Shingle22J - 5th Edition 2015

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Corti d’Animazione Sezione a cura di

Giannalberto Bendazzi

Desideroso di “non comandare, ma ancor meno essere comandato”, Osvaldo Cavandoli lasciò lo studio dei fratelli Pagot dove si era fatto cineasta, e nei primi anni Cinquanta si mise in proprio dedicandosi ai pupazzi animati. La piccola guerra (databile al 1957) fu l’ultimo dei suoi cortometraggi pubblicitari, che cessarono quando l’advertising si spostò dalle sale cinematografiche ai salotti televisivi. I film rimasti dimostrano che il nostro grande autore, poi famoso per l’invenzione puramente bidimensionale de La Linea, sarebbe potuto essere un degno concorrente del céco Jiri Trnka, re allora indiscusso dell’animazione volumetrica, se solo le circostanze economiche e industriali dell’Italia lo avessero spalleggiato. La piccola guerra è un gioiellino perché 1) è divertente, 2) richiama efficacemente il prodotto (la pasta Combattenti, allora formidabile concorrente della Barilla), 3) ottiene il massimo risultato con i minimi mezzi (la fumata dei cannoni e delle mitragliatrici che sparano è ottenuta con pochi fotogrammi di... bambagia). Poi Osvaldo non tornò più al cibo. La Linea s’innamora, suona, fa sport, subisce i dispetti della Mano, ma non si dà da fare (per quanto io mi ricordi) con coltello e forchetta. Perché mai? La mia teoria è che il cinema usi i tre sensi con cui non può esprimersi (odorato, tatto e, appunto, gusto) solo in casi estremi, e mai in quanto tali ma solo visualizzzandoli. Ci furono tentativi di “odorama”, chiamati con vari nomi, ma tutti fallimentari. Nessuno, che io sappia, si cimentò mai in modo professionale a fare film tattili o saporiti. Cosicché noi vediamo gente che fiuta, che tocca e che mangia, ma non compartecipiamo della loro esperienza. In altre parole, rinunciamo in partenza a identificarci con i personaggi. In altre parole ancora, mettiamo più che mai in atto quella ‘willing suspension of disbelief’ che annotava Samuel T. Coleridge nella sua Biographia Literaria (1817) e che è alla base del rapporto fra spettatori e spettacolo. Il mangiare, sugli schermi, ha quasi sempre una funzione grottesca: chi non ricorda la straordinaria Grande abbuffata di Marco Ferreri, o il contenitore di Nutella formato barile da cui si affanna a nutrirsi Nanni Moretti? O il bunueliano Fascino discreto della borghesia, nel quale un gruppo di persone si mette di continuo a tavola senza riuscire mai a consumare il pasto? Tale è il distacco dalla comicità pura che nemmeno un maestro dello slapstick come Oliver Hardy (“Ollio”) utilizzò mai la sua enorme pancia come un mezzo di spettacolo, collegandola alla voracità. Nell’animazione, vengono alla mente le pantagrueliche scopracciate di Donald’s Cousin Gus (Walt Disney, Jack King, 1939, primo film d’animazione a essere trasmesso in TV) o di La faim / Hunger di Peter Foldes (1971, uno dei primi cortometraggi di computer animation), in cui un uomo s’ingozza fino a esplodere. Ma veniamo al cartellone della retrospettiva. Zupa, del maestro polacco Zbygniew Rybczynski, è un’opera di grande rilievo, che sarebbe potuto essere firmata da Beckett o da Ionesco. Qui la preparazione e il consumo del cibo sono parti costitutive di una quotidianità delirante, in cui la realtà è più onirica del sogno e ogni porta si apre sempre su un destino inimmaginabile. Zbygniew Rybczynski è un cineasta condannato dal proprio successo, e rinchiuso dai catalogatori in un cassetto con l’etichetta Tango. Quel film, oltre trent’anni fa, vinse il Gran Premio al festival prestigiosissimo di Annecy, e l’Oscar. Era un elegante e allegro esercizio di trucchi cinematografici, a cui seguirono altri lavori non meno bizzarri sul piano del linguaggio, ma intellettualmente più corposi. Tutti assieme, essi costituiscono oggi una filmografia di prima classe; ma ben pochi ne sono consapevoli e insistono sull’equazione Zbygniew Rybczynski = Tango. Peccato per Zupa... e per noi. Hieronim Neumann, amico e collaboratore di Rybczynski, a sua volta è segnato da un marchio a fuoco, quello di essere uno Zbygniew Rybczynski riciclato. Ovviamente non è vero. Certamente anche Neumann ama sconquassare e ricostruire il linguaggio del fotogramma, ma il suo delirio e le sue allucinazioni sono del tutto autonomi e originali: potremmo dire che mentre il tema di Zbygniew Rybczynski è il mondo, quello di Hieronim Neumann è l’uomo.


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