Migrantour

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I1B è la mia linea genetica materna, J-M92 quella paterna. Mi sono affidato a un programma di ricerca promosso dal National Geographic, chiamato Genographic, per conoscere quali fosse la mia ascendenza, l’origine e gli spostamenti mostrati dal mio genoma. La linea materna è stata ricavata studiando le mutazioni del dna mitocondriale, quella

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Linea materna (concessione di The Genographic Project)


paterna dalle mutazioni del cromosoma Y. Il punto di partenza è comunque l’Africa, più o meno dove oggi è l’Etiopia. Intorno ai 60000 anni fa entrambe le linee erano sicuramente già passate in Asia, quella materna a nord attraversando il Sinai, quella paterna invece con ogni probabilità ha attraversato il Bab-al Mandeb, lo stretto che congiunge il Mar Rosso al golfo di Aden. Tutte e due le linee sono tra quelle che più precocemente hanno lasciato l’Africa. La linea materna è piuttosto ben delineata, poche mutazioni, punta a nord est fino al Caucaso e da qui ritorna verso l’Europa. Meno certa la direzione del mio lato maschile, con ben tre markers scoperti solo negli ultimi due anni di cui non si conoscono bene i movimenti. Il fatto certo è che la maggior parte dei markers sono asiatici, nascono nella penisola arabica o in Anatolia. Alcuni sono più frequenti in Pakistan, Bahrein o in Tunisia di quanto non siano in Italia ed è certamente impressionante il fatto che il National Geographic per spiegare l’areale di certi miei geni ti metta foto dello Sri Lanka. Il più recente dei miei marcatori genetici paterni si è formato in Anatolia tra i cinque e i novemila anni fa, non ha una definita prevalenza in Italia (inferiore al 2 per cento) ed è parte del gruppo della diaspora ebraica. Un isolato gene ebreo tra tanti arabi. 3


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Sul campione di 705000 individui testati dal progetto la linea femminile rappresenta lo 0,1%, quella maschile lo 0,2%. Che possano tornare a incontrarsi al di fuori della mia famiglia mi sembra altamente improbabile. Ciascuno è unico e questa originalità è dovuto a una infinità di variazioni genetiche, siamo multietnici dentro. La ricerca tipizza anche l’intero genoma risalendo fino a sei generazioni da entrambe le linee parentali e confrontandole con popolazioni di riferimento. Il mio particolare cocktail genetico è fatto di un 55% di mediterraneo, 21% di Asia sud-occidentale, 20 % di nord europeo, 2% di Asia nord-orientale, il resto non è umano ed è dato da un 2,2% di neandertaliano ed 1,6% di denisovano. La popolazione che presenta la composizione genetica più prossima alla mia è quella libanese, credo tuttavia più per la qualità dei vari geni che per l’insieme, nessun gruppo di riferimento ha le mie stesse proporzioni. La popolazione della Toscana, di riferimento per l’Italia e quella della Grecia, il sud è magna Grecia, dovevano in teoria essere le più vicine ma sono caratterizzate da una maggiore percentuale di nord europeo e una minore quantità di geni asiatici. Stupefacente nel mio genoma quel 2% di geni che viene dall’Asia del nord est. Si tratta di geni diffusi in India, Cina e Giappone.

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Come saranno finiti nel mio genoma? Gli esperti del National accennano a un lascito di scambi avvenuti sulla via della seta. Forse i miei antenati erano colleghi di Marco Polo. Con un maggior senso di appartenenza vedo quel 20% di nord europeo

Linea paterna (concessione di The Genographic Project) 5


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perché si può legare a un episodio storico preciso. La mia città natale, Benevento, è stata infatti per 500 anni capitale di uno stato longobardo, dopo la vittoria di Carlo Magno poi ha raccolto profughi longobardi da tutto il resto d’Italia. Tra questi vi era anche Paolo diacono, uno dei pochi ad aver potuto scrivere la storia di un popolo sconfitto. É probabile che questo apporto di geni nord europei sia avvenuto in queste circostanze.

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Mi ritrovo unico, con un’evoluzione di 100000 anni alle spalle, un’identità etnica complessa e il bisogno quasi fisico di vederla rappresentata. Poche stazioni della metropolitana, esco alla ferrovia e qui cambio orizzonte. La stampa tuona: “quello che doveva essere il biglietto da visita della città è invece un suk!”. Che c’è di male se il biglietto da visita di Napoli è un suk? L’intera città sembra un mercato. Qui la folla è così composita che c’è da pensare che questo luogo sia patrimonio dell’umanità anche se l’UNESCO non lo prenderà mai in considerazione. Sto là fuori e guardo, cerco di rispecchiarmi nei volti di questi miei concittadini e non mi riconosco. Con un’eredità genetica che spazia dall’Africa alla Cina, dal Caucaso al Mar Rosso mi sento vicino a tutti ed a nessuno. Straniero tra gli altri, uno di tanti. Alla fine mi rendo conto che la sensazione di essere all’estero non deriva dalla fisionomia della gente. È che vedi come sono organizzati i negozi, il tipo di mercanzie, i ristoranti , la maniera di interagire. Intravedo relazioni, un’organizzazione sociale e non è quella a cui sono abituato. Mi ricorda qualcosa che ho visto da qualche parte,mentr’ero in vacanza, ma non saprei dire dove. Pian piano riconosco che quel luogo è qui e da nessun’altra parte, è casa mia nonostante il disorientamento.

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Siamo abituati a pensare ai mediatori culturali come a qualcuno che aiuta gli immigrati ad adattarsi nel nuovo paese, a sbrigare le pratiche, acquisire nuovi punti di riferimento, ricevere assistenza medica o legale ma in effetti una mediazione si sviluppa in entrambe le direzioni aiuta le istituzioni ad essere più efficienti, i medici a capire i malanni, la polizia a fare indagini. Può aiutare te mentre cammini per strada. La cooperativa di mediatori culturali CASBA ha deciso di proporre a Napoli una forma di turismo solidale già presente in altre nazioni e in altre città italiane: i “Migrantour”: visite guidate nel cuore dell’immigrazione Mi sono iscritto ad uno dei primi tour perché mi interessava moltissimo e sono stato fortunato. C’erano con noi degli operatori del TG1 per documentare l’iniziativa col risultato che sono venute tutte le guide disponibili per avere la possibilità di presentarsi e ho avuto occasione di conoscerli, quasi raddoppiando l’esperienza. Anastasiia, Chitra, Jimale, Shukri, Lydmyla, Irina, Papa, Chandrasiri, Pierre, Diarro, Pavlo, Jomahe, Chiara, Elena, una folla. Quello che colpisce è l’eterogeneità delle provenienze dall’Equador all’Ucraina, dallo Sri Lanka al Senegal e, se ad occhio sembra che l’Africa prevalga, appena approfondisci questa omogeneità si sfalda: signore

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somale che vivono qui da vent’anni, hanno famiglia e sono cittadine italiane e ragazzi provenienti dal Senegal o dalla Costa d’Avorio che sembrano appena arrivati, che possono essere timidi o sfacciati ma hanno l’aria divertita di chi sta esplorando il mondo, più turisti di te che li stai seguendo in tour. É gente che non ha una storia in comune, né tradizioni. Hanno in comune l’italiano e quello che stanno facendo qui ed ora, un popolo del presente che ha fatto proprio questo segmento d’attualità e riesce a viverlo più pienamente di te che sei disturbato da abitudini e ricordi, fantasmi che oscurano la tua visione del quotidiano. L’immigrazione appare come un insieme molecolare di singole progettualità. Sulla base di 10


inclinazioni e capacità personali, esperienze e retroterra culturale gli immigrati riescono a trovare opportunità anche dove i residenti non andrebbero a cercarle dando l’impressione di comportarsi come un fluido che, all’interno di vasi comunicanti, crea un livello idro-aereo

omogeneo. Regolare un fluido certamente è possibile ma bisogna saperlo fare o si rischiano disastri. Bisognerebbe affidarsi ad ingegneri idraulici anziché a politici.

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Il tour si svolgerà su un itinerario di poche strade, spazialmente molto piccolo, al’interno del quale ci sono però cose significative. É come se lì si fosse strutturato il centro di un villaggio. Ogni cosa è raggiungibile in

pochi passi e percepisci che quello che rimane fuori è un’estensione di questa zona centrale, è periferia. Il tema centrale è il cibo, si comincia dal supermercato e si finisce al ristorante. È una scelta essenziale, basica. Quello che dobbiamo fare è arrivare a mangiare insieme, capire

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cosa c’è dietro e poi condividere il pasto. Non ci sono monumenti da visitare, capolavori da vedere. La vita quotidiana è il capolavoro. Prima un supermercato, quindi ,che vende prodotti esotici. Conosco questo negozio di Piazza Garibaldi da quando ero ragazzo. Era un “coloniali”, uno di quelle botteghe che vendevano i prodotti delle colonie tipo datteri e banane somale. Adesso ha la struttura di un supermercato e vende prodotti che non ho mai pensato di cercare dai semi di girasole ucraini ai succhi di frutta dello Sri Lanka, dai platani, le banane verdi da friggere, ai sottaceti russi da mangiare con la vodka. Il mondo è vario, le nostre guide ci spiegano le cose, ognuno per quella che è la propria provenienza. Raccontano anche delle proprietà che possono avere i vari cibi e si comprende come il doversene privare possa portare a preoccupazioni per la propria salute. Ti viene da riflettere su quello che si dice della dieta mediterranea. Sarà certamente vero ma in questo luogo ti rendi conto che le scelte alimentari di ciascuno hanno proprie motivazioni fondate su pratiche millenarie e che certe discussioni sorgono in realtà multiculturali. Il negozio accanto è una macelleria islamica, lì non c’ero mai entrato, è grande e molto ben fornita. Fanno anche il Kebab con carne fresca, perché di quella surgelata non potrebbero garantire che sia halal. Tuttavia oggi non si cucina, siamo di Ramadan e non lo si può fare fino 14


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al tramonto. È un fatto che ti mette a confronto con la diversità nella maniera di vivere l’alimentazione ben più di quanto possa fare uno scaffale di prodotti esotici. Si consolida un messaggio che ha contenuti forti, che va ben oltre il voler assaggiare la cucina d’altri paesi. Da qui al centro di preghiera islamico il passo breve, sembra un’associazione mentale che si concretizza. Ho un certo pregiudizio

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riguardo alla religione. Mi sembra come una morale preconfezionata: quando la vita è impegnativa diventa laborioso chiedersi continuamente cos’è giusto e sbagliato e allora ti affidi alle scritture, a quello che si è tramandato e metti la tua vita sul cambio automatico. Pregiudizi che si sono sgretolati subito. Omar, la guida spirituale di questo centro di preghiera, è un sufi. Appartiene a un Islam particolarmente tollerante e caritatevole che è stato considerato eresia, anzi per taluni non è neanche Islam, oggi sono perseguitati dall’ISIS quanto i cristiani o gli Yazidi. Ricordo il bellissimo libro di Schmitt “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano” il commerciante sufi del quartiere arabo di Parigi che adotta il ragazzino ebreo, orfano,

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che ha trovato a rubare per fame nella sua bottega. Fa con lui un lungo viaggio verso il proprio paese d’origine, un viaggio definitivo e gli lascerà la propria bottega, il proprio ruolo nella Parigi mussulmana. Ricordo e quasi non ascolto Omar. Sono turbato da “Napolislam”di cui ho visto il trailer. Documentario un po’ buffo su 10 convertiti all’Islam napoletani. Gente comune, senza eroismi, che si è convertita. Hanno la barba lunga o portano il velo, qualche rigidità da neofita ma hanno voluto rappresentare le proprie scelte. In un momento difficile ti dicono sono uno qualsiasi, uno come te, non un terrorista. Sono tante le cose che mi ha suggerito il discorso di Omar che avrei difficoltà a riferire cosa ha detto in concreto, sono andato in risonanza, forse ha qualcosa di ipnotico. Lui è un senegalese e ha un bel vestito africano d’un rosso vivo, invidio sinceramente la sua casacca e gli chiedo se l’ha portata dal Senegal. No ma ha comprato la stoffa e se l’è fatta confezionare qui a Napoli. E’ un abito su misura. Andiamo al mercato senegalese qui vicino, è proprio un mercato africano e quello che più stupisce tutto è regolare. La gente ha la licenza, il permesso di soggiorno, paga al Comune l’occupazione del suolo, i prodotti sono di importazione e non c’è niente di irregolare e men che meno illegale. Il vicino mercato della Maddalena, quello di pacco, doppio pacco e contropaccotto, è deserto per una ispezione della 18


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polizia. Ci sono stati morti, sono state trovate armi e un poligono di tiro sulla terrazza di un palazzo. Gli italiani sono scappati e i senegalesi stanno là, tranquilli, tutto in regola. È come quando si piantano gli alberi per arginare il deserto. Un mercato che è un seme di legalità mentre il resto è in disfacimento. Alla fine siamo andati in un ristorante multietnico, molto frequentato dalle comunità straniere della zona Non sono islamici e quindi si mangia, almeno quelli di noi che possono. Il mondo è bello perché è vario. Riso con spezzatino di carne. Davvero buono, la gente si serve più volte. Il ragazzo ivoriano che mi è seduto accanto racconta che da loro si sarebbe mangiato con le mani in un piatto solo. Sente l’atmosfera di condivisione ma ha nostalgia di una convivialità più piena. Infine chiudiamo in bellezza in una pasticceria. Il titolare è italiano ma fa dolci africani. Ci offre dolci fatti con una crema quasi senza zucchero che deve essere consumata freschissima perché si guasta subito. Mi accorgo che è la prima volta che il proprietario dell’esercizio commerciale che visitiamo parla direttamente con noi. Prima hanno parlato le guide. Sarà timidezza, sarà che non parlavano italiano? Comunque mi rendo improvvisamente conto che la mediazione culturale serve anche a fare la spesa.

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È stata una parentesi, un tour, un giretto, in apparenza non cambia la vita di nessuno ma se pensi che hai fatto il turista nella tua città e sei riuscito a vedere cose che avresti immaginato di trovare solo molto lontano, ti rendi conto che c’è stato un importante cambio di prospettiva. È come se in casa tua avessi tenuto una stanza sempre chiusa e adesso è aperta.

Foreste urbane

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