenze economiche, storico urbanistiche e architettoniche, di assoluta rilevanza a livello nazionale, hanno però determinato la convergenza di interessi per la conservazione e/o la rigenerazione delle funzioni per una sua valorizzazione. Su questi temi il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze e l’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Prato hanno elaborato un progetto comune di studio. Allo stesso modo il dibattito sul restauro del Moderno e sull’Archeologia Industriale attraverso l’esame di casi-studio, ha determinato un’interazione tra Università ed Ordine professionale che si è concretizzato in una «Giornata di Studio» (Prato, 26 maggio 2022), quale atto conclusivo di un Laboratorio didattico dedicato al Fabbricone (iconico complesso industriale cittadino) svolto come attività del CdL in Scienze dell’Architettura.

Giuseppe Alberto Centauro, già Professore Associato di Restauro c/o il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, autore di numerose pubblicazioni: monografie, saggi ed articoli a stampa; svolge attività di libera docenza e consulenze per il restauro dei beni culturali: archeologici, ambientali, architettonici e storico-artistici. ISBN

978-88-3338-186-2
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