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la forma dell’esistente. il restauro della nuova

Sede Della Camera Di Commercio Di Prato

Marcello Marchesini MDU architetti

Abstract

L’obiettivo di recuperare qualcosa, qualunque essa sia, è quello di riacquistare ciò che era stato perduto. Nel caso dell’architettura si tratta di restituire un edificio abbandonato o una porzione di città degradata, alle persone che la città la vivono quotidianamente. L’obiettivo del concorso per la realizzazione della nuova sede della Camera di Commercio di Prato era quello di recuperare un edificio produttivo, cambiandone però la funzione. Nella memoria collettiva l’edificio esistente è sempre stato una fabbrica e questo, da sempre, è stato il suo utilizzo storico. Ecco allora che il progetto di architettura si carica di una nuova responsabilità che supera l’idea del recupero e abbraccia la logica della trasformazione. Ed è proprio il cambio di destinazione d’uso che innesca quel meccanismo virtuoso di recupero reale dell’architettura, inteso non come riproposizione anonima dell’esistente, ma come ripensamento, come nuovo progetto dell’esistente. Un esistente degradato che, con il passare degli anni, è invecchiato, si è ammalato, ha perso la sua vitalità. In questi casi, all’accanimento terapeutico, è stato preferito il trapianto, che implica la trasformazione. Questo è stato richiesto, questo è stato fatto attraverso un’interpretazione critica dell’esistente. Ma come?

La richiesta del bando era molto precisa: il progetto doveva proporre un’immagine contemporanea senza compromettere quella storica consolidata. Un presupposto questo, molto vincolante che però ha stimolato una riflessione partita dalla consapevolezza di non doversi confrontare con un edificio di archeologia industriale come ce ne sono tanti nel territorio pratese. Era pertanto necessario restituire una nuova identità all’esistente partendo dalla sua storia che però è anche quella contemporanea e non solo quella che appartiene al suo passato. Fondere passato, presente e futuro in un unico gesto è stata la sfida che noi, studio MDU architetti, abbiamo raccolto.

La lettura dell’esistente ci ha fatto capire che la vera qualità dell’edificio era la sua dimensione, la sua particolarità di essere un volume grande, compatto, rimasto pressoché intatto e identico in tutti questi anni. Una presenza ingombrante che non passa inosservata. Come valorizzare questa memoria? Alcuni suggerimenti sono arrivati osservando il risultato di lavori di artisti come il non-finito della Pietà Rondanini di Michelangelo, gli impacchettamenti di Christo, i ritratti sfocati di Gerhard Ricther, i building-cuts di Gordon Matta Clark: artisti che interagiscono con l’esistente in modo tale che riconoscibilità e memoria vengano mantenute, ma senza rinunciare alla contemporaneità. Senza rinunciare all’interpretazione critica che svela potenzialità latenti non

Vista zenitale dell’area prima dell’intervento di restauro dette e consente, secondo una logica di vedo-non vedo, di lasciare spazio alla libera interpretazione dell’osservatore che solo attraverso lo sguardo trasforma e definisce l’opera. La velatura, il non-finito, la sfocatura dell’immagine di partenza consente di restituire una nuova identità all’architettura senza negare la sua memoria, senza annullare l’immagine del suo passato. La soluzione di trattare in modo uniforme l’intero volume esistente con un rivestimento in alluminio anodizzato color bronzo ha l’obiettivo di offrire un’immagine contemporanea senza cancellare completamente la preesistenza che, in modo sfocato, si continua ancora a percepire. Passato, presente e futuro, coesistono insieme.

La nuova pelle metallica avvolge interamente l’edificio enfatizzando la sua dimensione, il suo essere “un fuori scala” ma, allo stesso tempo, grazie all’effetto trasparenza consente di intravedere ciò che sta dietro, ciò che sta in profondità. La nuova immagine che la Camera di Commercio di Prato offre alla città è una sfocatura dell’edificio industriale del quale si continuano a vedere gli elementi principali: la serialità delle aperture, le cornici marcapiano, gli elementi decorativi rappresentativi, le finestre.

Un vedo-non vedo che moltiplica e rilancia senza sosta le infinite possibilità di percezione del nuovo edificio contemporaneo.

Passato, presente e futuro per un progetto di restauro

Vista della grande fabbrica prima del restauro e (sotto) della Nuova sede della Camera di Commercio

-Anno 1960, in un bel giorno di primavera non ben precisato. Camminando lungo la via del Romito e la via Pelagatti era ancora possibile vedere, in lontananza, le mura trecentesche in pietra: la città non era ancora arrivata fino a lì, ma il rumore dei telai, la polvere e le numerose ciminiere che si alzavano dritte verso il cielo raccontavano e disegnavano quella che era la forma e la memoria della città di allora.

La grande fabbrica, voluta dall’imprenditore Adolfo Maggi e progettata dall’Ing. Mario Primi, si presentava come un autentico monumento: imperiale per la sua massa e volumetria, suggestivo per la sua dimensione e forma così esatta, così precisa. Cattedrale vera nel deserto la grande fabbrica era circondata solo da strade strerrate e prati: le case, quelle dove stavano le persone, erano lontane. Lì, nella fabbrica, si lavorava e basta. Lì, in periferia, dove il campanile del Duomo si vedeva piccino, Prato era ancora lontana.

-Anno 1980, un giorno caldo d’estate. I fusi e le rocche cadute dai furgoni aperti intralciano il traffico delle auto che circolano copiose intorno alla grande fabbrica che ora non è più isolata, ma circondata da case, botteghe e negozi. Intorno ronzano come api, dalle 5 del mattino alla mezzanotte, anche gli autobus della CAP perché proprio davanti all’ingresso principale di via del Romito si trova l’officina e il deposito della cooperativa che gestisce il trasporto pubblico a Prato e dintorni: lo conosco bene perché anche mio padre ci lavorava e spesso, da ragazzino, mi portava con lui anche se poi mi addormentavo sempre sdraiato sul grande cruscotto accanto alla pulsantiera che apriva le porte per far salire e scendere le persone o nel posto per me più comodo, quello dietro all’autista.

-Anno 1990. Attraversando il grande ingresso su via del Romito si poteva accedere agli spazi interni della fabbrica per scoprire l’impensabile. Niente più telai, niente più rumore assordante, niente più tessuti arrotolati, niente più polvere che ti soffoca i polmoni. Solo grandi teli, strutture e pannelli in legno, sedie, luci, gelatine e scenografie intere o smontate. La grande fabbrica non esiste più. Non esiste più il movimento frenetico della produzione, bensì il silenzio ininterrotto dei magazzini. La grande fabbrica è diventata un grande deposito.

-Anno 2013, 27 maggio, giorno dell’apertura al pubblico di quella che era stata la grande fabbrica. Da quel momento la nuova sede della Camera di Commercio di Prato diventa casa delle imprese e spazio a disposizione della città per mostre, manifestazioni ed eventi. Un luogo di incontro e di lavoro che nasce dal recupero della grande, vecchia fabbrica pratese destinata, prima di diventare Camera di Commercio, ad essere deposito di materiali e attrezzature, quelle del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino.

Siamo davanti ad un edificio che, nel corso della sua vita, si è trasformato e modificato. Ma come è potuto succedere tutto questo? Cosa ha comportato questo suo cambiamento e quale è stato il prezzo che ha dovuto pagare?

Prima di rispondere a queste ed altre domande e prima di interrogarsi sulle diverse modalità di strategie di trasformazione dell’esistente, è necessario interrogarsi su cosa si intende per recupero e perché le sue implicazioni non sono solo estetiche ma sono soprattutto culturali.

Ancora prima occorre però fare chiarezza su un’altra cosa: restauro e rigenerazione non sono la stessa cosa!

Senza ricorrere al convenzionale e didascalico significato etimologico, ciò che è importante è capire cosa questi due diversi metodi di intervento sull’esistente, concedono all’esistente stesso.

Mi spiego meglio.

Ogni operazione di recupero implica una scelta, quella di capire, interpretare e comprendere il messaggio originario per il quale l’esistente era stato concepito: il contesto in architettura, nonostante tutto, mantiene sempre il suo fascino ed importanza. Senza tradire quest’ultimo però, poiché recuperare è progettare, qualcosa dell’esistente dovrà essere sacrificato o, quanto meno, reinterpretato in chiave contemporanea.

È questa l’operazione che Brunelleschi compie quando progetta la sua meravigliosa cupola sullo scheletro seminudo di Santa Maria del Fiore. In questo caso il modello è quello del Pantheon il cui esempio tipologico viene recuperato e reinterpretato alla maniera rinascimentale.

Recupero = progetto.

Recupero pertanto riferito non solo ad un manufatto esistente ma anche ad un concetto o un modello e alla sua riproposizione critica. Non solo, recupero inteso anche come riscatto dell’esistente che abbraccia tutto, dall’edificio al territorio, dal monumento al paesaggio.

Nel recupero pertanto troviamo sia il restauro che la rigenerazione. Parliamo prima di restauro.

Tutto non può che partire dalla definizione del Carbonara:

“Atto di cultura e al tempo stesso altamente specialistico. Il restauro guarda al futuro e non al passato, neppure è riservato al godimento di pochi eletti cultori dell’antico. Esso ha funzioni educative e di memoria, per le future generazioni, per i giovani; riguarda, in fondo, non il compiacimento per gli studi in sé ma la formazione d’ogni cittadino e la sua qualità di vita, intesa nel senso spirituale e materiale più esteso”1

Una interpretazione questa che è molto di più di una semplice definizione: è una vera e propria dichiarazione di intenti che ha un respiro talmente ampio da abbracciare ogni campo tecnico ed artistico, creativo e specialistico. Un concetto trasversale che supera ogni disciplina per diventare un messaggio culturalmente universale e trasmissibile.

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, all’art. 29, comma 4, definisce in questi termini il restauro:

“Per restauro si intende l’intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all’integrità materiale ed al recupero del bene medesimo, alla protezione e trasmissione dei suoi valori culturali. Nel caso di beni immobili situati nelle zone dichiarate a rischio sismico in base alla normativa vigente, il restauro comprende l’intervento di miglioramento strutturale.”

Il testo di “un e raffinato percorso di definizione teorica del restauro”, che tiene insieme tre concetti essenziali: il problema della conservazione della materia originale, il problema della conservazione e trasmissione dei valori culturali, la conservazione, nella maggior misura possibile, del sistema costruttivo e del concetto strutturale originale, degli schemi statici originali, delle originarie modalità di scarico delle tensioni. “Al restauro non è delegata solo la funzione di conservare l’immagine, l’aspetto visivo, ma anche di conservare e trasmettere le informazioni tecniche e culturali codificate nel bene culturale oggetto di intervento”2.

È chiaro che da questa definizione la cosa importante da conservare dell’esistente, è la sua memoria, la sua ricchezza culturale affinché il suo messaggio originale non possa essere dimenticato ma trasmesso alle generazioni future.

La memoria (e quindi il progetto di restauro) è fatta di conservazione della materia, conservazione della forma e conservazione della struttura. Tre capisaldi capaci di trasformare l’esistente non congelandolo, bensì valorizzando la sua identità primaria. Una sorta di immersione nell’intimità profonda dell’esistente e funzionale alla sua rinascita. Niente a che vedere con l’atto di accondiscendere il fascino romantico della decadenza dei monumenti ma, a ben vedere, con la proposizione di un suo superamento attraverso un movimento, attraverso il progetto che è scelta critica e responsabilità di azione.

Restauro è quindi conservare la memoria senza rinunciare all’azione.

Così, nel 1963, Cesare Brandi:

“Il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro. Si restaura solo la materia dell’opera d’arte. Il restauro deve mirare al ristabilimento della unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo”.3

È quanto viene proposto da Anne Lacaton e Pierre Vassal con il restauro del Palais de Tokyo a Parigi condotto tra il 2010 e il 2012 dove, gli spazi per un totale di 22000 mq nati in occasione dell’Esposizione Universale del 1937, vengono destinati a spazi per la creazione di arte contemporanea. La stessa cosa vale per la cupola del Reichstag a Berlino, opera di Norman Foster.

2 Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42. Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge

6 luglio 2002, n. 137 (G.U. n. 45 del 24 febbraio 2004, s.o. n. 28).

3 C. Brandi, Teoria del restauro, Lezioni raccolte da L. Vlad Borrelli, J. Raspi Serra, G. Urbani, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1963, pp. 34-36

Tutto questo per chiarire che il restauro non rinuncia al progetto contemporaneo, non vuole essere una limitazione agli interventi sull’esistente proponendo soluzioni legate ad un linguaggio storicista o comunque del passato. Il restauro mira principalmente ad un rilancio progressista della cultura dell’esistente.

Parliamo ora di rigenerazione.

Si parte male perché una definizione condivisa del termine rigenerazione ancora oggi non esiste.

Nel marzo 2019, è stato discusso alle camere un ddl specifico “Misure per la rigenerazione urbana” che la definisce come il “complesso sistematico di trasformazioni urbanistiche ed edilizie in ambiti urbani su aree e complessi edilizi caratterizzati da degrado urbanistico edilizio, ambientale o socio-economico”.

Faccio notare che non si parla né di paesaggio, né di architettura. Questo ddl auspica un “Piano nazionale per la rigenerazione urbana” che si pone molteplici obiettivi riguardo la salvaguardia del patrimonio edilizio e la riduzione del consumo di suolo.

La rigenerazione è inoltre caratterizzata da una componente sociale e relazionale molto stretta dove il rapporto con l’esistente gioca un ruolo molto importante in termini di tutela dell’ambiente. Si potrebbe pertanto dire che la rigenerazione ha come obiettivo primario quello di soddisfare le esigenze delle persone.

Inoltre è importante che in questo tipo di interventi non vengano realizzati edifici o strutture che danneggiano il patrimonio naturale o storico del territorio, e che vengano impiegati materiali eco-sostenibili per tutte le costruzioni.

Di fatto l’applicazione di questa modalità di recupero dell’esistente si basa sul suo efficientamento e l’individuazione delle nuove potenzialità future.

Uno dei passaggi fondamentali della rigenerazione è il riuso. Il cambio di destinazione d’uso e la rifunzionalizzazione sono l’occasione per dare nuova vita all’esistente trasformando la funzione per la quale l’edificio, lo spazio aperto, l’area degradata o altro erano stati pensati. Un altro aspetto molto importante che i processi di rigenerazione innescano in modo molto naturale, sono quelli legati alla partecipazione. Tutti temi questi, molto contemporanei ma solo apparentemente democratici.

Non è difficile notare lo scarto culturale che è possibile misurare tra il restauro e la rigenerazione.

Mentre il restauro affonda le sue radici nel passato e pone le basi per stimolare un dialogo propositivo se pur difficile e complesso con l’esistente, la rigenerazione sembra avanzare per slogan, per buoni propositi che mascherano una mancanza di profondità nel ragionamento, nell’approccio concettuale e progettuale. Mentre il restauro si propone come un metodo, la rigenerazione si propone come uno strumento. Il restauro è visionario e contemporaneo, la rigenerazione è pratica e orienta all’omologazione.

Ironia della sorte, tra gli esempi di rigenerazione urbana più interessanti che il panorama contemporaneo ci offre, sono gli interventi fatti a Medelin, in Colombia. Qui, i sindaci Luis Perez prima e Sergio Fajardo dopo, attraverso delle pratiche di agopuntura urbana, hanno promosso e sostenuto tutta una serie puntuale di interventi che hanno innescato processi di rigenerazione dove è però venuta meno la premessa iniziale che si pone come obiettivo principale quello di non consumare nuovo suolo per l’edificazione. In questo caso niente di tutto questo dal momento che alcune parti di città sono state demolite e molte altre intensamente costruite.

La Camera di Commercio di Prato non si sottrae alle logiche del recupero. L’obiettivo di recuperare qualcosa, qualunque essa sia, è quella di riacquistare ciò che era stato perduto. Nel caso dell’architettura si tratta di restituire un edificio abbandonato o una porzione di città degradata, alle persone che la città la vivono quotidianamente. L’orientamento del concorso per la realizzazione della nuova sede della Camera di Commercio di Prato era quello di recuperare un edificio produttivo, cambiandone la funzione. Nella memoria collettiva l’edificio esistente è sempre stata una fabbrica e questo, da sempre, è stato il suo utilizzo storico. Ecco allora che il progetto di architettura si carica di una nuova responsabilità che abbraccia l’idea del recupero e accetta la logica della trasformazione. Ed è proprio il cambio di destinazione d’uso che innesca quel meccanismo virtuoso di recupero reale dell’architettura, inteso non come riproposizione anonima dell’esistente, ma come ripensamento, come nuovo progetto dell’esistente. Un esistente degradato che, con il passare degli anni, è invecchiato, si è ammalato, ha perso la sua vitalità. In questo caso, all’accanimento terapeutico, è stato preferito il trapianto, che implica la trasformazione. Questo è stato richiesto, questo è stato fatto attraverso un’interpretazione critica dell’esistente. Ma come?

La richiesta del bando era molto precisa: il progetto doveva proporre un’immagine contemporanea senza compromettere quella storica consolidata. L’idea del restauro che tutela la memoria storica e ne garantisce al tempo stesso la trasmissione futura è il concetto base che ha guidato il progetto: l’immagine del passato non si cancella ma si trasforma. Un presupposto questo, molto vincolante che però ha stimolato una riflessione partita dalla consapevolezza di non doversi confrontare con un edificio di archeologia industriale come ce ne sono tanti nel territorio pratese. Era pertanto necessario restituire una nuova identità all’esistente partendo dalla sua storia che però è anche quella contemporanea e non solo

Vista della Nuova Sede della Camera di Commercio

quella che appartiene al suo passato. Fondere passato, presente e futuro in un unico gesto è stata la sfida che noi, studio MDU architetti, abbiamo raccolto.

La lettura dell’esistente ci ha fatto capire che la vera qualità dell’edificio era la sua dimensione, la sua particolarità di essere un volume grande, compatto, rimasto pressoché intatto e identico in tutti questi anni. La grande fabbrica degli anni ‘60, il monumento imperiale per massa e dimensione era sempre lì, immobile e statico in attesa che succedesse qualcosa. Una presenza ingombrante che non passa inosservata.

Come valorizzare questa memoria?

Alcuni suggerimenti sono arrivati osservando il risultato di lavori di artisti come il non-finito della Pietà Rondanini di Michelagelo, gli impacchettamenti di Christo, i ritratti sfocati di Gherhard Ricther, i building-cuts di Gordon Matta-Clark: artisti che interagiscono con l’esistente in modo tale che riconoscibilità e memoria vengano mantenute, ma senza rinunciare alla contemporaneità. Senza rinunciare all’interpretazione critica che svela potenzialità latenti non dette e consente, secondo una logica di vedo-non vedo, di lasciare spazio alla libera interpretazione dell’osservatore che solo attraverso lo sguardo trasforma e definisce l’opera. La velatura, il non-finito, la sfocatura dell’immagine di partenza consente di restituire una nuova identità all’architettura senza negare la sua memoria, senza annullare l’immagine del suo passato. La soluzione di trattare in modo uniforme l’intero volume esistente con un rivestimento in alluminio anodizzato color bronzo ha l’obiettivo di offrire un’immagine contemporanea senza cancellare completamente la preesistenza che, in modo sfocato, si continua ancora a percepire. Passato, presente e futuro, coesistono insieme.

Il progetto nasce con il duplice obiettivo di realizzare un edificio dall’immagine contemporanea che sia espressione della memoria e dell’identità della città di Prato nella logica di enfatizzare, attraverso l’architettura, il ruolo pubblico che riveste l’istituzione della Camera di Commercio.

Il restauro segue due strategie parallele: da una parte accetta, enfatizza e reinterpreta la stereometria e la regolarità dell’edificio esistente, dall’altra apre il volume alla città, in modo da donare alla collettività una nuova piazza-giardino accessibile durante gli orari di apertura. L’edificio industriale viene mantenuto pressoché intatto nelle sue caratteristiche architettoniche e strutturali: l’unica vera eccezione (oltre ai tagli di ingresso) è la grande apertura che proietta la sala del consiglio verso la città. La sala si apre verso il centro storico e si relaziona visivamente con il campanile del Duomo, con la cupola della chiesa di S. Maria delle Carceri e con la ciminiera dell’antica Cimatoria Campolmi, landmark urbano di identificazione collettiva da oltre un secolo e ulteriore simbolo di rinnovamento del distretto per la nuova funzione di Museo del Tessuto. Allo stesso tempo la grande finestra rende esplicita la funzione pubblica nel senso della trasparenza e apertura dell’ente nei confronti della città. Accanto a questa operazione architettonica di sovrapposizione di materiali e memoria, il progetto apre fisicamente l’edificio alla città, enfatizzando il ruolo pubblico della Camera di Commercio: l’attuale corte interna, grazie a dei profondi tagli nel corpo compatto dell’edificio caratterizzati dal trattamento cromatico e di texture della pannellatura in cor-ten, si trasforma in una nuova centralità urbana, una piazza-giardino accessibile durante gli orari di apertura degli uffici dall’ingresso esistente su Via del Romito. Il progetto definisce una nuova connessione urbana tra la nuova sede camerale e la città. Gli squarci nel corpo compatto dell’edificio esistente sono enfatizzati dalle forme geometriche spezzate che si contrappongono al disegno razionale dell’edificio esistente e rendono evidenti gli ingressi alla piazza-giardino e agli uffici camerali.

La parete del corpo di fabbrica destinato all’auditorium di 400 posti viene caratterizzata dallo stesso trattamento cromatico e materico in cor-ten dei tagli di ingresso. La pavimentazione della piazza-giardino rende esplicito il collegamento alla città grazie ad un disegno ed un trattamento che si espande verso l’esterno.

Il progetto insegue un dialogo serrato tra la scala urbana e quella architettonica. La struttura architettonica preesistente e il sistema all’interno del quale è inserita hanno suggerito un intervento di restauro sensibile capace di stabilire nuove relazioni la città e la nuova architettura. L’edificio, con un volume di oltre 35 mila metri cubi e realizzato in classe energetica A, trasforma il suo cuore pulsante interno in uno spazio pubblico al quale si può accedere attraverso tre profonde fenditure che squarciano la massa monolitica aprendola e rendendola disponibile all’attraversamento. In alcuni punti il monolite si apre all’esterno, ora attraverso i potenti squarci verticali che collegano la corte interna alla città, ora tramite la generosa apertura della sala del consiglio con vista sui principali monumenti della città. possibili forme di rigenerazione urbana attraverso il recupero del patrimonio industriale dismesso. il progetto di innovazione urbana p.i.u. prato al “macrolotto zero”

Nella corte interna l’identità pratese è segnalata dal restauro filologico delle pareti che dialogano con le forme e i materiali nuovi del ponte di collegamento delle due ali lunghe dell’edificio e della parete sullo sfondo: lamiera in cor-ten per i rivestimenti e vetro u-glass per il ponte aereo.

La nuova sede camerale, con la sua certificazione energetica in classe A+, utilizza materiali, tecnologie e impianti che perseguono l’obiettivo di ridurre al minimo il consumo di energia. Dall’asfalto rigenerato alla ventilazione naturale, dall’uso di materiali riciclati, ad un sistema di isolamento per le pareti in lana rigenerata, fino all’uso delle lamiere in alluminio anodizzato completamente riciclabili. Fotovoltaico, solare termico e geotermia completano il quadro di una dotazione impiantistica che rendono l’edificio energeticamente indipendente. Con queste e altre scelte, il progetto intende ricostruire un brano di città dove la forma compatta dell’isolato urbano viene confermata dal rivestimento in lamiera stirata ma allo stesso tempo è caratterizzata da delle cesure verticali che rivelano una permeabilità inattesa. L’area della nuova sede della Camera di Commercio, circa 5 mila metri quadrati originariamente di proprietà privata, diventa pubblica. A questa si aggiungono i nuovi percorsi pedociclabili, il disegno del verde pubblico e gli arredi che riconnettono il vecchio lotto al cuore della città.

La nuova pelle metallica avvolge interamente l’edificio enfatizzando la sua dimensione, il suo essere “un fuori scala” ma, allo stesso tempo, grazie all’effetto trasparenza, consente di intravedere ciò che sta dietro, ciò che sta in profondità. La nuova immagine che la Camera di Commercio di Prato offre alla città è una sfocatura dell’edificio industriale del quale si continuano a vedere gli elementi principali: la serialità delle aperture, le cornici marcapiano, gli elementi decorativi rappresentativi, le finestre. Un vedo-non vedo che moltiplica e rilancia senza sosta le infinite possibilità di percezione del nuovo edificio contemporaneo. La sfida è stata quella di pensare ad una nuova immagine dell’edificio esistente conservandone al tempo stesso la sua memoria. Un progetto di restauro che mantiene viva la memoria del passato senza rinunciare alla contemporaneità che ne esalta il significato garantendo la diffusione futura.

Massimo Fabbri Capoprogetto P.I.U. Prato

Abstract

Analizzando e riflettendo sul tema del recupero e del riuso l’attenzione e l’interesse cadono sovente sul patrimonio industriale e produttivo dismesso o sottoutilizzato che rappresenta una parte considerevole del patrimonio immobiliare censito.

Nel contesto specifico della giornata di studi merita porre attenzione sulla genesi e sulle dinamiche di evoluzione del sistema produttivo Pratese, sul fenomeno del parziale ridimensionamento e dismissione del patrimonio industriale e sulle possibili forme di rigenerazione e riconversione afferenti sia alla scala di intervento architettonico che alla scala urbana, considerando ed analizzando le varie problematiche operative rispetto alle normative vigenti e proponendo spunti di riflessione su possibili modalità strategiche ed operative.

In generale lo sviluppo delle città e le dinamiche urbane e sociali derivanti dai processi di industrializzazione ed inurbamento del 1900 hanno lasciato in eredità una impronta indelebile sulla struttura urbana delle città contemporanee e sulle strutture sociali che ne sono scaturite.

Realizzando comparti e brani di città spesso monofunzionali, con originari assetti aderenti unicamente alle specifiche necessità produttive dell’epoca di impianto e realizzazione ma che risultavano spesso sin dal principio estranei alle realtà urbane adiacenti, disconnesse da queste ed assolutamente carenti dal punto di vista delle dotazioni collettive.

Ed i mutati scenari derivanti dal susseguirsi delle recenti crisi economiche e delle modifiche degli assetti produttivi hanno prodotto problematiche rilevanti e non ancora compiutamente affrontate e risolte sui temi dell’abbandono di parte del patrimonio immobiliare, del suo possibile recupero e riuso funzionale e della nuova socialità da attivare per un compiuto recupero in termini urbanistici, architettonici e soprattutto di vita sociale di questi importanti brani urbani. Rilevanti nell’affrontare possibili forme di recupero e rigenerazione risultano le problematiche relative agli assetti patrimoniali (talvolta con complessi immobiliari di vasta estensione afferenti ad una moltitudine di soggetti spesso con obiettivi, strategie e possibilità economiche diversificate), agli scenari di pianificazione urbanistica (connessi a tipologie di intervento ed a destinazioni d’uso) ed alla rispondenza degli interventi rispetto alle normative di vario ordine e rango.

Considerazioni generali

La sfida del recupero e della riqualificazione urbana assume in questa fase storica un ruolo primario nella definizione degli ambiti di vita comune, ed il tema della qualità urbana passa necessariamente dal recupero del patrimonio dismesso, a prescindere dalla destinazione d’uso e dell’ambito urbano di riferimento.

Recuperare, riutilizzare e rifunzionalizzare il patrimonio immobiliare esistente attraverso destinazioni diversificate e premianti accompagnandolo con la realizzazione o la maggior qualificazione della città pubblica, migliorando la qualità urbana collettiva e recuperando spazi di socialità significa fornire a tutti, indipendentemente dalle proprie condizioni personali, spazi di città apprezzabili e godibili; e questa sfida è ottenibile intervenendo sui temi generali del riuso, della rigenerazione urbana e della qualificazione dello spazio pubblico.

Che sono temi da trattare in una visione unitaria per superare la semplice qualificazione di un’area per intervenire invece sul tema dello spazio e del sistema urbano fatto di edifici e di vuoti, di destinazioni private e collettive che si valorizzano a vicenda innalzando la qualità del vivere.

Quanto rappresentato ci porta a riflettere su quali strategie si rendono necessarie ed indispensabili per affrontare compiutamente una fattiva riqualificazione e rifunzionalizzazione dell’esistente ed a definire un concetto di riuso rispettoso delle forme e degli assetti consolidati ma al contempo proiettato nella contemporaneità e nel futuro.

Da un lato occorrerà continuare a procedere con una attenta analisi e classificazione del patrimonio industriale esistente, identificando i complessi di archeologia industriale intrinsecamente preziosi e/o comunque le aggregazioni funzionali degne di conservazione in quanto costituenti contesti peculiari che giocano un ruolo urbano negli ambiti urbani di riferimento; in aggiunta a questi identificare il patrimonio immobiliare privo di caratteristiche peculiari non necessariamente rilevanti ai fini di una conservazione.

Una volta delineati gli elementi di “invarianza urbana” e le porzioni da poter “trasformare” la sfida si sposta quindi sulla chiara identificazione di strategie di attuazione e nell’individuazione di regole urbanistiche ed edilizie improntate ad una fattiva attuazione degli interventi e sottese ad una visione generale di ridisegno della città e degli spazi, unendo alla consapevolezza culturale quella tecnica legata alle complessità che l’attuazione di un progetto richiede.

In questa ottica generale la sfida del “Riuso” e della riconversione risulta determinante ed il termine “Riuso” non può limitarsi ad una concezione puramente conservativa del costruito; riusare un complesso dismesso può significare demolirne alcune porzioni per la realizzazione di nuovi edifici di architettura contemporanea e di nuovi spazi pubblici. Riusare non può rappresentare un elemento unicamente di vincolo ma deve invece liberare spazi di creatività e di qualità urbana, nella consapevolezza però di dover necessariamente ritrovare quegli equilibri economici e sociali alla base di ogni ipotizzabile trasformazione.

Ritrovare un difficile e delicato equilibrio tra interesse pubblico e privato, garantire un prezioso disegno della città pubblica per restituire qualità urbana ma garantendo la concreta fattibilità economica delle trasformazioni pianificate per non farle restare disegno su carta; perché parlare di rigenerazione urbana ha senso se ci dotiamo di regole chiare ed attuabili, se esiste davvero l’equilibrio tra l’operatore privato ed il bene pubblico.

Perché parlare di RIUSO ha senso se si accompagna la strategia di recupero ad un quadro normativo che consenta di agire davvero verso il recupero, se la qualità dell’intervento progettato può superare una norma stringente dettata in ordine generale e non sullo specifico complesso. Perché a volte l’adeguamento normativo è difficile, inattuabile o attuabile solo attraverso lo stravolgimento dei caratteri del manufatto da tutelare. Perché a volte l’enunciato di tutela è chiaro e apparentemente indiscutibile, ma talvolta produce effetti contrari alla tutela e porta all’immobilismo ed ad ulteriore abbandono con conseguenze irrecuperabili per il patrimonio architettonico.

Conservare un edificio e con questo la memoria della storia industriale della città, rigenerarlo conferendogli una nuova vita, trasformare quindi un luogo monofunzionale in qualcos’altro rappresenta una occasione ma risulta dispendioso dal punto di vista economico e gestionale e tale sforzo può essere sostenuto da scelte strategiche e da una visione forte da parte delle amministrazioni pubbliche per l’attuazione di interventi a carattere collettivo e con specifiche destinazioni d’uso; pensare di poter trasferire questo tipo di esperienza direttamente al contesto privato è invece sicuramente più complicato in termini di rapporto costi/ benefici e in termini di future destinazioni d’uso insediabili e di quadratura economica degli interventi e per questo richiede valutazioni approfondite e specifiche calate sullo specifico caso, sulle peculiari condizioni conservative/statiche del complesso, sul totale dei costi necessari per ogni tipo di adeguamento ed onere e sui risultati attesi dal punto di vista urbanistico ed architettonico. Solo dopo aver analizzato nel dettaglio il quadro conoscitivo ed avere verificato la fattibilità tecnica ed economica si può procedere verso una pianificazione conformativa che vada a normare compiutamente la trasformazione attesa con la certezza che la stessa possa risultare attuabile anche concordando eventuali deroghe specifiche ai regolamenti vigenti, che operano nella generalità dei casi ma talvolta risultano difficile da rispettare nella peculiare casistica del recupero.

Ovviamente diverso è il caso dei progetti di recupero attuati tramite intervento pubblico dove diversa è la natura dell’operatore e di conseguenza diverse sono le strategie e le scelte di natura economica che vanno a premiare una visione ed un interesse generale consentendo scelte ed operatività diverse da quelle attuabili da un soggetto privato.

In questo senso il Pubblico, potendo intervenire direttamente attraverso strumenti gestionali derivanti da una scelta amministrativa e con obiettivi di più ampia portata decisionale ed economica, può realizzare interventi pionieri ed esplorare modalità attuative con il preciso scopo di costituire le basi di una qualificazione complessiva realizzando interventi di riqualificazione urbana e funzionale che facciano però da traino ad interventi privati, per l’attuazione dei quali occorre gettare amministrativamente le basi e costruire un ambiente ricettivo ai cambiamenti ed alle trasformazioni per incentivare e stimolare gli interventi degli operatori economici.

Occorre quindi definire un percorso che coinvolga gli interventi pubblici pianificati ed attuati e possibili interventi al contorno che possano reciprocamente integrarsi, avvantaggiandosi l’uno della presenza dell’altro, attuando una trasformazione urbana complessiva e non per comparti.

Di pari passo agli interventi di riuso e di riqualificazione urbana, ed a questi intrinsecamente connessi, i nuovi spazi pubblici dovranno assumere un ruolo determinante nel riuso diventando elementi strutturali nella definizione urbana con un preciso ruolo centrale in termini spaziali e fruitivi/relazionali.

Partendo quindi dai temi determinanti del recupero e della qualificazione urbana si rende necessario individuare dal principio quegli ambiti strategici che opportunamente sviluppati e rivisti funzionino da volano per il miglioramento dell’immagine e del funzionamento della città, restituendo ordine a situazioni compromesse e ritrovando/ costruendo nuova qualità dei luoghi urbani.

La realtà Pratese ed il Progetto P.I.U. Prato

Le problematiche generali sopra evidenziate, le dinamiche di deindustrializzazione, comuni a molte città post-industriali in cui gli assetti produttivi sono andati persi o si sono trasformati sia funzionalmente che dal punto di vista localizzativo, e le problematiche attuative dei processi di rigenerazione urbana sono state a più riprese studiate dalla città di Prato, che rappresenta l’esempio per eccellenza della “Città Fabbrica” con peculiari quartieri ed aree urbane in cui il mix funzionale tra casa ed edifici produttivi nasceva per ritrovare le condizioni ideali per vivere e lavorare in simbiosi.

Erano gli anni del frenetico sviluppo industriale, dell’espansione del comparto produttivo laniero e manifatturiero e della conseguente forte immigrazione in città; e lo sviluppo caotico di porzioni della “Città Fabbrica”, con altissimi indici di edificabilità ed una densità urbana che non lasciava spazio ad aree scoperte e spazi di vita collettiva, era tollerato sulla scia delle ricadute economiche, occupazionali e sociali derivanti da tale assetto produttivo. Successivamente scelte di politica urbanistica hanno portato alla pianificazione dei Macrolotti Industriali per garantire una maggiore funzionalità al sistema industriale e manifatturiero, con il trasferimento di parte delle aziende cittadine in aree specificamente dedicate ed adeguatamente infrastrutturale e con il contestuale pianificato recupero degli originari edifici industriali collocati all’interno del tessuto urbano cittadino o con la loro sostituzione edilizia verso destinazioni d’uso maggiormente compatibili. Il pianificato meccanismo di trasferimento e trasformazione, che nelle intenzioni avrebbe dovuto qualificare contestualmente la struttura dell’industria tessile pratese e le aree urbane da riconvertire tramite un meccanismo di reciproco supporto economico e finanziario, è diventato operativo a ridosso del manifestarsi di due distinti fenomeni che di fatto hanno rallentato o addirittura interrotto le strategie di pianificazione: la crisi del comparto industriale tradizionale, con le conseguenti problematiche economiche delle imprese pratesi, e la crescita del nuovo comparto produttivo gestito dalla comunità cinese con il conseguente consolidarsi del fenomeno migratorio dalla Cina.

I due fattori, da un lato l’alto costo delle operazioni di trasferimento e trasformazione spesso non sorrette da un adeguato equilibrio economico e dall’altro la rinnovata redditività dei complessi immobiliari esistenti per le esigenze del comparto produttivo a gestione cinese, hanno portato negli anni il quartiere del Macrolotto Zero (di fatto la prima area produttiva cittadina aggregata) a confrontarsi ed affrontare sia fenomeni di abbandono dei complessi industriali sia dinamiche “problematiche” di riuso del sistema casa-lavoro che hanno consolidato la struttura urbana densa e poco qualificata aggravando le problematiche di natura sociale già in essere.

Nel corso degli anni il quartiere ha iniziato a stimolare l’interesse di una ampia e variegata comunità di soggetti (locali e non) interessati ad analizzare e studiare il quartiere e la sua comunità e ad avanzare proposte di sviluppo ed iniziative volte a valorizzare la peculiarità del luogo verso nuove forme di urbanità e di socialità. Molte sono state le iniziative culturali sviluppatesi “dal basso” affiancate da altrettanto numerose iniziative di ricerca specialistica condotte anche in seno a varie Università italiane che hanno analizzato dall’esterno il quartiere e le sue dinamiche.

Dal punto di vista urbanistico ed architettonico numerosi sono stati gli studi ed i progetti che hanno avanzato proposte e suggestioni per superare la connotazione dell’area e proiettarla nello scenario contemporaneo, con soluzioni diversificate e magari contraddittorie che hanno avuto il merito di suscitare l’attenzione e l’interesse sul quartiere, alimentando anche accese polemiche che hanno consentito di mantenere il quartiere al centro della discussione cittadina.

La principale occasione per poter avanzare un fattivo e concreto progetto di trasformazione urbana del quartiere ed intercettare i finanziamenti disponibili è stato il bando relativo al POR FESR 2014-2020 asse 6 urbano, emesso dalla Comunità Europea e attuato dalla Regione Toscana; attraverso il Progetto di Innovazione Urbana PIU PRATO redatto dall’Ufficio Pianificazione dello Spazio Pubblico il Comune di Prato ha ottenuto il cofinanziamento per la realizzazione degli interventi previsti nella riqualificazione urbana dell’ampio comparto urbanistico del “Macrolotto Zero”.

Il progetto ha previsto la riqualificazione urbanistica e sociale del cuore del comparto produttivo attorno alla via Pistoiese, con un intervento a varia scala di azione rispettoso dei caratteri peculiari della struttura urbana e dell’edificato esistente ma al contempo teso alla ricerca di una nuova identità urbana contemporanea che, in continuità con l’immagine della Città-Fabbrica, consenta di costruire una identità collettiva ed un senso di appartenenza agli utenti stanziali ed un luogo centrale di incontri per l’intera collettività grazie all’insediamento di destinazioni collettive e ad un innalzamento quantitativo e qualitativo dello standard urbano.

Il peculiare contesto di riferimento, lo stato di abbandono di parte del tessuto produttivo del quartiere e l’attuazione di un intervento pubblico con finanziamenti dedicati con la possibilità di acquisire porzione del patrimonio immobiliare dismesso ha fatto emergere l’opportunità strategica e la concreta possibilità di proporre un intervento a scala urbana che ha declinato ed affrontato il tema del “riuso” intervenendo sul quartiere e superando quindi il prevalente intervento sul singolo edificio o complesso per realizzare invece una visione di sistema che investisse il “Macrolotto Zero” per strutturare un intervento sulla città pubblica con spazi di servizi, socialità e relazione storicamente strutturalmente mancanti nel quartiere. Il bando di finanziamento, impostato su linee di azione relative ad interventi di natura sociale in ambiti urbanisticamente ed ambientalmente degradati, ha creato le condizioni economiche ed operative per intervenire su un ampio comparto urbano, superando il consueto e prevalente intervento di “riuso” attuato sui singoli edifici e sul loro stretto recupero e rifunzionalizzazione, condizione che porta solitamente a recuperare e ripensare edifici o complessi immobiliari spesso già intrinsecamente di valore riconosciuto e riconoscibile in ambiti urbani centrali o comunque prevalentemente qualificati con interventi che si attestano al perimetro murato od alla pertinenza stretta del manufatto per ricostruire un perimetro perfetto da godere e frequentare, senza poter ampliare l’ambito di intervento e coinvolgere il sistema urbano di riferimento.

Tali edifici e complessi rappresentano la minoranza del patrimonio immobiliare ed ovviamente poter intervenire sul restauro dei complessi di valore rappresenta un tema affascinante e professionalmente gratificante ed una sfida stimolante del progetto, del suo approccio e del suo inserimento in rapporto ad un elemento di pregio esistente.

Diversa è stata invece l’esperienza di intervenire, come nel nostro caso, nel definire un progetto di recupero in assenza di elementi di pregio o di valore riconosciuto su tipologie di edifici che rappresentano invece la stragrande maggioranza del patrimonio immobiliare esistente.

Disporre di edifici ed aree non qualificati ed abbandonati all’interno di aree e contesti difficili e “periferici” dove si rende necessario superare la stretta rifunzionalizzazione puntuale per ricercare invece la definizione di un nuovo sistema urbano e collettivo a scala più vasta di quartiere.

Una sfida diversa ma non meno affascinante che porta il progettista a coinvolgere edifici ed aree non sempre (o quasi mai) caratterizzati da valori architettonici propri e riconosciuti ma che giocano o possono giocare in futuro un “ruolo” urbano determinante per posizione o aggregazione rispetto al contesto attuale ed allo scenario urbano da riprogettare. Ed utilizzarli riprogettandone la caratterizzazione architettonica e la funzione non esclusivamente come elemento centrale puntuale del progetto ma come somma di elementi ordinatori del disegno urbano da far coesistere e mettere a sistema nella ricerca di un nuovo articolato sistema fatto di destinazioni diversificate e nuovi spazi pubblici.

All’interno del più ampio scenario del Macrolotto Zero il progetto ha identificato tre aree principali, coincidenti con complessi industriali dismessi ed abbandonati da anni e con l’unica area scoperta dismessa e storicamente destinata a stoccaggio dell’adiacente complesso industriale, oltre agli assi viari di via Pistoiese e via Umberto Giordano; le aree ed i complessi individuati sono stati riutilizzati per la realizzazione di:

• un Playground nella porzione sud del comparto urbano ottenuto recuperando una ex area di deposito un tempo a servizio dell’industria tessile ma ormai abbandonata da anni, della quale è stata mantenuta l’impostazione planimetrica esistente consolidata ma con una nuova impronta architettonica contemporanea e con elementi iconografici ed artistici in grado di identificare l’area come marcatore urbano, come luogo centrale che potesse sviluppare nella comunità un senso di appartenenza e di identità per rompere l’anonimo pregresso isolamento dell’area e del quartiere portandolo invece al centro della vita sociale e delle relazioni con il nuovo sistema generale di spazi pubblici;

• un Mercato Coperto, ricavato all’interno di un complesso di archeologia industriale destinato ad accogliere la vendita di prodotti alimentari a Km zero e della filiera corta oltre a manifestazioni ed eventi pubblici direttamente connesso, attraverso l’ampio fronte di accesso all’edificio, con il nuovo sistema di spazi pubblici ed aree scoperte che investe il quartiere;

• una Medialibrary ed un Coworking realizzati nella porzione nord attraverso il recupero e la rifunzionalizzazione di un ex edificio industriale dismesso a cui è stata associata la realizzazione di nuovi spazi scoperti pavimentati, inerbiti ed alberati che fungono da nuovo luogo centrale e da nuova connessione urbana tra le varie porzioni del quartiere e con gli ambiti di riferimento a scala locale e cittadina. L’area scoperta ottenuta dalla consistente demolizione di parte del complesso produttivo riveste un duplice ruolo: a scala urbana la nuova piazza consente di porre in diretta connessione via Filzi e via Pistoiese, alleggerendo l’alta densità edilizia e permettendo una permeabilità lenta che investe l’isolato realizzando una connessione fisica, mentre a scala locale rappresenta l’interfaccia agli edifici conservati e rifunzionalizzati che trovano sulla piazza un ideale prolungamento aperto al sistema delle nuove funzioni e delle relazioni insediate;

• una strategia complessiva di mobilità sostenibile per l’area di intervento con la ridefinizione delle sezioni stradali esistenti con realizzazione di zone 30 destinate al traffico veicolare ed il consistente aumento delle porzioni destinate alla mobilità lenta che si caratterizzano come spazi di relazione lineare alberati ed arredati per costituire un sistema connettivo che investe l’intera area di intervento collegando le varie emergenze architettoniche e funzionali per definire un sistema compiuto che porti dalla “città fabbrica” alla “città compiuta” dotata di servizi, infrastrutture e spazi pubblici per elevare complessivamente la qualità del vivere e del lavorare.

Il progetto interviene alla scala di quartiere e propone la definizione di una impronta architettonica contemporanea che si integra con il paesaggio urbano consueto e consolidato costituito dall’alternanza di edifici residenziali ed industriali che senza soluzione di continuità caratterizzano i fronti stradali tutti edificati, ma che cerca di introdurre elementi architettonici contemporanei come marcatori urbani ed elementi in grado di strutturare una identificazione spaziale ed una riconoscibilità per sviluppare un senso di appartenenza collettiva che superi il vecchio senso di inadeguatezza del quartiere e la disaffezione dei suoi abitanti verso una nuova definizione contemporanea di spazio e società.

Considerato che le aree individuate non presentavano complessi o edifici di particolare pregio o scenari architettonicamente significanti la sfida progettuale è stata quella di definire una nuova immagine architettonica rispettosa dei caratteri originari del quartiere che reinterpretasse le forme consuete dei complessi industriali in chiave contemporanea sia nella caratterizzazione degli impaginati di facciata e nel rapporto con il contesto esterno sia nella definizione degli spazi interni ricercando in alti standard qualitativi e prestazionali in funzione delle nuove destinazioni da insediare.

La scelta progettuale proposta per gli edifici conservati ha contemplato sia il recupero di contenitori consueti per forme e memoria quali i capannoni a volta, sia la ridefinizione del tema della copertura a “shed” ottenuta con la realizzazione di una parziale integrazione all’esistente con una struttura in acciaio avente copertura asimmetrica.

In ogni caso la caratterizzazione architettonica ha ricercato, sia per gli esterni che per gli interni, un marcato richiamo alla memoria produttiva del quartiere con uso di materiali associati al linguaggio industriale e la marcata presenza delle strutture e degli impianti a vista.

Considerata la specificità dei luoghi, l’alta densità e la necessità di individuare spazi per la città pubblica la strategia identificata ha portato ad una interpretazione ampia del concetto di riuso, superando la stretta riqualificazione strutturale e funzionale dei complessi industriali per includere anche la demolizione di intere porzioni necessarie per la realizzazione di un nuovo sistema di spazi pubblici ampio e capillare che investe l’intera area di progetto connettendola al suo interno e verso gli ambiti urbani adiacenti.

In questa ottica di intervento il progetto P.I.U. Prato ha gettato le basi per la definizione di un nuovo paesaggio urbano che, nel rispetto della memoria produttiva del quartiere, valorizzi le preesistenze consolidate confermando loro un importante ruolo nella trasformazione urbana in corso ma andando a creare un nuovo sistema di spazi pubblici, giardini, e piazze che investe l’intero quartiere ed al quale è stato progettualmente attribuito il ruolo centrale di nuovo elemento di qualificazione urbana per definire una diversa caratterizzazione degli spazi ed un nuovo modo di vivere il quartiere. Consapevole del ruolo determinante e qualificante che l’Architettura svolge nel paesaggio urbano e nella qualificazione sociale delle città, emotivamente e professionalmente coinvolto nella realizzazione di ogni singolo edificio, della sua specifica e puntuale identità e dello scenario che tale Architettura rappresenta per l’ambito urbano, in questo specifico racconto mi preme però sottolineare, al di là della singola architettura, il senso complessivo della riqualificazione e degli obiettivi generali che questa può generare. Cioè lavorare rifunzionalizzando e caratterizzando architettonicamente i singoli edifici e le singole aree coinvolte non soltanto come intervento puntuale ma con l’obiettivo di fornire elementi di riconoscibilità urbana e di uso collettivo attorno a cui aggregare le diverse forme e le diverse anime del quartiere; lavorare sul recupero e sull’Architettura per creare urbanità e quindi collettività. Un tema ed un approccio che si propone di riutilizzare l’ampio patrimonio industriale dismesso insistente nei centri urbani per coinvolgerlo in una rigenerazione urbana, architettonica e sociale attraverso il riuso di ciò che c’è, bello o brutto, di valore o insignificante, per ritrovare un pregio ed un valore collettivo significante nella nuova idea di città che può

Il Playground, vista a volo d’uccello in alto:

Medialibrary le grandi vetrate; in basso: Lo spazio coworking scaturirne.

Per affiancare all’indispensabile recupero puntuale dei complessi di valore questa diversa forma di “riuso” urbano dei numericamente prevalenti edifici ordinari potrà portare ad una differente ma più estesa riqualificazione urbana; e cercare di riqualificare attraverso l’ordinario rappresenta una sfida contemporanea alla quale non possiamo sottrarci.

Crediti :

Arch. Massimo Fabbri

Arch. Michela Brachi

Ing. Alessandro Pazzagli

La città pubblica ed il sistema degli spazi di relazione

L’ex fabbrica Lucchesi in piazza dei Macelli, prima della messa in sicurezza del deposito delle acque posto in fregio alle mura medioevali. Nella foto, in alto a sinistra, si noti un tratto della facciata della fabbrica prima del crollo del piano primo avvenuto nel 2018 e, sullo sfondo, l’ingombrante sagoma dell’ex Ospedale prima della sua completa demolizione. (Foto di G.A. Centauro, 2003).

La recente sistemazione degli spazi dei Cantieri Culturali di Officina Giovani, sullo sfondo si noti il deposito delle acque in c.a., testimone del preesistente impianto (1929). (Foto di G.A. Centauro) usi temporanei degli edifici industriali dismessi. sperimentazione di nuove funzioni, l’accompagnamento della valorizzazione e l’attivazione della loro rigenerazione

Lorenzo Vacirca OAPPC di Prato

Abstract

In questo articolo si analizza il fenomeno del meanwhile use (‘uso nel tempo di attesa’) per interrogare la relazione tra utilizzo di spazi e pratiche di restauro. In particolare, ci si sofferma su come le pratiche della società civile possano mediare o addirittura determinare, il ruolo dell’edificio all’interno di una visione futura per la città. La storia di Officina Giovani – polo culturale di Prato, ricavato dal recupero degli ex macelli pubblici a partire dal 2000 – è identificata come caso studio “ante-litteram” per indagare questo fenomeno. La ricerca che informa questo articolo evidenzia come un susseguirsi di usi, prima spontanei e poi più programmatici, si è intersecato con progetti di recupero, non per ultimo quello derivante dai fondi PNRR, che delineano i tratti futuri e futuribili in una città in continuo mutamento.

Valore del meanwhile use/temporary urbanism come propellente per la creazione, mantenimento e rivalutazione di ‘comunità’ in un periodo post-pandemico

L’uso temporaneo (meanwhile use) rappresenta una delle azioni che spesso accompagnano il processo di rinascita e ri-abitazione degli edifici, specie dei complessi industriali dismessi. Letteralmente traducibile in “usi nel tempo dell’attesa” è un’espressione che si riferisce ad usi programmati o meno, prima che l’edificio sia “cantierizzato” o che accompagnano tutta la fase di riconversione. In questa sede ci si riferisce al meanwhile use come strumento per testare possibili utilizzi finali e sperimentare nuove funzioni.

L’uso temporaneo può essere mezzo d’indagine non solo per chi ha un ruolo politico o di investitore, ma per il progettista stesso. Questo vale soprattutto per il progetto di restauro di edifici industriali, il cui valore è riconosciuto per il loro ruolo storico-testimoniale.

Non è sostenibile preservare i caratteri architettonici di un edificio ormai storicizzato senza prescindere dalla funzione, né imbalsamare gli edifici per farne contenitori vuoti e inutilizzabili. In questo senso l’attività del restauro del moderno non può non esimersi da una riflessione sulle funzioni che verranno. Quanto l’uso temporaneo di un edificio in restauro può essere veramente determinante nel direzionare il ruolo futuro dell’edificio all’interno della città o del quartiere? Quanto l’efficacia di questa pratica dipende da una sua predeterminazione come fase di un processo progettato oppure da un’informale spinta “dal basso”?

Il complesso degli ex-macelli. Volo d’uccello sul complesso degli ex-macelli, con le 4 stecche disposte a pettine rispetto all’ingresso e sullo sfondo le celle frigo. Ripresa con drone di Cosimo Lunetti (Dronency).

Prato è una città che offre indubbiamente numerosi esempi. Si possono ricordare anche alcune esperienze di meanwhile use “ante litteram”, che hanno riguardato edifici produttivi, anche di un certo pregio architettonico, dismessi della funzione originaria già nei decenni passati.

Queste esperienze, tutte per definizione spontanee e “dal basso”, nate inizialmente come utilizzo temporaneo degli spazi, ne hanno finito per plasmare la funzione definitiva. È il caso emblematico del Teatro Fabbricone, una fabbrica diventata teatro ed oggi istituzionalizzata a tal punto da essere acquisita come proprietà comunale. Chi, come gli studenti hanno fatto durante il seminario, si accosta ad una analisi dei caratteri costruttivi delle porzioni del Fabbricone destinate alla produzione teatrale e del loro stato di conservazione, si accorge che ne è stata preservata l’identità e garantita la sopravvivenza. Il progettista architettonico che si approccia al restauro dell’edificio, dovrà fare i conti con la vecchia e la nuova storia. Ma un esempio di come la stratificazione degli usi, temporanei e poi definitivi, poi ancora temporanei e così via, si interseca con la stratificazione degli interventi architettonici e ne determina la direzione, è ancor più evidente nella storia degli ex Macelli Pubblici, dagli anni 2000 sede di un centro culturale successivamente chiamato “Officina Giovani-Cantieri Culturali”. Il complesso sarà coinvolto in un ulteriore progetto di rigenerazione grazie ai fondi del PNRR ma la sua vocazione come luogo deputato allo sviluppo delle politiche giovanili e culturali cittadine non è stata sempre premeditata, bensì frutto di una tensione tra Comune e spinte dal basso che rivendicavano spazi.

L’architetto Vacirca, del gruppo di lavoro istituito dall’Ordine degli Architetti di Prato per coadiuvare i lavori del seminario citato in premessa, insieme all’associazione “Codesign Toscana” (cfr. in calce alla relazione, i crediti dell’associazione), attualmente in residenza ad Officina Giovani, hanno deciso di ripercorre la storia architettonico-sociale degli ex macelli, tramite una ricostruzione cronologica dei vari interventi architettonici eseguiti a Officina Giovani e una ricerca per interviste dei vari soggetti che dai primi anni ad oggi sono stati protagonisti in ruoli diversi: utenti e organizzatori culturali della prima ora, addetti comunali, i tecnici e progettisti, gli attuali utenti come i coworkers e le associazioni in residenza.

Metodologia e caso studio

Le informazioni relative a nascita e sviluppo socio-culturale e infrastrutturale del complesso di edifici degli ex Macelli Pubblici non sono state sistematizzate in modo organico e la storia degli ultimi 24 anni di attività dello spazio non sono state ancora “storiograficizzate”. Eppure, Officina Giovani sembra rappresentare un caso “ante-litteram”1 di meanwhile use, di fatto assorbito in una riconversione ‘creativa’ che ha informato tutte le azioni di riconversione dello spazio dagli anni 2000 ad oggi, e che si innesta in una visione strategica per il futuro della città, caratterizzata dalla sponsorizzazione di funzioni strategiche. La metodologia di ricerca identificata, con l’obiettivo di indagare il caso studio di Officina Giovani come progetto di riattivazione, è stata principalmente qualitativa, con analisi di dati secondari e raccolta di primari. Per la ricerca si è partiti infatti dal lavoro di schedatura del complesso, effettuato dagli uffici comunali a partire da un’analisi storica d’archivio e disponibile alla consultazione negli elaborati del Piano Operativo Comunale; inoltre è stata realizzata una traccia di intervista semi-strutturata da somministrare ad un campione qualitativo, dunque rappresentativo, delle principali categorie di “testimoni privilegiati2” della storia socio-culturale dell’area degli ex Macelli dal 1998 ad oggi.

1 ‘La rigenerazione prima della rigenerazione’, come afferma un assessore del Comune di Prato intervistato per questo progetto.

2 Il campione di intervistati/e ha incluso: assessori, tecnici, dirigenti e coordinatori degli uffici tecnici e cultura del Comune di Prato, direttori artistici degli spazi in questione, fruitori e/o organizzatori in residenza di attività culturali in periodi diversi della storia di Officina Giovani.

Murales in fregio al blocco centrale. (Foto di G.A. Centauro)

Le interviste che abbiamo programmato con l’obiettivo di identificare la storia socio-culturale della riqualificazione degli ex Macelli sono state strutturate seguendo una tripartizione temporale che ci ha aiutato ad investigare il ruolo dei partecipanti nel passato di Officina Giovani. La traccia di intervista si è poi focalizzata sul presente per poi indagarne il futuro. La ricostruzione della cronistoria attraverso la ricerca, è preceduta da alcune informazioni relative alla genesi del complesso di edifici. Tali dati sono desunti dallo strumento urbanistico che a sua volta ne dà una sintesi efficace. Infatti, il nuovo Piano Operativo Comunale descrive l’immobile all’art. 136 (All_20):

“Officina Giovani ha sede nel complesso degli Ex Macelli Pubblici, ubicato a Prato in Piazza dei Macelli. Storicamente collocati tra piazza San Domenico e via del Gelsomino, i macelli pubblici, con lo spostamento dal centro storico, furono oggetto di dibattito cittadino per quasi tutta la seconda metà dell’Ottocento. Dopo varie ipotesi e tentativi, venne istituita un’apposita commissione che nel 1893 individuò la nuova collocazione fuori porta Santa Trinita, in una zona al tempo ancora inedificata. Il progetto dell’ingegnere comunale Vincenzo Livi venne portato a compimento entro gli anni Venti del Novecento, con una serie di capannoni isolati disposti a pettine rispetto a via Cavour ed un ingresso monumentale. A partire dal 1998, i locali degli ex macelli sono stati riqualificati come Officina Giovani, ossia spazi polivalenti per attività culturali, quali mostre e spettacoli. Il complesso è parzialmente tutelato tra i beni culturali art. 10 comma 1 del Dlgs42/2004, come rappresentato con apposita campitura nelle tavole 11.1, 11.2 e 11.3

“Beni culturali e paesaggistici –Rischio archeologico – Viabilità storica” e che suddivide gli edifici in tre livelli di valore: alto (la palazzina d’ingresso, le 4 stecche a pettine e cisterna in cemento armato realizzata nel 1926 dalla ditta Poggi & Gaudenzi, dalla valenza simbolico-testimoniale), medio (le ex-celle frigo e la palazzina su Via dell’Abbaco) e basso.

Cronistoria di Officina Giovani: a cavallo degli anni 2000 [informalità e prime ristrutturazioni]

La spinta propulsiva per la realizzazione dello spazio di Officina Giovani ha luogo durante l’assessorato di Luconi, a seguito delle richieste di utilizzo degli spazi da parte di giovani artisti locali (assessore, intervista, 09/2022), la cui delega alle politiche giovanili passò successivamente Vannucchi (delega alla cultura 1999 - 2002, Giunta Mattei).

In questa versione embrionale l’azione del Comune fu quella di ripulitura degli spazi e in seguito il rifacimento del tetto della prima stecca, quella che sarebbe poi diventata la sala eventi (che inizialmente conteneva anche gli uffici), uno degli edifici più caratterizzati dal punto di vista architettonico, con colonne in ghisa e i binari a soffitto per lo stoccaggio delle carni: le iniziative nella sala eventi non avevano ancora una programmazione coerente e costante.

Nel 2004, a cura del Laboratorio per Affresco di Vainella, si provvide al rifacimento pittorico in bicromia del fronte principale, andando a cambiare anche l’iscrizione d’ingresso degli ex Macelli con la nuova dizione di Officina Giovani- Cantieri Culturali.

Gli altri spazi erano ancora colmi di macchinari dall’attività di macello pubblico oppure usati come deposito di mezzi sequestrati dalla polizia municipale (dipendente comunale ufficio cultura, intervista 09/2022).

L’utilizzo degli spazi in questa prima versione della struttura è stata definita dagli intervistati ‘estremamente fluida’3: lo spazio era stato concesso a un gruppo di artisti locali che lo utilizzavano come laboratorio per la costruzione dei loro progetti, prevalentemente afferenti le arti figurative.

Portale d’ingresso di “Officina Giovani – Cantieri Culturali” (ex Macelli). (Foto di G.A. Centauro)

Officina Giovani, particolare di murales. (Foto di G.A. Centauro)

Ex stalle. Le stalle sono l’ultimo edificio la cui ristrutturazione rimane da completare. Negli anni oggetto comunque di attenzioni da parte degli artisti chiamati ad esprimersi all’interno di Officina Giovani. Non ultimo l’intervento di ConvivialeVegetale, ad opera di Codesign Toscana e IPER-collettivo. Ripresa con drone di Cosimo Lunetti (Dronency).

Tuttavia, all’epoca Officina Giovani non aveva ancora una destinazione ben specifica; era stato in qualche modo riacquisito dal comune con la cessazione di quella che era la funzione originale di macello, ma all’interno c’erano ancora delle aree che venivano utilizzate4.

L’area dell’ingresso, dove oggi sono gli uffici, era la casa del custode e, dall’altra parte c’erano ancora gli uffici dell’ASL. Solo alcuni locali, iniziarono poi ad essere allestiti per delle mostre ma erano fruibili dall’esterno, una sorta di quinta scenica dove il post-industriale dialogava con gli interventi degli artisti locali. Alcune zone invece erano state liberate, e iniziavano ad essere utilizzate come botteghe.

Le ristrutturazioni successive del 2007/2008 e la gestione diretta del Comune di Prato Le attività che via via presero forma all’interno degli Ex-Macelli, furono la leva che spinse l’amministrazione comunale a partecipare a bandi regionali ed europei, al fine di implementare l’utilizzo delle strutture e dunque delle attività possibili al loro interno.

Risalgono a questo biennio gli interventi di ristrutturazione e risanamento più importanti, che hanno riguardato i due corpi di fabbrica centrali, l’ex-appartamento del custode e le stalle.

Furono creati nuovi orizzontamenti, ricavandone, nel secondo edificio, sale espositive e sale prova (ricalcando l’uso che già ne veniva fatto) e terzo edificio (a destra del corridoio centrale) una sala teatro e aule corsi. La palazzina che si affaccia sulla piazza andò invece ad ospitare sia gli uffici amministrativi (a sinistra dell’ingresso) che quelli del Punto Giovani Europa (a destra entrando), che venne trasferito da Piazza delle Carceri, dove era in affitto. L’edificio delle ex-stalle, quello più a nord, doveva invece ospitare, secondo il progetto originario, le attività di bar/ristorazione a servizio di tutto il complesso, andando così a completare un assetto complessivo di centro culturale.

4 C’era ancora l’anagrafe canina, c’erano i laboratori, degli uffici dove c’erano i veterinari dell’asl, ma erano rimaste poche appendici di quello che era l’uso storico del macello.

Tuttavia, quest’ultimo intervento rimase incompleto e delle stalle fu solo sostituita la copertura. Di questo intervento sono ben visibili le tracce e se ne possono scorgere le intenzioni progettuali. Entrando nelle stalle, infatti, e alzando lo sguardo verso il tetto, si possono notare le finestre lucernario che suggeriscono la previsione, anche in questo edificio, di creare un nuovo orizzontamento e quindi nuovi spazi. In questa fase, con la costituzione di un vero e proprio gruppo di lavoro stabile all’interno degli spazi, si passò da un’utilizzazione diretta delle associazioni ad un utilizzo più sistematico e strutturato.5 Alcuni spazi presero la funzione di sale prova; altre di aule per corsi e altre iniziative; l’edificio che si affaccia sul parcheggio diventava sede degli uffici, mentre di fronte venne spostato il Punto Giovani Europa. Si assisteva quindi non solo ad un sostanziale recupero strutturale, ma anche ad una serie di politiche che miravano a concentrare negli Ex Macelli i servizi legati alle politiche culturali e giovanili, facendone un polo cittadino. Con la ristrutturazione venne fatta una gara di appalto per la gestione della struttura. Fu costituito consorzio (incaricato anche della programmazione) sul quale il Comune con l’assessorato avevano semplicemente un ruolo di supervisione e di supporto economico per la programmazione, senza nessun tipo di agenzia diretta.

Particolari degli interventi di ristrutturazione stratificatisi negli anni e che non sempre sono riusciti a trovare un dialogo con le strutture preesistenti.

Celle frigo. Ripresa delle celle frigo e della particolare copertura realizzata in travi di c.a. estradossate. Si intravedono i seminterrati, attualmente usati come deposito comunale ma oggetto di riqualificazione secondo le previsioni progettuali del PNRR. Ripresa con drone di Cosimo Lunetti (Dronency).

Dal 2010-2011 la gestione di OG è ritornata sotto la direzione delle attività da parte del Comune, elaborando un assetto organizzativo che sostanzialmente perdura ad oggi. L’equipe che si occupa di OG è composta sia da dipendenti pubblici, facenti capo all’assessorato alla cultura (che storicamente si occupa anche di politiche giovanili) che da operatori esterni (selezionati tramite bandi e gare d’appalto pubblico) che ricoprono ruoli tecnici, relativi ad esempio alla direzione artistica o alla gestione del Punto Giovani Europa. Utenti intervistati che hanno conosciuto lo spazio per eventi come il Festival FreeShout!?6 - attivatore di progetti espositivi, concerti, performance ed interventi urbani - nel 2008 e 2009, ricordano una profonda differenza tra quegli anni e ciò che ha seguito: l’informalità che contraddistingueva gli spazi e la modalità del loro utilizzo è andata perdendosi con l’inserimento degli uffici comunali nell’area degli Ex Macelli e la ripresa del controllo delle attività dal Comune.

2012/2022: dalle celle frigo al PNRR

A partire dal 2012 si è cercato di intervenire sui vari padiglioni che costituiscono il complesso di Officina Giovani in modo organico, cercando di eliminare via via quelle superfetazioni che nei decenni si erano accumulate, impedendo talvolta la lettura dell’impianto

6 http://1995-2015.undo.net/it/mostra/92693 originario del primo novecento (dipendente comunale uffici tecnici, intervista 09/2022). Gli interventi, eseguiti durante i primi anni di esistenza di attività culturali all’interno degli ex Macelli, erano per lo più puntuali, quasi come fossero lo specchio di ciò che stava accadendo da un punto di vista dell’occupazione degli spazi. Via via che negli anni si delineava una progettualità delle azioni, anche gli interventi architettonici acquisirono una visione più a lungo raggio. Il tentativo di liberare da volumi posticci quello che era il disegno architettonico originale si può dire fosse quasi coerente con i tentativi di svelare progressivamente alla città l’ormai costituito centro culturale e rendere più permeabile una struttura che ancora faticava ad essere compresa e capita nell’essenza dalla cittadinanza (dipendente comunale uffici tecnici, intervista 09/2022).

Intorno al 2015 invece si è proceduto con il primo intervento massiccio7, sull’edificio delle ex-celle frigo, corpo di fabbrica assolutamente dissimile rispetto al resto dei padiglioni. Trattasi infatti di un edificio che si sviluppa su un piano fuori terra (più un locale seminterrato), edificato nella seconda metà del ‘900, in cemento armato con travi estradossate gettate in opera.

L’intervento di ristrutturazione aveva come obiettivo la trasformazione delle celle frigo in uno spazio versatile che potesse servire alle molteplici attività culturali che si andavano consolidando all’interno di Officina Giovani: concerti, spettacoli teatrali, mostre. L’intento progettuale era quello di preservarne il più possibile il carattere, secondo i tecnici intervistati “doveva sembrare che il posto fosse stato appena dismesso” (dipendente comunale ufficio tecnico, intervista 09/2022).

Furono conservati i tombini per lo scolo dei liquami di macellazione, gli infissi originali, le piastrelle in klinker, i binari a soffitto e i ganci di metallo dove si appendevano le carni (messi in sicurezza con dei carter di plexiglass); il soffitto fu trattato con materiale intumescente e furono messe in collegamento le due celle più piccole; furono ricavati dei servizi igienici accessibili dall’esterno, in luogo di quelli esistenti e di alcuni locali deposito. Le normative sulla sicurezza imposero di ricavare 3 nuove uscite di sicurezza: le 3 nuove aperture si aggiunsero quindi ai due portelloni scorrevoli della struttura originale, rimasti tali.

Nuovo accesso a Officina Giovani da piazza dei Macelli. (Foto di G.A. Centauro)

Nel 2016 un nuovo intervento interessò l’area nord-est del complesso: si eliminò un volume posticcio a ridosso della palazzina centrale degli uffici, si demolì il muro di cinta aprendo gli spazi direttamente sulla piazza e vennero ricavati dei locali ad uso bar-ristorazione nella parte terminale del padiglione più a est.

La facciata prospiciente la piazza fu volutamente lasciata bianca per permettere in un secondo momento la possibilità che essa venisse dipinta con un murale, da parte dell’artista Etnik.

Si apriva nuovamente il tema della mancanza di un’area bar/ristorazione, rimasto in sospeso dal 2007 con l’interruzione del cantiere per le ex stalle.

La presenza di un bar ha molteplici ragioni, soprattutto se ancora manca un’area comune dedicata alla socializzazione e al networking anche tra gli utenti stessi del centro culturale.

Dal 2018, con il bando biennale Residenze Creative, il Comune di Prato ha messo a bando, attraverso patto di collaborazione basato sui principi sanciti dal “Regolamento per la gestione condivisa dei beni comuni urbani”, l’uso degli edifici centrali (seconda e terza stecca) ad associazioni culturali Le associazioni in residenza, insieme ai professionisti che occupano gli spazi coworking (ricavati nell’edificio adiacente alle ex-celle frigo), sono l’utenza che frequenta più assiduamente lo spazio, da molti utilizzato come spazio di lavoro quotidiano.

Gli altri servizi che fanno capo a Officina Giovani e che ne completano il quadro delle attività per come sono ad oggi sono i Cantieri Culturali, Officina Teen e il Punto Giovani Europa. Uno dei più giovani “residenti”, riporta come sia stato importante avere uno spazio a disposizione negli ultimi due anni, ma contemporaneamente riscontra che le modalità di accoglienza delle associazioni non sono sufficienti per supportare il complesso ecosistema della produzione artistico-culturale non istituzionalizzata che gravita attorno a Officina Giovani. Nonostante ci siano dunque dei tentativi riconoscibili attraverso Officina Giovani ed i suoi spazi di creare un centro culturale, gli sforzi del Comune sembrano insufficienti: la capacità di attrazione dell’utenza è limitata ad eventi non continuativi e attività circoscritte nel tempo (es. flea market, festival musicali, mostre temporanee etc.).

Nel 2022 il Comune di Prato si aggiudica 20 milioni di euro del PNRR per la rigenerazione urbana e parte di essi vengono allocati specificatamente per Officina Giovani.

Gli interventi interesseranno nuovamente le celle frigo, con la creazione di un foyer d’ingresso mediante la chiusura dell’attuale loggia; verrà annessa al centro culturale anche la palazzina su via dell’Abbaco, nella quale verranno realizzati a piano terra dei laboratori per artista e al piano primo degli alloggi a servizio delle residenze artistiche; il piccolo magazzino in testa alla palazzina verrà invece destinato a coworking e zona comune. Si completeranno anche i lavori delle ex stalle, definite da progetto come spazio polifunzionale. Purtroppo (dipendente comunale ufficio tecnico, intervista 09/2022) non ci sono i tempi tecnici per poter attivare, per i locali delle stalle, degli esperimenti d’uso, istituzionalizzando un modus operandi ormai consolidato all’interno di Officina Giovani. Infatti, l’inizio dei lavori è previsto entro pochi mesi ma un’attività del genere si potrebbe rivelare di grande aiuto anche per i progettisti. L’altro tema del progetto per il PNRR è stato quello della “riforestazione” e “demineralizzazione” degli spazi esterni del complesso di OG, in coerenza con gli obiettivi di Piano (dipendente comunale ufficio tecnico, intervista 09/2022). Gli spazi esterni, le varie corti intercluse tra gli edifici, si configurano fin dall’inizio dell’insediamento delle attività di OG, essi stessi come spazi culturali, la cui vocazione è quella di teatri, aree concerto e mercatini all’aperto. Per questo la progettazione degli spazi esterni ha finora riguardato gli aspetti normativi, come la prevenzione incendi e la sicurezza. A partire dall’estate 2020 sono stati fatti degli esperimenti di inserimento temporaneo di elementi vegetali, denominati “Officina Jungle”8, nell’ottica di interventi sistematici di ri- forestazione, in programma con i fondi PNRR. Tali interventi mireranno a consolidare la vocazione degli spazi aperti come spazi di relazione e come prosecuzione in esterno delle attività svolte all’interno degli edifici. La sfida più interessante sarà quella di utilizzare, in un’ottica di “riuso”, il sistema di condotti fognari interni al complesso - un reticolo creato per la raccolta dei liquami della macellazione e delle acque di lavaggio degli ambienti - come infrastruttura per la raccolta delle acque piovane e il loro riutilizzo per l’irrigazione delle piante che verranno messe a dimora.

Conclusioni

La ricostruzione proposta degli usi temporanei di OG prende avvio da una forte spinta dal basso di stampo artistico-culturale, accolta dalla giunta politica locale. Negli anni successivi, gli interventi strutturali proposti dalla pubblica amministrazione hanno concorso - insieme, ovviamente, a cambiamenti socio-antropologici più ampi che hanno riguardato il mutare delle abitudini culturali delle generazioni del territorio - a modificare parzialmente utenza e utilizzi degli spazi degli ex-macelli, ma non hanno mai smesso di tentare di posizionare OG come polo culturale urbano. La pratica e l’uso spontaneo sono stati istituzionalizzati ed hanno permesso a un complesso ex-produttivo, una volta che è stato dismesso, di non restare chiuso per decenni e di rimanere in capo alla pubblica amministrazione anziché diventare oggetto di speculazione immobiliare, come capitato in numerosi altri casi sul territorio. L’alternativa avrebbe potuto essere l’abbandono e conseguentemente la perdita del valore non solo economico ma anche storico-testimoniale intrinseco del complesso.

La ricerca ha permesso di dare una connotazione socio-culturale ai progetti di restauro che negli anni si sono succeduti. E se dai primi usi, realmente spontanei, si è passati a forme programmatiche di utilizzo, queste si rivelano ancora “usi nell’attesa”, esperimenti per “specializzare” ancora la progettazione che verrà. Il PNRR sarà l’occasione per aprire nuove strade ai processi attivati in questi anni, facendo tesoro delle buone pratiche ma anche degli errori di progettazione (programmatica ancorché più specificatamente architettonica). L’altra evidenza è che l’evoluzione delle pratiche culturali e la cronistoria degli interventi alle strutture sono legati a doppio filo e si sono di volta in volta influenzati, portando la struttura dal suo stadio attuale alle future tensioni programmatiche in capo al PNRR. “Una relazione simbiotica tra agenti. Coloro che sono coinvolti nell’uso temporaneo e coloro che decidono lo sviluppo dovrebbero stabilire un’interdipendenza.

Gli architetti che utilizzano l’edificio oggi, stanno allo stesso tempo producendo il progetto dello sviluppo futuro. Questo crea dipendenze tra l’adesso e il futuro, tra l’informale e il formale. In questo modo, le preoccupazioni quotidiane degli utenti possono raggiungere l’orecchio dei partiti e dei responsabili politici. Queste nuove interdipendenze potrebbero dar luogo a una “relazione simbiotica” tra il formale e l’informale come auspicato da Mehrotra (2011), o una “informalizzazione” delle istituzioni formali come presentata da Boudreau (2017). Le tensioni odierne tra uso temporaneo e uso permanente, tra formale e informale, devono essere rappresentate anche nei futuri piani di riqualificazione. Per questo, dovrebbero essere consentite incongruenze; i paradossi dovrebbero essere parte, anche stimolati, nel futuro immaginato” (Leyssen, 2018, p. 127). È evidente che laddove, gli utenti intervistati manifestano ancora insoddisfazione per l’uso degli spazi e la programmazione delle attività, questo processo di simbiosi tra “formale” e “informale” e questa interdipendenza tra “chi usa” e “chi decide” devono ancora giungere a maturità e compimento, e che il processo di istituzionalizzazione di certi processi, se da una parte ha dato la possibilità di rendere programmatiche certe pratiche, ha forse perso per strada la capacità di mantenere la tensione spontanea degli inizi, come strumento di propulsione del cambiamento. La riconversione a carattere culturale di un edificio ex-produttivo ed industriale dà la possibilità di intervenire sulle architetture con maggior rispetto degli elementi caratterizzati e meno alienante rispetto, ad esempio, ad una riconversione in centro commerciale. Questo è evidente sia nel caso studio del seminario, citato all’inizio di questo articolo, ovvero il Fabbricone, sia per il caso studio di Officina. Senza soffermarsi troppo sulle opportune distinzioni tra riuso, recupero e più propriamente restauro del moderno, parlando di riattivazione funzionale di un edificio dismesso si deve comunque fare i conti con la precarietà contemporanea e la scarsità di risorse. Le “strutture effimere, materiali economici ed estetiche contrastanti”

(Leyssen, 2018, p. 120) sono caratteristiche proprie del meanwhile-use, con le quali il restauro deve fare i conti. Pena l’impossibilità di sperimentare gli usi ma anche la morte degli edifici stessi.

Crediti:

“Codesign Toscana” è un’associazione culturale nata nel 2017, popolata da professionisti multidisciplinari e ricercatori che promuovono l’innovazione sociale attraverso le metodologie del design. Le nostre attività si sviluppano attorno a sfide progettuali principalmente mirate a immaginare futuri sostenibili, resilienti e inclusivi. Codesign Toscana sviluppa e aiuta a sviluppare percorsi di progettazione collaborativa connettendo cittadini, organizzazioni pubbliche e private. Lorenzo Vacirca, Andrea Del Bono. Rita Duina e Marco Berni sono co-fondatori e membri dell’associazione.

Seminario Didattico

Sul Fabbricone Di Prato

Il cartiglio dello stabilimento

Kössler, Klinger & Mayer di Prato “Il Fabbricone” (1913-1925).

(Fonte: Archivio Privato)

Giuseppe Alberto Centauro con contributi di Giuseppe Guanci (GG); Antonio Silvestri (AS); Lorenzo Vacirca (LV) e la collaborazione di Giada Buti

Percorso di conoscenza: la storia della fabbrica (GG)

Lanificio il Fabbricone

[…] Quando verso la fine dell’800 a Prato cominciarono a sorgere i primi stabilimenti industriali, degni di tale nome, devono certamente aver suscitato non poca meraviglia, soprattutto per le loro inconsuete dimensioni, ma nessuno di questi fu in grado di emulare lo stupore creato dalla nascita, a nord di Prato, di un nuovo enorme stabilimento, sorto in aperta campagna nel 1889, la cui vera denominazione, legata ai nomi dei proprietari austriaci, complice forse anche la scarsa pronunciabilità, fu da subito sostituita con l’appellativo de “Il Fabbricone” 1

I soci Hermann Kössler e Julius Mayer, maturarono probabilmente la decisione di realizzare questo stabilimento in seguito all’avvento della tariffa protezionistica, relativa al settore laniero, varata in Italia nel 1887. Questa infatti introduceva elevati livelli daziari soprattutto per gli articoli di qualità e, nello specifico sul pettinato (Lungonelli, 1988, p. 33), privilegio che quindi lasciò sostanzialmente indifferenti i produttori pratesi (avvezzi piuttosto al cardato), ma che invece attrasse la compagnia austriaca che si specializzò in questo tipo di produzione.

L’aura mitologica nata subito attorno allo stabilimento fu dovuta a diversi fattori: prima fra tutte, come accennato, la dimensione sia fisica che di organico, il quale all’epoca era già composto da circa 900 operai, di cui la maggioranza donne; in secondo luogo dalla non appartenenza dei proprietari, e di gran parte dei quadri dirigenti, alla realtà cittadina, ed infine al velo di mistero che le alte mura, racchiudenti tutta fabbrica, di fatto creavano negandosi all’esterno, salvo il breve varco del cancello principale posto sulla via Bologna.

A titolo di curiosità è interessante sottolineare come tra la folta schiera di tecnici tedeschi si trovasse anche un certo Erwin Suckert, esperto tintore, arrivato nel 1892, da Zittau in Sassonia, a Prato al Fabbricone. Dal suo matrimonio con Edda Perelli nacquero sette figli, tra cui Kurt, terzogenito, nato il 9 giugno 1898, poi divenuto famoso con lo pseudonimo di Curzio centauro, guanci, silvestri, vacirca, buti

1 […]Testo liberamente estratto da: Guanci 2011, pp. 89-97; ivi cfr. G. Guanci, Quando le fabbriche creavano stupore, nella rubrica “I segni dell’industria”, Metropoli edizione di Prato, 15 ottobre 2010.

Stabilimento Kössler & Mayer: foto di gruppo delle maestranze (anno 1913 ca.). (Fonte: Archivio Privato)

Stabilimento Kössler , Mayer & Ing. Klinger (Il Fabbricone): particolare del grande viale d’accesso (1920 ca.). (Fonte: Archivio Privato) venivano effettuate tutte le fasi della lavorazione del tessuto, eccettuata quella della filatura, che dopo circa un decennio dalla fondazione, la società pensò però di realizzare su di un terreno attiguo, desistendo poi dal proposito in seguito all’acquisto di un altro stabilimento a Terni, ove impiantò tale reparto. Anche la dotazione di macchinari era assolutamente superiore a qualunque altro stabilimento della città con i suoi 640 telai meccanici alimentati da motori vapore che complessivamente sviluppavano una potenza di 320 cavalli, di cui 200 appunto per la tessitura, 100 per la tintoria e 20 per l’illuminazione e l’officina meccanica (Lungonelli, op. cit.). Nel 1888, la filatura fu rilevata dal “Lanificio Italiano S.p.A”, che la gestì, con una manodopera ridotta, fin verso la fine del secolo e quindi, messa in liquidazione, nel 1899 fu acquistata dalla “Kossler, Klinger & Mayer” di Prato, che l’adibì alla produzione di filati di lana e pettinata (Guanci 2008, p.171). L’azienda conobbe così un nuovo periodo di sviluppo: nel 1909-1913 la manodopera, in prevalenza femminile, raggiunse nuovamente le 300 unità. Tuttavia agli inizi degli anni ‘20 si ebbe una nuova crisi, poi superata con l’incremento dell’attività e di conseguenza del numero degli occupati che così ascesero a 1000. Il Fabbricone, grazie alla sua enorme concentrazione di operai, si connota quindi anche come fucina della lotta di classe, infatti occorre ricordare che proprio da qui era uscito, prima di andare in America, l’anarchico Gaetano Bresci, che nel 1900 uccise Umberto I. Intanto nel 1911 l’attività dello stabilimento risulta notevolmente aumentato con i suoi 1500 operai impegnati a lavorare ai 1200 telai meccanici, oltre che nel reparto tintoria, ormai completamente azionati dall’energia elettrica fornita dalla Società Valdarno3. In ogni caso la massiccia presenza di tedeschi e austriaci del Fabbricone era dovuta anche ai quadri tecnici e dirigenti che i proprietari avevano fatto giungere dalla loro patria, al punto che agli inizi del ‘900 fu addirittura fondato a Prato un Club tedesco, in Palazzo Magnolfi, la cui partecipazione alle serate di gala era piuttosto ambita da parte degli stessi industriali pratesi, in quanto indice di prestigio.4 C’è da osservare che il Fabbricone si distingueva da altri opifici pratesi per i peculiari caratteri costruttivi e stilistici degli stabilimenti che risentivano fortemente delle maestranze nordiche che vi operavano.

Malaparte2.

Lo sviluppo dell’attività, in ogni caso, proseguì incessantemente fino all’inizio della prima guerra mondiale, periodo durante il quale si assisté anche ad una modificazione nell’assetto societario, con l’ingresso nella compagine del barone Robert Klinger e la conseguente trasformazione della società in “Kössler, Mayer & Klinger” e poi solamente in “Klinger & Kössler”. La fabbrica pur essendo ormai completamente alimentata dall’energia elettrica,

3 Camera di Commercio e Industria di Firenze, Statistica industriale. Notizie sulle condizioni della Provincia di Firenze, Anno 1911, Tip. Carnesecchi e figli, Firenze, 1911, pag. 366

4 D. Fiorelli, Notiziario di vita pratese dalla crisi d’Africa del ’96 all’Armistizio del 1918, in “Archivio Storico Pratese” –anno XXXVII – fasc. I-IV, 1961, pp. 54-55

Il Fabbricone, alcuni reparti interni (1925): a, b) tessitura meccanica; c) rammendatura; d) macchine a vapore; e) tintoria; f) follatura. (Fonte: Archivio Privato) acquistata dalla Società Valdarno, che gli erogava 500 HP, probabilmente in vista di restrizioni conservava anche gli originari motori a vapore, che costituivano un utile impianto di riserva.

Con i 1050 telai attivi venivano prodotti principalmente stoffe per signora e per usi civili, ma con l’entrata in guerra iniziano anche le commesse militari, come il primo ordinativo di 500.000 metri di flanella per camicie e cravatte, arrivato dalla Direzione dei servizi logistici e amministrativi dell’Esercito. Ma vista la potenzialità offerta dai numerosi telai, di produrre stoffa grigio-verde, si pensa di farlo diventare stabilimento ausiliario.

Anche se l’episodio bellico aveva causato l’allontanamento dei proprietari austriaci, nel 1922 il barone Klinger fece ritorno riassumendo la direzione della fabbrica che tuttavia, cinque anni dopo, cedette definitivamente a capitali italiani, divenendo quindi la Società

Anonima “Il Fabbricone” Lanificio Italiano. Prima della cessione, nel 1925, la proprietà fa realizzare una pubblicazione a stampa, che si può considerare anche come una sorta di inventario (una copia di questa è conservata presso la Biblioteca Lazzerini di Prato) :

«

/…/ Lo stabilimento comprende: tessitura, tintoria e rifinizione di tessuti di lana pettinata e cardata, scialle ria e officina meccanica. La tessitura ha 1030 telai meccanici e relativa preparazione con incannatoi, aspi, orditoi per seta e lana, macchine incollatrici. Un reparto speciale è destinato alla produzione dei cartoni Jacquard ed a quella dei pettini e delle licciate. La tintoria ha 30 vasche per la tintura in pezza dei tessuti di lana, 20 cassette per la mezza lana, vasche per il candeggio e per la tintura dei filati in matasse, 30 tini piccoli per campioni, ed accessori, come lavaggi e idroestrattori. L’avanapparecchio, od apparecchio umido, dispone di brucia-peli sia a gaz che a piastra rovente, di macchine di fissaggio e vaporissaggio, di lavaggi, di idroestrattori, folloni di vario tipo adatti anche per panni militari, carbonissaggio in pezza, e macchine sussidiarie. Per la rifinizione servono 4 grandi “rameose”, 3 calandre a feltro, macchine da ingommare, da asciugare, misuratrici, addoppiatrici, idroestrattori, decatissaggio, presse continue, presse idrauliche a riscaldamento a vapore ed elettrico, macchine da avvolgere, garzi, cimatoria /…/».

Nel 1934 fu deciso un primo ampliamento della fabbrica, consistente nel rialzamento della parte terminale del corpo posto lungo il viale centrale del complesso, per la cui esecuzione la direzione si rivolse alla società Nervi & Bartoli (Guanci 2008). Tuttavia, forse anche a causa di precise indicazioni della committenza, Nervi impiega, in questo intervento, una tecnologia mista consistente in un solaio con travi in cemento armato sorretto da più classiche colonnine in ghisa. La dimensione della nuova costruzione, che avrebbe coperto una superficie di quasi 8000 metri quadrati, portò la direzione della fabbrica a contattare più imprese del settore, alle quali fu chiesto un progetto di capannoni ad un solo livello fuori terra ed una parte interrata, da realizzarsi con una struttura in cemento armato. La Società di Nervi, avendo già operato con la direzione dello stabilimento, ovviamente non si lasciò sfuggire la ghiotta occasione presentando un proprio progetto, probabilmente in associazione con la Società Poggi & Gaudenzi. Nell’archivio della Nervi & Bartoli, esistono a questo proposito vari grafici: la soluzione proposta, consisteva in un seminterrato con “solaio a fungo” ed una struttura a piano terra con copertura a shed, ripetendo la stessa tipologia della trave reticolare già adottata nella vicina fabbrica Mazzini e in quella

Il Fabbricone, veduta dell’ingresso dopo il rialzamento della palazzina degli uffici (1950 ca). (Fonte: Archivio Privato)

Il Fabbricone, interno dei magazzini con copertura a shed su colonnine di ghisa. (Foto di L. Vacirca)

Cangioli di Vaiano. La proposta progettuale è particolarmente interessante anche se non del tutto nuova. Il concetto del “solaio a fungo” rappresenta infatti il tentativo di affrancamento dal sistema trave-pilastro, introducendo il concetto della piastra con armatura bidirezionale sorretta direttamente dal pilastro, quindi la possibilità di ottenere solai senza travi in vista. Per questo incarico particolarmente allettante Nervi produce alcune belle prospettive interne dello stabilimento, nonostante tutto, però, come spesso succedeva, ad aggiudicarsi l’appalto non fu il sodalizio delle ditte Nervi-Poggi ma la milanese “Impresa di costruzioni Ing. Magistretti”. Nel 1938 viene rialzata un’altra parte dello stabilimento, lungo il viale interno, in prosecuzione di quello già realizzato nel 1934. Nel 1947, infine, verso il Bisenzio, fu costruito uno degli ultimi ampliamenti della fabbrica5, oggi in parte occupato da un supermercato, in quello stesso anno (appena oltre il recinto murario) si era andato ampliando anche il comparto di destra con l’edificazione del capannone oggi occupato dal teatro; in quegli anni si ampliarono anche gli uffici. Nel 1960 la gestione dello stabilimento passò prima all’iri e dieci anni dopo all’eni, fino a metà degli anni Settanta, quando le sole mura divennero di proprietà della famiglia Balli, noti imprenditori pratesi, che ne sono tutt’ora proprietari. In quegli anni si attuarono anche interventi di rafforzamento ed incamiciatura in c.a, delle esili strutture in ghisa. Oggi tutto il fabbricato relativo alla filatura e i successivi ampliamenti sono prevalentemente occupati da attività commerciali o di servizio oppure residualmente inoccupate, mentre nel rimanente complesso si svolgono ancora varie attività produttive.

Il Fabbricone: luogo di ricerca e sperimentazione per il restauro alla scala urbana (GAC)

Al percorso della conoscenza dei valori architettonici propri dell’archeologia industriale è stato assegnato un ruolo precipuo per lo sviluppo economico e sociale, ma soprattutto culturale, di Prato. Come già indicato in Prefazione (v.), il Laboratorio di Restauro del corso di laurea triennale 2022, condotto da chi scrive e svolto in collaborazione con gli architetti pratesi, prendendo in esame l’intero complesso industriale del Fabbricone, ha inteso affrontare il tema del restauro dell’architettura moderna, declinandolo in una prospettiva di sviluppo sostenibile e di valorizzazione culturale delle testimonianze fisiche del patrimonio esistente, anche in riferimento all’ambito produttivo da rilanciare in una visione di riconosciuto interesse della collettività per il bene industriale; in particolare, sono portate all’attenzione due specifiche tematiche, di metodo e di progetto:

1. la prima: su come affrontare il percorso della conoscenza (dalla ricerca storica all’analisi urbanistica recente, dallo studio dei caratteri costruttivi ai modi della conservazione e valorizzazione degli edifici industriali) e, segnatamente, su come approcciare alla salvaguardia di queste presenze, attraverso l’innovazione tecnologica e aggiornati canoni metodologici, attuando un programma condiviso tra il mondo della formazione e quello professionale;

2. la seconda: traccia l’obiettivo della riqualificazione urbana, attualizzata alle nuove tendenze che la stessa disciplina del restauro dell’architettura e del paesaggio sta evidenziando, trasferendo la centralità della problematica per la tutela attiva del patrimonio: dalla conservazione alla rigenerazione delle funzioni.

L’area di studio che prende spunto dal complesso industriale del Fabbricone, si estende a tutta la zona nord della città di Prato, già indicata dall’assessore all’Urbanistica, arch. Valerio Barberis, come ambito di progetto di riqualificazione ambientale prioritario per la città di Prato.

Nelle intenzioni del laboratorio didattico si è dunque inteso legare la progettazione alla salvaguardia dei valori testimoniali delle architetture moderne di matrice industriale al fine di riunire in un’unica trama di “sviluppo sostenibile” gli aspetti oggi al centro dell’interesse ambientale e urbanistico.

Su questo obiettivo programmatico ha preso le mosse e si è svolto il seminario di studio che ha avuto come tema di esercitazione: «Lo studio del complesso industriale del Fabbricone nella definizione degli elementi aventi valore di testimonianza nel duplice profilo di “integrità” e “autenticità” per la messa a punto di idonee metodologie di intervento, recupero e fruizione del bene industriale», cfr. in Prefazione, cit.

Gli studi affidati agli studenti, suddivisi in gruppi, sono stati articolati in due fasi:

1. la schedatura ed il rilievo diretto dei corpi di fabbrica del complesso industriale (classificati come “Blocchi”);

2. l’elaborazione del progetto conservativo e di restauro dei corpi di fabbrica costitutivi il complesso, accompagnato dall’elaborazione di un masterplan delle funzioni da associare alle porzioni in dismissione produttiva o già alienabili per usi diversi. In particolare, come tema comune di approfondimento assegnato a tutti i gruppi di studio, è stato preso in esame il c.d. “Blocco 12”. Si tratta di un corpo di fabbrica già destinato a demolizione e ricostruzione, poi assoggettato in conservazione strutturale a modifiche d’uso per attività di servizio sociale, successivamente anch’esse abortite nel tempo ed oggi disponibile per nuove eventuali funzioni (di tipo commerciale ecc.). Quale riferimento indiretto e di confronto per le possibili soluzioni da adottare nelle proposte di studio. In via preliminare, alla luce delle complesse dinamiche di recupero che si sono evidenziate negli ultimi anni sia alla scala architettonica che a quella urbanistica, sono stati esaminati in rapida successione gli ultimi interventi con le più recenti proposte di piano di recupero di iniziativa privata che hanno interessato, non solo il “Blocco 122”, bensì l’intero comparto del Fabbricone, comprese le attuali iniziative comunali rivolte al polo dei teatri. Per far luce sulla complessità del tema affrontato è perciò utile ricordare che negli anni recenti la proprietà intestataria del bene (“Lanificio Ruggero Balli S.p.A”), ha più volte presentato, fin dal 2005, alcune proposte di PdR. In particolare, facendo seguito alla proposta di piano depositata nel 2013 in Variante al R.U, a nome di Luigi Balli, fu presentato nel luglio 2015 un più complessivo “Piano di Recupero e Valorizzazione - Area ex Fabbricone” che si conformava alla nuova normativa regionale in materia urbanistica. Questo piano, a firma degli architetti Giovanni e Marco Valentini (Edistem srl), investiva l’intera estensione dell’ex Fabbricone. Per la particolare rilevanza ambientale il piano fu oggetto di “Conferenza di Copianificazione, ai sensi dell’art. 26 della L.R. nr. 65/2014”, con avvio del procedimento nel giugno 2016. Per maggior dettaglio, nel piano di recupero si proponeva l’insediamento di una grande struttura di vendita da ricavarsi rimodellando i fabbricati del “Blocco 12” e di tutti i limitrofi stanzoni in parti già occupati da un centro commerciale. Oltre a questo erano previsti sostanziali “mutamenti” morfologici delle volumetrie storiche, ancorché in parte determinati da interventi di riutilizzo del patrimonio edilizio esistente. Ciò comportava un’integrazione di analisi per una serie di eccezioni mosse da parte dell’”Ufficio di Piano e di Coordinamento degli atti di governo del territorio” del Comune di Prato, proprio per addivenire ad un’esauriente valutazione d’impatto ambientale (vas), come previsto dalla normativa sopra citata.

In una chiave di lettura che investe le problematiche attuali, di riconversione e recupero del grande complesso industriale, è oggi interessante rileggere, a distanza di oltre un lustro, i criteri allora adottati per le verifiche di fattibilità e sostenibilità in ordine ai dettami normativi, anche allo scopo anche di indicare eventuali interventi compensativi o correttivi in chiave di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture preesistenti (ex art. 25 c.5). Si potrebbe eccepire per le previsioni che allora si fecero che parte delle strutture di pregio, non vincolate come archeologia industriale, venivano demolite per far posto a parcheggi a raso. Tuttavia, fu preso atto dagli uffici che «nel corso degli anni dopo diverse vicissitudini e cambi di proprietà, oggi una parte dello stabilimento è sede dal 1981 del Lanificio Fratelli Balli S.p.A. , mentre l’altra è stata riconvertita ad uffici, uso commerciale e spazi pubblici. /…/ Ragion per cui il piano di recupero propone la riconversione complessiva dell’area con la demolizione degli edifici di scarso valore storico architettonico (sic!), con esclusione dei due spazi teatrali Fabbrichino e Fabbricone, il “recupero” della parte più antica dell’insediamento, con l’inserimento di una grande struttura di vendita, una serie di esercizi di vicinato, una zona a terziario, una dedicata alla ristorazione, diversi parcheggi a raso e uno multipiano, con una parte degli immobili conservati con funzioni produttive» (estratto dalla relazione degli istruttori tecnici e dirigenziali del Servizio Urbanistica: G. D’Alessandro, P. Bracciotti, F. Caporaso). In questa relazione, pur evidenziando le molteplici ricadute positive specie da un punto divista economico, si indicavano nel dettaglio i correttivi ai quali doversi attenere come previsto nell’iter di formazione ed approvazione delle Varianti al Piano Strutturale. Nei mesi successivi furono presentate nuove documentazioni, con dovizia di rilievi e nuovi particolari costruttivi, tuttavia non modificando di molto l’approccio precedente. Al termine dell’iter, nel maggio del 2018, la proposta di piano non fu accolta. Di fatto, con la demolizione di alcune parti strutturali antecedenti al 1934 e la sostituzione generalizzata dei volumi da destinare a funzioni commerciali si andava a modificare radicalmente l’assetto esistente. Senza entrare nel merito degli elaborati progettuali, a noi preme sottolineare tra le varie problematiche che furono allora sollevate nell’ambito della valutazione d’impatto ambientale, quelle rapportabili alle riflessioni e criticità non risolte che ancora si riscontrano nel dibattito attuale (mobilità e connessioni urbane) e, più in generale, al restauro del Moderno, con attenzione particolare al tema della rigenerazione delle funzioni in chiave di rispetto della compagine architettonica e paesaggistica storicamente caratterizzante l’intero compendio ambientale ed urbanistico del ex Fabbricone, comprendendovi anche i corpi di fabbrica di più recente edificazione, già esclusi dai vincoli urbanistici legati alle tematiche dell’archeologia industriale.

Viste tridimensionali del modello plastico digitale del “Piano di Recupero e Valorizzazione area ex Fabbricone” (architetti G. e M, ValentiniEdisistem srl , 2016). (Fonte: Comune di Prato).

Una volta di più da questa esperienza appare evidente che le ragioni del restauro urbano latitano specialmente nei confronti delle architetture contemporanee o di più recente costruzione, non incluse negli “stereotipi” dell’archeologia industriale (ciminiere, coperture a shed, elementi strutturali in ghisa, ecc.), risultando del tutto marginali nell’ambito dei processi di riqualificazione urbana.

Rigenerazione del polo teatrale del fabbricone e nuove connessioni urbane (AS)

Nell’ambito del seminario dedicato come caso-studio al comparto urbano occupato dal Fabbricone e in riferimento al dibattito in corso circa l’occupazione e le modalità di riutilizzo dei corpi di fabbrica già da tempo esclusi dal ciclo produttivo aziendale, si viene a porre

Ipotesi di progetto “Prato all’attenzione degli studenti del Laboratorio di Restauro dell’Università di Firenze, quelle che sono le attività di progetto riguardanti la parte pubblica che possono interconnettersi in sinergia con le proposte di riabilitazione funzionale perseguibili dalla parte privata dopo il mancato accoglimento nel 2018 del “PdRV ex Fabbricone”.

Il “Servizio edilizia storico monumentale e immobili comunali”, al quale afferisco come tecnico progettista, così come già anticipato e ampiamente descritto nelle sue linee programmatiche dalla relazione dell’assessore Barberis, vuole realizzare una nuova porta di accesso alla città da nord, e attraverso questa, creare una cerniera che connetta direttamente il centro urbano a questo luogo culturalmente così importante e vitale. L’intervento proposto, nella sua complessità, si divide in due macro temi: la rigenerazione del polo teatrale (ex Fabbricone) e la realizzazione di nuove connessioni con la città storica.

La rigenerazione del polo teatrale: i singoli interventi quindi prevedono il restauro e l’adeguamento del polo teatrale “Il Fabbricone”, una volta acquisito al demanio pubblico, nonché la destinazione del Fabbrichino a depositi e laboratori scenici. Ed inoltre, sul fronte del Fabbrichino, lato via Targetti, stabilire, come destinazione d’uso, l’insediamento di uno studentato.

Le nuove connessioni: tra il mercato generale comunale all’aperto e il complesso teatrale è prevista una grande area verde dove si alternano percorsi e spazi di relazione. Più nello specifico viene “demineralizzata” parte dell’area attraverso l’eliminazione delle superfici asfaltate, viene realizzato un nuovo parcheggio a ovest (lato residenze); si delineano settori verdi attraverso l’incrocio di percorsi incrocianti che tagliano e connettono l’intera area a verde, si prevede uno spazio pavimentato in corrispondenza dell’ingresso alla piazza posta tra il teatro Il Fabbricone e il Fabbrichino, con la duplice valenza di spazio di relazione e di spettacoli all’aperto. La strada limitrofa, via E. Abati, resta invariata nel percorso e nella forma, ma sarà ripensata secondo i seguenti elementi progettuali: elementi che per la loro presenza forzano il rallentamento e/o comportamenti prudenti; assetti dello spazio stradale che inducono velocità tendenzialmente più basse; regole di circolazione.

Per queste ragioni la via E. Abati sarà definita come strada urbana a due carreggiate, inserita nel contesto del parco, con limite di velocità non superiore a 30 km/h. Tutto il sistema si connetterà alla piazza del mercato comunale costituendo di fatto l’asse di penetrazione ricercato che da nord farà accesso nella città storica.

Lo studentato: negli ultimi anni l’Italia ha registrato un incremento degli interventi di costruzione o adattamento di residenze per universitari. É sempre più importante e urgente dare quindi una risposta al tema della residenza per studenti universitari, un’abitazione

Foto aerea consegnata agli studenti del seminario: L’area, definita anche Prato “Porta Nord” da alcune recenti suggestioni progettuali portate avanti dall’amministrazione cittadina, è stata suddivisa, per facilitarne la lettura ai partecipanti del seminario, in 5 aree tematiche contraddistinte dalle lettere A, B, C, D e E sociale. Anche Prato ha visto l’aumento della presenza sul territorio locale di nuovi centri universitari, primo fra tutti il pin “Polo universitario città di Prato”, che registra più di 2000 studenti iscritti, dove sono attivi corsi di studio facenti capo alle facoltà di Economia, Lettere e filosofia, Ingegneria, Medicina e chirurgia e Scienze politiche dell’ateneo fiorentino e alla Scuola di Architettura con il CdL in Pianificazione del territorio. La proposta di intervento prevede, oltre alla rigenerazione del polo teatrale e la realizzazione di nuove connessioni con la città storica, l’inserimento di alloggi residenziali per studenti universitari che gravitano sul territorio aderendo alle numerose offerte formative.

Il carattere sociale di questa tipologia di abitazione, che costituisce un servizio per la collettività, si esprime attraverso la locazione a canone calmierato, di quella parte di utenza spesso economicamente più svantaggiata come gli studenti universitari.

L’idea di progetto è quindi di identificare un edificio, o parte di esso, destinato alle funzioni di residenza per studenti universitari e relativi servizi, realizzando tipologie di residenza sociale e di residenza temporanea.

Metodologia della raccolta e gestione dei dati (LV)

Il lavoro condotto durante il seminario è stato impostato nell’ottica di un possibile sviluppo di un database georeferenziato, nel quale far convergere tutti i risultati di ricerca portati avanti dagli studenti. La preparazione del materiale di studio, così come le indicazioni per la raccolta e la classificazione degli output dell’indagine conoscitiva e del progetto, sono stati predisposti secondo la logica per una successiva traduzione in un sistema GIS.

La georeferenziabilità dei dati raccolti ha riguardato informazioni su scala urbanistica, ma anche dati ad una scala architettonica. Il risultato finale sarà un database di informazioni di vario genere (foto, documenti storici, eidotipi e rilievi sul campo, schizzi e appunti) riferibile ad edifici e porzioni di edificio ben precisi. Opportunamente intabellati, i singoli dati potranno, se analizzati, far emergere varie informazioni riguardo allo stato di conservazione degli edifici, alla loro disponibilità in termini di utilizzo, alle loro caratteristiche architettoniche, indicizzate tramite categorie decise a priori. Una prima cartografia tematica consegnata agli studenti del seminario si è concentrata su una porzione di tessuto urbano compresa tra Via Bologna a Ovest, la ferrovia a sud, il Fiume Bisenzio a est e Via Mozza sul Gorone a nord.

Successivamente l’approfondimento ha riguardato un focus sul complesso dell’Ex Fabbricone. Trattasi di un edificio, costruito a partire dal 1904, che appare ancor oggi fuori scala rispetto al resto del tessuto urbano circostante, con dimensioni dell’ordine di

Legenda grandezza di un piccolo quartiere. I gruppi di lavoro definiti nel corso del seminario hanno ricalcato 12 diverse porzioni dell’area, sulle quali si è concentrato il lavoro di ricognizione degli studenti, in termini di caratteri costruttivi, stato di conservazione e utilizzo attuale delle singole aree assegnate.

A: Area del Fabbricone, comprendente tutti gli edifici dell’impianto originario e con caratteristiche di maggior valore architettonico e storicotestimoniale. L’area è quella sulla quale successivamente si sono concentrate le ricognizioni degli studenti divisi in gruppi.

B: Area comprendente altre parti dell’ex Fabbricone, più recenti e in gran parte non più produttive, e una vasta area aperta, oggetto di studio da parte degli uffici tecnici comunali per un masterplan per un nuovo parco culturale che ricolleghi il complesso con il centro cittadino più a sud.

C: La Calamai 2, importante esempio di polo produttivo.

D: l’area del mercato nuovo.

E: Il Polo Universitario di Prato (PIN).

Il quadro risultante è tra i più variegati, a partire proprio dagli assetti proprietari e dalle destinazioni d’uso. In un contesto quasi esclusivamente privato, nei decenni si è sviluppata una delle attività culturali più importanti della città, ovvero il Teatro Fabbricone.

Al di là della catalogazione dei vari elementi costruttivi, dello stato di conservazione di strutture e cortine edilizie ai fini del restauro, è stato chiesto a ciascun gruppo di concentrarsi su una proposta progettuale di rigenerazione nell’area B), ovvero della porzione “Blocco 12” del fabbricato.

L’area si è prestata a numerose manifestazioni temporanee quali fiere e mercatini, fino alla porzione denominata ex Fabbricone, un “club, bistrot, coworking e incubatore di idee”6 che aveva allestito gli spazi con container di riuso. Attualmente in disuso, l’ex Fabbricone rimane dotato di tutti i requisiti necessari per un’attività culturale aperta al pubblico.

La sfida proposta agli studenti a margine dell’indagine conoscitiva del complesso industriale è stata proprio quella di pensare ad un progetto di riattivazione dello spazio individuato nel “Blocco 12” partendo dall’allestimento esistente e delle vocazioni dell’area previste a livello comunale. Ne sono derivate numerose suggestioni e molteplici proposte, molte delle quali hanno tenuto conto della vicinanza del teatro, del polo universitario e di altre attività (come la scuola di danza): un archivio, un bar, una biblioteca, aule studio, una palestra; sale prova individuali e per orchestra, spogliatoi per gli attori, sala danza; un coworking, una sala biliardo e un bowling; una sala ricreativa per anziani, un pub, un laboratorio didattico per bambini; un palco per esibizioni, una sala conferenza, una sala espositiva. 6

Il Fabbricone: elementi costruttivi diacronici testimoni delle diverse fasi costruttive. (Foto di L. Vacirca, 2022).

Legenda

Edifici precedenti al 1904

Edifici dal 1904 al 1934

Edifici dal 1934 al 1954

Edifici dal 1954 al 1984

Edifici successivi al 1984

Rialzamento secondo piano del 1934

Rialzamento secondo piano del 1938

Rialzamento secondo piano del 1938 e terzo piano del 1984

Complesso del Fabbricone, cronologia delle fasi costruttive (PdR 2016) (Fonte: Comune di Prato)

Complesso del Fabbricone, foto aerea zenitale (Fonte: Google Earth, 2021)